Ross Macdonald “Bersaglio mobile” Corriere
della sera Gialli Americani 12 euro 6,90
[A: 11/09/2017 – I: 26/01/2019 – T: 26/01/2019] - && ½
[tit. or.: The Moving Target; ling. or.: inglese; pagine: 199; anno 1949]
Secondo giallo americano (come lettura che molto ho
aspettato per parlarne), un po’ in calando rispetto al primo letto, anche se
l’autore è un signor autore. Considerato, negli ambienti americani soprattutto,
degno del terzo gradino del podio, dietro a Raymond Chandler e Dashiell Hammett.
In effetti, lo scrittore americano-canadese, pur iniziando a scrivere la sua
maggior serie sulla falsariga del puro hard-boiled, ben presto volgerà la penna
verso una maggior caratterizzazione dei personaggi, e verso storie più
sofisticate, quasi lasciando di lato la pura parte “noir”. Intanto, il suo vero
nome è Kenneth Millar, che abbandonò per il sopra citato pseudonimo quando la
moglie cominciò anche lei a scrivere con il suo vero nome di Margaret Millar.
Secondo elemento è il “suo” detective, Lew Archer. Inizialmente forgiato quasi
come un clone di Philip Marlowe (e questo si vede abbastanza con questo primo
romanzo che ha, talvolta, i toni del grande detective), anche Archer si va
raffinando, tanto che nel 1966, quando viene portato sullo schermo non potrà
avere i connotati alla Humphrey Bogart, e sarà magistralmente interpretato da
Paul Newman. Già dal nome, poi, il detective di Macdonald omaggia i suoi numi
personali. Infatti, il nome, Lew, è un’abbreviazione di Lewis in omaggio a
Lewis Wallace, lo scrittore autore di Ben Hur. Mentre il cognome Archer è preso
pari pari da quello del socio di Sam Spade, che si chiamava Miles Archer.
Questo bersaglio mobile poi è il primo libro dedicato ad Archer, come detto,
così che ne ricaviamo qualche dettaglio biografico. Dovrebbe essere nato
intorno al 1914, visto che ora, inizi anni ’50, è sui 35 anni. Alto 1,80,
partecipa alla guerra mondiale sul fronte giapponese, poi alla fine della
stessa entra nella polizia a Long Beach, a sud di Los Angeles. Ma disgustato da
corruzione ed altro che non può combattere, decide poco dopo di passare al
settore privato, apre la sua agenzia nel Sunset Boulevard a Beverly Hills, per
passare la maggior parte delle sue inchieste tra Los Angeles ed il sud
californiano, fino al Messico, eventualmente. Inizia, come molti, con i
divorzi, sino a che, in questa prima inchiesta, viene ingaggiato dalla ricca
signora Sampson perché trovi traccia del marito Ralph, da poco scomparso. Capiamo
subito, anche se ci vorranno pagine perché venga alla luce, che si tratta di un
rapimento. Intanto facciamo la conoscenza di molti personaggi. La signora
Sampson, paralizzata, o forse no, in seguito ad una caduta da cavallo. Miranda,
figlia di primo letto, che si adombra ad una delle svenevoli di Hammett, anche
se si ferma sempre qualche passo prima. Innamorata di Alan, il pilota
dell’aereo privato, ma dal padre promessa a Graves, ex procuratore
distrettuale, ben noto a Lew, ed ora amministratore del patrimonio Sampson (che
deriva da ben forniti pozzi di petrolio texani). Alan è innamorata di Betty,
pianista presso il locale “Il Piano Scatenato” di proprietà del losco Troy.
Durante le indagini, che si svolgono nella classica maniera hard-boiled,
svelando pian piano una serie di attività losche, veniamo quindi a conoscere
meglio le attività anche di Ralph. Oltre ai pozzi, ed alla tendenza di ubriacarsi
ogni due per tre, in combutta con Troy organizza l’immigrazione clandestina di
braccianti dal Messico. Utilizzando camion guidati da Eddie, il fratello della
pianista Betty. Quando si acclara che Ralph è stato rapito, Lew comprende anche
che il motore interno non può che essere il finto buono Alan, ultimo ad averlo
visto allo scalo aeroportuale. Alan l’ha fatto rapire da Eddie, cercando di
fuggire con i soldi e con Betty. Eddie ne parla anche con Tory, che si mette in
mezzo solo per ricavare qualche extra, ma che vuole Ralph vivo per i suoi
traffici altri. La parte finale è quella in cui si comincia anche a sparare.
Graves uccide Alan che stava minacciando Lew. Ma lo fa solo per quello o anche
per togliere di mezzo un rivale alle sue mire su Miranda? Nella presa dei
soldi, muore Eddie, Betty è rapita da Troy che vuole Ralph. Lew salva il
salvabile, ma quando arriva a Ralph anche lui è morto, seppur da poco. È stata
Betty che era con Lew poco prima? Troy che si è liberato? Graves che inopinatamente
compare sul luogo del delitto? Miranda che passa la notte fuori casa senza
spiegazioni? Alla fine, com’è giusto, Archer metterà tutti in riga, risolvendo
il romanzo con un finale un po’ buonista, ma anche discretamente agro (non
direi amaro). Si capisce che Ross voglia indagare meglio sui motivi che
spingono i personaggi ad agire così, come farà meglio nelle prove successive (e
saranno in tutto 18). Un’ultima chicca sul cambio del nome dal libro al film.
