domenica 21 giugno 2020

Ultimi Gialli Americani - 21 giugno 2020


Ross Macdonald “Bersaglio mobile” Corriere della sera Gialli Americani 12 euro 6,90
[A: 11/09/2017 – I: 26/01/2019 – T: 26/01/2019] - && ½
[tit. or.: The Moving Target; ling. or.: inglese; pagine: 199; anno 1949]
Secondo giallo americano (come lettura che molto ho aspettato per parlarne), un po’ in calando rispetto al primo letto, anche se l’autore è un signor autore. Considerato, negli ambienti americani soprattutto, degno del terzo gradino del podio, dietro a Raymond Chandler e Dashiell Hammett. In effetti, lo scrittore americano-canadese, pur iniziando a scrivere la sua maggior serie sulla falsariga del puro hard-boiled, ben presto volgerà la penna verso una maggior caratterizzazione dei personaggi, e verso storie più sofisticate, quasi lasciando di lato la pura parte “noir”. Intanto, il suo vero nome è Kenneth Millar, che abbandonò per il sopra citato pseudonimo quando la moglie cominciò anche lei a scrivere con il suo vero nome di Margaret Millar. Secondo elemento è il “suo” detective, Lew Archer. Inizialmente forgiato quasi come un clone di Philip Marlowe (e questo si vede abbastanza con questo primo romanzo che ha, talvolta, i toni del grande detective), anche Archer si va raffinando, tanto che nel 1966, quando viene portato sullo schermo non potrà avere i connotati alla Humphrey Bogart, e sarà magistralmente interpretato da Paul Newman. Già dal nome, poi, il detective di Macdonald omaggia i suoi numi personali. Infatti, il nome, Lew, è un’abbreviazione di Lewis in omaggio a Lewis Wallace, lo scrittore autore di Ben Hur. Mentre il cognome Archer è preso pari pari da quello del socio di Sam Spade, che si chiamava Miles Archer. Questo bersaglio mobile poi è il primo libro dedicato ad Archer, come detto, così che ne ricaviamo qualche dettaglio biografico. Dovrebbe essere nato intorno al 1914, visto che ora, inizi anni ’50, è sui 35 anni. Alto 1,80, partecipa alla guerra mondiale sul fronte giapponese, poi alla fine della stessa entra nella polizia a Long Beach, a sud di Los Angeles. Ma disgustato da corruzione ed altro che non può combattere, decide poco dopo di passare al settore privato, apre la sua agenzia nel Sunset Boulevard a Beverly Hills, per passare la maggior parte delle sue inchieste tra Los Angeles ed il sud californiano, fino al Messico, eventualmente. Inizia, come molti, con i divorzi, sino a che, in questa prima inchiesta, viene ingaggiato dalla ricca signora Sampson perché trovi traccia del marito Ralph, da poco scomparso. Capiamo subito, anche se ci vorranno pagine perché venga alla luce, che si tratta di un rapimento. Intanto facciamo la conoscenza di molti personaggi. La signora Sampson, paralizzata, o forse no, in seguito ad una caduta da cavallo. Miranda, figlia di primo letto, che si adombra ad una delle svenevoli di Hammett, anche se si ferma sempre qualche passo prima. Innamorata di Alan, il pilota dell’aereo privato, ma dal padre promessa a Graves, ex procuratore distrettuale, ben noto a Lew, ed ora amministratore del patrimonio Sampson (che deriva da ben forniti pozzi di petrolio texani). Alan è innamorata di Betty, pianista presso il locale “Il Piano Scatenato” di proprietà del losco Troy. Durante le indagini, che si svolgono nella classica maniera hard-boiled, svelando pian piano una serie di attività losche, veniamo quindi a conoscere meglio le attività anche di