domenica 14 giugno 2020

I Duemila di Repubblica - 14 giugno 2020


Eugenio Scalfari “La ruga sulla fronte” Repubblica Duemila 20 euro 9,90
[A: 27/06/2017 – I: 14/02/2020 – T: 16/02/2020] - &&& --
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 313; anno 2010]
Eugenio Scalfari ha una sua scrittura che devo dire seguo da sempre. Sui settimanali, su Repubblica, e sui libri di economia – politica che lessi veramente tanti anni fa. Questo, invece, è il primo romanzo del grande giornalista che mi trovo sottomano. Ben congeniato, con alcuni punti mirabili, ma con una res complessiva non completamente soddisfacente. Per me la cosa migliore è stato il prologo dove Scalfari riesce a renderci il turbinio di idee e sensazioni che passano nella testa e negli occhi del “vecchio” Andrea Grammonte, che ripensa a molti passi della sua vita, mescolandoli, affastellandoli nei sensi, nella vista e nella memoria. E rende benissimo questo crepuscolo della vita che ho visto in alcune situazioni che non sto qui a ripercorrere (ma potete immaginare). Il resto, tutto il resto del romanzo è in tono minore, anche se, con indubbie capacità, l’autore ci fa ripercorrere tutta la vita di Andrea, le sue scelte personali, le sue scelte pubbliche e tutto quanto ruota intorno al mondo dei “soldi”, della politica e degli affari in una visione rapida di quasi sessanta anni di storia. Una storia seguita sempre un passo dietro al “capitano d’industria” Andrea, alle sue scelte di vita, ai suoi incontri, alle sue decisioni. Una vita da alta società, famiglia ben collocata, forse da non molto affacciata alle soglie dell’aristocrazia, ma con un sicuro impero economico alle spalle. Il padre di Andrea che fa un matrimonio chic con la francese di rango, una famiglia divisa tra il maggiore Filippo, malato, forse autistico, ma sicuramente out, ed il rampollo Andrea, cui vanno le attenzioni. Morto il padre, e relegata la madre all’estero perché “si permette” di frequentare altre persone, Andrea rimane sotto la cappa protettiva del nonno. Lì cresce, un po’ blasé, un po’ sciupatore (di femmine, di situazioni, di amicizie). Scalfari ha comunque un moto di indulgenza, che si ripercuote lungo tutto il romanzo. Sì, Andrea è un capitalista abbastanza corrotto, ma ha anche alcune sue direttrici morali. come quando decide di partire comunque in guerra, dove farà il suo, e troverà il sergente calabrese che si rivelerà una pedina importante in un momento difficile. Va con le donne, va con la puttana Cloé, che sempre lo accoglierà, e sempre sarà pronta. Poi c’è l’incontro con Laura, un alter ego femminile che sarà sempre alla sua altezza e per questo non sarà mai sua. Certo avranno storie, ma altrettanto con certezza sarà un’amicizia profonda e duratura. Laura dà il tocco di erudizione che al rampollo poco propenso alla cultura manca e non colmerà mai. Da un certo punto in poi, Andrea prende il centro della scena. Il nonno si ritira, e vediamo l’industriale gettarsi nella mischia della politica e dell’economia. Qui, purtroppo, torna la parte meno agevole degli scritti scalfariani. Lui che sa di politica e di economia, e che ben conosce gli intrecci che hanno portato alla crescita di colossi industriali come la Montedison o la Fiat, e di nodi economici, come Mediobanca sul fronte privato o IRI sul fronte pubblico, si lascia trasportare da queste sue passioni, ed ogni tanto imbastisce pagine troppo pesanti per un romanzo. Certo, a leggerne e saperne, esce fuori quanto Scalfari vorrebbe farci vedere sulle distorsioni che politica ed economia hanno portato nel tessuto pubblico italiano. Sarebbe stato meglio rimanere a seguire meglio i personaggi. Ma è un peccato che possiamo condonare. Anche perché, con un ultimo sforzo, Scalfari fa entrare sulla scena altri due elementi forti del panorama italiano di questi sessanta anni. La mafia ed il terrorismo. C’è il rapimento di Filippo, che la mafia comandata a bacchetta dal sergente calabrese di cui sopra fa rientrare senza troppi guasti. Elementi che ripropongono in filigrana rapimenti italiani e, guardando più a lungo termine, storture arcoriane ancora di là da venire. E c’è il terrorismo. O