Diego De Silva “Mia suocera beve”
Repubblica Italia Noir 19 euro 7,90
[A: 04/10/2016 – I: 20/01/2019 – T: 24/01/2019]
&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 331; anno:
2010]
Mi ero ripromesso, dopo la triste lettura di
“Non avevo capito niente”, di evitare questo filone della scrittura di De
Silva. Tuttavia, al 19° libro di “Italia Noir”, dedicato alla Campania, potevo
io interrompere inopinatamente gli acquisti? Non l’ho fatto. E forse ho fatto
male. Perché ora, leggendo questo zibaldone desilvano, che si sarebbe potuto
chiamare tranquillamente “Così parlò Malinconico”, facendo il verso a De
Crescenzo che lo faceva a Nietzsche, mi domando: che senso ha questo libro? E
soprattutto, perché viene inserito in una collana dedicata al Noir, dove
figurano, con merito giallesco, Camilleri e Manzini, De Giovanni e Lucarelli,
Malvaldi e Robecchi? Non è certamente un giallo, non ha tracce di indagini o di
mistero. Certo c’è un fatto non usuale, ma ce ne vuole del bello e del buono
per inserirlo in una collana di “Noir”. Il fatto avviene in un supermercato,
dove Romolo l’ingegnere addetto alla sorveglianza sequestra un mafioso che è
implicato nella morte del figlio del suddetto. Il quale coinvolge Vincenzo
Malinconico in qualità di avvocato, tenendo in un certo senso anche lui in
ostaggio. Perché la giustizia dei tribunali, cui bene o male appartiene Vincenzo
non ha ancora risolto il caso, anche se ben si sa che l’uomo in sequestro è il
mandante del fatto di sangue. Romolo ha messo in piedi tutto questo baraccone
per inscenare una specie di processo mediatico, dato che, come ovvio, se c’è un
sequestro arrivano le televisioni. Tutto il plot maggiore del libro è una
descrizione di quanto avviene nel supermercato, di cosa fanno le turpi TV
locali e nazionali, delle attività delle forze dell’ordine e dei passanti
curiosi. Il tutto infarcito da un batti e ribatti tra Romolo e Vincenzo sul
ruolo della giustizia, sulla sua mancanza, sui tribunali mediatici che
soppiantano la giustizia ordinaria, e via discorrendo. Dove Romolo va sempre
dritto sulla sua strada, puntando a farsi giustizia da solo e Vincenzo è combattuto
tra fare l’avvocato d’ufficio del mafioso, il paciere tra le varie parti, il
sostenitore del ruolo dei tribunali, ed altro ancora. Questo lungo plot
attraversa quasi tutto il libro, ne è in un certo senso la spina dorsale,
avendo, come è giusto che sia, una sua fine ad un certo punto. Quale e come
sia, non lo diciamo qui. Ma il lungo excursus serve solo a Vincenzo per entrare
ed uscire dai suoi pensieri e dar vita a due sotto filoni narrativi, questi
veramente lontani anni luce da qualsiasi pittura giallognola. Il principale
sotto filone, che deriva dritto dritto dal libro precedente, è il rapporto di
Vincenzo con le donne. Con l’ex-moglie Nives, assolutamente antipatica, ma con
cui, per non si sa quali motivazioni, Vincenzo ogni tanto si ritrova a letto.