Ralph. Oltre ai pozzi, ed alla tendenza di ubriacarsi ogni due per tre, in combutta con Troy organizza l’immigrazione clandestina di braccianti dal Messico. Utilizzando camion guidati da Eddie, il fratello della pianista Betty. Quando si acclara che Ralph è stato rapito, Lew comprende anche che il motore interno non può che essere il finto buono Alan, ultimo ad averlo visto allo scalo aeroportuale. Alan l’ha fatto rapire da Eddie, cercando di fuggire con i soldi e con Betty. Eddie ne parla anche con Tory, che si mette in mezzo solo per ricavare qualche extra, ma che vuole Ralph vivo per i suoi traffici altri. La parte finale è quella in cui si comincia anche a sparare. Graves uccide Alan che stava minacciando Lew. Ma lo fa solo per quello o anche per togliere di mezzo un rivale alle sue mire su Miranda? Nella presa dei soldi, muore Eddie, Betty è rapita da Troy che vuole Ralph. Lew salva il salvabile, ma quando arriva a Ralph anche lui è morto, seppur da poco. È stata Betty che era con Lew poco prima? Troy che si è liberato? Graves che inopinatamente compare sul luogo del delitto? Miranda che passa la notte fuori casa senza spiegazioni? Alla fine, com’è giusto, Archer metterà tutti in riga, risolvendo il romanzo con un finale un po’ buonista, ma anche discretamente agro (non direi amaro). Si capisce che Ross voglia indagare meglio sui motivi che spingono i personaggi ad agire così, come farà meglio nelle prove successive (e saranno in tutto 18). Un’ultima chicca sul cambio del nome dal libro al film. Fu Paul Newman a volerlo, in quanto era fissato che i film che gli portavano fortuna avevano il titolo iniziale con un’acca. Ecco così che nasce “Harper”, come il ben note “Hustler” (in italiano “Lo spaccone”).
George Harmon Coxe “L’occhio indiscreto” Corriere della sera Gialli Americani 21 euro 6,90
[A: 01/11/2017 – I: 24/03/2019 – T: 26/03/2019] - && -
[tit. or.: Murder with Pictures; ling. or.: inglese; pagine: 254; anno 1935]
Eccoci ad occuparci di un altro autore “classico” americano dei gialli hard-boiled. Anche se, questo suo primo scritto non è che sia molto sul pezzo del genere. Coxe è stato comunque un autore prolifico (una sessantina di romanzi) nonché sceneggiatore a Hollywood. La sua caratteristica è che la maggior parte dei suoi romanzi ha per protagonisti o Kent Murdock (come in questo) o Jack "Flash" Casey. Entrambi, oltre ad investigare, sono fotografi. Come apparirebbe anche dal titolo inglese (traducibile con “Omicidio con foto”). Mentre al solito, nelle prime uscite negli anni Cinquanta dei mitici Gialli Mondadori, si volle puntare sull’ambiguità del fotografo con una macchina per foto, indagatrice e pronta a prendere immagini “proibite”. Cosa che non avviene di certo in questo romanzo. Dove anzi il nostro Kent si deve arrabattare spesso per fare foto con quelle macchine che conosciamo bene dai film americani (quelle con una lampadona per flash). Proprio il personaggio di Kent è abbastanza particolare. Che è una persona che ha studiato ed ha dei modi comportamentali che gli consentono frequentazioni di ogni genere. Alte e basse. Che per esempio sposa una ballerina di rivista, ma da cui è più di un anno che tenta di divorziare. Che frequenta un ex-contrabbandiere ripulito e con soldi, con modi urbani (anche lui ha studiato), sodale di avvocati e politici. Seppur non avvincente, l’idea di Coxe è legare saldamente pubblico e privato. Così vediamo Hestor (ma che razza di nome è?) l’ex-moglie di Kent, frequentare Nate, il ripulito di cui poco sopra. Vediamo Mike, avvocato “feroce” di Nate, che lo fa assolvere anche in una situazione poco chiara. E vediamo Rita, la moglie di Mike, accompagnarsi con Howard, tradicchiando il marito (tra l’altro sposato controvoglia). Vediamo infine Joyce, la sorella di Howard, seguire il fratello in varie situazioni (anche pericolose) per cercare di distoglierlo dalla, secondo lei, cattiva strada, per poi finire nell’appartamento di Kent, al fine di sfuggire ad un’accusa di omicidio. Il “fatto”, così come viene ricostruito pagine e pagine dopo, dovrebbe essere il seguente. I fratelli Cusick tentano di ricattare Nate, che li incastra e li manda in galera. Quando escono vogliono fargliela pagare, ma Jim viene ucciso, Nate incolpato di omicidio e salvato dall’aggressiva difesa di Mike. Alla fine della festa per l’assoluzione, Mike viene ucciso. Dal fratello Sam che voleva vendicare la morte di Jim? Da Howard che in questo modo potrebbe avere via libera verso Rita? Da Joyce, per difendere il fratello? Da Nate perché in fondo era ricattato da Mike sotto altre vie? Da Un malavitoso che capita lì per caso, alla ricerca di una ballerina? Inciso: la ballerina viene trovata svenuta nella casa del morto e nessuno ci spiega come e perché. Coxe, ad un certo punto, cerca anche di farci balenare il sospetto che Joyce entri nella vicenda per qualche motivo appunto oscuro, ma noi non cadiamo nella trappola. Tutto il resto del romanzo serve a descrivere il “bel mondo” di Kent e Nate, che, in fondo, pur diversi e con diverso approccio, sono similari. Vengono dal basso, hanno studiato, poi si mettono a fare quello che sanno fare meglio. Foto, nel caso di Kent. Anche belle, ben riuscito, soprattutto perché ha un buon rapporto con la polizia. Soldi, nel caso di Nate, anche attraverso affari poco limpidi. Kent si infogna nella ricerca della soluzione del mistero perché Hestor non vuole dargli il divorzio se non in cambio di una montagna di soldi, c’è una grossa taglia sulla soluzione del caso che servirebbe a Kent per il divorzio, ed in fondo c’è la bella Joyce, che, bene o male, è invischiata nell’affare, e verso cui Kent comincia a sentire sentimenti non provati prima. Kent riuscirà a risolvere il caso, anche usando in modo improprio il suo flash. Non vi rivelo i dettagli del caso, né chi sia il colpevole, che è facile comprenderlo ben presto. Dico solo che Kent è un “puro” che rifiuta i soldi per onestà, trova il modo di divorziare da Hestor, e vi anticipo che sposerà Joyce. Perché poi, nell’altra ventina di romanzi, vedremo la coppia Kent e Joyce ben affiatata nella soluzione dei casi polizieschi, spesso anche aiutati da Fenner, un vero investigatore. Quasi a ripercorrere una triade che Coxe conosce bene, essendo grande amico di Earl Stanley Gardner. Parliamo ovviamente di Perry, Della e Paul Drake, per chi li ricorda. Pur gradevole a tratti, si sente l’atmosfera del 1935, e non se ne esce svecchiata. Unico altro punto a favore, l’ambientazione a Boston, anche qui, un luogo del crimine non sovente frequentato dai giallisti americani. Un piccolo neo nel finale: a pagina 15 c’è il seguente paragrafo con qualche mano di troppo. “Non appena ebbe posato il suo bicchiere vuoto, la mano sinistra di Leon lo afferrò, seguito dalla sinistra che asciugò meccanicamente il tavolo”. Guarda, guarda, il “polipo” Leon!