meglio, l’atmosfera delle Università dal ’68 al ’77, prima con i cortei, in cui entrano in scena i vari Capanna d’antan, e la figura del giovane Lorenzo, prima amante della Laura di cui sopra, poi sodale nel Movimento, poi in clandestinità al tempo delle Brigate Rosse. Anche qui, poco si addentra nelle motivazioni e nelle scelte di quel periodo, anche perché il discorso sarebbe lungo e poco romanzesco. Scalfari ne fa cenni, anche forse per un certo timore di andare un po’ fuori tema. Non è facile coniugare Confindustria e BR in una stessa trama seppur romanzata. Con tutto ciò il romanzo si avvia verso un mesto finale, senza vinti né vincitori, senza passioni, e forse anche senza troppe illusioni. Rimane quella ruga sulla fronte di un capitalista forse un po’ vecchia maniera. Una ruga come tratto somatico. Noi la vediamo con una ruga di pensiero, un corruccio di avere la possibilità di fare altro, e rimanerne difficoltosamente fuori. Poco si sente della presenza e dell’influenza del mondo della carta stampata, che meglio di altri lo Scalfari giornalista avrebbe potuto presentarci. Tuttavia, forse proprio per questo, lo scrittore decide di tagliare fuori il giornalista. Chiudendo un romanzo generalmente di piacevole lettura, forse con qualche lungaggine di troppo, e qualche decisione, questa sì politica, che non sempre condivido.
[A: 25/07/2017 – I: 20/02/2020 – T: 24/02/2020] - && ---
[tit. or.: A Heartbreaking Work of Staggering Genius; ling. or.: inglese; pagine: 507; anno 2000]
Questo è uno dei libri che ho sempre pensato di aver letto, fino a che non mi è capitato di controllare i miei appunti e scoprire che non è vero. Ma il titolo mi era sempre rimasto impresso, ed in effetti, molto tempo fa, avevo letto il suo secondo libro (“Conoscete la nostra velocità”) ed ho sempre confuso i due. Ora, letto a venti anni dalla sua uscita, mi ha lasciato più freddo di quanto pensassi. Una sorta di Holden non più così giovane, che parla di sé e del proprio mondo, attraversato dalla tragedia familiare della morte dei genitori. Un Holden che ha letto “Lo zen e l’arte della manutenzione della moto”, e che, apprendendo la lezione, decide di raccontarsi con lo spirito di qualche saggio alla DWF. A libro chiuso, devo dire che sono d’accordo con le considerazioni inziali che Eggers fa nella prefazione intitolato “Regole e suggerimenti per apprezzare al meglio questo libro”. La parte migliore sono i primi 3 o 4 capitoli, dove vediamo i due eroi tragici (nel senso greco del termine) del libro, lo scrittore (poco più che ventenne) ed il fratello minore Toph (di quasi dieci anni), agire in maniera eccentrica rispetto al lutto subito. Da una parte subendone il dolore, dall’altra rifiutando le responsabilità che una doppia morte ed una conseguente necessità di prendersi cura di sé stessi. Risaltano anche, seppur meglio la parte materna, i due genitori. Morti a distanza di un mese, entrambi di cancro. John il padre, che risulterà violento, alcolista e assente. Heidi la madre, ricordata in alcuni atteggiamenti pre-malattia, ma approfondita nella descrizione durante il calvario delle ultime settimane che la porteranno alla tomba. Anzi, non alla tomba, che i genitori decidono di essere cremati, cosa che provoca in Dave scompensi futuri, quando non sapendo dove siano finite le ceneri, intraprende un piccolo viaggio verso le sue radici per ritrovarle. Ma Dave risulta sempre fuori tema e fuori tempo. Come se i venti anni trascorsi siano serviti a poco. E Toph è sempre utilizzato come contraltare con una maturità di atteggiamenti e di linguaggio poco consoni alla sua reale età. Degli altri personaggi, in realtà me ne rimangono a mente pochi. O forse solo le donne che per qualche motivo ruotano intorno a Dave. La sua fidanzata storica Kristen, anche lei orfana, e che con la famiglia Eggers si trasferisce in California. Ma si capisce che il rapporto è alla fine, e lei ben presto si allontanerà, insultata ospite. La collega della rivista (rivista su cui torniamo) Shalini, presa nel momento tragico della sua entrata in coma in seguito ad una caduta. Ed alle visite ed ai discorsi che Dave le fa andandola a trovare