Con la nuova compagna Alessandra Persiano con cui sembrava aver intavolato un
buon rapporto che qui si deteriora e finisce, anche perché l’ottima Alessandra
sa o subodora che Vincenzo “intinga il biscotto” anche in altre bevande. La
vicenda è discretamente confusa, perché Vincenzo si intortora in
autocommiserazioni di poco peso e molta lungaggine ed Alessandra, in pratica,
non viene mai coinvolta in una discussione, in una spiegazione. D’altronde,
sfruttando l’esposizione mediatica avuta nel sequestro, Vincenzo è coinvolta in
altre avventure a sfondo sessuale con giovani ventenni o poco più, che,
fortunatamente, non sembra possano passare oltre il segno delle fantasie
oniriche. L’altro sotto filone riguarda Assunta la suocera, sì quella del
titolo, che, qui lo dico subito, di certo non beve, checché ne dicano Vincenzo,
l’ex-moglie ed i due nipoti. Ma che si scopre ha il cancro, motivo per cui
decide che è tempo di dire pane al pane e vino al vino, rimandando verso le
persone a lei vicine tutte le cose buone e/o cattive che ha vissuto nella sua
vita. Facendo, come è ovvio, delle grosse chiusure verso la figlia di cui non
ha mai sopportato l’arroganza. Le parti con Assunta non superano a occhio il
10% del libro, e non si capisce perché viene ad occupare gran parte del
cartellone. Quasi a farci sperare ogni volta che prenda la scena, nei suoi
dialoghi con Vincenzo. Ma così non è. Rimangono le lunghe palle discorsive che
il nostro avvocato si mena tra sé e sé, che la prima si legge, la seconda si
sopporta, le altre risultano fastidiosamente ed inutilmente presenti. Una cosa
per finire, ritornando su quel dispetto che il buon Diego mi ha fatto, e di cui
ho già in altre trame avuto modo di dolermi: l’utilizzo dei testi delle canzoni
per sottolineare momenti della vita. Non torno sopra, anche se forse sono gli
unici momenti che mi hanno divertito, incuriosito e coinvolto. Soprattutto la
parte dedicata all’Equipe 84, con Maurizio Vandelli, Victor Sogliano, Alfio
Cantarella ed alle tastiere, cosa che De Silva non ricordava, Thomas
Gagliardone. Per ricordare, io, con lui e l’Equipe, la mitica “Diario”, con il
testo di Dario Baldan Bembo. Mitico! E mitiche le altre canzoni del mio ricordo
della band, in particolare “L’antisociale” su parole di Guccini. Il resto del
libro, l’ho già dimenticato.
“Il
futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti” [da ‘C’eravamo tanto
amati’ di Scola] (296)
Katia Tenti “Ovunque tu vada” Repubblica
Italia Noir 29 euro 7,90
[A: 13/12/2016 – I: 28/01/2019 – T:
30/01/2019] &&---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 411; anno:
2014]
È un vero peccato che una fluente scrittura ed
una trama con degli spunti interessanti di intreccio e di riferimenti
(ambientali soprattutto) sia annegata in una lunghezza sproposita ed inutile
per la resa del romanzo stesso. La scrittrice, stando alle note, dovrebbe
essere al suo primo romanzo, e dal modo di scrivere e dal modo di porgere le
idee sembra una persona di buone doti affabulatorie. Anche l’ambientazione
bolzanina è di gradevole impatto, anche perché non di frequente usata nei
romanzi e soprattutto nei gialli. Infine, l’idea base di seguire le vicende del
Pubblico Ministero Jakob Dekas è di buona lena: non seguiamo un delitto, un
intreccio isolato, ma la quotidianità di una procura della Repubblica, con la
molteplicità dei casi che arrivano (qui ce ne sono tre) che casualmente hanno o
possono avere punti in comune. Quotidianità che si riflette anche nel
personaggio Dekas stesso che seguiamo con le sue manie e con il suo presente,
che ovvio deriva dal suo passato cui spesso si torna. Qui cade il castello del
romanzo, che seguendo tutto e tutti, tanta carne al fuoco viene posta, carne
con diversi gradi di cottura, che quindi alla fine non risulta omogenea: chi
troppo cotta, chi cruda, chi (forse) a punto. Quindi non solo le tre storie e
Dekas, ma incontriamo anche le vicende del suo aiuto Vittoria e del suo
maresciallo di riferimento, il buon Barra. Con Dekas ci imbattiamo anche nella
sua amante di passaggio (che non è ancora, o non sarà mai in grado di avere una
relazione stabile) Claudia. Inoltre, nei flashback, sovente reiterati, in
Lauretta, il suo grande amore ai tempi universitari padovani, e Alberto, amico
di allora e forse di sempre. Questa storia, che dovrebbe caratterizzare il
Dekas attuale, è tuttavia spalmata a lungo nel romanzo, con frequenti su e giù,
anche d’umore. Tanto che alla fine viene un po’ a noia, che, in fondo,
conoscendo gli anni ed i luoghi, sembra un po’ scontata (come se si tornasse,
con qualche cambiamento di fondo, a Carlotto ed ai suoi anni giovanili). Anche
le tre storie che si intrecciano sono di molto allungate, introducendo nuovi
personaggi, andando a vedere chi sono, che fanno, ed altre lungaggini.