Fu Paul Newman a volerlo, in quanto era fissato che i film che gli portavano fortuna
avevano il titolo iniziale con un’acca. Ecco così che nasce “Harper”, come il
ben note “Hustler” (in italiano “Lo spaccone”).
George Harmon Coxe “L’occhio indiscreto”
Corriere della sera Gialli Americani 21 euro 6,90
[A: 01/11/2017 – I: 24/03/2019 – T: 26/03/2019] - && -
[tit. or.: Murder with Pictures; ling. or.: inglese; pagine: 254; anno 1935]
Eccoci
ad occuparci di un altro autore “classico” americano dei gialli hard-boiled.
Anche se, questo suo primo scritto non è che sia molto sul pezzo del genere.
Coxe è stato comunque un autore prolifico (una sessantina di romanzi) nonché
sceneggiatore a Hollywood. La sua caratteristica è che la maggior parte dei
suoi romanzi ha per protagonisti o Kent Murdock (come in questo) o Jack
"Flash" Casey. Entrambi, oltre ad investigare, sono fotografi. Come
apparirebbe anche dal titolo inglese (traducibile con “Omicidio con foto”).
Mentre al solito, nelle prime uscite negli anni Cinquanta dei mitici Gialli
Mondadori, si volle puntare sull’ambiguità del fotografo con una macchina per
foto, indagatrice e pronta a prendere immagini “proibite”. Cosa che non avviene
di certo in questo romanzo. Dove anzi il nostro Kent si deve arrabattare spesso
per fare foto con quelle macchine che conosciamo bene dai film americani
(quelle con una lampadona per flash). Proprio il personaggio di Kent è
abbastanza particolare. Che è una persona che ha studiato ed ha dei modi
comportamentali che gli consentono frequentazioni di ogni genere. Alte e basse.
Che per esempio sposa una ballerina di rivista, ma da cui è più di un anno che
tenta di divorziare. Che frequenta un ex-contrabbandiere ripulito e con soldi,
con modi urbani (anche lui ha studiato), sodale di avvocati e politici. Seppur
non avvincente, l’idea di Coxe è legare saldamente pubblico e privato. Così
vediamo Hestor (ma che razza di nome è?) l’ex-moglie di Kent, frequentare Nate,
il ripulito di cui poco sopra. Vediamo Mike, avvocato “feroce” di Nate, che lo
fa assolvere anche in una situazione poco chiara. E vediamo Rita, la moglie di
Mike, accompagnarsi con Howard, tradicchiando il marito (tra l’altro sposato
controvoglia). Vediamo infine Joyce, la sorella di Howard, seguire il fratello
in varie situazioni (anche pericolose) per cercare di distoglierlo dalla,
secondo lei, cattiva strada, per poi finire nell’appartamento di Kent, al fine
di sfuggire ad un’accusa di omicidio. Il “fatto”, così come viene ricostruito
pagine e pagine dopo, dovrebbe essere il seguente. I fratelli Cusick tentano di
ricattare Nate, che li incastra e li manda in galera. Quando escono vogliono
fargliela pagare, ma Jim viene ucciso, Nate incolpato di omicidio e salvato
dall’aggressiva difesa di Mike. Alla fine della festa per l’assoluzione, Mike
viene ucciso. Dal fratello Sam che voleva vendicare la morte di Jim? Da Howard
che in questo modo potrebbe avere via libera verso Rita? Da Joyce, per
difendere il fratello? Da Nate perché in fondo era ricattato da Mike sotto
altre vie? Da Un malavitoso che capita lì per caso, alla ricerca di una
ballerina? Inciso: la ballerina viene trovata svenuta nella casa del morto e
nessuno ci spiega come e perché. Coxe, ad un certo punto, cerca anche di farci
balenare il sospetto che Joyce entri nella vicenda per qualche motivo appunto
oscuro, ma noi non cadiamo nella trappola. Tutto il resto del romanzo serve a
descrivere il “bel mondo” di Kent e Nate, che, in fondo, pur diversi e con diverso
approccio, sono similari. Vengono dal basso, hanno studiato, poi si mettono a
fare quello che sanno fare meglio. Foto, nel caso di Kent. Anche belle, ben
riuscito, soprattutto perché ha un buon rapporto con la polizia. Soldi, nel
caso di Nate, anche attraverso affari poco limpidi. Kent si infogna nella
ricerca della soluzione del mistero perché Hestor non vuole dargli il divorzio
se non in cambio di una montagna di soldi, c’è una grossa taglia sulla
soluzione del caso che servirebbe a Kent per il divorzio, ed in fondo c’è la
bella Joyce, che, bene o male, è invischiata nell’affare, e verso cui Kent
comincia a sentire sentimenti non provati prima. Kent riuscirà a risolvere il
caso, anche usando in modo improprio il suo flash. Non vi rivelo i dettagli del
caso, né chi sia il colpevole, che è facile comprenderlo ben presto. Dico solo
che Kent è un “puro” che rifiuta i soldi per onestà, trova il modo di
divorziare da Hestor, e vi anticipo che sposerà Joyce. Perché poi, nell’altra
ventina di romanzi, vedremo la coppia Kent e Joyce ben affiatata nella
soluzione dei casi polizieschi, spesso anche aiutati da Fenner, un vero
investigatore. Quasi a ripercorrere una triade che Coxe conosce bene, essendo
grande amico di Earl Stanley Gardner. Parliamo ovviamente di Perry, Della e
Paul Drake, per chi li ricorda. Pur gradevole a tratti, si sente l’atmosfera
del 1935, e non se ne esce svecchiata. Unico altro punto a favore,
l’ambientazione a Boston, anche qui, un luogo del crimine non sovente
frequentato dai giallisti americani. Un piccolo neo nel finale: a pagina 15 c’è
il seguente paragrafo con qualche mano di troppo. “Non appena ebbe posato il
suo bicchiere vuoto, la mano sinistra di Leon lo afferrò, seguito dalla
sinistra che asciugò meccanicamente il tavolo”. Guarda, guarda, il “polipo”
Leon!
