Joseph Conrad “Cuore di tenebra”
Feltrinelli s.p. (Natale di Giovanni&Clara)
[A: 25/12/2018 – I: 08/01/2019 – T: 11/01/2019] - &&&&--
[tit. or.: Heart of Darkness; ling. or.: inglese; pagine: 121; anno 1898]
Seppur
ho letto abbastanza di Conrad (non tutto, non esaustivo, ma significativo) è
sempre un autore cui mi avvicino con amore e timore. Questa volta l’approccio è
stato guidato da un gradito Natale passato a casa di Giovanni, con un regalo
inaspettato, gradito perché, in ogni caso, pensato. Allora torniamo ancora su
Conrad, e su questo testo che forse, alla fine, mi riconcilia un po’ con
l’autore anglo-polacco (ricordo che nasce in una cittadina ora ucraina ed al
tempo polacca ma sotto la Russia zarista con il nome di Józef Teodor Nałęcz
Konrad Korzeniowski). Ovvio che Conrad è troppo noto perché mi dilunghi sulle
sue note biografiche, ricordo solo che, durante i sui sedici anni sul mare, in
uno dei viaggi risalì il fiume Congo a bordo di un battello battezzato “Roi des
Belges”. Questo uno dei più profondi background dell’opera. Come, di sicuro,
qualcosa dell’ultima parte della vita di Rimbaud influenzò alcune idee di
scrittura. Il secondo elemento di grande attrazione che mi ha dato il libro, è
la post-fazione di Alessandro Baricco, dal titolo “Andata e ritorno:
destinazione l’orrore”, che è riuscita a mettere al proprio posto alcuni degli
elementi sia basilari del testo, sia esemplari del mio odio-amore per l’autore.
Inciso, ma anche invidia, quando trova, due anni prima della scrittura di
questo che è solo il suo quarto romanzo, l’amore per la semplice Jessie, che lo
sosterrà per tutto il resto della sua vita. Se vogliamo tronare al testo, o
meglio, se vogliamo iniziare dal testo e dalla trama (come d’altronde
suggerisce il titolo delle mie note), la struttura narrativa è semplice. È una
“tale novel”, cioè un romanzo (“novel”) basato sul racconto di un personaggio
(“tale”), tanto che, come dice Baricco, potrebbe essere descritto come
virgolettato dalla prima all’ultima riga. Il racconto ci viene dalla bocca di
Charles Marlow, uomo di mare dalle tante esperienze, ricalcato da qualcuno dei
tanti capitani che Conrad incontrò nella sua vita, che aspettando l’alba in un
momento di bonaccia sulla “yawl” Nellie navigante sul Tamigi (chiederei poi al
mio amico Renato che tipo di imbarcazione sia e se risulta che da pescherecci
nell’Ottocento divennero barche da regata in solitaria ai nostri giorni) parla
di un’esperienza che gli ha segnato la vita. In un momento di scarsa attività
marinara, infatti, Marlow ottiene l’ingaggio su di una barca che dovrebbe fare
da raccordo per gli insediamenti commerciali stabilitisi lungo il fiume Congo.
Dopo un lungo prologo, in cui cominciamo a temere che la tempra europea poco si
adatti ai climi africani (e ben lo sappiamo), Marlow arriva alla base
commerciale. Dove ne vede il degrado. Dove comincia a vedere lo sfruttamento
dell’uomo bianco sui locali. Dove sente per la prima volta il nome di Kurtz. Un
mitico rappresentante locale dell’uomo bianco, relegato in uno degli avamposti
più sperduti, dedito al procacciamento di avorio. Tra malattie ed isolamenti,
Kurtz sviluppa una sorta di pazzia paranoica, di sete di potere, facendo cadere
ai suoi piedi i poveri negri con i mezzi altri, avanzati, non noti, che i
bianchi portano con sé. Ma Kurtz è andato troppo in là, forse vuole fondare il
suo impero d’avorio verso le sorgenti del Congo. Inoltre, si ammala,
probabilmente di malaria o altro inguaribile male tropicale (soprattutto per il
tempo). allora Marlow è deputato ad andarlo a prendere. Lo farà, con il
direttore commerciale ed altri omuncoli bianchi. Parlerà con Kurtz, probabilmente
ne riceverà confidenze di cui non riceviamo traccia. Ma soprattutto lo vedrà
morire, pronunciando la terribile frase “The Horror!”. Frase che Marlow capisce
nel contesto in cui viene pronunciata, e che tuttavia non riporta alla
fidanzata di Kurtz. Cui tuttavia riporta le ultime lettere, di chissà quale
contenuto, e l’illusione che l’ultimo pensiero sia per l’amata. In questo modo
relegando all’oblio Kurtz, ma dando una speranza di vita nel ricordo alla
fidanzata. Due elementi mi vengono dal testo: l’orrore per il colonialismo e la
critica verso l’aberrazione del potere Il primo non tanto dalle parole di
Marlow, che in effetti narra, descrive, ma prende posizione fino ad un certo
punto. Quanto nell’io narrante che ascolta il racconto di Marlow, quell’io in
cui mi identifico, rabbrividendo alle descrizioni partecipate ma non critiche
di Marlow. Colonialismo ed atrocità commesse dall’uomo bianco che ben
conosciamo anche al di là delle parole non di Conrad, ma di Marlow. Situazioni
che hanno seminato quel terreno di tanti fraintendimenti, di cui tuttora
portiamo tracce negative. Il secondo, invece, nella descrizione dell’ascesa e
caduta di Kurtz, mediata, ora e qui, da quell’impagabile apologo che ne fece
Coppola con il suo “Apocalypse Now”. Perché sappiamo, anche se solo in modo
lato, che Kurtz non è un poco acculturato commerciale, ma ha un retroterra
sostanzioso di cultura e familiarità con il benessere. La facilità con cui si
riesce ad accrescere le proprie sostanze durante il periodo coloniale lo porta,
ad un certo punto, al di là del lecito, verso una follia di dominio e potere,
che sarà stroncata non dagli uomini (tutti, da Marlow al direttore commerciale,
agli impiegati della compagnia, sono affascinati dall’uomo Kurtz e dal suo
successo), ma dall’ambiente, che lo respingerà come elemento alieno, e da cui
neanche Kurtz riuscirà a salvarsi. Il debito finale, che devo a Baricco,
infine, è la ricostruzione delle modalità narrative di Conrad. Sia per l’uso di
una lingua non sua (lui di madre lingua polacca, di gioventù francese, che
impara l’inglese solo verso i venti anni) sia per il modo di pennellare il
racconto, a volte in modo quasi caravaggesco, facendo risaltare elementi spuri
per farci concentrare sui nodi narrativi che ci vuole proporre. L’inglese, come
già dicevo ne “La locanda delle due streghe” è semplice, quindi con una
propensione alla semplificazione del testo e ad una sua resa immediata verso i
noccioli narrativi. Il secondo, ellittico, si dilunga a volte in descrizioni
assolutamente marginali, saltando momenti che sarebbero salienti, ma che
proprio la loro omissione fa risaltare di più. Come il colloquio tra Marlow e
Kurtz, che noi si aspettava da tempo, e che viene liquidato come “Intenso ed interessante”,
ma di cui non ne viene riportata alcuna frase. Qui, per stanchezza ed
incapacità mi fermo, sperando che altro Conrad risalga meglio dal limbo delle
mie memorie.