Riempendo il libro di nomi su nomi, che alla fine sembrano tutti uguali. Che a
volte mi imbattevo in una persona, e mi domandavo: era già stata introdotta? A
quale storia appartiene? Perché sì, ci sono le tre storie, ma sono poco
“gialle”, sono quasi più sul versante “legal thriller”, dove aspettiamo di
vedere se i colpevoli, acclarati, saranno presi, processati, condannati. La
prima è una storia di stalking ante-litteram. Uso questo termine perché (e non
so né è spiegato il motivo) le vicende si svolgono nel 1999, quando in Italia
non esisteva una legge che reprimeva e controllava questi comportamenti. Milena
è perseguitata dalla sua vecchia fiamma Antonio, con il quale aveva avuto una
relazione, da anni troncata. Antonio le telefona ogni mattina, la segue nel
percorso verso l’ufficio. Milena chiede aiuto a Dekas, ma senza violenze,
all’epoca, non si poteva far nulla. La storia si complica quando Dekas scopre
che Milena ha un figlio, che Antonio sostiene essere suo, e che invece è di tal
Lukas, avvocato di spicco presso cui Milena un tempo lavorava, ma ben sposato e
controllato dalla moglie. La seconda vicenda si interseca alla prima, quando
Otto, un ottuagenario forse ricco, forse solo ricattatore, che vive sulle
spalle di Lukas e famiglia, viene trovato morto nella villa dell’avvocato. Si
scoprirà con fatica che la morte non è accidentale, ma Lukas fugge a Vienna
prima di essere arrestato. La terza storia è invece tutta sghemba, e riguarda
la denuncia per molestie sessuali della ventenne Verena, che sostiene di essere
stata molestata dieci anni prima dal parroco del luogo, don Daniele. Dekas è
dubbioso, mentre Vittoria, la sua spalla, è convinta della storia di Verena.
Quindi tutta la lunghissima terza parte del libro è dedicata ai brandelli di
indagine che vengono fuori. Alla ovvia colpevolezza di Antonio, ma vedremo solo
nel libro come. Alla ricerca di incastrare Lukas pedinando giorno e notte la
moglie, ed avendo un riscontro solo dopo alcuni mesi. Alle difficoltà, allora
come ora, di entrare nell’omertà curiale per trovare le prove (e ce ne sono
forti) della colpevolezza di don Daniele. Con tutte le scontate propaggini che
tutto ciò comporta. I sensi di colpa di Dekas che non può far nulla contro
Antonio se questi non fa qualcosa contro Milena. Le coperture che la casta
avvocatizia fornisce a Lukas. Le coperture che la Curia fornisce a don Danilo.
Tutto alla fine avrà una sua logica conseguenza, in due sottofinali che si
vorrebbe conclusivi ed esplicativi, anche se lasciano punti sospesi. Come il
terzo, che non vi dico, e che è una palese sponda verso una seconda puntata
delle avventure del buon Dekas. Rimangono comunque molti, tanti punti in
sospeso. Ad esempio, il primo capitolo con la storia della giovinezza di tal
Nuccio, che prende una decina di pagine, come se dovesse acclarare chi sa cosa,
e che si risolverà in una nota a piè pagina, più o meno, anche se
significativa. Ma che, nelle more delle scritture gialle, dovrebbe avere più
senso. Come non si sa che fine abbia fatto ed anche chi sia in realtà, il don
Domenico, sodale teologico di don Daniele. Questo sempre per quell’idea balzana
di scrivere di tutto e di tutti. Ricordo sempre che l’immenso Flaubert diceva
che dopo aver scritto un libro, bisogna sedersi, e tagliare, tagliare e
tagliare. Ultimo cenno, i riferimenti ambientali che dicevo sono comunque
graditi. Sia dal punto di vista geografico, quando si parla di Bolzano e di
altre cittadine sud-tirolesi. Sia dal punto di vista gastronomico, citando
piatti e bevande locali che si vorrebbe provare, prima o poi.