George Harmon Coxe “Fotografia rivelatrice” Corriere della sera Gialli Americani 24 euro 6,90
[A: 20/11/2017 – I: 07/05/2019 – T: 08/05/2019] - &&
[tit. or.: Murder for two; ling. or.: inglese; pagine: 219; anno 1943]
Come in ogni dualismo che si rispetti, visto che Coxe ha due “investigatori” come principali protagonisti delle sue storie, dopo il libro dedicato a Kent Murdock, eccoci al secondo che ha per protagonista Jack "Flash" Casey. Anche qui si inizia con un bel passaggio editoriale, che da “Omicidio per due”, l’italica fantasia si inventa questa “fotografia rivelatrice”. Saltando anche il primo titolo, con cui è apparso il testo, uscito a puntate su di una rivista americana con il titolo “Sangue sull’obiettivo”. Di certo, il “for Two” è senz’altro il più appropriato, sia perché ci saranno due omicidi, sia perché il protagonista, Casey, viene affiancato da una tirocinante che non si capisce se serve ad aiutarlo o a mettergli i bastoni tra le ruote. Casey ha avuto anche più fortuna del precedente tramato Kent, anche perché le prime uscite del nostro risalgono a racconti usciti sulla rivista “Black Mask” nel 1934. Casey è soprannominato “Flash” perché, come tutti i fotografi negli anni Trenta, scatta le foto aiutandosi con un lampo di magnesio. Foto che spesso sono l’inizio di una indagine, che Jack si picca di essere un fine investigatore dilettante. E sebbene in amicizia cameratesca con Logan, agente dell’Omicidi, spesso la polizia cerca di frenarlo con la scusa che ostacola le indagini. Casey ci viene descritto come un uomo grosso e grasso, occhi neri, capelli pepe e sale. Ma anche come un formidabile dispensatore di pugni, che tuttavia preferisce usare il meno possibile. Qui, tutto inizia non subito da una foto, ma in un giornale dove incontriamo un’amica di Jack, la giornalista d’assalto Rosalind Taylor, autrice di molte inchieste su corruzione e malaffare, dove però c’è sempre un pelo che manca per portare il caso in tribunale, o per far sì che colpevole o malversatori paghino il fio delle loro colpe. Jack fa incontrare Rosalind con John Perry, un inventore di uno speciale lubrificante, il quale accusa il suo socio di avergli rubato il brevetto. Ma quando Casey e Perry arrivano a casa della giornalista, la trovano morta. Tutti gli indizi porterebbero a Byrkman, ex-segretario di Rosalind che potrebbe aver venduto i segreti della giornalista. Elementi che si infittiscono, perché la nuova segretaria di Ros, Helen viene trovata legata e malmenata, ed accusa di essere stata colpita e segregata da due uomini. Che non ha visto in volto, ma di cui uno si è presentato in un lasso di tempo tale, che, nel frattempo, avrebbe potuto uccidere Rosalind. Casey si aggira furioso scattando foto. Karen, la giovane apprendista, gli sta intorno che sembra volerlo ostacolare, ma che ha piccole intuizioni che permettono a Casey di fare passi avanti nel mistero. E Jack aiuta il suo amico, il poliziotto Logan, nel cercare il capo della matassa. Anche perché, benché si sia trovato Byrkman, e si sia cercato di metterlo sotto protezione, anche lui viene ucciso. Con una pistola simile a quella dell’omicidio Taylor. Tutto il libro, che devo dire non è che sia riuscitissimo, ci si incarta spesso, non si capisce il ruolo di Karen. C’è forse qualcosa che non sappiamo e dovremmo sapere? L’unica nota divertente, diciamo così, è che Casey, nello smascherare alla fine chi ha fatto cosa, ci fa vedere come riesca a smontare l’alibi alla persona in questione. Un alibi così ingegnoso fino a questo momento che nessuno si era accorto che era un alibi. E tanto meno un alibi costruito ad arte. Per smontarlo, ovviamente, e questa volta è giusto, Jack usa una foto. In questo senso ci si ricollega al titolo italiano di una possibile fotografia rivelatrice. Ma io continuo a ritenere che altri titoli sarebbero stati più appropriati. Comunque, alla fine il libro è dignitoso, sebbene chiaramente datato. Certo, libri dello stesso periodo, o anche antecedenti, hanno resistito meglio nel tempo. Pensiamo al da poco tramato S. S. Van Dine (degli Anni Venti) o anche agli 83 romanzi con Perry Mason, scritti a partire dal 1933 da un gande amico dello scrittore, Erle Stanley Gardner. Comunque, più che dei suoi libri (e ricordo che su Jack “Flash” Casey ne scrisse più di venti), mi piace ricordarne, rispetto alla volubilità americana, la sua costanza amorosa. Si sposa con Elizabeth Fowler nel 1929, che rimarrà sua moglie e compagna fino alla sua morte, nel 1984. Ed in ogni caso, a Coxe viene riconosciuto un suo ruolo ed un suo spazio nella narrativa noir americano, tanto che nel 1954 viene eletto per un anno presidente del Mystery Writers of America, la maggiore associazione di scrittori di gialli americana, che ogni anno conferisce anche un piccolo premio al miglio romanzo pubblicato, premio denominato “Premio Edgar”, in onore, come si capisce, del capostipite di tutte le scritture moderne, Edgar Allan Poe.