“Non era un tipico rappresentante della
propria classe. Era un marinaio, ma era anche un girovago, mentre i marinai in
genere conducono … una vita casalinga … la casa – la nave – se la portano
sempre dietro; e con essa il loro paese – il mare.” (8) [dedicata al mio amico
Renato]
Joseph Conrad “La linea d’ombre”
Feltrinelli s.p. (Natale di Giovanni&Clara)
[A: 25/12/2018 – I: 16/01/2019 – T: 17/01/2019] - &&&&---
[tit. or.: The Shadow Line: A Confession; ling. or.: inglese; pagine: 180; anno 1916]
La
nuova traduzione di Simone Barillari, con il corredo di esaustive note
critiche, nonché forse delle consapevolezze diverse, mi hanno fatto apprezzare
molto anche questo secondo regalo natalizio. In modo anche decisamente diverso
della mia precedente lettura di quasi otto anni fa. È vero in fondo che i libri
miliari della letteratura cambiano ogni volta che li leggi. Anche perché cambia
il contesto in cui vengono letti. Mentre la prima volta la lettura avveniva in
un periodo di stanchezze e di bisogni affermativi, questa si è svolta in un
clima forse più disteso, forse senza prospettive pensose, forse anche ad un
anno dalla perdita di mia madre, momento che, alla mia tenera età, mi ha fatto
fare dei passi verso una mia consapevolezza diversa. Apprezzo, anche dopo le
parole di Baricco nel precedente libro, meglio la scrittura di Conrad, ora che
trovo spiegate le sue frasi sospese, i suoi passaggi per descrizioni che
sembrano inutili, ma che servono a creare un clima nel lettore di attesa di qualcosa,
che quando avviene sorprende per la sua rapidità. Sicuramente poi, l’ampio
corredo di note è servito a calare il libro nel suo contesto di scrittura,
facendomi capire meglio genesi e maturità. Il testo ripercorre un momento
fondamentale della vita di Conrad, trasformando tratti autobiografici in
episodio universali. Momento poi visto ad una trentina di anni dopo, quindi
maturato esso stesso, inciso nella vita quotidiana dell’autore. Perché, come
dice Conrad stesso, il nocciolo del romanzo lo aveva sempre avuto dentro. Ora,
all’inizio della Prima Guerra Mondiale, con il figlio Borys in partenza per il
fronte (ma ne tornerà, cosa che Conrad sperava ma non sapeva) sente il bisogno
di dedicare a lui ed a tutti coloro che passano da una fase “di ignoranza” ad
una “di consapevolezza” un libro che proprio questo passaggio enfatizza e
sottolinea. Come detto, la storia riprende alcuni tratti della vita di Conrad,
quando il nostro giramondo vagava per i Mari del Sud. Tralasciando (e se ne
volete sapere, leggete appunto le note al testo) quanto di Conrad ci sia nel
narratore, la storia è discretamente lineare. Un marinaio, stanco senza motivo
apparente, pur capace e promettente, chiede di essere sbarcato per tornare in
patria. Mentre attende di capire come farlo, riceve una proposta: diventare
capitano di un vascello che lo attende a Bangkok, il cui capitano è morto, e
che deve essere portato a Singapore. Il nostro è l’uomo giusto perché, in
un’epoca in cui si sta trasformando la navigazione verso l’utilizzo delle macchine
a vapore, la barca che lo aspetta è un veliero. Ed il protagonista è un esperto
conoscitore delle più piccole brezze, delle minuscole bave di vento che possono
e debbono spingere una nave verso il suo destino. Preso il comando della nave,
si trova di fronte ad una serie di problemi. Il capitano morto pare sia
impazzito ed abbi lanciato maledizioni sulla nave. Maledizioni cui il primo
ufficiale crede fermamente. Mentre aspettano gli ultimi momenti per poter
salpare, quasi tutti i membri dell’equipaggio vengono presi da malori vari,
curabili solo con abbondanti dosi di chinino. Solo lui ed il cambusiere-cuoco
Ransome pare ne siano immuni. Lui è appunto il capitano di prima nomina.
Ransome ha il cuore debole e non sopporta affaticamenti. Per adempiere al
compito richiesto dagli armatori, il capitano deve partire al più presto per
Singapore, anche con la ciurma debilitata. Quello che deve affrontare però sono
quindici giorni di bonaccia, con la barca alla deriva o quasi, con il capitano
alla ricerca del minimo alito di vento per avvicinarsi alla meta. Inoltre, con
la necessità di curare i malati, soprattutto il più grave, il primo ufficiale.
Non solo, ma, già in alto mare, si accorge che la scorta di chinino è fasulla,
e non può fare nulla per gli uomini, se non essere lì con la sua presenza. Il
peggio è che dopo quei giorni in cui tutti potrebbero morire, il golfo del Siam
e la nave stessa vengono investiti da una pioggia improvvisa, unita a raffiche
di vento inusuali. Bisogna serrare le vele, aggrapparsi al timone, ed altre
diavolerie marinare che solo il mio amico Renato è in grado di seguire. Il
capitano però è lì, a spronare, ad aiutare, a puntellare tutti. E quando sta
per mollare, Ransome, il suo doppio malato, viene in suo aiuto. Forse ne
pagherà il fio, ma quando c’è da far fronte ad un nemico (il vento, le onde, la
guerra), bisogna tirar fuori tutto il meglio di sé. E tutti lo fanno, ed il
capitano farà quel salto di coscienza varcando la linea d’ombra che separa la
giovinezza dall’età adulta. Essendo punto di riferimento di tutti i suoi
uomini, e di Ransome in particolare. Per poter concludere lui capitano-Conrad
che sono loro ad essere degli della sua imperitura stima. Certo il libro, per
gli esegeti ed i conoscitori, è pieno anche di altre sfaccettature, di rimandi
(tante le citazioni, soprattutto di Shakespeare). Ma un libro è anche ciò che
rimane nella mente e nel cuore del lettore. Che è quello che ho riportato,
quello che mi è rimasto delle pur non tante pagine. Domandiamoci allora, ed io
per primo, se, quando, come, abbiamo varcato quella linea. Delle mie risposte
non vi dico, soprattutto se sono quasi su di una linea antitetica al nostro
capitano, visto che faccio sempre mia la frase di Jacques Brel magistralmente
cantata da Franco Battiato: “Ma c'è voluto del talento per riuscire ad
invecchiare senza diventare adulti”.
