domenica 21 luglio 2019

Italia poco gialla - 14 luglio 2019


Diego De Silva “Mia suocera beve” Repubblica Italia Noir 19 euro 7,90
[A: 04/10/2016 – I: 20/01/2019 – T: 24/01/2019] &
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 331; anno: 2010]
Mi ero ripromesso, dopo la triste lettura di “Non avevo capito niente”, di evitare questo filone della scrittura di De Silva. Tuttavia, al 19° libro di “Italia Noir”, dedicato alla Campania, potevo io interrompere inopinatamente gli acquisti? Non l’ho fatto. E forse ho fatto male. Perché ora, leggendo questo zibaldone desilvano, che si sarebbe potuto chiamare tranquillamente “Così parlò Malinconico”, facendo il verso a De Crescenzo che lo faceva a Nietzsche, mi domando: che senso ha questo libro? E soprattutto, perché viene inserito in una collana dedicata al Noir, dove figurano, con merito giallesco, Camilleri e Manzini, De Giovanni e Lucarelli, Malvaldi e Robecchi? Non è certamente un giallo, non ha tracce di indagini o di mistero. Certo c’è un fatto non usuale, ma ce ne vuole del bello e del buono per inserirlo in una collana di “Noir”. Il fatto avviene in un supermercato, dove Romolo l’ingegnere addetto alla sorveglianza sequestra un mafioso che è implicato nella morte del figlio del suddetto. Il quale coinvolge Vincenzo Malinconico in qualità di avvocato, tenendo in un certo senso anche lui in ostaggio. Perché la giustizia dei tribunali, cui bene o male appartiene Vincenzo non ha ancora risolto il caso, anche se ben si sa che l’uomo in sequestro è il mandante del fatto di sangue. Romolo ha messo in piedi tutto questo baraccone per inscenare una specie di processo mediatico, dato che, come ovvio, se c’è un sequestro arrivano le televisioni. Tutto il plot maggiore del libro è una descrizione di quanto avviene nel supermercato, di cosa fanno le turpi TV locali e nazionali, delle attività delle forze dell’ordine e dei passanti curiosi. Il tutto infarcito da un batti e ribatti tra Romolo e Vincenzo sul ruolo della giustizia, sulla sua mancanza, sui tribunali mediatici che soppiantano la giustizia ordinaria, e via discorrendo. Dove Romolo va sempre dritto sulla sua strada, puntando a farsi giustizia da solo e Vincenzo è combattuto tra fare l’avvocato d’ufficio del mafioso, il paciere tra le varie parti, il sostenitore del ruolo dei tribunali, ed altro ancora. Questo lungo plot attraversa quasi tutto il libro, ne è in un certo senso la spina dorsale, avendo, come è giusto che sia, una sua fine ad un certo punto. Quale e come sia, non lo diciamo qui. Ma il lungo excursus serve solo a Vincenzo per entrare ed uscire dai suoi pensieri e dar vita a due sotto filoni narrativi, questi veramente lontani anni luce da qualsiasi pittura giallognola. Il principale sotto filone, che deriva dritto dritto dal libro precedente, è il rapporto di Vincenzo con le donne. Con l’ex-moglie Nives, assolutamente antipatica, ma con cui, per non si sa quali motivazioni, Vincenzo ogni tanto si ritrova a letto. Con la nuova compagna Alessandra Persiano con cui sembrava aver intavolato un buon rapporto che qui si deteriora e finisce, anche perché l’ottima Alessandra sa o subodora che Vincenzo “intinga il biscotto” anche in altre bevande. La vicenda è discretamente confusa, perché Vincenzo si intortora in autocommiserazioni di poco peso e molta lungaggine ed Alessandra, in pratica, non viene mai coinvolta in una discussione, in una spiegazione. D’altronde, sfruttando l’esposizione mediatica avuta nel sequestro, Vincenzo è coinvolta in altre avventure a sfondo sessuale con giovani ventenni o poco più, che, fortunatamente, non sembra possano passare oltre il segno delle fantasie oniriche. L’altro sotto filone riguarda Assunta la suocera, sì quella del titolo, che, qui lo dico subito, di certo non beve, checché