in ospedale. E Marny, anche lei un’amica che lo segue un po’ ovunque, anche nelle sue imprese strampalate, e che piace quando rifiuta le sue avances, troppo amica per diventarne amante. Per riprendere il discorso inziale e collegarlo alla rivista, dopo il trasferimento dalla natia e fredda Illinois nella solare California (con le peripateticità nel cercare casa intorno alla baia di San Francisco), c’è tutta una parte centrale, fin quasi ai capitoli finali, che ruota intorno al tentativo di Dave e dei suoi amici di produrre e poi lanciare una rivista alternativa. Nello stile degli “outsiders” di Frisco, e dal nome accattivante e duplice “Might” (che indica sia forza che possibilità). Rivista dissacrante che seguiamo lungamente in dibattiti, uscite, pezzi di articoli, notizie sparse. Ma è una parte che risulta lunga e deleteria per il ritmo del racconto. Una parte in cui spesso perdiamo di vista Toph, e ce ne dispiace. Per poi finire nell’ultima parte con quella ricerca delle ceneri perdute dei genitori, e della probabile inutilità sia della ricerca sia dell’eventuale trovata delle ceneri stesse. Sebbene con molte parti tangenzialmente deviate, il libro in realtà è realmente un “memoir” che ripercorre la vita di Dave tra il ’92 (anno della morte dei genitori) ed il ’97. Con molti amici riportati con il loro vero nome (ad esempio, i collaboratori di “Might”) e non è un caso che su “Might” stesso sia apparso almeno un articolo di DWF (un saggio sul sesso ai tempi dell’AIDS). Ma quello che rimane, quello che mi rimane, è comunque sempre la prima parte. Quella con il dolore, ancora non sopito, della morte della madre (e lì ti seguo benissimo) e quella sulla difficoltà/impossibilità di assumersi compiti più grandi di quelli che si possono assumere a 20 anni. Come quella di crescere un fratello di quasi quindici anni più piccolo (impagabili i momenti di panico di Dave che cerca di rimorchiare ragazze, lasciando Toph solo ed immaginandosi le peggio catastrofi). Tuttavia, alla fine, il libro è immotivatamente lungo, e, ripeto e concludo, poco coinvolgente dalla metà in poi. Va bene essere ironici, ma ci vuole misura.
Javier Cercas “Anatomia di un istante” Repubblica Duemila 32 euro 9,90
[A: 11/09/2017 – I: 11/03/2020 – T: 15/03/2020] - &&& e ½
[tit. or.: Anatomia de un istante; ling. or.: spagnolo; pagine: 504; anno 2009]
Di certo il 1981 fu un vero “Annus mirabilis” (anche se forse anche uno dei tanti “Annus horribilis” come l’attuale). E prima di addentrarci in questo magistrale libro di Javier Cercas, vi ricordo che in quell’anno, a gennaio comincia l’era di Ronald Reagan, poco dopo, in Polonia viene nominato capo del governo il generale Jaruzelski, in maggio muore Bobby Sands e Giovanni Paolo II subisce il famoso attentato di Piazza San Pietro, a giugno c’è il primo caso conclamato di AIDS, e l’anno finisce con l’attentato in cui  muore il presidente egiziano Sadat. Questo, tanto per rimanere nella politica, che molto altro c’è, ma esula da questo viaggio. Un viaggio in cui il nostro brillante autore impiega 500 pagine per descrivere quanto accade in circa 30 minuti di registrazione video. Di Cercas avevo letto dieci anni fa il bellissimo “Soldati di Salamina” (che vi invito a riprendere), poi era rimasto nell’ombra e nel buio. Tanto che nella testa mi si confondeva con Javier Marias, per poi scoprire (ovvio) che sono ben diversi e ben distanti (Marias è un settantenne madrileno, Cercas un sessantenne catalano, di cultura se non di nascita). Qui, il nostro Javier (tra l’altro giornalista a “El Pais”, e si nota per i rimandi e lo spigliato scrivere) più o meno 35 anni dopo di un momento fondamentale della vita spagnola, prova a ripercorrerlo, con un tentativo di romanzo, se non con un saggio storico. Ciò gli permette di attraversare gli eventi con l’interesse di uno storico e di fare collegamenti ed ipotesi forse giusti, ma essendo non provati, con la leggerezza di un romanzo. Alla fine, per me che ben ricordo quell’anno, denso di lavoro, denso di studi, denso di altre cose che sbocceranno da lì a non molto (ma questi sono fatti personali), un tuffo in un nodo di quell’epoca che, per