“Tutte le strade che conducono a quello che
il cuore desidera sono lunghe.” (55)
Alessandro Baricco “La sposa giovane”
Repubblica Duemila euro 9,90
[A: 01/08/2017 – I: 29/03/2019 – T: 03/04/2019]
- &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 188; anno 2015]
Baricco scrive, e scrive bene. Ed io ne leggo,
anche con piacere. Il problema, qui, come in alcune delle ultime opere, è che
si utilizza molto la testa. E poco o nulla la pancia e il cuore. Per cui, alla
fine, il romanzo che viene presentato risulta formalmente corretto, ma da me
letto con difficoltà e poco trasporto. Perché se è vero che c’è una storia in
tutta la narrazione, è anche vero che è il tentativo, dell’autore, di tirar
fuori principi generali, assunti, affermazioni esistenziali, utilizzando una storia
come tappeto volante per trasportare sino a noi queste sue idee. Si vede, ed
autori ben più preparati di me lo hanno detto e sottolineato, che Baricco ha
letto Benjamin, che ha compreso, assimilato e rivoltato la lezione di Lukacs
(di cui conservo ancora lo scritto su letteratura e rivoluzione, per chi fosse
interessato a reperti storici). Motivo per cui, da un lato estrania tutto il
narrato per farne un apologo senza tempo. Dall’altro, con la capacità di
entrare ed uscire dal racconto, con il passaggio sovente dalla prima alla terza
persona, con l’intromissione del personaggio di turno che sembra dire al
narratore onnisciente: fatti più in là, che ora parlo io, che so cosa dire. Per
cui sappiamo di trovarci in un qualche luogo imprecisato del Sud, anche se non
è detto sia un sud italiano, anzi forse è proprio un Sud, con la esse
maiuscola, come a voler dire che rappresenta una epitome del luogo di cui si
vorrebbe narrare. Sappiamo poi, da alcuni accenni a vicende correlate, che
siamo a cavallo tra l’Ottocento ed il Novecento. Una datazione anch’essa
mitica, per Baricco, che pare ogni volta volerci dire che quella è l’epoca in
cui tutto è nato, che solo capendola capiamo l’ora in cui siamo, e l’ora verso
cui andiamo. Terzo elemento mitico del racconto: la Famiglia. Qui vediamo l’uso
di Baricco dell’allontanamento dal narrato, evitando l’uso dei nomi, rendendo
quindi ognuno un totem di quello che il suo nome rappresenta. Abbiamo quindi un
Padre benevolo e tranquillo, con una “inesattezza del cuore”, che va in città
una volta a settimana e che a differenza di tutti membri della sua famiglia,
vuole morire di giorno, con il sole. Una Madre, donna forte e indipendente, un
tempo bellissima, solita pronunciare “sillogismi imperscrutabili”. Una Figlia
storpia e incantevole. Lo Zio che dorme da anni. Manca il Figlio, lontano da
tempo, per curare affari di famiglia. In questo zibaldone (e non è una parola
usata a caso, che l’andamento apologetico sembra a volte riprendere le
leopardiane Operette) arriva la Sposa giovane. Promessa da anni al Figlio, è
dovuta riparare, non si sa per quali oscure cause, in Argentina, con il padre
ed in situazioni che sembravano di tale precarietà da comprometterne il felice
ritorno. Tanto appunto che il Figlio, forse stufo dell’inutile attesa, sta ora
in Inghilterra (dimenticavo di dire che la Famiglia è una importante azienda
tessile) per curare gli affari di famiglia. Solo una persona viene chiamata per
nome; Modesto, il maggiordomo preciso e fedele che tesse i ritmi della casa, e
che ha sviluppato tutta una serie di fonemi per scandire le vicende della casa
stessa. Nel corso della storia veniamo allora a sapere altri momenti
fondamentali della vita della casa e della Famiglia. Una Famiglia che inaugura
la giornata con dilatate colazioni che a volte arrivano fino a sera. Inoltre, nella Famiglia vigono alcune quattro
regole. Regola numero Uno: la notte è temuta perché tutti i componenti della
Famiglia sono morti senza che il sole fosse in cielo. Regola numero Due:
l’infelicità non è gradita perché è una perdita di tempo, ovvero un lusso.
Regola numero Tre: in Famiglia non si leggono libri. Non ci sono libri. Non
devono essercene poiché “c’è già tutto nella vita, a patto di stare ad
ascoltarla, e i libri distraggono”. Infine – quattro – il Padre non ammette
“distrazioni da una generica, necessaria pacatezza”. Qualcosa succede nelle 200
pagine del romanzo, c’è un tentativo di storia, che rende omaggio alla Storia
immota che gli archetipi nascondono in sé. Ci si rapporta, ci si conosce, ci si
ama, ci si lascia. Come dirà qualche buon critico, in fondo è una fiaba
moderna. E come tutte le fiabe sarà anche suggellata dalla chiusura di tutti
gli avvenimenti, cristallizzata in una FINE maiuscola che ci permette, alfine,
di chiuder il libro e ripensarlo. Una fine che non vi narro, dove molte delle
matrioske di Baricco vengono alla luce, ma che non lascia soddisfatti. Baricco,
narratore onnisciente, entra ed esce dalla pagina. Si permette digressioni sul
narrare, sulla funzione di ognuno di fronte alla pagina. Anche di noi lettori.
Ed alla fine, riconosco l’abilita del narrare, ma non ritengo un libro che
raggiunga altri momenti della scrittura del buon professore torinese.
“Il fatto è che
alcuni scrivono libri, altri li leggono: sa dio chi è nella posizione migliore
per capirci qualcosa.” (142)
Cormac McCarthy “Oltre il confine” Einaudi euro
12,50 (in realtà, scontato a 9,35 euro)
[A: 15/11/2016 – I: 08/04/2019 – T: 11/04/2019] - && +
[tit. or.: The Crossing; ling. or.: inglese; pagine: 370; anno 1994]
Non è che manchino i libri di McCarthy nella
mia libreria, li ho letti quasi tutti, ne ho gustato il dolore della scrittura,
la sapienza della parola scritta, l’asciuttezza flaubertiana con cui l’autore
ci porta per mano lungo le pagine delle sue storie. Perché tutto il mondo è una
storia, e tutte le storie che si raccontano fanno parte di un’unica storia.
Quella storia che è il mondo. Ma la ragione in più della lettura è il solito
consiglio delle cure librarie, dove si consiglia che sia un libro da leggere ai
nostri centenari (ed auguri a chi ci arriva). Venendo per prima cosa al testo,
è un vero libro da “far west”, nel puro stile Cormac. Paesaggi, persone, morti
inutili. Come se si fosse ancora nell’Ottocento. Invece siamo al tempo della
Seconda Guerra Mondiale. Un libro che tiene fede al suo titolo originale, quel
confine che bisogna attraversare per crescere, per diventare adulti. Quel
confine che il protagonista principale del libro, ed i coprotagonisti,
attraversano tre volte. Billy, alla fine di tutti questi sconfinamenti,
diventerà adulto? Crescerà? Sarà consapevole? A Cormac non interessa dircelo, e
forse non è importante. Vediamo allora questo confine, che in realtà è anche
fisico. Il confine tra Stati Uniti e Messico, iniziando in un tempo che si colloca
negli anni Trenta. La famiglia Parham si è da poco trasferita nel New Messico,
vive di caccia e di agricoltura, come ancora si faceva in quegli anni laggiù lontano
dalle grandi città. Al centro della storia c’è il sedicenne Bill, ed in secondo
piano suo fratello quattordicenne Boyd. Le mandrie dei Parham sono minacciate da
una lupa che, sconfinata dal Messico, è venuta lì fuggendo cacciatori e per
partorire. I Parham le danno la caccia, e sarà Bill a trovarla. Dovrebbe
ucciderla, ma lì c’è lo scatto interno, il moto che fa di Billy “un diverso”.
Vedendo l’ingiustizia di una possibile esecuzione dell’animale, Bill decide di
riportare la lupa nelle terre natie. Intraprende così, senza dirlo a nessuno,
un lungo viaggio, pieno di peripezie, pieno di incontri. Un viaggio che
contiene le più belle pagine del rapporto tra uomo e animale, e tra uomo e
natura. In Messico, Bill viene sopraffatto dai cattivi che prendono la lupa per
utilizzarla in combattimenti animali. Bill non potrà che assistervi, e quando
la lupa sarà stremata, decide lui di por fine alle sofferenze ed ucciderla.