ne dicano Vincenzo, l’ex-moglie ed i due nipoti. Ma che si scopre ha il cancro, motivo per cui decide che è tempo di dire pane al pane e vino al vino, rimandando verso le persone a lei vicine tutte le cose buone e/o cattive che ha vissuto nella sua vita. Facendo, come è ovvio, delle grosse chiusure verso la figlia di cui non ha mai sopportato l’arroganza. Le parti con Assunta non superano a occhio il 10% del libro, e non si capisce perché viene ad occupare gran parte del cartellone. Quasi a farci sperare ogni volta che prenda la scena, nei suoi dialoghi con Vincenzo. Ma così non è. Rimangono le lunghe palle discorsive che il nostro avvocato si mena tra sé e sé, che la prima si legge, la seconda si sopporta, le altre risultano fastidiosamente ed inutilmente presenti. Una cosa per finire, ritornando su quel dispetto che il buon Diego mi ha fatto, e di cui ho già in altre trame avuto modo di dolermi: l’utilizzo dei testi delle canzoni per sottolineare momenti della vita. Non torno sopra, anche se forse sono gli unici momenti che mi hanno divertito, incuriosito e coinvolto. Soprattutto la parte dedicata all’Equipe 84, con Maurizio Vandelli, Victor Sogliano, Alfio Cantarella ed alle tastiere, cosa che De Silva non ricordava, Thomas Gagliardone. Per ricordare, io, con lui e l’Equipe, la mitica “Diario”, con il testo di Dario Baldan Bembo. Mitico! E mitiche le altre canzoni del mio ricordo della band, in particolare “L’antisociale” su parole di Guccini. Il resto del libro, l’ho già dimenticato.
“Il futuro è passato, e non ce ne siamo nemmeno accorti” [da ‘C’eravamo tanto amati’ di Scola] (296)
Katia Tenti “Ovunque tu vada” Repubblica Italia Noir 29 euro 7,90
[A: 13/12/2016 – I: 28/01/2019 – T: 30/01/2019] &&---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 411; anno: 2014]
È un vero peccato che una fluente scrittura ed una trama con degli spunti interessanti di intreccio e di riferimenti (ambientali soprattutto) sia annegata in una lunghezza sproposita ed inutile per la resa del romanzo stesso. La scrittrice, stando alle note, dovrebbe essere al suo primo romanzo, e dal modo di scrivere e dal modo di porgere le idee sembra una persona di buone doti affabulatorie. Anche l’ambientazione bolzanina è di gradevole impatto, anche perché non di frequente usata nei romanzi e soprattutto nei gialli. Infine, l’idea base di seguire le vicende del Pubblico Ministero Jakob Dekas è di buona lena: non seguiamo un delitto, un intreccio isolato, ma la quotidianità di una procura della Repubblica, con la molteplicità dei casi che arrivano (qui ce ne sono tre) che casualmente hanno o possono avere punti in comune. Quotidianità che si riflette anche nel personaggio Dekas stesso che seguiamo con le sue manie e con il suo presente, che ovvio deriva dal suo passato cui spesso si torna. Qui cade il castello del romanzo, che seguendo tutto e tutti, tanta carne al fuoco viene posta, carne con diversi gradi di cottura, che quindi alla fine non risulta omogenea: chi troppo cotta, chi cruda, chi (forse) a punto. Quindi non solo le tre storie e Dekas, ma incontriamo anche le vicende del suo aiuto Vittoria e del suo maresciallo di riferimento, il buon Barra. Con Dekas ci imbattiamo anche nella sua amante di passaggio (che non è ancora, o non sarà mai in grado di avere una relazione stabile) Claudia. Inoltre, nei flashback, sovente reiterati, in Lauretta, il suo grande amore ai tempi universitari padovani, e Alberto, amico di allora e forse di sempre. Questa storia, che dovrebbe caratterizzare il Dekas attuale, è tuttavia spalmata a lungo nel romanzo, con frequenti su e giù, anche d’umore. Tanto che alla fine viene un po’ a noia, che, in fondo, conoscendo gli anni ed i luoghi, sembra un po’ scontata (come se si tornasse, con qualche cambiamento di