una serie di motivazioni, conoscevo ma non avevo mai approfondito. I fatti: il 23 febbraio 1981 alle 18:22 un comando della Guardia Civile spagnola irrompe nel Parlamento spagnolo al comando del tenente colonnello Antonio Tejero cercando di dare inizio ad un colpo di Stato, che avrebbe permesso (a grandi linee) ai militari ed alla destra di riprendere le redini del potere cinque anni dopo la morte di Francisco Franco, mentre la Spagna cercava di uscire dal “franchismo” con riforme e democrazia. Il fermo immagine, sul quale Cercas ritorna spesso, e che dilata a molto prima e poco dopo il 23 febbraio, avviene attraverso una telecamera che stava riprendendo il dibattito parlamentare per l’incarico al nuovo capo del governo spagnolo Leopoldo Calvo-Sotelo. Cercas ci mostra e noi vediamo con lui Tejero pistola in pugno nell’emiciclo, i deputati a terra, e 3 figure, in piedi che si ergono a simbolo della Spagna democratica: Adolfo Suárez, capo del Governo uscente ed artefice della transizione al dopo-Franco, il capo dell’Esercito e più alto militare in grado presente, Manuel Gutiérrez Mellado, ed il segretario del Partito Comunista Santiago Carrillo. L’abilità di Cercas come giornalista si estrinseca nello sviluppare una descrizione di questi personaggi, collegandoli alla storia spagnola, ed a tutte le altre anime che rappresentavano la reazione fascista o la resistenza democratica. Mentre di Carillo qualcosa sapevo e ricordavo, non ultimo il tentativo fatto insieme a Berlinguer di far sorgere un Eurocomunismo svincolato a Mosca, non molto avevo presente degli altri. Soprattutto della figura di Adolfo Suarez, del suo percorso da giovane imbonitore delle folle di provincia, a galoppino del franchismo, segretario del Movimento (il nome ufficiale del fascismo spagnolo), presidente della TVE (la Television de España), sodale del re Juan Carlos, nonché primo presidente della Spagna post-franchista. Una figura complessa, che assurge agli onori per cavalcare l’onda del nuovo mondo ispanico, ma che verrà travolto dagli avvenimenti più grandi di lui quando avrebbe avuto bisogno di una base politica alle sue spalle. Ma lui, un po’ come qualche leghista di casa nostra, si vantava di non leggere libri. Tuttalpiù, si faceva proiettare film in notturna nella sua residenza governativa. Cercas tenta (e noi non possiamo che dargli atto di una possibile verosimiglianza) di collegare tutti i puntini del golpe e di quanto lo aveva prodotto: malcontento generalizzato (tipo clima cileno di dieci anni prima), militari scontenti del ruolo dimensionato che stavano avendo dopo la morte di Franco, riforme “dure e pure” per riequilibrare l’economia spagnola assolutamente in dissesto, nonché il riconoscimento del Partito Comunista, uno dei più grandi affronti che si poteva fare alla destra del tempo. Ci sono tante figure descritte nel corso del libro, su cui invito a tornare, anche se qui non ho tempo o spazio per analizzarle tutte. Ma soprattutto c’è la figura del re, quel Juan Carlos I, il cui “NO”, alto e puro ai militari golpisti contribuì a mettere fine in modo tombale alla rivolta. Ci sono, ed è ovvio, tanti se e tanti ma, c’è un’analisi interessante del momento spagnolo che percorre i cinque anni di governo Suarez, ma qui stiamo parlando di un romanzo. E come romanzo, il libro tiene, almeno per la mia lettura. In particolare, per l’abilità dell’autore di non lasciar mai cadere la tensione. E per il finale, in cui introduce un parallelismo tra le vicende spagnole ed il bellissimo film di Rossellini, “Il generale Della Rovere”. Ripeto, non è un libro facile perché sommamente intriso di vita spagnola che non sempre sappiamo (e spesso non sappiamo neanche di quella italiana), ma è un bel libro. Un libro di eroi minori, che con un gesto possono rivoltare la loro vita, come il famoso Emilio Bardone del film (che non sapeva, ma ho scoperto ora, essere nato da una sceneggiatura di Indro Montanelli). Non tutto è ben calibrato, e le note, in questa edizione di Repubblica, non son ben sincronizzate con il testo, ma, e mi ripeto, è stata un’ottima lettura per il primo fine settimana di coronavirus (e qui mi fermo).