William R. Burnett “Il boia è solo” Corriere della Sera Gialli Americani 16 euro 6,90
[A: 18/12/2017 – I: 07/06/2020 – T: 09/06/2020] - & e ¾
[tit. or.: Vanity Row; ling. or.: inglese; pagine: 268; anno 1952]
Dopo più di un anno torniamo a mettere mano al penultimo libro della serie dei Gialli Americani edita dal Corriere della Sera. Una serie filologicamente interessante, ma con pochi elementi ancora validi. Sarà che il genere “hard boiled” americano è abbastanza tramontato, magari surclassato dalla “serie Noir” francese alla Jean-Patrick Manchette. Qui, intanto, non abbiamo grandi sparatorie, anzi neanche una. Come spesso nello stile di Burnett, c’è la fotografia di una America corrotta e degradata, che preferisce a volte mettere alla gogna un innocente piuttosto che trovare colpevoli scomodi. Intanto, anche se qui non al meglio, bisogna comunque tributare un omaggio sentito all’autore, che, più che nei libri, eccelse in sceneggiature hollywoodiane di grande impatto. Sino dalla sua prima uscita, con “Piccolo Cesare”, per la regia di Mervyn LeRoy ed il debutto sullo schermo di Edward G. Robinson (era il 1931). Ci saranno poi “Scarface” nel 1932 con la regia di Howard Hughes, fino alla sceneggiatura de “La Grande Fuga” del 1964 con quella rocambolesca fuga in moto di Steve McQueen. In mezzo, uno degli altri grandi successi di sceneggiatura: “Giungla d’Asfalto” di John Huston del 1949, che oltre ad essere un altro caposaldo della denuncia contro la corruzione e la malavita va ricordato per la parte che vi recita, acclamata per la prima volta dalla critica, la giovane Marilyn Monroe. Ma è ora di tornare a questo libro, ed alla sua scarsa consistenza. Intanto, non si spiega il perché del cambio del titolo, che in inglese si riferisce ad una via piena di locali di malaffare, tra cui il famoso Cipriano’s, uno dei luoghi clou dell’immaginario della vicenda. La stradina appunto che si chiama “Vanity Row”. Da noi tutto diventa invece incentrato sul protagonista, con un tentativo di fuorviare il lettore. Ora, se un titolo dedicato ad un libro di gangster americano parla di “Boia”, lo sprovveduto lettore pensa subito alla fine che fanno (o facevano) molti omicidi americani. Mentre qui, “boia” è il soprannome del capitano Roy Hargis, uno dei detective più preparati del corpo di polizia locale. Un lupo solitario, discretamente amante delle donne vistose (come apprendiamo dalla sua entrata in scena nel secondo capitolo), contornato da elementi “border line”, anche se quasi tutti di buon livello: Boley, un autista di origine polacca, Emmett, il grasso scopritore dei più piccoli indizi che alla fine si rivolterà per gelosia al suo altrimenti benvoluto capo, e Alma, la carceriera di buon cuore. Roy è inserito nel giro di corruzione cittadino, al soldo di Chad Bayliss, inserito nell’amministrazione e grande manovratore di appalti. Il via alla vicenda viene dato dall’uccisione di Frank Hobart, avvocato e grand commis della corruzione. Chad ipotizza che sia stato fatto fuori da alcuni elementi legati alla malavita che governa la città, visto che l’amministrazione tardava a pagare il pizzo. Incarica quindi Roy di trovare un capro espiatorio, in modo che non vengano trovati o ipotizzati legami tra Frank e la malavita. Attività facilissima per Roy, visto che Frank nell’ultimo periodo si era invaghito di una bella signorina, Ilona Vance, e che Ilona è stata l’ultima persona nota ad essere vista con Frank. Fino a questo punto, il libro regge abbastanza, ma siamo solo verso pagina cento. Ecco che quando scende in campo Ilona