Torna a casa, dover scopre che la sua famiglia è stata massacrata e tutti i
loro animali rubati. Si è salvato, a stento, il solo Boyd. I due allora
decidono di attraversare di nuovo il confine, alla ricerca dei ladri e dei
cavalli. Che troveranno entrambi, che in parte riprenderanno, che saranno
coinvolti in sparatorie dove, ancora una volta, Boyd rischia di morire. Sarà
salvato dalle cure di una bella indigena. Ma il rapporto a tre non è, non può
essere equilibrato. Così che Bill ritorna a casa, mentre Boyd e la bella
rimangono ramenghi tra le colline messicane. Passa il tempo, passa la guerra,
ed alla fine Bill intraprende l’ultimo viaggio. Per ritrovare le ossa del
fratello, morto in una qualche sparatoria, e sepolto chissà dove. Dopo aver
trovato la tomba di Boyd, Bill cade in un’imboscata tesa da uomini che
dissacrano i resti di Boyd e pugnalano il cavallo di Billy, Billy, con l'aiuto
di una zingara, riesce a far guarire il cavallo e con lui ritorna verso casa.
riporta il cavallo alla condizione di poter cavalcare. L'ultima scena mostra
Billy solo e desolato, che incontra un cane terribilmente maltrattato che gli
si avvicina per chiedere aiuto (quasi un contraltare dell’inizio). Ma qui, in
contrasto con il suo legame giovanile con il lupo, spara al cane con rabbia.
Poi se ne pente, torna a cercare il cane, che però è sparito. Bill si ferma e
comincia a piangere. Questa è la storia, cui mancano i tanti incontri di Bill
lungo le sue peregrinazioni. Predicatori, attori, messicani cattivi, messicani
buoni. E tanto altro. Che il senso di Cormac è tutto qui, forse. Facciamo tante
cose, incontriamo tanta gente, ognuna che ci dona un pezzo della sua umanità,
per far sì che noi possiamo costruire la nostra, di storia, di umanità. Che non
dovremmo mai tradire, una volta raggiunta. E quando ci accorgiamo di aver fatto
un errore, non possiamo che cercare di rimediare. Di tornare indietro. E comunque,
di piangere. Un pianto liberatorio, che solo può svelare, senza tante parole, chi
siamo diventati. McCarthy ha questo suo stile che a volte mi irrita. Ma alla
fine non posso non dire che il libro è interessante, blandamente conradiano,
profondamente ben scritto.
“Le cose separate dalle loro storie non hanno
senso … Quando ne abbiamo perso il significato, non hanno più neppure un nome.
La storia, d’altro canto, non può mai venir separata dal luogo al quale
appartiene, perché essa è quel luogo.” (122)
Terza
trama, forse puntuale, ed allora vi delizio con qualche prelibatezza culinaria.
Una
settimana di felicissimo e graditissimo riposto tra i meandri argentei della
costa tirrenica, prima di dedicarsi a due settimane di studio “matto e
disperatissimo” (citazione dell’Alfieri) per realizzare quello che si vuole
fare nel mese di agosto.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
LUGLIO 2019
Certo che essere sovrappeso e parlare di cibo non è una
buona ricetta. O forse riusciremo in un esorcismo culinario?
STUZZICHINI E ASSAGGI
Julie &
Julia di ]ulie Powell
Julia Child è la donna che con il suo libro di ricette,
“L'arte della cucina francese”, ha iniziato le americane alla buona cucina
negli anni Sessanta. Julie Powell è la tipica trentenne di oggi, felicemente
sposata ma incastrata in un lavoro che non le dà nessuna soddisfazione. Mentre
è alla disperata ricerca di qualcosa che dia uno scopo alla sua vita, s’imbatte
nel libro di Julia Child e ha un’idea folle: realizzare in un anno tutte le sue
524 ricette, commentando l’impresa su un blog. L’esito va ben oltre le sue
aspettative e la sua vita si ribalta: il blog è uno dei più seguiti del web,
lei diventa una scrittrice e un’abile cuoca. Questa non è una favola ma la vera
esperienza di Julie Powell che rimaneggiando il materiale del blog ha dato alle
stampe “Julie & Julia”, la storia di questa piccola impresa culinaria.
Attraverso l’immaginario colloquio con Julia Child, Julie racconta l’esperienza
di due donne diverse ma poi non così tanto. Il famoso chef, un mito per le
casalinghe americane del dopoguerra e tra le prime a portare il cibo in TV, ha
scelto di diventare una cuoca esperta perché, felicemente sposata e altrettanto
felicemente stabilitasi in Francia, non sapeva trascorrere le giornate con le
mani in mano, senza uno scopo. Così ha preferito metterle in pasta e
avvicinarsi professionalmente alla cucina quando ancora era un ambito
esclusivamente maschile. Anche Julie cerca un modo per riscattare la
frustrazione, quella di una vita lavorativa diversa da come l’aveva immaginata.
Dopo che le donne sono fuggite dai fornelli per rintanarsi dietro le scrivanie
degli uffici, oggi Julie fugge dall’ufficio per rintanarsi in cucina, dove
spadellare e impastare diventa una valvola di sfogo creativo e ricreativo per
ritrovare sé stessa. Perché «dopo una giornata in cui niente è sicuro, e quando
dico niente voglio dire n-i-e-n-t-e, una torna a casa e sa con certezza che
aggiungendo al cioccolato rossi d’uovo, zucchero e latte l’impasto si addensa:
è un tale conforto!». Il libro ha lo stesso effetto confortante rivelandosi una
lettura gourmand ad alta digeribilità. Si prescrive in caso di insoddisfazione
lavorativa o emotiva, frustrazioni di vario genere e pressante desiderio di
trovare qualcosa che dia senso alle proprie giornate, riscattandosi da una routine
insoddisfacente: cucinare potrebbe essere una soluzione. Capiamoci bene, con
“cucinare” non intendo “preparare la cena”, che suona più come un’incombenza
che un piacere. Cucinare è ben diverso e implica una dedizione attenta e
premurosa nella preparazione di piatti insoliti e diversi, magari elaborati,
che impegnano la testa e le mani con creatività. Il romanzo aumenta il
desiderio di provare ricette nuove per dare un po’ di sapore al tran tran
quotidiano. Per essere valida al cento per cento, la cura dovrebbe contemplare
l’esecuzione di alcuni piatti di Julia Child come, per esempio, il boeuf
bourguignon, anche solo per dire «stasera ho cucinato un boeuf bourguignon»
che, scusate, ma fa più scena di «ho fatto l’arrostino», almeno per una volta.
Nel caso decideste di farlo, però, prendetevi la giornata libera perché
l’esecuzione è piuttosto complessa. Se siete convinti sostenitori della
supremazia della cucina italiana su quella francese, odiate i piatti troppo
elaborati e, soprattutto, il burro vi ripugna, avrete un po’ di difficoltà a
scegliere una ricetta che incontri il vostro gusto. Si consiglia, in
alternativa, di ordinare un’italianissima pizza con tanta italianissima
mozzarella filante e gustarla davanti al delizioso adattamento cinematografico
di Nora Ephron, con Meryl Streep negli abbondanti panni della colossale Julia
Child e Amy Adams in quelli della volenterosa Julie Powell. Rispetto al
romanzo, la regista ha avuto l’intuizione felice di ampliare la parte dedicata
a Julia Child, intrecciando le vite delle due donne in un continuo avanti e
indietro nel tempo e nello spazio tra gli anni Sessanta e oggi, la Francia e
New York. Del-li-zio-so.