Antonio Pennacchi “Canale Mussolini” Repubblica Duemila 34 euro 9,90
[A: 11/09/2017 – I: 17/03/2020 – T: 21/03/2020] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 518; anno 2010]
Pur essendo una figura interessante e poliedrica, e pur apprezzando (alcuni) suoi scritti, Pennacchi non mi convince mai fino in fondo. Sembra sempre che voglia dire qualche cosa in più e poi si fermi, ma sollevando il baffo, con fare ironico e scanzonato. Non riuscendomi mai ad essere completamente in una situazione agiata e paritaria. Certo, il suo fasciocomunista lo trovai un libro gradevole e da leggere, mentre altri scritti vari mi hanno lasciato quanto meno freddo. Qui ritorna sul suo filone “nativo”, epopee di un mondo che ruota intorno alla pianura pontina, ritrovando un modo di scrivere ed una trama che si segue con piacere. Certo, la non velata megalomania dell’autore tende a conglobare tutto, a fare un’opera omnicomprensiva, con dentro politica, rapporti umani, sesso, religione, storia e chi più ne ha… Forse obiettivi più limitativi ne avrebbero aumentato la resa narrativa. Comunque, per non far torto a nessuno, vediamo appunto alcuni filoni maggiori del narrato. Per la parte storica, seguiamo uno spezzone della storia italiana dagli scioperi sindacalisto-socialisti dei primi anni del secolo, all’evoluzione di quei socialisti verso il social-fascismo. Attraverso la figura di Edmondo Rossoni, socialista, sindacalista, fascista, Ministro dell’Agricoltura, firmatario dell’O.d.g. Grandi che destituiva Mussolini. Rossoni è uno dei tanti personaggi veri dello scritto. Ferrarese (di quel di Tresigallo) sempre in lotta con il quasi concittadino Balbo, sodale per anni con il Duce, per poi rompere appunto verso il fatidico 25 luglio. Attraverso lui e la sua parabola personale, seguiamo appunto la storia d’Italia dal 1905 al 1945 (con accenni a quella posteriore, ma che forse sarà narrata in quel “Parte seconda” scritto pochi anni dopo). Gli scioperi, l’entrata in guerra, l’ascesa del fascismo, la bonifica dell’Agro Pontino, e cenni della Seconda Guerra Mondiale e della Resistenza. Rossoni diventa il nume tutelare della famiglia Peruzzi, la famiglia epigono al centro della storia. Che come dice Pennacchi, non ha subito, sola, tutte le vicende narrate, ma è il collasso di tutte le vicende narrate in una famiglia sola, di modo che sia più facile narrarne. Famiglia ferrarese, che segue dal basso tutta la parabola che abbiamo descritto di Rossoni. Famiglia con i soliti, per me strampalati, nomi di battesimo: Temistocle, Pericle, Iseo, Adelchi, le due gemelle Modigliana e Bissolata, zia Santapace (ovviamente nata alla fine della Prima Guerra Mondiale). Il fulcro è Pericle, il secondogenito. Fascista convinto, è lui che ottiene da Rossoni, nel ’32, il trasferimento di tutta la tribù nella bonificanda pianura pontina. Lì che vediamo gli sforzi dei cispadani (così venivano chiamati, anche se venivano da molte terre del Nord, Emilia, Veneto, Friuli ed altre) nel bonificare, nell’arare e seminare, nel costruire le nuove città. Prima i borghi, che diventeranno quelli che indichiamo con Borgo Sabotino, Borgo Grappa e altri. Poi le città vere e proprie: Littoria, Sabaudia, Aprilia e via costruendo. E ad ogni pezzo di narrazione si lega un pezzo della vita locale: le amicizie, gli ebrei-fascisti, gli agronomi truffaldini, l’amore tra Pericle ed Armida. Tante le storie, tanti gli intrecci. Che poi vanno sempre più sul personale, che seguiamo meglio Pericle e Armida. Lui poi volontario nella Seconda Guerra. Lei sempre con le sue api. Lui