tutto cambia. Una bellezza da mozzare il fiato (direi che sarebbe una parte a metà tra Marilyn Monroe dell’inizio e Sharon Stone di “Basic Instinct”). E che rovina tutto il resto del romanzo. Roy, come Michael Douglas, rimane affascinato e travolto da Ilona. Farà quindi di tutto per poterla scagionare, motivo per cui la maggior parte del romanzo da qui in poi è costituito da interrogatori e discussioni varie, dove ovvio che rifulge il talento da sceneggiatore di Burnett. È ovvio, da come si svolgono i fatti, che Chad e gli altri corrotti faranno di tutto perché Ilona risulti il capro espiatorio. È altrettanto ovvio che, pur con tutte le attenuanti del caso, Ilona è realmente colpevole. Dobbiamo solo seguire Roy il Boia nei suoi tentativi di ridurre le imputazioni a suo carico, magari mettendosi contro Chad, rischiando lui stesso di fare una brutta fine. Non sarà un finale consolatorio, che Burnett lascia aperte alcune strade possibili del futuro di Roy e di quello di Ilona. Ma il tutto risulta molto moscio, privo di mordente. Non c’è suspense per capire chi ha ucciso chi, non c’è suspense per sapere come i quasi buoni usciranno dalla vicenda. Insomma, il romanzo scorre via senza sussulti verso la sua poco onorevole fine. Date le premesse della vita e delle opere di Burnett mi aspettavo qualcosa di più. Anche perché, qua e là, dissemina di piccoli accenni che ci fanno capire come l’autore abbia un solido retroterra di letture (lui sostiene di essere un accanito lettore di Flaubert e di Balzac). Mettendo anche qualche commento ironico, come quello su Conrad che riporto. Però sono abbastanza deluso.
“E chi diavolo è questo Joseph Conrad?... Uno scrittore di racconti marinari” (194)
Ross Macdonald “Il delitto non invecchia” Corriere della sera Gialli Americani 8 euro 6,90
[A: 18/12/2017 – I: 12/06/2020 – T: 14/06/2020] - &&& ½
[tit. or.: The Chill; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 1964]
Il precedente fu uno dei primi Gialli Americani ad essere letto, questo, stesso autore e stesso protagonista, è invece l’ultimo. Così che concludiamo questa altalenante collana. Direi una buona conclusione, dove passiamo a vedere il detective Archer dal primo a questo che è l’undicesimo libro a lui dedicato dei diciotto scritti dall’autore. Oltre ad essere passati dieci libri, sono passati anche quindici anni nella scrittura. Che qui trovo, non a caso, più matura, anche più complessa, nella trama e nello svolgimento. Non mi dilungo sul personaggio Archer, di cui ho ampiamente trattato nel precedente, se non per qualche aggiornamento nei tratti distintivi, sempre più affine al film con Paul Newman, che all’iniziale Humphrey Bogart. Lew rimane solitario, anche se ha qualche aiuto da un suo amico e dalla sua donna, che gravitano in quel di Reno, e che daranno una piccola mano nello sbrogliare la matassa. Che questo gomitolone è ben complicato, con una sua trama direi quasi dal sapore ottocentesco, dati tutti i risvolti che pagina dopo pagine vengono svelati ed in qualche modo risolti. Una risoluzione che, come nelle sue pagine leggo e ritrovo in rete, non sono mai del tutto risolte nelle pieghe finali. Ma alla fine riusciamo a capire tutta la trama, chi ha fatto cosa e perché. E non è poco. Anche qui, l’inizio sembra in sordina. Un tizio chiede a Lew di ritrovargli la moglie scomparsa durante la luna di miele. Lew impiega poco tempo a ritrovare Dolly, solo che il ritrovamento e le prime indagini portano a scoperchiare molte pentole che non ci si aspettava. Allora, Dolly fugge dopo aver incontrato il