fondo, a Carlotto ed ai suoi anni giovanili). Anche le tre storie che si intrecciano sono di molto allungate, introducendo nuovi personaggi, andando a vedere chi sono, che fanno, ed altre lungaggini. Riempendo il libro di nomi su nomi, che alla fine sembrano tutti uguali. Che a volte mi imbattevo in una persona, e mi domandavo: era già stata introdotta? A quale storia appartiene? Perché sì, ci sono le tre storie, ma sono poco “gialle”, sono quasi più sul versante “legal thriller”, dove aspettiamo di vedere se i colpevoli, acclarati, saranno presi, processati, condannati. La prima è una storia di stalking ante-litteram. Uso questo termine perché (e non so né è spiegato il motivo) le vicende si svolgono nel 1999, quando in Italia non esisteva una legge che reprimeva e controllava questi comportamenti. Milena è perseguitata dalla sua vecchia fiamma Antonio, con il quale aveva avuto una relazione, da anni troncata. Antonio le telefona ogni mattina, la segue nel percorso verso l’ufficio. Milena chiede aiuto a Dekas, ma senza violenze, all’epoca, non si poteva far nulla. La storia si complica quando Dekas scopre che Milena ha un figlio, che Antonio sostiene essere suo, e che invece è di tal Lukas, avvocato di spicco presso cui Milena un tempo lavorava, ma ben sposato e controllato dalla moglie. La seconda vicenda si interseca alla prima, quando Otto, un ottuagenario forse ricco, forse solo ricattatore, che vive sulle spalle di Lukas e famiglia, viene trovato morto nella villa dell’avvocato. Si scoprirà con fatica che la morte non è accidentale, ma Lukas fugge a Vienna prima di essere arrestato. La terza storia è invece tutta sghemba, e riguarda la denuncia per molestie sessuali della ventenne Verena, che sostiene di essere stata molestata dieci anni prima dal parroco del luogo, don Daniele. Dekas è dubbioso, mentre Vittoria, la sua spalla, è convinta della storia di Verena. Quindi tutta la lunghissima terza parte del libro è dedicata ai brandelli di indagine che vengono fuori. Alla ovvia colpevolezza di Antonio, ma vedremo solo nel libro come. Alla ricerca di incastrare Lukas pedinando giorno e notte la moglie, ed avendo un riscontro solo dopo alcuni mesi. Alle difficoltà, allora come ora, di entrare nell’omertà curiale per trovare le prove (e ce ne sono forti) della colpevolezza di don Daniele. Con tutte le scontate propaggini che tutto ciò comporta. I sensi di colpa di Dekas che non può far nulla contro Antonio se questi non fa qualcosa contro Milena. Le coperture che la casta avvocatizia fornisce a Lukas. Le coperture che la Curia fornisce a don Danilo. Tutto alla fine avrà una sua logica conseguenza, in due sottofinali che si vorrebbe conclusivi ed esplicativi, anche se lasciano punti sospesi. Come il terzo, che non vi dico, e che è una palese sponda verso una seconda puntata delle avventure del buon Dekas. Rimangono comunque molti, tanti punti in sospeso. Ad esempio, il primo capitolo con la storia della giovinezza di tal Nuccio, che prende una decina di pagine, come se dovesse acclarare chi sa cosa, e che si risolverà in una nota a piè pagina, più o meno, anche se significativa. Ma che, nelle more delle scritture gialle, dovrebbe avere più senso. Come non si sa che fine abbia fatto ed anche chi sia in realtà, il don Domenico, sodale teologico di don Daniele. Questo sempre per quell’idea balzana di scrivere di tutto e di tutti. Ricordo sempre che l’immenso Flaubert diceva che dopo aver scritto un libro, bisogna sedersi, e tagliare, tagliare e tagliare. Ultimo cenno, i riferimenti ambientali che dicevo sono comunque graditi. Sia dal punto di vista geografico, quando si parla di Bolzano e di altre cittadine sud-tirolesi. Sia dal punto di vista gastronomico, citando piatti e bevande locali che si vorrebbe provare, prima o poi.