George Harmon Coxe “Fotografia rivelatrice”
Corriere della sera Gialli Americani 24 euro 6,90
[A: 20/11/2017 – I: 07/05/2019 – T: 08/05/2019] - &&
[tit. or.: Murder for two; ling. or.: inglese; pagine: 219; anno 1943]
Come
in ogni dualismo che si rispetti, visto che Coxe ha due “investigatori” come
principali protagonisti delle sue storie, dopo il libro dedicato a Kent
Murdock, eccoci al secondo che ha per protagonista Jack "Flash" Casey.
Anche qui si inizia con un bel passaggio editoriale, che da “Omicidio per due”,
l’italica fantasia si inventa questa “fotografia rivelatrice”. Saltando anche
il primo titolo, con cui è apparso il testo, uscito a puntate su di una rivista
americana con il titolo “Sangue sull’obiettivo”. Di certo, il “for Two” è
senz’altro il più appropriato, sia perché ci saranno due omicidi, sia perché il
protagonista, Casey, viene affiancato da una tirocinante che non si capisce se
serve ad aiutarlo o a mettergli i bastoni tra le ruote. Casey ha avuto anche
più fortuna del precedente tramato Kent, anche perché le prime uscite del
nostro risalgono a racconti usciti sulla rivista “Black Mask” nel 1934. Casey è
soprannominato “Flash” perché, come tutti i fotografi negli anni Trenta, scatta
le foto aiutandosi con un lampo di magnesio. Foto che spesso sono l’inizio di
una indagine, che Jack si picca di essere un fine investigatore dilettante. E
sebbene in amicizia cameratesca con Logan, agente dell’Omicidi, spesso la
polizia cerca di frenarlo con la scusa che ostacola le indagini. Casey ci viene
descritto come un uomo grosso e grasso, occhi neri, capelli pepe e sale. Ma
anche come un formidabile dispensatore di pugni, che tuttavia preferisce usare
il meno possibile. Qui, tutto inizia non subito da una foto, ma in un giornale
dove incontriamo un’amica di Jack, la giornalista d’assalto Rosalind Taylor,
autrice di molte inchieste su corruzione e malaffare, dove però c’è sempre un
pelo che manca per portare il caso in tribunale, o per far sì che colpevole o
malversatori paghino il fio delle loro colpe. Jack fa incontrare Rosalind con
John Perry, un inventore di uno speciale lubrificante, il quale accusa il suo
socio di avergli rubato il brevetto. Ma quando Casey e Perry arrivano a casa
della giornalista, la trovano morta. Tutti gli indizi porterebbero a Byrkman,
ex-segretario di Rosalind che potrebbe aver venduto i segreti della
giornalista. Elementi che si infittiscono, perché la nuova segretaria di Ros,
Helen viene trovata legata e malmenata, ed accusa di essere stata colpita e
segregata da due uomini. Che non ha visto in volto, ma di cui uno si è
presentato in un lasso di tempo tale, che, nel frattempo, avrebbe potuto
uccidere Rosalind. Casey si aggira furioso scattando foto. Karen, la giovane
apprendista, gli sta intorno che sembra volerlo ostacolare, ma che ha piccole
intuizioni che permettono a Casey di fare passi avanti nel mistero. E Jack
aiuta il suo amico, il poliziotto Logan, nel cercare il capo della matassa.