Gianni Materazzo “I labirinti della memoria”
Repubblica Italia Noir 25 euro 7,90
[A: 15/11/2016 – I: 16/03/2019 – T:
19/03/2019] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 254; anno:
1993]
Nonostante
possa provare un sentimento di riconoscenza verso Gianni Materazzo per un paio
di cose che ha fatto nella sua vita, questo quarto episodio (di cui mi scuso
per non aver letto i primi tre) delle vicende noir dell’avvocato Luca Marotta
mi ha lasciato indubitamente freddo. Allora comincio nel tributare omaggio
all’autore per aver reso a fumetti un romanzo di Loriano Macchiavelli, uno dei
numi tutelari del noir italiano. Ma ancor di più per aver fondato nella sua
Bologna il negozio per l’infanzia “Città del Sole”. Il nostro, poi, nel 1989,
vince il Premio Tedeschi con “Delitti imperfetti”, il primo libro della serie
imperniata su Luca Marotta, e che verrà magistralmente interpretato in una
serie televisiva da Gioele Dix. Qui, come detto, siamo al quarto ed ultimo
episodio. Laddove Marotta si sposta dall’abituale Bologna, normale teatro delle
sue vicende, nel borgo natio di Fallascoso. Che non è una città inventata come
sembra farci voler credere, ma una frazione della ben nota Torricella Peligna,
città natale, tanto per dirne una, di John Fante. Qui, nel borgo teatino, Luca
si ritira ogni tanto, circondato da amici e conoscenti, e qui lo richiama
l’amico Ferruccio, insospettito dall’inusuale morte di un vecchio valligiano,
tal Marzialino, incidentalmente cugino di Ferruccio. Luca comincia ad indagare,
avendo subito impresso lo strano modo della caduta di Marzialino, nonché la
presenza di una quasi impercettibile ferita allo sterno. Scontrandosi
puntualmente con le forze dell’ordine locali, che vorrebbero chiude in fretta
l’episodio come marginale e poco significativo, Luca coadiuvato da Ferruccio
indaga, interroga, e disvela ombre. L’atmosfera è molto “d’epoca”, anche perché
il racconto risente dei 26 anni trascorsi dalla scrittura. Non ci sono più molte
delle ombre che potrebbero nascere dalle pieghe del testo. Forse non c’è più
neanche quell’atmosfera da borgo felice (ma pieno di misteri) che una volta
poteva essere descritto e reso teatro di azioni di interesse. Qui, d’interesse
c’è poco, ed abbastanza presto si intuisce la piega verso cui scivola il
racconto. C’è la grande famiglia locale, i Crocenanni, con l’ultima erede, e
solitaria, dell’un tempo favolosa fortuna: Beatrice, più che cinquantenne
eccentrica ed impaurita. Sottolineo cinquantenne, che significa nata durante la
guerra. C’è la sua amica del cuore, nonché protégé, la professoressa Lena
Martucci. Figlia di n.n., empatica verso i disadattati, che farà anche un
passaggio (poco significativo nevvero, ma esistente) nel letto di Luca. C’è
l’amico Ferruccio, nascostamente ma da anni legato da tenere effusioni con
Beatrice. C’è Domenico, detto Mingo, sordomuto dalla nascita, figlio della
domestica Vincenzina. C’è il medico condotto, Gegé, logorroico ed amante della
caccia. C’è il di lui padre Cesare, privato della vista durante la guerra di un
maldestro colpo di fucile. C’è, infine, il misterioso professor Moritz, un
archeologo tedesco che sembra essere venuto in loco per studiare i resti
dell’antica Juvanum, loco romano esistente tra Torre Peligna e Montenerodomo.
Ma tutti sanno anche che la zona fu teatro di battaglie, situata sulla
famigerata “Linea Gustav”, e che Marzialino era anche una staffetta partigiana.