Gianni Materazzo “I labirinti della memoria” Repubblica Italia Noir 25 euro 7,90
[A: 15/11/2016 – I: 16/03/2019 – T: 19/03/2019] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 254; anno: 1993]
Nonostante possa provare un sentimento di riconoscenza verso Gianni Materazzo per un paio di cose che ha fatto nella sua vita, questo quarto episodio (di cui mi scuso per non aver letto i primi tre) delle vicende noir dell’avvocato Luca Marotta mi ha lasciato indubitamente freddo. Allora comincio nel tributare omaggio all’autore per aver reso a fumetti un romanzo di Loriano Macchiavelli, uno dei numi tutelari del noir italiano. Ma ancor di più per aver fondato nella sua Bologna il negozio per l’infanzia “Città del Sole”. Il nostro, poi, nel 1989, vince il Premio Tedeschi con “Delitti imperfetti”, il primo libro della serie imperniata su Luca Marotta, e che verrà magistralmente interpretato in una serie televisiva da Gioele Dix. Qui, come detto, siamo al quarto ed ultimo episodio. Laddove Marotta si sposta dall’abituale Bologna, normale teatro delle sue vicende, nel borgo natio di Fallascoso. Che non è una città inventata come sembra farci voler credere, ma una frazione della ben nota Torricella Peligna, città natale, tanto per dirne una, di John Fante. Qui, nel borgo teatino, Luca si ritira ogni tanto, circondato da amici e conoscenti, e qui lo richiama l’amico Ferruccio, insospettito dall’inusuale morte di un vecchio valligiano, tal Marzialino, incidentalmente cugino di Ferruccio. Luca comincia ad indagare, avendo subito impresso lo strano modo della caduta di Marzialino, nonché la presenza di una quasi impercettibile ferita allo sterno. Scontrandosi puntualmente con le forze dell’ordine locali, che vorrebbero chiude in fretta l’episodio come marginale e poco significativo, Luca coadiuvato da Ferruccio indaga, interroga, e disvela ombre. L’atmosfera è molto “d’epoca”, anche perché il racconto risente dei 26 anni trascorsi dalla scrittura. Non ci sono più molte delle ombre che potrebbero nascere dalle pieghe del testo. Forse non c’è più neanche quell’atmosfera da borgo felice (ma pieno di misteri) che una volta poteva essere descritto e reso teatro di azioni di interesse. Qui, d’interesse c’è poco, ed abbastanza presto si intuisce la piega verso cui scivola il racconto. C’è la grande famiglia locale, i Crocenanni, con l’ultima erede, e solitaria, dell’un tempo favolosa fortuna: Beatrice, più che cinquantenne eccentrica ed impaurita. Sottolineo cinquantenne, che significa nata durante la guerra. C’è la sua amica del cuore, nonché protégé, la professoressa Lena Martucci. Figlia di n.n., empatica verso i disadattati, che farà anche un passaggio (poco significativo nevvero, ma esistente) nel letto di Luca. C’è l’amico Ferruccio, nascostamente ma da anni legato da tenere effusioni con Beatrice. C’è Domenico, detto Mingo, sordomuto dalla nascita, figlio della domestica Vincenzina. C’è il medico condotto, Gegé, logorroico ed amante della caccia. C’è il di lui padre Cesare, privato della vista durante la guerra di un maldestro colpo di fucile. C’è, infine, il misterioso professor Moritz, un archeologo tedesco che sembra essere venuto in loco per studiare i resti dell’antica Juvanum, loco romano esistente tra Torre Peligna e Montenerodomo. Ma tutti sanno anche che la zona fu teatro di battaglie, situata sulla famigerata “Linea Gustav”, e che Marzialino era anche una staffetta partigiana. Agnizione dopo