Anche perché, benché si sia trovato Byrkman, e si sia cercato di metterlo sotto
protezione, anche lui viene ucciso. Con una pistola simile a quella
dell’omicidio Taylor. Tutto il libro, che devo dire non è che sia
riuscitissimo, ci si incarta spesso, non si capisce il ruolo di Karen. C’è forse
qualcosa che non sappiamo e dovremmo sapere? L’unica nota divertente, diciamo
così, è che Casey, nello smascherare alla fine chi ha fatto cosa, ci fa vedere
come riesca a smontare l’alibi alla persona in questione. Un alibi così
ingegnoso fino a questo momento che nessuno si era accorto che era un alibi. E
tanto meno un alibi costruito ad arte. Per smontarlo, ovviamente, e questa
volta è giusto, Jack usa una foto. In questo senso ci si ricollega al titolo
italiano di una possibile fotografia rivelatrice. Ma io continuo a ritenere che
altri titoli sarebbero stati più appropriati. Comunque, alla fine il libro è
dignitoso, sebbene chiaramente datato. Certo, libri dello stesso periodo, o
anche antecedenti, hanno resistito meglio nel tempo. Pensiamo al da poco
tramato S. S. Van Dine (degli Anni Venti) o anche agli 83 romanzi con Perry
Mason, scritti a partire dal 1933 da un gande amico dello scrittore, Erle
Stanley Gardner. Comunque, più che dei suoi libri (e ricordo che su Jack
“Flash” Casey ne scrisse più di venti), mi piace ricordarne, rispetto alla
volubilità americana, la sua costanza amorosa. Si sposa con Elizabeth Fowler
nel 1929, che rimarrà sua moglie e compagna fino alla sua morte, nel 1984. Ed
in ogni caso, a Coxe viene riconosciuto un suo ruolo ed un suo spazio nella narrativa
noir americano, tanto che nel 1954 viene eletto per un anno presidente del Mystery
Writers of America, la maggiore associazione di scrittori di gialli americana,
che ogni anno conferisce anche un piccolo premio al miglio romanzo pubblicato,
premio denominato “Premio Edgar”, in onore, come si capisce, del capostipite di
tutte le scritture moderne, Edgar Allan Poe.
William R. Burnett “Il boia è solo”
Corriere della Sera Gialli Americani 16 euro 6,90
[A: 18/12/2017 – I: 07/06/2020 – T:
09/06/2020] - & e ¾
[tit. or.: Vanity Row; ling. or.: inglese; pagine: 268; anno 1952]
Dopo più di un anno torniamo a mettere mano al
penultimo libro della serie dei Gialli Americani edita dal Corriere della Sera.
Una serie filologicamente interessante, ma con pochi elementi ancora validi.
Sarà che il genere “hard boiled” americano è abbastanza tramontato, magari
surclassato dalla “serie Noir” francese alla Jean-Patrick Manchette. Qui,
intanto, non abbiamo grandi sparatorie, anzi neanche una. Come spesso nello
stile di Burnett, c’è la fotografia di una America corrotta e degradata, che
preferisce a volte mettere alla gogna un innocente piuttosto che trovare
colpevoli scomodi. Intanto, anche se qui non al meglio, bisogna comunque
tributare un omaggio sentito all’autore, che, più che nei libri, eccelse in
sceneggiature hollywoodiane di grande impatto. Sino dalla sua prima uscita, con
“Piccolo Cesare”, per la regia di Mervyn LeRoy ed il debutto sullo schermo di
Edward G. Robinson (era il 1931). Ci saranno poi “Scarface” nel 1932 con la
regia di Howard Hughes, fino alla sceneggiatura de “La Grande Fuga” del 1964 con
quella rocambolesca fuga in moto di Steve McQueen. In mezzo, uno degli altri
grandi successi di sceneggiatura: “Giungla d’Asfalto” di John Huston del 1949,
che oltre ad essere un altro caposaldo della denuncia contro la corruzione e la
malavita va ricordato per la parte che vi recita, acclamata per la prima volta
dalla critica, la giovane Marilyn Monroe. Ma è ora di tornare a questo libro,
ed alla sua scarsa consistenza. Intanto, non si spiega il perché del cambio del
titolo, che in inglese si riferisce ad una via piena di locali di malaffare,
tra cui il famoso Cipriano’s, uno dei luoghi clou dell’immaginario della
vicenda. La stradina appunto che si chiama “Vanity Row”. Da noi tutto diventa
invece incentrato sul protagonista, con un tentativo di fuorviare il lettore.
Ora, se un titolo dedicato ad un libro di gangster americano parla di “Boia”,
lo sprovveduto lettore pensa subito alla fine che fanno (o facevano) molti
omicidi americani. Mentre qui, “boia” è il soprannome del capitano Roy Hargis,
uno dei detective più preparati del corpo di polizia locale. Un lupo solitario,
discretamente amante delle donne vistose (come apprendiamo dalla sua entrata in
scena nel secondo capitolo), contornato da elementi “border line”, anche se
quasi tutti di buon livello: Boley, un autista di origine polacca, Emmett, il
grasso scopritore dei più piccoli indizi che alla fine si rivolterà per gelosia
al suo altrimenti benvoluto capo, e Alma, la carceriera di buon cuore. Roy è
inserito nel giro di corruzione cittadino, al soldo di Chad Bayliss, inserito
nell’amministrazione e grande manovratore di appalti. Il via alla vicenda viene
dato dall’uccisione di Frank Hobart, avvocato e grand commis della corruzione.