disperso e mai più tronato. Lei… Beh questo non ve lo dico, che segna tutta l’ultima parte del romanzo. Dove forse si scade troppo nella singola vicenda, perdendo di vista quell’aspetto globale mantenuto per un bel tratto. Perché, per me, l’interesse maggiore nell’excursus di Pennacchi è quando riporta i sentimenti della gente, le sensazioni del quotidiano, le lotte tra sezzesi e littorini, tra “cispadani” e “marocchini” (così quelli del nord chiamavano i locali), l’evoluzione mentale che portò grandi masse all’adesione al fascismo. Qui, poi, c’è la grande ed insanabile frattura tra il mio modo di vedere e quello di Pennacchi. Certo il fascismo è stato (anche) un fenomeno sociale nato dal basso, e che ha coinvolto, nella pancia, molta gente che non ci si aspettava lo facesse. Ma c’era tutta quella componente di violenza, di sopruso che non può essere sottovalutata, ignorata. Certo, il fascismo degli inizi predicava la ridistribuzione delle terre, quasi un comunismo da kolchoz o d a kibbutz. Ma se ne discostò ben presto, che gli interessi del potere presero il sopravvento. Per restare in sella bisogna venire a patto con i proprietari, ed è difficile pensare che non ce se ne accorgesse. Con la stessa filosofia di accondiscendenza, Pennacchi dipinge un Mussolini da macchietta, che guarda il culo alle signorine, e beve rosso con i mezzadri, che entra in guerra per non sfigurare, che invade l’Etiopia per sfidare Italo Balbo. Non questa parte non mi piace. Non mi piace il riduzionismo della storia ad episodi di burletta. Mi piace la storia minuta, quella del film di Scola sulla Rivoluzione Francese, ad esempio. E tutte le vicende dei contadini prima spodestati nelle loro terre da padroni dispotici, poi riscattatisi nelle nuove terre, dove con la loro volontà riescono a trovare il modo di svoltare la loro vita. Quindi bene la parte minuta, poco la parte “storica”, poco sopportabile (per me) il modo di esporre la storia, fatta da un narratore ad una persona che dovrebbe rappresentare il pubblico, l’io-lettore, ma riesce di difficile sopportabilità. Ma una lettura fattibile in questi tempi difficili.
“Ciò che distrugge l’uomo non è la disgrazia in sé, ma l’incertezza e soprattutto l’attesa della disgrazia.” (405)
Seconda trama del mese di giugno, quindi un bell’allegato malevolmente legato a sponsali, ma piacevolmente legato alla poco nota Elizabeth von Arnim.
Continuiamo ad avere orizzonti poco chiari sulla quarantena, sull’estate, sui viaggi, ed a volte sulla salute. Quindi si naviga a vista, cercando, unica risorsa, di puntare su scogli sicuri. Che ci sono, basta avere fiducia. Per questo siamo ancora qui, con le nostre trame a tenervi compagnia.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
GIUGNO 2020
Siano qui in quel di Soriano, in un piovoso giugno. Meglio pensare al sottocitato aprile.
SPOSATI, ESSERE
Elizabeth von Arnim    “Un incantevole Aprile”
Da quando essere sposati richiede una cura? Se questo è stato il vostro primo pensiero appena letto l’argomento di questa voce, passate oltre. Avete vinto alla lotteria della vita, e trovato un compagno con cui vivere senza sforzo, in modo pacifico e produttivo. Beati voi.
Se invece pensate che il matrimonio a volte si trasformi in una lotta per difendere la vostra identità a fronte di continui compromessi, che il vostro matrimonio sia ormai prigioniero della routine o che il passare degli anni in qualche modo sia servito ad allontanare voi e il vostro coniuge invece che ad avvicinarvi, lasciatevi ispirare da “Un incantevole aprile” di Elizabeth von Arnim.