agnizione, Luca smonta le varie sovrastrutture del racconto, anche se noi lettori ne veniamo coinvolti solo marginalmente. Il tutto per arrivare all’uccisione del tedesco nella cappella di famiglia dei Crocenanni. Da qui, l’indagine ed i personaggi prenderanno ritmi ed atteggiamenti diversi. Scompare pian piano Ferruccio, che poso apporta alla vicenda. Esce alla luce (nel buio della cecità) Cesare che aveva riconosciuto, nella descrizione fattagli, il tedesco come un caporale che non solo durante la guerra spadroneggiava, ma che era responsabile della sua menomazione. Che lui Cesare, aveva cercato di fermarne le effusioni verso Anita, la madre di Beatrice. Effusioni che Beatrice stessa aveva intuito e che da allora, in modo figurato, vengono a turbare i suoi sogni. A parte Ferruccio e Gegé, quindi, tutti gli altri sono sospettati e sospettabili della morte di Moritz. Beatrice perché il tedesco aveva stuprato la madre. Cesare perché il tedesco lo aveva accecato. Mingo perché il tedesco poteva essergli padre e poteva voler fuggire con gli ori trafugati durante la guerra. Lena per un sentimento di rivalsa e ribellione alla vita grama. Il tutto scorre senza troppa presa, arrivando a conclusioni scontate da tempo. Non solo, ma lasciando alcuni interrogativi irrisolti, cosa che, alla faccia di Van Dine, non si deve fare. Ultimo elemento che cito, e su cui un po’ gioca l’autore: la zona fu autoproclamata da Benedetto Croce come suo luogo natio, da cui quel cognome sempre presente nel testo.
“Una madre deve fare la madre. Se vuol fare l’attrice è meglio che non metta al mondo dei figli.” (184)
Michele Catozzi “Acqua morta” Repubblica Italia Noir 34 euro 7,90
[A: 26/01/2017 – I: 20/03/2019 – T: 23/03/2019] && +
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 357; anno: 2015]
Un libro interessante, non riuscitissimo, ma con alcuni spunti. Intanto relativi all’autore, Michele Catozzi di Mestre. Sottolineo di Mestre che si sente amore-odio dei mestrini verso Venezia. Anche perché mi ha fatto fare un balzo di una cinquantina d’anni indietro, alle mie allora frequentazioni locali. Non con una veneziana, che la mia ragazza d’allora era udinese. Ma, studentessa d’architettura, stette per un periodo a Mestre (discreto) e poi un anno alle frezzerie di San Marco. E fu vera gloria, senza nessun richiamo alle ardue sentenze. Tornando al libro, anche il protagonista è mestrino, il commissario Nicola Aldani (qui alla prima uscita, che poi il buon Catozzi ha prodotto altri due romanzi con Aldani al centro), in procinto per tutto il libro di trasferirsi da Venezia a Mestre (cosa che comprendo per i problemi di avere una famiglia numerosa, ma biasimo perché, da forestiero, non scambierei mai le due città). C’è un filone “noir” che percorre tutto il libro, ma che è di facile decrittazione. Una trentina di anni prima, in quel di Sant’Elena, una coppia in effusioni viene aggredita. Lui massacrato e ucciso. Lei forse stuprata (o forse lo era già) ed in stato di shock, da allora e per molto tempo. tanto che con la madre ed il fratello si trasferisce a Londra, dove, all’inizio del libro, muore definitivamente. Con il fratello che torna nella natia Venezia per chissà quale vendetta. Questo filone sarebbe occultato e poco rilevante (il fatto si risolse senza nessun colpevole trovato), se non avvenisse la strana morte di tal Mirco Albrizzi, di una delle famiglie più note della città. Non solo, ma legato mani e piedi agli