Agnizione dopo agnizione, Luca smonta le varie sovrastrutture del racconto,
anche se noi lettori ne veniamo coinvolti solo marginalmente. Il tutto per
arrivare all’uccisione del tedesco nella cappella di famiglia dei Crocenanni.
Da qui, l’indagine ed i personaggi prenderanno ritmi ed atteggiamenti diversi.
Scompare pian piano Ferruccio, che poso apporta alla vicenda. Esce alla luce
(nel buio della cecità) Cesare che aveva riconosciuto, nella descrizione
fattagli, il tedesco come un caporale che non solo durante la guerra
spadroneggiava, ma che era responsabile della sua menomazione. Che lui Cesare,
aveva cercato di fermarne le effusioni verso Anita, la madre di Beatrice.
Effusioni che Beatrice stessa aveva intuito e che da allora, in modo figurato,
vengono a turbare i suoi sogni. A parte Ferruccio e Gegé, quindi, tutti gli
altri sono sospettati e sospettabili della morte di Moritz. Beatrice perché il
tedesco aveva stuprato la madre. Cesare perché il tedesco lo aveva accecato.
Mingo perché il tedesco poteva essergli padre e poteva voler fuggire con gli
ori trafugati durante la guerra. Lena per un sentimento di rivalsa e ribellione
alla vita grama. Il tutto scorre senza troppa presa, arrivando a conclusioni
scontate da tempo. Non solo, ma lasciando alcuni interrogativi irrisolti, cosa
che, alla faccia di Van Dine, non si deve fare. Ultimo elemento che cito, e su
cui un po’ gioca l’autore: la zona fu autoproclamata da Benedetto Croce come
suo luogo natio, da cui quel cognome sempre presente nel testo.
“Una madre deve fare la madre. Se vuol fare
l’attrice è meglio che non metta al mondo dei figli.” (184)
Michele Catozzi “Acqua morta” Repubblica
Italia Noir 34 euro 7,90
[A: 26/01/2017 – I: 20/03/2019 – T:
23/03/2019] &&
+
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 357; anno:
2015]
Un libro interessante,
non riuscitissimo, ma con alcuni spunti. Intanto relativi all’autore, Michele Catozzi
di Mestre. Sottolineo di Mestre che si sente amore-odio dei mestrini verso
Venezia. Anche perché mi ha fatto fare un balzo di una cinquantina d’anni
indietro, alle mie allora frequentazioni locali. Non con una veneziana, che la
mia ragazza d’allora era udinese. Ma, studentessa d’architettura, stette per un
periodo a Mestre (discreto) e poi un anno alle frezzerie di San Marco. E fu
vera gloria, senza nessun richiamo alle ardue sentenze. Tornando al libro,
anche il protagonista è mestrino, il commissario Nicola Aldani (qui alla prima
uscita, che poi il buon Catozzi ha prodotto altri due romanzi con Aldani al
centro), in procinto per tutto il libro di trasferirsi da Venezia a Mestre
(cosa che comprendo per i problemi di avere una famiglia numerosa, ma biasimo
perché, da forestiero, non scambierei mai le due città). C’è un filone “noir”
che percorre tutto il libro, ma che è di facile decrittazione. Una trentina di
anni prima, in quel di Sant’Elena, una coppia in effusioni viene aggredita. Lui
massacrato e ucciso. Lei forse stuprata (o forse lo era già) ed in stato di
shock, da allora e per molto tempo. tanto che con la madre ed il fratello si
trasferisce a Londra, dove, all’inizio del libro, muore definitivamente. Con il
fratello che torna nella natia Venezia per chissà quale vendetta. Questo filone
sarebbe occultato e poco rilevante (il fatto si risolse senza nessun colpevole
trovato), se non avvenisse la strana morte di tal Mirco Albrizzi, di una delle
famiglie più note della città. Non solo, ma legato mani e piedi agli ambienti
traffichini e politici del Veneto e non solo. È nipote di un senatore, è sodale
con il governatore della regione (che di nome fa Nereo, quasi a ricordare tal …
Laroni, che qualcuno ricorderà sodale craxiano all’epoca ed ora fedele di
Zaia), fa affari loschi con la cosiddetta ex-moglie (che poi si scopre non
essere neanche ex), ed ha un avvocato ed un ragioniere che gestiscono affari poco
puliti. Mirco viene trovato ucciso con un colpo di pistola, nelle acque basse
di un rio quasi asciutto (da cui il titolo, o almeno l’idea dello stesso). E
poco dopo si trova morta anche la sua amante, una escort di colore, con casa
messa a soqquadro (sono contento di poter usare finalmente l’unica parola
italiana con due “q”!). Aldani indaga, collega, confronta, e qui esce fuori la
parte più sentita e meno riuscita. Mirco era uno dei fondatori della Banca
Veneta, cassaforte della destra locale, ed altro ancora, con intrecci tra
malaffare, politica, nascita di centri commerciali ed altre astruserie. Catozzi
cerca di darci un quadro dei possibili intrecci, un’idea dei flussi monetari
poco puliti, delle malversazioni ed altro. Ma, pur documentato e con molte
attinenze al reale, lo scritto non assurge a livelli da Gomorra o da Suburra.