Un consiglio: il libro è da somministrare anche a compagni
eccessivamente pigri nell’apprezzare gli sforzi culinari delle proprie donne o
poco inclini a sostenerle nelle piccole imprese quotidiane, sperando che siano
contagiati dall’amorevole appoggio dei mariti di “Julie & Julia”.
Pomodori verdi
fritti al Caffè di Whistle Stop di Fannie Flagg
Ci sono incontri che possono cambiare la vita, storie che
possono cambiare la nostra storia e persone le cui vicende, seppure diverse e
lontane nel tempo, possono aiutarci a cambiare e a stare meglio. Può succedere
anche leggendo un libro e, di fatto, succede leggendo “Pomodori verdi fritti al
Caffè di Whistle Stop”. Ma il bello è che questo è anche quello che succede nel
romanzo stesso, nella sua storia. O meglio nelle sue storie. Il fortunato best
seller della scrittrice americana intreccia le vicende di due coppie di donne
vissute in epoche diverse. Grazie al fortuito e fortunato incontro tra Evelyn,
una quasi cinquantenne insoddisfatta della vita e del matrimonio che affoga nei
dolci la sua frustrazione (salvo poi sentirsi brutta, vecchia, cicciona e
inutile), e Ninny, arzilla, incontenibile e chiacchierona vecchietta, ci
ritroviamo a saltellare tra il presente e gli anni Trenta, l’ospizio e il Caffè
di Whistle Stop. Attraverso i racconti di Ninny incontriamo le altre due eroine
della vicenda: la dolce e posata Ruth e la temeraria e impertinente Idgie,
singolare coppia di amiche-amanti che gestisce il Caffè del minuscolo paese di
Whistle Stop (praticamente una fermata di treno più che un paese). Il locale è
il luogo d’incontro di un’umanità varia e bizzarra, crocevia di vicende e
situazioni a volte divertenti a volte drammatiche dove tra difficoltà,
pregiudizi, razzismo, grande depressione, ritorsioni del Ku Klux Klan, maschilismo,
violenze domestiche, eutanasia, vendetta, perdono, mariti violenti, donne
coraggiose, chili di carne cotta alla brace e tazze di caffè fumante scorre la
vita delle protagoniste in un colorato affresco del profondo sud dell’America
degli anni Trenta. Attraverso il racconto delle audaci imprese di Ruth e Idgie,
Evelyn trova la forza di modificare ciò che non le piace della sua vita,
diventa la vendicatrice di tutte le over cinquanta e di tutti gli
oppressi-repressi-depressi, riuscendo a trasformare in un punto di forza tutte
le sue debolezze (rughe, ciccia e ormoni impazziti compresi) senza cedere al
rancore né alla paura, finalmente libera dai giudizi e dai pregiudizi di chi
cerca di convincerla che è da buttare. Nella vita, come in cucina, non si butta
via niente!
Se durante il vostro personale viaggio in treno vi state
annoiando, i compagni di scompartimento sono fastidiosi e il panorama sempre lo
stesso, fermatevi a Whistle Stop, entrate nel suo caffè e cominciate a leggere.
Come i protagonisti dei racconti della signora Threadgoode entrano nella vita
di Evelyn, i personaggi del tenero e ironico romanzo di Fannie Flagg sono un
balsamo che penetra in profondità nell’epidermide ripristinando il PH emotivo
grazie al graduale rilascio di sano ottimismo che consente di combattere
depressioni, frustrazioni, insoddisfazioni e ogni forma di tristezza che «fa
ammalare più in fretta di qualunque altra cosa al mondo». Il Whistle Stop Caffè
sarà anche per voi un luogo caldo e accogliente dove sentirvi al sicuro e
scoprire che la gioia, anche in periodi di crisi e grandi depressioni, si può
nascondere nelle cose più semplici, come in un piatto di pomodori fritti e in
un sorriso, magari impertinente come quello di Idgie. In caso di deficit di
coraggio, il romanzo consente di reintegrarne rapidamente la quota necessaria
per affrontare piccole e grandi sfide, garantendo anche un’efficace copertura
antibiotica contro i pregiudizi di ogni ceppo batterico. Sarebbe sufficiente
anche solo questa frase per essere immunizzati a lungo termine contro ogni
forma di razzismo: «Hanno paura di sedere a mangiare vicino a un nero, ma
divorano le uova che escono dal culo della gallina».
Per rendere completa la cura a base di questo divertente
comfort book, vi invito a eseguire la ricetta dei pomodori verdi fritti che, a
detta dell’autrice, è «il meglio che c’è». La trovate al termine del romanzo. A
tal proposito, c’è il rischio che le leccornie servite al Whistle Stop Caffè
incrementino, nei lettori predisposti a cedere alla gola, un desiderio smodato
di fritti e dolci, il cui sovradosaggio potrebbe alzare notevolmente i livelli
del colesterolo. Ma anche quelli del buon umore perché, come dice saggiamente
Ninny, non c’è «niente di più triste di chi non è goloso e mangia solo per non morire
di fame».
Se non siete ancora sazi, concludete in bellezza con
“Pomodori verdi fritti alla fermata del treno”, l’adattamento cinematografico
di Jon Avnet. Nonostante ci siano molte differenze rispetto al libro (sorvola
sul rapporto omosessuale tra Ruth e Idgie e ogni tanto vira dalla commedia al
giallo), il suo punto di forza è lo stesso del romanzo, le protagoniste:
Jessica Tandy e Kathy Bates (Ninny e Evelyn), Mary Stuart Masterson e
Mary-Louise Parker (Idgie e Ruth) vi entreranno letteralmente nel cuore
divertendovi e commuovendoti con le loro storie.
Estasi culinarie
di Muriel Barbery
A Parigi, nel signorile palazzo di rue de Grenelle, il più
blasonato e temuto critico gastronomico del mondo, Arthens, è in fin di vita.
Temuto e odiato da tutti, l’unico rammarico di questo cinico, sprezzante,
dispotico e arrogante essere disumano (detestato perfino dal suo gatto) è di
non riuscire a ricordare in punto di morte un sapore antico legato al suo
passato. Lui, che ha avuto il potere di decretare il successo o la rovina di
uno chef e che con le parole è stato capace di cogliere l’essenza di ogni cibo,
si ritrova ora impotente di fronte all’ultimo desiderio di un condannato a
morte: rievocare quell’unico sapore che vorrebbe assaggiare prima del trapasso.
Non c’è destino più crudele per un critico gastronomico che restare a bocca
asciutta, un boccone amaro più difficile da ingoiare perfino della morte.
Inizia così un viaggio nella memoria che porta Arthens a ripercorrere la sua
carriera dagli inizi fino ai successi, tra Paesi lontani, sontuosi banchetti e
piatti prelibati. Per condire con raffinata ironia l’excursus bio-gastronomico
dell’egocentrico e antipatico criticone, l’autrice inserisce i ricordi, le
considerazioni e le critiche delle sue “vittime” tra cui la moglie, i figli,
l’allievo, la portinaia e perfino il gatto, tutti più o meno concordi nel
detestarlo senza rimorsi, in un concerto di voci diverse e tanti punti di vista
che si intrecciano. Eppure, questo burbero e odioso egoista che sa cogliere
l’essenza del cibo ma non quella dell’esistenza, riesce a mandare in estasi il
lettore con i suoi ricordi culinari, ricordandoci che il cibo non è solo
qualcosa da mangiare, ma anche un modo gustoso per parlare della vita. Dopo
tanti succulenti manicaretti e piatti super ricercati, scopriamo che il sapore
più importante è sempre quello più semplice (Marcel Proust docet). Dopo tutta
una vita trascorsa a cercare di diventare “grandi”, arrivati alla fine del
viaggio scopriamo che l’unica cosa che dà felicità è tornare piccoli. Come?