Chad ipotizza che sia stato fatto fuori da alcuni elementi legati alla malavita
che governa la città, visto che l’amministrazione tardava a pagare il pizzo.
Incarica quindi Roy di trovare un capro espiatorio, in modo che non vengano
trovati o ipotizzati legami tra Frank e la malavita. Attività facilissima per
Roy, visto che Frank nell’ultimo periodo si era invaghito di una bella
signorina, Ilona Vance, e che Ilona è stata l’ultima persona nota ad essere
vista con Frank. Fino a questo punto, il libro regge abbastanza, ma siamo solo
verso pagina cento. Ecco che quando scende in campo Ilona tutto cambia. Una
bellezza da mozzare il fiato (direi che sarebbe una parte a metà tra Marilyn
Monroe dell’inizio e Sharon Stone di “Basic Instinct”). E che rovina tutto il
resto del romanzo. Roy, come Michael Douglas, rimane affascinato e travolto da
Ilona. Farà quindi di tutto per poterla scagionare, motivo per cui la maggior
parte del romanzo da qui in poi è costituito da interrogatori e discussioni
varie, dove ovvio che rifulge il talento da sceneggiatore di Burnett. È ovvio,
da come si svolgono i fatti, che Chad e gli altri corrotti faranno di tutto
perché Ilona risulti il capro espiatorio. È altrettanto ovvio che, pur con
tutte le attenuanti del caso, Ilona è realmente colpevole. Dobbiamo solo
seguire Roy il Boia nei suoi tentativi di ridurre le imputazioni a suo carico,
magari mettendosi contro Chad, rischiando lui stesso di fare una brutta fine.
Non sarà un finale consolatorio, che Burnett lascia aperte alcune strade
possibili del futuro di Roy e di quello di Ilona. Ma il tutto risulta molto
moscio, privo di mordente. Non c’è suspense per capire chi ha ucciso chi, non
c’è suspense per sapere come i quasi buoni usciranno dalla vicenda. Insomma, il
romanzo scorre via senza sussulti verso la sua poco onorevole fine. Date le
premesse della vita e delle opere di Burnett mi aspettavo qualcosa di più.
Anche perché, qua e là, dissemina di piccoli accenni che ci fanno capire come
l’autore abbia un solido retroterra di letture (lui sostiene di essere un
accanito lettore di Flaubert e di Balzac). Mettendo anche qualche commento
ironico, come quello su Conrad che riporto. Però sono abbastanza deluso.
“E chi diavolo è questo Joseph Conrad?... Uno
scrittore di racconti marinari” (194)
Ross Macdonald “Il delitto non invecchia”
Corriere della sera Gialli Americani 8 euro 6,90
[A: 18/12/2017 – I: 12/06/2020 – T: 14/06/2020] - &&& ½
[tit. or.: The Chill; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1964]
Il precedente fu uno dei primi Gialli Americani ad
essere letto, questo, stesso autore e stesso protagonista, è invece l’ultimo.
Così che concludiamo questa altalenante collana. Direi una buona conclusione,
dove passiamo a vedere il detective Archer dal primo a questo che è
l’undicesimo libro a lui dedicato dei diciotto scritti dall’autore. Oltre ad
essere passati dieci libri, sono passati anche quindici anni nella scrittura.
Che qui trovo, non a caso, più matura, anche più complessa, nella trama e nello
svolgimento. Non mi dilungo sul personaggio Archer, di cui ho ampiamente
trattato nel precedente, se non per qualche aggiornamento nei tratti
distintivi, sempre più affine al film con Paul Newman, che all’iniziale
Humphrey Bogart. Lew rimane solitario, anche se ha qualche aiuto da un suo
amico e dalla sua donna, che gravitano in quel di Reno, e che daranno una
piccola mano nello sbrogliare la matassa. Che questo gomitolone è ben
complicato, con una sua trama direi quasi dal sapore ottocentesco, dati tutti i
risvolti che pagina dopo pagine vengono svelati ed in qualche modo risolti. Una
risoluzione che, come nelle sue pagine leggo e ritrovo in rete, non sono mai
del tutto risolte nelle pieghe finali. Ma alla fine riusciamo a capire tutta la
trama, chi ha fatto cosa e perché. E non è poco. Anche qui, l’inizio sembra in
sordina. Un tizio chiede a Lew di ritrovargli la moglie scomparsa durante la
luna di miele. Lew impiega poco tempo a ritrovare Dolly, solo che il
ritrovamento e le prime indagini portano a scoperchiare molte pentole che non
ci si aspettava. Allora, Dolly fugge dopo aver incontrato il padre, appena
uscito di prigione dove ha scontato dieci anni per l’omicidio di secondo grado
della moglie Conny. Dolly, fuggendo, si rifugia nell’Università locale, facendosi
amica della tutor Helena, e trovando un lavoro part-time come autista
dell’anziana signora Bradshaw. Signora che vive con Roy Bradshaw, preside della
facoltà. Lew cerca di scoprire i motivi della fuga di Dolly parlando con
Helena, senza successo. Anzi, con pochissimi risultati, visto che poche ore
dopo, Helena viene uccisa. Non è un hard-boiled da anni Trenta, non ci sono
sparatorie ed altro. Ma tra passato e presente, i morti fioccano, e si
intrecciano. Già abbiamo ora Helena e dieci anni prima Conny. Dalle parole di
Helena, Lew capisce che c’è un altro morto che galleggia nell’ombra: tal Luke,
classificato come suicidio venti anni prima. Un delitto che venne affidato al
padre di Helena, poliziotto nell’Illinois nativo. Le trame si infittiscono, che
scopriamo Roy essere a suo tempo studente proprio in Illinois, nonché preso
dalla più anziana Tish. Signorina molto “libera” nonché cognata del morto Luke.