Vediamo, leggiamo, capiamo, ma un po’ ci si perde. Ed anche se questo rimane un
filone interessante da seguire per capire fino a che punto sia corrotta la
società veneta in primis ed italiana in generale, la svolta (almeno nella testa
di noi lettori) arriva quando anche Aldani, con l’aiuto di un poliziotto in
pensione, collega Mirco alla morte della fanciulla di cui all’inizio. Mirco era
il fratello di Laura e Tommaso. Ed è proprio Tommaso che lo va a cercare dopo
la morte di Laura. Qui si intreccia duramente il personale e il politico. Che
Mirco sa che la sua Banca versa in pessime acque. Tanto che negli ultimi mesi
trasferisce all’estero milioni di euro dei suoi conti personali. Probabilmente
per inscenare una morte fittizia e riparare all’estero con l’amante. Dubbi
sorgono allora nella mente di Aldani: sarà veramente Mirco il morto? E dove è
finito il fratello Tommaso scomparso poco dopo l’arrivo a Venezia? Non è che
qualcuno, scoperti gli altarini di Mirco, assolda un killer per far fuori lui e
l’amante? Non vi dico gli ultimi drammatici momenti finali. Solo che nel cloud
della rete (retaggio della parte informatica di Catozzi), Aldani trova le prove
delle ruberie della Banca. Ed i vari mestatori, locali e nazionali, dovranno
renderne conto. Sapremo anche (ma già si capisce purtroppo dalle prime dieci
pagine) chi ha ucciso il fidanzato di Laura. E finiremo, questo ve lo posso
dire, con finalmente il trasloco di Aldani in quel di Mestre. Un punto in più
nelle considerazioni tramanti è per la citazione a pagina 54 di una
similitudine Uderziana: il fabbro che viene ad aprire la cassaforte del morto
viene paragonato ad Automatix, quello con i baffoni che era sempre in lite con
il vicino bottegaio, il pescivendolo Ordinalfabetix. Grande ed indimenticabile
Asterix. Invece chissà se si avrà voglia di affrontare la “Laguna Nera” del
secondo romanzo.
Seconda
tram, ed un allegato che farà contenti i russofili doc, e non quelli attuali,
d’accatto e di ricatto.
Per
il resto, proviamo a vedere se al mare l’aria è più fresca. A Roma non si
respira.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i
“bugiardini” di Giovanni
LUGLIO 2019
Sono perplesso, ma riporto per
dovere di cronaca e commento nel finale.