Rivivendo sensazioni che credevamo perdute e che invece avevamo solo
dimenticato. Per rievocarle, basta anche un semplice bignè del supermercato.
Romanzo d’esordio di Muriel Barbery, “Estasi culinarie” è un
ironico, elegante e graffiante libro per food lovers. Il cibo ne è la spina
dorsale e la descrizione di piatti e pietanze è talmente evocativa da sentirne
quasi l’odore. Lo consiglio, pertanto, se soffrite d’inappetenza per stimolare
l’appetito ma anche se siete a dieta, perché potete sfruttare a vostro
vantaggio l’alto potere saziante dell’immaginazione (immaginando cosa divorare
non appena finito il regime restrittivo). Si rivela molto utile per contrastare
i sintomi di un’eccessiva considerazione di sé e il conseguente vizio di riversare
l’eccesso di ego sul prossimo per soffocarne l’autostima. Se ne suggerisce
infine la lettura a tutti coloro che manifestano una dipendenza dal «profumo
inebriante del potere». Considero parte integrante della cura la ricerca di
quel sapore primordiale che sarebbe in grado di confortarvi perfino sul letto
di morte. Trovato il vostro comfort food, gustatelo.
Avvertenza: tra i personaggi di “Estasi culinarie” c’è
Renée, la portiera del palazzo di rue de Grenelle protagonista del successivo
romanzo dell’autrice, quello che ne ha decretato il successo: “L’eleganza del
riccio”.
Per alcune affinità culinarie ed estasi di piacere, come
supporto alla cura v’invito alla visione del gioiello animato della Pixar
Ratatouille il cui protagonista è un topino con velleità da chef. Il
personaggio del detestabile critico Ego ricorda molto quello del libro di
Muriel Barbery. Anche nel suo caso sarà la riscoperta di un sapore genuino
legato all’infanzia a ridargli quell’umanità che aveva sepolto sotto una
gustosa ratatouille.
Gli ingredienti
segreti dell’amore di Nicolas Barreau
Già il titolo è piuttosto invitante: chi non vorrebbe
scoprire finalmente quali sono gli ingredienti segreti dell’amore? Farebbe
comodo a tutti, ci si risparmierebbero molte scottature, bruciori di stomaco,
desolanti digiuni o abbuffate consolatorie a seconda del proprio personale modo
di reagire. Il problema è che in amore come in guerra tutto è lecito e quindi
le ricette non valgono niente e non esistono ingredienti segreti. Siamo più
dalle parti della magia che della scienza esatta. Eppure, Nicolas Barreau ha
azzeccato tutti gli ingredienti con una storia accattivante che i romantici dal
cuore fondente non potranno non apprezzare. “Gli ingredienti segreti
dell’amore” è la combinazione perfetta per soddisfare i gusti dei
food-book-lover. Basta l’incipit per capirne il potenziale terapeutico: «L’anno
scorso, a novembre, un libro mi ha salvato !a vita». A spezzare il cuore di
Aurélie è il suo fidanzato che, lasciandola all’improvviso con un biglietto codardo,
ha mandato in frantumi tutte le sue certezze. La prima colonna portante della
sua vita a cedere sotto il peso della delusione è la fiducia nell’amore,
principio con il quale è cresciuta grazie a un padre che le ha lasciato in
eredità il romantico ristorante “Les Temps des Cerises”, alcuni aforismi sulla
vita ma soprattutto il suo famoso Menu d‘amour. Crollato il mito dell’amore
niente sembra avere più senso e sapore nella vita della giovane chef. Neanche
la cucina dove è cresciuta tra profumo di cioccolato e cannella sembra offrirle
un rifugio sicuro, anche perché la sua abilità ai fornelli non l’ha messa al
riparo dalle scottature. Ma tutto cambia quando, dopo aver vagabondato per le
vie di Parigi, si ritrova in una piccola libreria durante la presentazione di
un libro, quel libro che le salva la vita: “Il sorriso delle donne”. Non sono
tanto il titolo o la trama a ridarle coraggio, quanto il fatto che nel libro è
citato il suo piccolo ristorante di rue Princesse. Una coincidenza? Un caso? Ma
il caso non esiste quando si parla d’amore. Aurélie si mette caparbiamente in
testa di ringraziare di persona il misterioso autore di quella storia che le ha
salvato la vita, ma deve vedersela con le resistenze dell’editor André, che fa
di tutto per evitare l’incontro che, come in ogni buona commedia romantica
giocata sugli equivoci, alla fine avviene e sarà tutto fuorché casuale. Questo
romanzo a due voci si divora rapidamente come un éclair (il bignè lungo e
sottile che alla lettera vuol dire “lampo” e se lo avete assaggiato sapete
perché) ed è gradevole e confortante come un pasticcino, perfetto per colmare
carenze di romanticismo, controllare sdilinquimenti da fame d’amore e tamponare
vuoti sentimentali. Questo è l’incipit de “Il sorriso delle donne”: «La storia che
sto per raccontare inizia con un sorriso e finisce in un piccolo ristorante
[...]». Quel sorriso sarà probabilmente lo stesso che si stamperà sulla vostra
faccia dopo aver terminato il libro. E se sorridete vuol dire che state già
meglio. “Gli ingredienti segreti dell’amore” è la ricetta perfetta per tornare
a sognare se state attraversando un periodo da incubo: mettete insieme Parigi
con il suo charme, il raffinato cibo francese, un caratteristico ristorantino
per cene tête-à-tête, poi aggiungete una spolverata d’amore per i libri, una
grattugiata abbondante di romanticismo e uno stile frizzante e scorrevole.
Guarnite con un lieto fine e poi affondate il cucchiaio, consolandovi così
delle vostre delusioni. Ovviamente non bisogna necessariamente essere tristi
per leggerlo, anche se è necessario essere sentimentali. Non è uno di quei
romanzi che cambiano la vita, ma migliora l’umore. Tra gli effetti collaterali
della cura c’è, quasi sicuramente, una voglia irresistibile di andare a Parigi
il prima possibile (nel caso la assecondaste, non cercate il ristorante perché
non esiste) e fare indigestione delle specialità francesi citate tra le pagine.
Se questo non fosse possibile (peccato perché la Ville Lumière, dove
l’ottimismo e la malinconia fanno l’amore, è un toccasana miracoloso per
tornare alla vita), consolatevi con le ricette dell’afrodisiaco “Menu d’amour”
del padre di Aurélie. Lo trovate alla fine del romanzo.
Avvertenza: se siete depressi per un amore andato male e non
sapete con chi condividere il menu, preparatevi solo il gateaux au chocolat e
mangiatelo leggendo il romanzo. Le dosi sono per due ma in caso di emergenza da
cuori solitari è sempre meglio abbondare con una dose doppia di cioccolato. E
anche con i libri è sempre meglio abbondare, quindi se Nicolas Barreau vi ha
convinto potreste continuare con “La ricetta del vero amore”, “Una sera a
Parigi”, “Con te fino alla fine del mondo” e “Parigi è sempre una buona idea”.
Gli ingredienti sono gli stessi: amore, buon cibo, Parigi e spumeggianti coincidenze.