Lew non è affatto convinto che Luke si sia suicidato, così come non ne era
convinta Helena, che pensava di averne le prove. Sarà per questo che ora muore?
Ma andiamo avanti di dieci anni, dove troviamo la famiglia McGee in difficoltà.
Thomas è un marito violento, Conny e Dolly si rifugiano dalla sorella di lei,
Alice. Dolly, all’epoca undicenne, è disturbata, così che viene affidata allo
psicologo Godwin. Ogni settimana Conny la porta a studio, dove incontra,
guardate un po’, proprio Roy Bradshaw, anche lui non proprio in palla. Conny e
Roy iniziano una storia d’amore, troncata dall’uccisione di Conny. Thomas viene
incolpato, e per la deposizione della figlia, anche condannato. Ma ora Dolly
ritratta tutto. Dagli aiutanti di Reno, Lew scopre inoltre che Roy avrebbe
sposato Tish, che si era trasferito a Reno per ottenere il divorzio ed impalmare
la sua nuova bella, la professoressa Laura. Facendo in modo però che a tutti
sembrasse lui corteggiasse Helena. Altre indagini portano alla scoperta di un
necrologio di Tish nell’Europa della Seconda Guerra Mondiale. Ma ci sono indizi
che portano a dubitarne. Abbiamo così tre delitti in cui, in qualche modo, è
sempre presente Roy. E forse anche Tish? Lew riuscirà come detto a trovare il
capo di questa ingarbugliata matassa, che ha anche tanto altro nelle sue più di
trecento pagine. Che però vi consiglio di leggere. Anche perché l’autore ha un
suo tocco di “intellettualismo” che mi farebbe piacere capire come veniva
recepito dai lettori all’uscita del libro. Ad esempio, ci fa sapere che un
ragazzo del campus dove studia Dolly sta leggendo “Il giovane Holden” di
Salinger. Mentre aspetta una persona, Lew si mette a leggere un libro di
filosofia greca, discettando di Eraclito e Parmenide. Inoltre, più volte ci
riporta il paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga. Dei piccoli spunti
che rendono vieppiù gradevole la lettura. Che all’inizio era anche punto-interrogativa
dall’immotivato titolo italiano. Perché il delitto invecchia? È forse un modo
per dare al lettore una chiave interpretativa ulteriore, quando “The Chill”
originale potrebbe applicarsi a molte situazioni e personaggi: ambiente freddo,
personaggi frigidi o rigidi. Insomma, la mia battaglia per i titoli è ancora in
combattimento.
Siamo alla terza domenica di giugno, ed eccoci
allora a parlare in allegato delle nostre pazzie.
Comunque, è anche il solstizio d’estate, cioè il
giorno più lungo dell’anno, in termine di sole. Da domani, minuto dopo minuto, comincerà
ad avanzare il buio. Noi non lo temiamo, noi che abbiamo il sole dentro, noi
che in ogni caso siamo contenti (no, non ho detto felici). Noi che pensiamo ai
nostri cari. Io che vi vedo sempre, attorno all’io scrivente, che vi riconosco
e so come devo distribuire baci e abbracci.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GIUGNO 2020
Torniamo da questo mese a piccoli rimedi, come dice l’introduzione,
che abbiamo bisogno di qualche blister prima di tornare “normali”.
BLISTER
D’AUTOSTIMA 1
Non bisogna mai sottovalutare gli sbalzi di pressione.
Soprattutto quelli della pressione emotiva, che può andare su o giù a causa di
eventi esterni o di fattori congeniti come il carattere.