SANTARELLINI,
FARE I
Michail
Bulgakov “Il Maestro e Margherita”
Quando in una bella serata di
primavera degli anni Trenta il diavolo appare in un parco di Mosca, si
inserisce tra due tizi eruditi, impegnati in una profonda discussione su una
panchina. Uno è Berlioz, il calvo, corpulento direttore di una rivista
letteraria. L’altro è Bezdomny, un giovane poeta. Il diavolo non ha problemi a
prendere il controllo della conversazione - che riguarda l’esistenza o meno di
Gesù Cristo. Il diavolo infatti, che indossa un costoso completo grigio, scarpe
«straniere», un berretto grigio piegato allegramente su un occhio, ha più
carisma di entrambi gli uomini messi insieme. «Oh, che bello!» esclama quando i
suoi due nuovi amici gli confermano che sono atei. Il diavolo ha una mentalità
imprevedibile e infantile, si annoia facilmente ed è sempre in vena di scherzi
- soprattutto se a spese di qualcun altro. Ora scoppia a ridere, in maniera
abbastanza sguaiata da «spaventare i passeri sull’albero», l’attimo dopo
predice la terribile morte di Berlioz, che sarà decapitato da un tram (e
succede davvero). Quando Berlioz gli domanda dove abiterà durante il suo
soggiorno a Mosca, strizza l’occhio e risponde: «Nel vostro appartamento».
Il diavolo ci sa fare, è arguto.
Come in “Paradiso perduto”, ha le migliori battute e tiene sempre tutti sulle
spine. Quando Bezdomny sente il bisogno di una sigaretta, il diavolo -o il
professor Woland, come si legge sul suo biglietto da visita - gli legge nel
pensiero e tira fuori un impressionante portasigarette d’oro con la marca
giusta. Lui e il suo bizzarro seguito - che comprende un gatto grosso, rozzo e
con un debole per la vodka chiamato Behemoth - stupisce il pubblico a teatro
facendo apparire sul palcoscenico una collezione di haute couture parigina -
cappelli, abiti, borse, rossetti - e invitando le signore a spogliarsi e rivestirsi.
Ovviamente, il diavolo dà anche le
feste migliori. Mosca non ne ha mai viste di simili, e non ne vedrà più: un
ballo a mezzanotte, sotto la luna piena, con l’ospite d’onore (Margherita)
cosparsa di sangue e di rose. Le fontane sono piene di champagne, e pappagalli
dal petto scarlatto gridano: «Estasi! Estasi!». L’orchestra è diretta da Johann
Strauss. Questo è il diavolo, però, e non è tutto divertimento e giochi
innocenti. A parte Margherita, gli ospiti della festa arrivano in vario stato
di decomposizione, perché provengono direttamente dall’inferno.
Non vi stiamo suggerendo di
rinunciare alla bontà e votarvi al male. Stiamo solo dicendo che dovreste
spassarvela un po’, imparare a vivere. Non andate in giro a staccare teste come
fa Behemoth, ma organizzate feste scandalose. Abbiate sempre un lampo di
malizia negli occhi, una scheggia di malvagità nella manica. Sarete molto più
divertenti.
Bugiardino
Forse anche altrove ho parlato di
Bulgakov, del Maestro, di Margherita, e della mia amica Nicoletta che adora gli
scrittori russi. Io ho sempre difficoltà nel leggerne (tanto che spesso prendo
e lascio Dostoevskij). Ed il mio commento ne è una riprova.
Michail Bulgakov “Il Maestro e Margherita” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 13 maggio 2012]
Si può parlare male di un
capolavoro? Io, continuando nell’opera di sincerità soprattutto verso i
classici, dico di sì. E lo dico per tutti e due i termini. Cioè, è un
capolavoro, indubbiamente. Ma altrettanto chiaramente non mi è piaciuto. È
un’opera senza dubbio complessa, piena di scrittura, e piena di giochi,
rimandi, citazioni, descrizioni possibili di situazioni impossibili,
travestimenti del reale. E via discorrendo. Ma non mi prende, non mi coinvolge.