Commenti
Ho letto molti libri dedicati alla cucina ed alle ricette, ma
tra questi, il libro della Flagg è ormai perso nella memoria del tempo (anche
se ho visto con piacere il film, che vi consiglio). Gli altri ve li ripropongo
in termini cronologici di lettura.
Muriel Barbery “Estasi culinarie” E/O euro
8
[pubblicato il 19 settembre 2010]
Per quanto
il riccio mi era piaciuto fino ad un certo punto, questo mi ha lasciato al
quanto indifferente. Cominciamo dal titolo orrendamente tradotto: “Une
gourmandise” l’avrei reso con “Una ghiottoneria” che è quella che va cercando
il grande esperto di cucina sul suo letto di morte. Perché le estasi culinarie
ci sono, vero, ma sono il filo su cui scorre il racconto. Una serie di
siparietti in cui il sempre grande critico ci fa immergere in sapori, trovando
le auliche parole per raccontarli. Ma non si capisce (o non capisco io) quanto
ci sia di ironico (perché l’uso di quelle metafore potrebbe indurre) e quanto
di falsamente vero. I grandi critici culinari si riempiono letteralmente la
bocca di queste parole, di assonanze, di rimandi, per cercare di “suscitar nel
cuor la meraviglia”, quando il cibo lo suscita di per sé, senza bisogno di
grandi voli (e leggete quando parlo del buon Sapo in altre trame per un
confronto). Per esemplificare ne riporto il brano sul crudo giapponese: “ Il
vero sashimi è croccante, eppure si scioglie sulla lingua. Invita ad una
masticazione lenta e flessuosa che non ha lo scopo di far cambiare natura
all’alimento, ma soltanto quello di assaporarne l’aera morbidezza. Già la
morbidezza: né morbidezza né mollezza, perché il sashimi, polvere di velluto
simile ala seta, porta con sé un po’ di entrambe e, nella straordinaria alchimia
della sua essenza vaporosa, mantiene una densità lattiginosa che le nuvole non
hanno.” Ecco, dopo alcune pagine di questa scrittura mi viene voglia di farne
un falò, utilizzando il gambero rosso come combustibile. Ma certo, direte voi,
questa è una delle nervature della storia, perché l’altra, la più importante
(secondo i critici esimi) è quella del contraltare tra il delirio culinario del
morente, e le persone che lo hanno accompagnato in vita. La moglie, i figli,
l’amante, la cuoca, i detrattori, gli estimatori, financo la portinaia Renée
(che ben altro spessore avrà nel Riccio). Perché l’idea è quella di tessere una
trama in cui alla fine si possa in controluce vedere la complessità della
persona umana. Non c’era bisogno di tante pagine (anche se non sono molte) per dimostrare che ognuno di noi è diverso
nella percezione che ogni altro ne ha. E soprattutto nella propria
auto-percezione. Facciamo fatica a conoscere noi stessi? Non sappiamo chi
siamo? Come direbbe la mia maestra Maria Luisa, facciamo a questo punto un
bagno di realtà, e piuttosto che sbudellarla anche in punta di penna,
viviamola. Insomma, l’ho trovato inutilmente pesante, senza un grosso filo
conduttore, una prima scrittura acerba, che sboccerà nel successivo riccio, ma
che qui mi ha francamente annoiato. Un solo punto mi ha rimandato uno sguardo
non estraneo (si vede che ho letto la Müller, eh?, ma si vede anche che la
Muriel è nata in Marocco), ed è quando descrive paesaggi di Rabat, che mi hanno
riportato al bell’albergo che frequentai con vista sul Mausoleo di Hassan. Tutto
il resto è califaniamente noia.
“Il calvario non è
lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli che non ti amano.” (40)
“Mi ricordo la
magnificenza floreale della sala da tè degli Oudaïa dalla quale contemplavamo
Salé e il mare in lontananza, alla foce del fiume che scorre sotto i bastioni;
le stradine variopinte della Medina; le cascate di gelsomino sui muri dei
cortiletti, ricchezza dei poveri distante mille miglia dal lusso dei profumieri
occidentali; mi ricordo, infine, la vita sotto il sole, che è diversa da tutte
le altre perché chi vive all’aperto concepisce lo spazio in modo differente … e
il pane marocchino, preludio folgorante alle unioni carnali.” (75)
“Tutti pensano che i
bambini non sanno niente. Viene da chiedersi se i grandi siano mai stati
bambini” (79)
Nicolas Barreau “Gli
ingredienti segreti dell’amore” Feltrinelli euro 8
[pubblicato il 7 aprile 2013]
Nato
in Francia da madre tedesca, il nostro bilingue imbastisce una storia che fa
perno su di un … inglese (anche se poi si sviluppa in molte direzioni).
All’inizio, essendomi ignoto il Barreau mi aveva decisamente spiazzato il nome
francese dell’autore ed il titolo originale in tedesco. Scoperto il trucco, ho
trovato tuttavia simpatico il modo di “essere” in Parigi, quasi da straniero
nella propria terra (un po’ come Veit Heinichen e Trieste). Anche se poi ci si
domanda perché i sorrisi delle donne diventino “ingredienti dell’amore” e
perfino segreti. Mistero! Comunque, senza tanti battage pubblicitari, Barreau
ottiene un discreto successo internazionale con una storia delicata, che quasi
ci fa tornare alle atmosfere leggere e simpatiche della Parigi di Amèlie (e non
a caso i protagonisti hanno nomi in A: Aurélie e André). Ed anche l’idea di
base ha un suo fascino, ed è ben svolta dall’autore. Poteva venirne fuori una
cosa un po’ banale, invece, pur nell’assoluta normalità si fa seguire. La
storia procede su due binari paralleli, alternando i punti di vista dei due
protagonisti. Aurélie gestisce un piccolo ristorante parigino (dal nome storico
che rimanda a quel ristorante vicino a Place d’Italie gestito negli anni ’70 da
una cooperativa di operai e che proponeva e propone una cucina francese
tradizionale), sta uscendo malconcia da una storia, cerca consolazione dalla
sua amica Bernadette, ma la trova leggendo un libro di un ignoto scrittore
inglese, dove il britannico protagonista, a valle di una serie di ironiche
situazioni scontrandosi la sua flemma d’oltre manica con la giocosità parigina,
si innamora di una ragazza che gestisce un ristorante che guarda caso è quello
di Aurélie. E dove anche la descrizione della protagonista si adatta alla sua.
Da questo punto in poi la nostra cercherà in tutti i modi di entrare in
contatto con l’inglese, fallendo (e vedremo presto il motivo) miseramente ogni
suo tentativo. André invece lavora in una piccola casa editrice, come editor,
e, non riuscendo a trovare autori soddisfacenti la linea editoriale, in
complicità con un suo sodale inglese, scrive un libro (quello di cui sopra),
facendo finta sia la traduzione da un libro inglese. Sfortunatamente il libro
ha successo. Ed André si troverà impelagato a far fronte alla richiesta di
interviste all’autore, di viaggi promozionali, di sedute pubbliche di lettura.