La pressione emotiva bassa può causare leggeri episodi di
depressione quando l’umore scende in picchiata portandosi dietro l’autostima e
la capacità di reagire. I sintomi dell’autostima bassa si manifestano
principalmente con la mancanza di fiducia in sé stessi e con il conseguente
senso d’inadeguatezza. Una delle principali cause all’origine dei vortici di
bassa autostima, che portano temporali nella nostra vita, è il divario tra l’io
reale e quello ideale, ovvero tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. A
questo sdoppiamento, già difficile da gestire, bisogna aggiungere la frustrazione
provocata dalla difficoltà di aderire agli standard, rigidi e spesso
irraggiungibili, imposti dalla famiglia e dalla società. Cercare di innalzarsi
a livelli inarrivabili comporta un ulteriore abbassamento dei livelli di
autostima e sviluppa un pericoloso complesso di inferiorità, spesso legato
anche a difetti fisici, che provoca a sua volta la comparsa di altre patologie
legate alla disperata ricerca di sicurezza. Non meno pericoloso è il rischio
della pressione emotiva troppo alta che, facendo schizzare l’ego al di sopra
dei livelli di guardia, comporta spesso preoccupanti episodi di mitomania.
Consiglio, in ogni caso, di diffidare sempre delle persone eccessivamente
sicure di sé, quelle che godono nel farsi grandi sminuendo gli altri e che
garantiscono di avere in tasca la chiave del successo: le tasche si bucano e le
chiavi si perdono ma, soprattutto, raramente la gente dice la verità. Al
contrario i libri, proprio perché inventano storie, è raro che mentano.
Suggerisco di cercare nei libri rimedi di fantasia per colmare reali
insicurezze.
Se vi sentite scarafaggi depressi, esseri inetti, brutti,
perdenti, insicuri e privi di qualità, in questa sezione troverete la pillola
giusta per ristabilire i corretti livelli di pressione emotiva e di autostima.
Avvertenza: le cure qui segnalate sono rivolte soprattutto a
pazienti affetti da bassa autostima. Chi soffre di autostima alta difficilmente
crede di essere malato e ancora più difficilmente penserà di doversi curare. In
ogni caso, i rimedi qui consigliati farebbero tanto bene anche a loro.
Ken Kesey “Qualcuno
volò sul nido del cuculo”Vibrante atto di denuncia dei metodi distruttivi degli istituti psichiatrici, commovente inno alla libertà e toccante dichiarazione d’amore per l’umana fragilità, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è un valido rimedio per recuperare l’autostima.
Quando lo spavaldo, ribelle, folle (per davvero o per finta?) Randle Patrick McMurphy irrompe con la sua travolgente simpatia in un tetro manicomio dell’Oregon, porta lo scompiglio nelle vite svuotate dei malati acuti e cronici che vegetano in una sorta di limbo, abbandonati da una società che si rifiuta di capirli e di aiutarli ma vuole solo nasconderli come si fa con la polvere sotto il tappeto. In questa «prigione» gestita dall’inquietante infermiera Ratched, imponente fisicamente ma umanamente minuscola, il cocciuto irlandese porta di contrabbando armi pericolosissime quanto utili per evadere: allegria, entusiasmo e coraggio. Coinvolgendo i pazienti in giochi, partite di basket e battute di pesca in compagnia di prostitute li riporta lentamente alla vita attraverso il divertimento, aiutandoli a rialzare i livelli della loro autostima azzerata dalla paura, dalle ferite dell’anima e dalla mancanza di comprensione. Ma pagherà un prezzo alto per il suo altruismo e per il suo sogno ribelle di libertà. Considero parte integrante della cura letteraria la visione della bellissima trasposizione cinematografica diretta da Milos Forman con Jack Nicholson nei panni di McMurphy.
Pluripremiato agli Oscar, è assolutamente all’altezza del romanzo di cui mantiene inalterati i principi attivi. Non vederlo sarebbe davvero una pazzia, non amarlo è da folli. Ma folli veri. Quando la società vi fa sentire anormali e diversi, e inibisce con continui elettroshock emotivi la vostra capacità di reazione, procuratevi “Qualcuno volò sul nido del cuculo” in versione cartacea o di celluloide.
Senza
arrivare ai disturbi psichici, in un mondo distorto come quello in cui ci tocca
vivere, anche la fragilità è spesso vista come una malattia. “Qualcuno volò sul
nido del cuculo” è quindi un potente antibiotico capace di contrastare la
velenosa paura di una società spaventata dalla debolezza e dall’inevitabile
imperfezione dell’essere umano. Insieme ai personaggi del romanzo possiamo
ristabilire i corretti livelli di pressione emotiva, rivendicando con forza la
nostra fragilità e imparando a rispettare quella altrui. Spesso non è pazzia, è
solo male di vivere. E se vi considerano pazzi perché diversi, magari un po’
svitati proprio come McMurphy, rispondete come Pirandello: «Così è, se vi
pare».
Commenti
Come ripeto e sottolineo più volte un libro assolutamente da
leggere. Come un film assolutamente da vedere.