ambienti traffichini e politici del Veneto e non solo. È nipote di un senatore, è sodale con il governatore della regione (che di nome fa Nereo, quasi a ricordare tal … Laroni, che qualcuno ricorderà sodale craxiano all’epoca ed ora fedele di Zaia), fa affari loschi con la cosiddetta ex-moglie (che poi si scopre non essere neanche ex), ed ha un avvocato ed un ragioniere che gestiscono affari poco puliti. Mirco viene trovato ucciso con un colpo di pistola, nelle acque basse di un rio quasi asciutto (da cui il titolo, o almeno l’idea dello stesso). E poco dopo si trova morta anche la sua amante, una escort di colore, con casa messa a soqquadro (sono contento di poter usare finalmente l’unica parola italiana con due “q”!). Aldani indaga, collega, confronta, e qui esce fuori la parte più sentita e meno riuscita. Mirco era uno dei fondatori della Banca Veneta, cassaforte della destra locale, ed altro ancora, con intrecci tra malaffare, politica, nascita di centri commerciali ed altre astruserie. Catozzi cerca di darci un quadro dei possibili intrecci, un’idea dei flussi monetari poco puliti, delle malversazioni ed altro. Ma, pur documentato e con molte attinenze al reale, lo scritto non assurge a livelli da Gomorra o da Suburra. Vediamo, leggiamo, capiamo, ma un po’ ci si perde. Ed anche se questo rimane un filone interessante da seguire per capire fino a che punto sia corrotta la società veneta in primis ed italiana in generale, la svolta (almeno nella testa di noi lettori) arriva quando anche Aldani, con l’aiuto di un poliziotto in pensione, collega Mirco alla morte della fanciulla di cui all’inizio. Mirco era il fratello di Laura e Tommaso. Ed è proprio Tommaso che lo va a cercare dopo la morte di Laura. Qui si intreccia duramente il personale e il politico. Che Mirco sa che la sua Banca versa in pessime acque. Tanto che negli ultimi mesi trasferisce all’estero milioni di euro dei suoi conti personali. Probabilmente per inscenare una morte fittizia e riparare all’estero con l’amante. Dubbi sorgono allora nella mente di Aldani: sarà veramente Mirco il morto? E dove è finito il fratello Tommaso scomparso poco dopo l’arrivo a Venezia? Non è che qualcuno, scoperti gli altarini di Mirco, assolda un killer per far fuori lui e l’amante? Non vi dico gli ultimi drammatici momenti finali. Solo che nel cloud della rete (retaggio della parte informatica di Catozzi), Aldani trova le prove delle ruberie della Banca. Ed i vari mestatori, locali e nazionali, dovranno renderne conto. Sapremo anche (ma già si capisce purtroppo dalle prime dieci pagine) chi ha ucciso il fidanzato di Laura. E finiremo, questo ve lo posso dire, con finalmente il trasloco di Aldani in quel di Mestre. Un punto in più nelle considerazioni tramanti è per la citazione a pagina 54 di una similitudine Uderziana: il fabbro che viene ad aprire la cassaforte del morto viene paragonato ad Automatix, quello con i baffoni che era sempre in lite con il vicino bottegaio, il pescivendolo Ordinalfabetix. Grande ed indimenticabile Asterix. Invece chissà se si avrà voglia di affrontare la “Laguna Nera” del secondo romanzo.
Seconda tram, ed un allegato che farà contenti i russofili doc, e non quelli attuali, d’accatto e di ricatto.
Per il resto, proviamo a vedere se al mare l’aria è più fresca. A Roma non si respira.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
LUGLIO  2019
Sono perplesso, ma riporto per dovere di cronaca e commento nel finale.