Scritto addirittura negli anni Venti, e molto sottovalutato, il romanzo racconta la storia delle signore Wilkins e Arbuthnot, due donne sposate, ma stanche e sbiadite per via di un matrimonio che sembra finito, e che leggono per caso lo stesso annuncio sul «Times»: «Per chi sa apprezzare il glicine e la luce del sole, si affitta un piccolo castello medievale ammobiliato, in Italia, sulle sponde del Mediterraneo, per il mese di aprile. Domestici inclusi». Entrambe le donne ne sono attratte e nel disperato tentativo di trovare un po’ di felicità, anche se non si conoscono, decidono di imbarcarsi in questa avventura. Invitano pure un altro paio di donne, esemplari più allegri dello stesso sesso, ma anche loro con problemi relazionali - l’esageratamente decorosa signora Fisher e l’eterea, bella signora Caroline, così stufa di vedersi sbavare dietro sia gli uomini che le donne che adesso respinge chiunque con gelida determinazione.
Tra la purezza delle pareti bianche e nude di San Salvatore e dei suoi pavimenti in pietra, le donne riacquistano serenità e vigore, e cominciano lentamente a riscoprire la propria sensualità e la capacità di provare gioia. Grazie alle arance succose, ai prati coperti di fiori primaverili e al preziosissimo Domenico, il giardiniere, assistiamo a vere trasformazioni alchemiche. Volti contratti dal timore e dalla preoccupazione si distendono, cuori e anime rimasti chiusi per anni si aprono come gemme in pieno sole. L’amore torna a inondare i cuori. «A casa ero così taccagna» dice Lotty (la signora Wilkins), «sempre a misurare, sempre a contare... Restituivo a Mellersh solo l’amore che mi dava, la quantità esatta, con assoluta correttezza. Chi l’avrebbe detto. E siccome lui non mi dava niente, io facevo Io stesso, e che aridità c’era in casa! Che aridità...».
Ci si aspetta che le donne ritrovino solo se stesse, in questo splendido isolamento. E invece finiscono per... beh, diciamo solo che i mariti non vengono dimenticati e che i grandi amori si accendono di nuova passione. Se il vostro matrimonio non è quello che speravate, comprate “Un incantevole aprile”, affittate una villa in Italia e leggetelo durante il viaggio.

Bugiardino

Sono d’accordo sulla poca fattibilità di una voce dedicata al matrimonio ed alle sue conseguenze. Espurgherei la simpatica Elizabeth da questo contesto, ma non dalla lettura che ritengo interessante.  
Elizabeth Von Arnim “Un incantevole aprile” Fazi euro 15 (in realtà, scontato a 11,25 euro)
[scritto il 27 marzo 2020 e non pubblicato]
Un libro piacevolmente datato, e non a caso consigliato sia dalle libropeute per cure dedicate ai matrimoni che dai libri che ci rendono felici. E finalmente letto. Scoprendo tra l’altro un personaggio interessante, questa Mary Annette Beauchamp, nata nel 1866 in Australia, che sposa a 25 anni il conte Henning August von Arnim-Schlagenthin, figlio adottivo di Cosima Liszt (in seguito Cosima Wagner), vive con lui nella campagna tedesca, dove conosce E.M. Forster e Hugo Walpole. Poi, divorziata dal conte, sposa il duca John Francis Stanley Russell, fratello maggiore di Bertrand Russell. Unione poco felice per il carattere impossibile di lui, tanto che nel 1919 si separa da lui, conducendo una vita libera e piena di libri. Libera con molti amanti, anche più giovani come l’editore Alexander Stuart Frere Reeves (lui 28, lei 54) o coetanei, ma molto impegnati, come lo scrittore H. G. Wells. E tanti libri, almeno una trentina tra il 1898 ed il 1940. Un personaggio interessante, quindi. Tra l’altro, ovviamente usa il cognome del primo marito, ma dopo il grande successo del suo primo libro “Il giardino di Elizabeth”, inizialmente pubblicato senza nome, userà Elizabeth come nome. Infine, era anche cugina di Kathleen Mansfield. Tutto questo folto retroterra si sentirà molto nelle sue opere (che non ho letto, ma di cui ho letto). Ma anche avrà riflessi in questo gradevole libro quasi centenario. Un libro quasi impalpabile, dove succede poco e nulla, ma questo poco e nulla è reso con una dolce grazia di scrittura, ed una specie di salita