Ken Kesey “Qualcuno
volò sul nido del cuculo” BUR euro 9,90
[pubblicato il 13 dicembre 2015]
Anche
questo è un libro che si è infilato nella mia libreria sulla scia dei grandi
film che ho amato, e che il libro di cura sui libri mi ha indotto a comperare e
leggere. Ora sono indeciso, tra libro e film. Il film era potente, e
giganteggiava la figura di Jack Nicholson. Anche il libro è potente, ma a me
rimane più impressa qui la figura di “Ramazza” Bromden, il capo indiano
mezzosangue, voce narrante del libro. È lui che osserva e descrive gli avvenimenti,
lui paziente della clinica psichiatrica che si finge sordo e muto per non dover
interagire con le istituzioni mediche. E che osserva l’ascesa verso la serenità
del suo reparto, per poi constatarne, inesorabilmente, la caduta verticale di
fronte all’autorità implacabile. L’autore (“troppo giovane per essere beat,
troppo vecchio per essere hippie” secondo una sua definizione) è partecipe
della grande cultura americana tra la fine dei Cinquanta ed i primi Sessanta. È
amico di Neal Cassady (a sua volta sodale di Jack Keruac), conosce Timothy
Leary e tutti gli allucinogeni e psicotropi di quegli anni. E confeziona questo
libro come protesta verso la cultura americana, come grido ed atto di
ribellione. Con l’ovvio ed amaro finale. Un’anticipazione del ’68: McMurphy e
Ratched l’infermiera sarebbero le due facce della stessa medaglia americana, il
primo a simboleggiare lo scontro violento contro l'autorità, la seconda a
rappresentare quell'autorità al potere che non si può scalzare. Storia tutta
“girata” nel moderno ospedale psichiatrico, con l’indiano che tutto guarda e
osserva e registra. Dove ci sono pazienti più o meno cronici, come il
balbuziente ed introverso Billy Bibbit, il logorroico Harding Dale, il maniaco
delle carte Cheswick Charley. E pazienti ridotti a larve da elettroshock
devastanti e lobotomie sperimentali. Un’isola che potrebbe essere felice, se
non fosse dominata dalla rigida caposala, Miss Ratched, che usa un pugno di
ferro per affermare il suo dominio su questo mondo in rovina. È qui che arriva
Randy McMurphy, che si finge pazzo per scontare un periodo di detenzione in
seguito ad una condanna per gioco d’azzardo, invece di passarlo in carcere. E
da subito c’è lotta dura tra i due. Randy, comunque insofferente, comunque con
una vena d’alienazione, porta venti di novità. Crea un tavolo da gioco,
organizza partite di basket, fomenta una ribellione per poter vedere il basket
in tv. Ottiene inoltre di organizzare una gita in mare, con i pazienti meno
“pericolosi”, dove si accompagna con qualche donnina, e dove scorre birra a
profusione. Insomma, spinge tutti a ricercare sé stessi, invece di lasciarsi
guidare acriticamente da Miss Ratched. Ed anche una seduta di elettroshock non
doma il suo spirito ribelle. Che raggiunge il culmine in una notte brava, con
medicine psicotrope a go-go, con altre donnine che fa entrare in ospedale, e
con una di queste che seduce il poco esperto Billy. Ma l’alcol scorre a fiumi,
e la mattina la caposala giunge che sono in piena baldoria, trova l’amplesso di
Billy, lo ridicolizza, e questi si uccide. Randy cerca a sua volta di uccidere
Miss Ratched, ma viene fermato. E lobotomizzato, riducendolo ad una larva.
Allora, il capo indiano che sempre seguiamo con affetto, pietosamente lo
soffoca con un cuscino, per poi fuggire in Canada, verso la libertà. Cantandosi
internamente la filastrocca che da piccola gli ripeta la sua nonna indiana:
“Three geese in a flock / One flew East / One flew West / And one flew over the
cuckoo's nest” (“tre oche in uno stormo / una volò ad Est / una volò ad Ovest /
ed una volò sul nido del cuculo”). Qui sta tutto il bello e l’atroce del libro,
che monta pagina dopo pagina, che ci avvolge con questa lotta di potere che
sappiamo già come andrà a finire. Perché Randy andrà sempre sul suo solco comportamentale,
non accettando di scendere sul piano delle istituzioni, della caposala. E non
capendo i meccanismi dell’antagonista, la ribellione sarà inevitabilmente
repressa nel sangue. Ecco, il libro mette forse più su questo lato l’accento,
mentre Milos Foreman nel film lo sposta più sul lato psichiatrico, quasi a
voler parlare solo di sanità e pazzia e non di potere e ribellione. Manca solo,
per essere nelle vette top dei miei gradimenti, una punta di consapevolezza in
più. Che tuttavia possiamo scusare guardando alla data di scrittura del libro
(1962). Ed al fatto di quanto consapevoli e forse non più tanto ribelli siamo
noi ora. Piccolo appunto finale: si nota anche che la traduzione è datata,
coeva forse al romanzo stesso, laddove, ad esempio, a pagina 19 si lascia un
inutile “pallabase” rispetto all’utilizzo del più corretto “baseball”. Ce ne
sono altri, di piccoli intoppi, ma il libro è comunque bello e da leggere.
Finalino
Non so dirvi nulla sull’autostima, sentimento che non è
molto nelle mie corde, né in alto né in basso. Ma ripeto il finale, sottolineando
che, forse, una nuova traduzione potrebbe essere interessante.
Nessun commento:
Posta un commento