La maggior parte degli accenni (ed anche qualche punto di scrittura) lo trovo
datato, senza che riesca a resistere all’usura degli anni. Gli unici tre
capitoli che mi sono rimasti, che ho letto con voluttà, sono quelli dedicati a
Ponzio Pilato, al Nazareno, a Levi Matteo. Potenti, da mettere vicino (e sopra)
alle altre prove di diversa scrittura degli stessi episodi (De Luca, Schmitt,
Baricco tanto per citare gli ultimi che ho letto). Ma il resto? Il diavolo
Woland che si aggira per il mondo con il suo stuolo di cortigiani. Il gatto
Behemoth, il gobbo, Azazello, e via citando. Personaggi immaginifici che fanno
cose mirabolanti (fuggono con fornelli, si aggrappano a lampadari per non
essere colpiti dalle pallottole, ipnotizzano migliaia di persone scambiando
etichette di bottiglie con rubli sonanti, e via magicando), ma di cui non
seguo, non capisco i nessi. I motivi delle loro belle o turpi azioni. Da quel
punto di pista, si seguono meglio e si comprendono (proprio perché in
trasparenza si vedono difetti umani sempre presenti) i vari personaggi russi:
il letterato Berlioz che perderà (letteralmente) la testa, il poeta che
comprende l’inutilità dei suoi versi, tutta la gente di spettacolo,
dall’organizzatore al direttore del teatro, il cuoco. Insomma, tutti i vari
meschini individui che cercano dei loro piccoli tornaconti particolari. E che
Woland ed i suoi smascherano senza (giustamente) alcuna pietà. Nessuna pietà,
questo il motto di Bulgakov. Nessuna pietà per chi inganna, chi cerca il
proprio piccolo tornaconto personale quando intorno ci sarebbe il teatro per
dare spazio a grandi avvenimenti. A storiche prese di posizione. Tutti
dovrebbero fare un esame di coscienza. E fare i passi misurati alla propria
gamba. Di una ferocia, ed attualità straordinaria il passo in cui i due diavoli
cercano di entrare nel circolo degli scrittori, e vengono fermati perché non
hanno la tessera. Perché solo se qualcuno certifica chi sei tu, allora tu sei
quella persona. Come dire che senza un pezzo di carta Shakespeare non sarebbe
Shakespeare, perché non è sufficiente quello che scrisse. Che d’altra parte
viene letto e censurato, ed il più delle volte nascosto. Così come succede al
libro del Maestro. Che non viene capito perché “troppo avanti”. Ed il Maestro
viene stritolato dagli ingranaggi degli apparati burocratici, tanto da
rasentare la follia. Si salverà, sarà salvato, soltanto dall’amore della bella
Margherita. Che lo ama (e qui c’è veramente un canto d’amore altissimo) al di
là di ogni apparenza e convenienza. Perché Bulgakov ci dice che quando c’è,
l’amore viene fuori, si manifesta. E bene o male trionfa. Anche se per
trionfare deve passare mille prove, e superare mille ostacoli. E magari, non
sarà come ce lo aspettiamo. In un mondo che non può riconoscere il loro amore,
la loro esistenza, il Maestro e Margherita non hanno spazi. Meglio morire, e
continuare, immortali, a vivere il proprio rapporto, via da questa pazza folla che
ci circonda. Ecco, ho ripreso altri passi che non possono che ri-sottolineare
la natura eccezionale dello scritto. Ma proprio per come sono espressi, me li
hanno fatti sospirare. E leggere con fatica. Arrancando per più di dieci giorni
intorno alle 400 pagine dello scritto. Certo, e concludo, non si può scindere
il romanzo dall’autore. Che Bulgakov è tutto in questo libro (ci si ritrovano
tutte le invenzioni, le ironie, ed i dolori di tutte le sue altre opere). Un
libro che lo accompagna gli ultimi 15 anni della sua vita. Ma che vedrà luce e
fama solo molti decenni dopo la sua morte. Concludo, dicendo tuttavia che,
benché non mi abbia coinvolto, benché continuo a vederne i limiti verso il mio
modo di leggere ed interpretare il mondo, ritengo che sia in ogni caso un libro
da leggere. Magari qualcuno più in gamba di me lo troverà più facile e me ne
illuminerà le parti oscure. Aspetto con ansia.
Conclusioni
Non so se Bulgakov sia contento
di essere inserito tra i santarellini, o tra coloro che devono dirazzare per
essere felice. Io non sono convinto del libro, che continua a non piacermi. E non
sono convinto della collocazione terapeutica.
Come già detto, aspetto superiori spiegazioni.
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