per una scala a chiocciola, al fine della quale, tutti saranno cambiati. In meglio (certo, un po’ di ottimismo da fine della Prima Guerra Mondiale). Grazie alla magia del posto, un castello ligure, posto in quel di San Salvatore (esistente località tra Genova e La Spezia) che però nasconde il vero luogo dove l’autrice pensò e scrisse il libro, il castello Brown di Portofino. Nel castello di San Salvatore convergono quattro donne molto diverse: Mrs. Lotty Wilkins, sposa del distante avvocato arrivista Mr. Mellresh Wilkins, Mrs. Rose Arbuthnot, sposa di Frederik, archivista al British, più noto con il nome di Ferdinand Arundel, scrittore di libri sulle amanti reali ed imperterrito donnaiolo, Mrs. Fisher, di cui non sappiamo il nome, ma anziana e frequentatrice a suo tempo dell’aristocrazia mondana e politica inglese, e Lady Caroline Dester, giovane aristocratica stufa dell’elegante vita londinese, nonché della sua bellezza che attira troppo mosconi intorno a lei. Il motore dell’azione sono Lotty e Rose, che vedono l’annuncio del castello, decidono di regalarsi una vacanza, ma, non essendo molto abbienti, trovano le altre due signore per dividere le spese. Lotty è angustiata dalla sua difficoltà da rapportarsi al mondo fatuo del marito. Rose, invece, non accetta gli scritti del marito e si dedica ad opere di carità. Una volta lontani dalla brumosa Londra, le quattro donne, ognuna con i propri tempi, sembrano rifiorire. Anche qui il motore di tutto è Lotty, con le sue uscite sempre fuori luogo, che tuttavia smuovono le altre, le costringono a pensare, in fondo mettono anche allegria. Non solo le donne diventano più socievoli, ma accettano altri difficili passaggi. Prima l’arrivo di Mellresh, che sulla riviera ligure scopre la gioia di vivere della moglie, e ne è contagiato. Poi Frederik che dopo alcune sbandate, si raddrizza, anche perché Rose accetta le sue scritture, ed i due sembrano destinati, finalmente, a comprendersi. Infine, Mr. Briggs, il proprietario del castello che stringe una amicizia foriera di possibili futuri con l’ammorbidita Lady Caroline. Anche l’arcigna Mrs. Fisher si ammorbidirà, accettando la possibilità che, per maturare nella vita, si possa anche cambiare. Una favola, certo. Un improbabile idillio, anche. Ma la bellezza e la bravura del testo, è quella di presentare i vari caratteri delle donne, magari mutuando l’ambiente che la scrittrice ben conosceva. Non a caso, le tre giovani donne sembreranno avere futuri migliori di quelli che avevano all’inizio del libro. Mentre l’anziana signora sembra invece adombrare gli stessi pensieri dell’autrice. Che, forte di quel primo libro e del suo amore per la natura, non manca di descrivere con pennellate gradevoli, i giardini del castello e tutte le sfumature bucoliche che lo caratterizzano. Non prende molto, è vero, come tensione verso nuovi orizzonti, essendo, tuttavia, uno specchio di un certo tipo di spaccato social-culturale inglese. Amante delle belle cose, e del sole italiano. Non è un caso che da lì a trenta anni, gli inglesi andranno a colonizzare le colline toscane. Finisco ribadendo che, per l’appunto, è un libro datato, ma che rilassa la mente in tempi di tensione. E quali siano ora questi tempi ben lo sappiamo.
“Mancare a qualcuno che ha bisogno di te, per qualsiasi motivo, era comunque meglio della solitudine totale di non mancare a nessuno.” (44)
“Cosa curiosa, sentiva il desiderio di pensare, e di ciò era stupita più di chiunque altro. Mai prima d’allora aveva provato quel desiderio.” (111)
“Ripeté a sé stessa … ora mi metto a pensare, ma non è facile pensare se non lo si è mai fatto prima.” (169)
“Bisognerebbe continuare … a cambiare, per quanto vecchi si diventi.” (213)

Conclusioni

Mi ricordo molti altri libri su matrimoni ed altri disturbi correlati, come i libri di Siri Hustvedt ed altri già tramati, che questo mi sembra fuori posto. Lo vedrei meglio in un florilegio sull’amicizia e sulla fiducia in sé stessi e nella propria capacità di rendere felici i propri amici.







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