SANTARELLINI, FARE I
Michail Bulgakov       “Il Maestro e Margherita”
Quando in una bella serata di primavera degli anni Trenta il diavolo appare in un parco di Mosca, si inserisce tra due tizi eruditi, impegnati in una profonda discussione su una panchina. Uno è Berlioz, il calvo, corpulento direttore di una rivista letteraria. L’altro è Bezdomny, un giovane poeta. Il diavolo non ha problemi a prendere il controllo della conversazione - che riguarda l’esistenza o meno di Gesù Cristo. Il diavolo infatti, che indossa un costoso completo grigio, scarpe «straniere», un berretto grigio piegato allegramente su un occhio, ha più carisma di entrambi gli uomini messi insieme. «Oh, che bello!» esclama quando i suoi due nuovi amici gli confermano che sono atei. Il diavolo ha una mentalità imprevedibile e infantile, si annoia facilmente ed è sempre in vena di scherzi - soprattutto se a spese di qualcun altro. Ora scoppia a ridere, in maniera abbastanza sguaiata da «spaventare i passeri sull’albero», l’attimo dopo predice la terribile morte di Berlioz, che sarà decapitato da un tram (e succede davvero). Quando Berlioz gli domanda dove abiterà durante il suo soggiorno a Mosca, strizza l’occhio e risponde: «Nel vostro appartamento».
Il diavolo ci sa fare, è arguto. Come in “Paradiso perduto”, ha le migliori battute e tiene sempre tutti sulle spine. Quando Bezdomny sente il bisogno di una sigaretta, il diavolo -o il professor Woland, come si legge sul suo biglietto da visita - gli legge nel pensiero e tira fuori un impressionante portasigarette d’oro con la marca giusta. Lui e il suo bizzarro seguito - che comprende un gatto grosso, rozzo e con un debole per la vodka chiamato Behemoth - stupisce il pubblico a teatro facendo apparire sul palcoscenico una collezione di haute couture parigina - cappelli, abiti, borse, rossetti - e invitando le signore a spogliarsi e rivestirsi.
Ovviamente, il diavolo dà anche le feste migliori. Mosca non ne ha mai viste di simili, e non ne vedrà più: un ballo a mezzanotte, sotto la luna piena, con l’ospite d’onore (Margherita) cosparsa di sangue e di rose. Le fontane sono piene di champagne, e pappagalli dal petto scarlatto gridano: «Estasi! Estasi!». L’orchestra è diretta da Johann Strauss. Questo è il diavolo, però, e non è tutto divertimento e giochi innocenti. A parte Margherita, gli ospiti della festa arrivano in vario stato di decomposizione, perché provengono direttamente dall’inferno.
Non vi stiamo suggerendo di rinunciare alla bontà e votarvi al male. Stiamo solo dicendo che dovreste spassarvela un po’, imparare a vivere. Non andate in giro a staccare teste come fa Behemoth, ma organizzate feste scandalose. Abbiate sempre un lampo di malizia negli occhi, una scheggia di malvagità nella manica. Sarete molto più divertenti.

Bugiardino

Forse anche altrove ho parlato di Bulgakov, del Maestro, di Margherita, e della mia amica Nicoletta che adora gli scrittori russi. Io ho sempre difficoltà nel leggerne (tanto che spesso prendo e lascio Dostoevskij). Ed il mio commento ne è una riprova.