Nonché all’insistenza della bella Aurélie che lo contatta e non lo molla più
per farsi presentare al fantomatico Robert Miller. Capirete anche voi, che si
andrà avanti a forza di equivoci, di possibili smascheramenti, e soprattutto
del tentativo di André di creare tutto un castello di menzogne per screditare
l’autore fasullo, e per farsi bello verso Aurélie. Che in realtà è proprio la
persona descritta nel romanzo. In effetti, ad André l’idea era venuta passando
davanti al ristorante e vedendo oltre il vetro Aurélie in uno splendente
vestito verde. Come detto una trama che rischierebbe di andare alla corda dopo
poche battute. O di essere ripetitiva. Invece viene ben sostenuta dalla
scansione di una serie di colpi di ingegno dello scrittore, per dare voce e
speranza a turno ai due protagonisti. Ovviamente, quando tutto sembra andare
per il meglio per André, Aurélie manda all’aria tutto il castello. E … e non vi
dico altro, su come andrà a finire. Ognuno faccia il tifo per chi vuole e se ne
goda la lettura, rilassante (soprattutto in questa turbolenta fine di un anno
bisestile). Un’ultima notazione riguarda il “Menu dell’Amore”, un menu per due
che il padre di Aurélie le ha donato prima di morire, e che è una catena che
legherà per sempre chi lo mangerà con spirito giusto. Barreau (come a me fa
piacere che mi rimanda ad altri testi a me cari) alla fine ce ne dà anche le
ricette (che consiglio di provare a chi sa ben cucinare). Io mi limito solo a
riportarne i piatti (e ad invitarvi al sorriso): insalata di valeriana con
avocado, champignon e noci, coscio d’agnello al melagrano con gratin di patate,
parfait all’arancio con gâteau au chocolat (che da solo vale tutta la cena!).
Buona lettura!
“Gli anni non contano. Conta solo come li
viviamo.” (10)
“Non riesco ad immaginare una vita senza
libri.” (20)
“A volte è più facile convivere con la
menzogna che con la verità.” (119)
“L’amore quando finisce è sempre triste. Chi
lascia ha la coscienza sporca. Chi viene lasciato si lecca le ferite. Alla
fine, però ognuno è quello che è sempre stato.” (gli appunti di Aurélie)
Julie Powell “Julie
& Julia” Corriere della Sera Cucina 3 euro 7,90
[pubblicato il 27 agosto 2017]
Tributiamo
un grande saluto (purtroppo postumo) a Nora Ephron che è riuscita, di questo
libro non eccelso, a tirar fuori un film che ha una diversa e più ampia
levatura. Riassumendo brevemente, nel 2002 Julie Powell, segretaria in
un’agenzia governativa, per tirarsi fuori dalle secche di un avvio ai
trent’anni che gli sta storto, decide di intraprendere un’opera titanica.
Cucinare, in un anno, le 524 ricette di un libro “cult” del “cooking-writing”
americano: “L’arte della cucina francese” di Julia Child. Per di più, decide di
raccontare questa sua avventura attraverso un blog (intitolato “Julie/Julia”).
Julie riesce in questa impresa, si attira anche l’attenzione dei media, tanto
che le viene chiesto di riversare questa esperienza in un libro (questo che
stiamo tramando, pubblicato nel 2005). Nel 2009, tre anni prima di morire di
leucemia, Nora Ephron ne trae un film che, volendo dare spazio a Meryl Streep
nei panni di Julia Child è più bilanciato e più appassionante del libro. Perché
qui abbiamo più che altro la storia di questo anno, delle sue peripezie, e di
alcuni episodi culinari che Julie affronta. Nulla (o poco e marginale) c’è di
Julia, che invece nel film diventa il deuteragonista della storia,
bilanciandone il peso tra la genesi di una passione e la sintesi della sua
riproposizione. Non dovendo però parlare del film, diciamo solo alcune parole
su Julia. Alta (1,88 e non è poco), sgraziata, segretaria in giro per il mondo,
si sposa con il diplomatico Paul e, di stanza a Parigi, impara a cucinare. Da
Cordon Bleu. Tanto che apre una scuola di cucina, scrive il libro di cui sopra,
e dal 1963 appare in televisione in una trasmissione (“The French Chief”).
Tutto questo intriso (fino al midollo, per restare in cucina) dello spirito
provinciale americano degli anni Sessanta: amore spasmodico per la cucina
francese, incapacità congenita di comprendere gli elementi naturali di una sana
cucina, amore/odio per il burro ed i grassi (per poi finire a diventare obesi
mangiando da McDonald’s o da KFC). Ma questa è Julia. Veniamo invece a Julie,
che invece è una tipica americana del nuovo millennio, che seguiamo in questa
vicenda post Twin Tower, in un mondo che già conosce vegetariani, vegani, ed
altri (e diversi) stili alimentari. Quindi, dal lato culinario, diventa una
sfida al modello americano: cucinare e mangiare una quantità sproposita di
cibo, soprattutto di origini animale. Abbiamo profusioni, durante la
navigazione di questo anno, di manzo, rognoni, fegati, oche ripiene, nonché un
interessante capitolo sui diversi modi di uccidere e poi cucinare (o viceversa)
un’aragosta. Abbiamo patate a scatafascio. Salse di ogni specie, ma in
particolare tutte quelle a base di burro. Abbiamo dolci come piovesse, con
tutte le glasse che possiamo pensare nella nostra mente bacata. Ma,
fortunatamente, NON è un libro di ricette. Sfortunatamente, è la cronaca di un
anno vissuto “pericolosamente” da Julie, cucinando e cucinando. Certo, qua e là
si parla di ingredienti, ed altre amenità. Tuttavia, quello che emerge è il
rapporto tra Julie ed il marito Eric, e con ali altri esseri viventi: il
fratello, la madre, le amiche, i lettori dei blog. Certo, è un bel po’
Julie-centrico, e ciò nonostante riesce a darci il senso di una vita americana
a Long Island nei primi anni di questo secolo, in un mondo post-torri, con la
metropolitana che a volte non funziona, i tubi che si intasano, le cucine che
si allagano, gli ingredienti che ci si dimentica di comperare. E quelle spese
senza pensarci su, che portano, spesso e volentieri, a ritrovarsi con i
componenti di base per cucinare un “potage parmentier”. Leggendo Julie questo
non impressiona, ma è un rimando preciso: il potage è la prima ricetta del
libro di Julia. Alla fine, gli ammiccamenti della scrittrice finto-segretaria
sono un po’ troppi, e stancano assai. Non le va mai una dritta. Ma sempre, in
ogni momento storto, le ricette riescono. Magari poco appetibili, e sempre,
sempre, con troppo burro. Auguro sinceramente a Julie, che, ora, sui suoi 45
anni, abbia trovato quello che cercava buttandosi nel blog cuciniere. Magari
anche figli. Peccato che, del blog e del blogghismo si parli poco nel libro. In
ogni caso, non credo che cucinerò “alla francese”.
“Negli
anni, [mio marito] Eric aveva sviluppato la tattica difensiva dell’ascolto
selettivo. … I benefici sono ovvi: molto meno tempo sprecato a occuparsi di
ogni passeggero attacco isterico della moglie. Io, però, in risposta ho
affinato una tecnica di ripetizione + strilli, che si è rivelata molto efficace
nell’abbattere le sue difese. E, una volta sollecitata una sua risposta, è lui
a trovarsi in svantaggio, poiché non ha ancora sentito qual è la miccia della
bomba che sta per esplodere, e pertanto non è in grado di giudicare che tipo di
risposta sarà in grado di disinnescarla. Inoltre, poiché era lui che non dava
ascolto a me, io vincevo su un alto piano morale.” (144)
“Il punto è che il mondo è molto più grande
di quel che crediamo.” (181)
Finalino
Sono libri facili, anche se non rimangono impressi nella
memoria, a volte aiutano a passare qualche momento distensivo, prima di
dedicarsi a più impegnative letture. Concediamoglielo.
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