Michail Bulgakov “Il Maestro e Margherita” Repubblica Novecento euro 4,90
[tramato il 13 maggio 2012]
Si può parlare male di un capolavoro? Io, continuando nell’opera di sincerità soprattutto verso i classici, dico di sì. E lo dico per tutti e due i termini. Cioè, è un capolavoro, indubbiamente. Ma altrettanto chiaramente non mi è piaciuto. È un’opera senza dubbio complessa, piena di scrittura, e piena di giochi, rimandi, citazioni, descrizioni possibili di situazioni impossibili, travestimenti del reale. E via discorrendo. Ma non mi prende, non mi coinvolge. La maggior parte degli accenni (ed anche qualche punto di scrittura) lo trovo datato, senza che riesca a resistere all’usura degli anni. Gli unici tre capitoli che mi sono rimasti, che ho letto con voluttà, sono quelli dedicati a Ponzio Pilato, al Nazareno, a Levi Matteo. Potenti, da mettere vicino (e sopra) alle altre prove di diversa scrittura degli stessi episodi (De Luca, Schmitt, Baricco tanto per citare gli ultimi che ho letto). Ma il resto? Il diavolo Woland che si aggira per il mondo con il suo stuolo di cortigiani. Il gatto Behemoth, il gobbo, Azazello, e via citando. Personaggi immaginifici che fanno cose mirabolanti (fuggono con fornelli, si aggrappano a lampadari per non essere colpiti dalle pallottole, ipnotizzano migliaia di persone scambiando etichette di bottiglie con rubli sonanti, e via magicando), ma di cui non seguo, non capisco i nessi. I motivi delle loro belle o turpi azioni. Da quel punto di pista, si seguono meglio e si comprendono (proprio perché in trasparenza si vedono difetti umani sempre presenti) i vari personaggi russi: il letterato Berlioz che perderà (letteralmente) la testa, il poeta che comprende l’inutilità dei suoi versi, tutta la gente di spettacolo, dall’organizzatore al direttore del teatro, il cuoco. Insomma, tutti i vari meschini individui che cercano dei loro piccoli tornaconti particolari. E che Woland ed i suoi smascherano senza (giustamente) alcuna pietà. Nessuna pietà, questo il motto di Bulgakov. Nessuna pietà per chi inganna, chi cerca il proprio piccolo tornaconto personale quando intorno ci sarebbe il teatro per dare spazio a grandi avvenimenti. A storiche prese di posizione. Tutti dovrebbero fare un esame di coscienza. E fare i passi misurati alla propria gamba. Di una ferocia, ed attualità straordinaria il passo in cui i due diavoli cercano di entrare nel circolo degli scrittori, e vengono fermati perché non hanno la tessera. Perché solo se qualcuno certifica chi sei tu, allora tu sei quella persona. Come dire che senza un pezzo di carta Shakespeare non sarebbe Shakespeare, perché non è sufficiente quello che scrisse. Che d’altra parte viene letto e censurato, ed il più delle volte nascosto. Così come succede al libro del Maestro. Che non viene capito perché “troppo avanti”. Ed il Maestro viene stritolato dagli ingranaggi degli apparati burocratici, tanto da rasentare la follia. Si salverà, sarà salvato, soltanto dall’amore della bella Margherita. Che lo ama (e qui c’è veramente un canto d’amore altissimo) al di là di ogni apparenza e convenienza. Perché Bulgakov ci dice che quando c’è, l’amore viene fuori, si manifesta. E bene o male trionfa. Anche se per trionfare deve passare mille prove, e superare mille ostacoli. E magari, non sarà come ce lo aspettiamo. In un mondo che non può riconoscere il loro amore, la loro esistenza, il Maestro e Margherita non hanno spazi. Meglio morire, e continuare, immortali, a vivere il proprio rapporto, via da questa pazza folla che ci circonda. Ecco, ho ripreso altri passi che non possono che ri-sottolineare la natura eccezionale dello scritto. Ma proprio per come sono espressi, me li hanno fatti sospirare. E leggere con fatica. Arrancando per più di dieci giorni intorno alle 400 pagine dello scritto. Certo, e concludo, non si può scindere il romanzo dall’autore. Che Bulgakov è tutto in questo libro (ci si ritrovano tutte le invenzioni, le ironie, ed i dolori di tutte le sue altre opere). Un libro che lo accompagna gli ultimi 15 anni della sua vita. Ma che vedrà luce e fama solo molti decenni dopo la sua morte. Concludo, dicendo tuttavia che, benché non mi abbia coinvolto, benché continuo a vederne i limiti verso il mio modo di leggere ed interpretare il mondo, ritengo che sia in ogni caso un libro da leggere. Magari qualcuno più in gamba di me lo troverà più facile e me ne illuminerà le parti oscure. Aspetto con ansia.

Conclusioni

Non so se Bulgakov sia contento di essere inserito tra i santarellini, o tra coloro che devono dirazzare per essere felice. Io non sono convinto del libro, che continua a non piacermi. E non sono convinto della collocazione terapeutica.  Come già detto, aspetto superiori spiegazioni.

  

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