padre, appena uscito di prigione dove ha scontato dieci anni per l’omicidio di secondo grado della moglie Conny. Dolly, fuggendo, si rifugia nell’Università locale, facendosi amica della tutor Helena, e trovando un lavoro part-time come autista dell’anziana signora Bradshaw. Signora che vive con Roy Bradshaw, preside della facoltà. Lew cerca di scoprire i motivi della fuga di Dolly parlando con Helena, senza successo. Anzi, con pochissimi risultati, visto che poche ore dopo, Helena viene uccisa. Non è un hard-boiled da anni Trenta, non ci sono sparatorie ed altro. Ma tra passato e presente, i morti fioccano, e si intrecciano. Già abbiamo ora Helena e dieci anni prima Conny. Dalle parole di Helena, Lew capisce che c’è un altro morto che galleggia nell’ombra: tal Luke, classificato come suicidio venti anni prima. Un delitto che venne affidato al padre di Helena, poliziotto nell’Illinois nativo. Le trame si infittiscono, che scopriamo Roy essere a suo tempo studente proprio in Illinois, nonché preso dalla più anziana Tish. Signorina molto “libera” nonché cognata del morto Luke. Lew non è affatto convinto che Luke si sia suicidato, così come non ne era convinta Helena, che pensava di averne le prove. Sarà per questo che ora muore? Ma andiamo avanti di dieci anni, dove troviamo la famiglia McGee in difficoltà. Thomas è un marito violento, Conny e Dolly si rifugiano dalla sorella di lei, Alice. Dolly, all’epoca undicenne, è disturbata, così che viene affidata allo psicologo Godwin. Ogni settimana Conny la porta a studio, dove incontra, guardate un po’, proprio Roy Bradshaw, anche lui non proprio in palla. Conny e Roy iniziano una storia d’amore, troncata dall’uccisione di Conny. Thomas viene incolpato, e per la deposizione della figlia, anche condannato. Ma ora Dolly ritratta tutto. Dagli aiutanti di Reno, Lew scopre inoltre che Roy avrebbe sposato Tish, che si era trasferito a Reno per ottenere il divorzio ed impalmare la sua nuova bella, la professoressa Laura. Facendo in modo però che a tutti sembrasse lui corteggiasse Helena. Altre indagini portano alla scoperta di un necrologio di Tish nell’Europa della Seconda Guerra Mondiale. Ma ci sono indizi che portano a dubitarne. Abbiamo così tre delitti in cui, in qualche modo, è sempre presente Roy. E forse anche Tish? Lew riuscirà come detto a trovare il capo di questa ingarbugliata matassa, che ha anche tanto altro nelle sue più di trecento pagine. Che però vi consiglio di leggere. Anche perché l’autore ha un suo tocco di “intellettualismo” che mi farebbe piacere capire come veniva recepito dai lettori all’uscita del libro. Ad esempio, ci fa sapere che un ragazzo del campus dove studia Dolly sta leggendo “Il giovane Holden” di Salinger. Mentre aspetta una persona, Lew si mette a leggere un libro di filosofia greca, discettando di Eraclito e Parmenide. Inoltre, più volte ci riporta il paradosso di Zenone su Achille e la tartaruga. Dei piccoli spunti che rendono vieppiù gradevole la lettura. Che all’inizio era anche punto-interrogativa dall’immotivato titolo italiano. Perché il delitto invecchia? È forse un modo per dare al lettore una chiave interpretativa ulteriore, quando “The Chill” originale potrebbe applicarsi a molte situazioni e personaggi: ambiente freddo, personaggi frigidi o rigidi. Insomma, la mia battaglia per i titoli è ancora in combattimento.
Siamo alla terza domenica di giugno, ed eccoci allora a parlare in allegato delle nostre pazzie.
Comunque, è anche il solstizio d’estate, cioè il giorno più lungo dell’anno, in termine di sole. Da domani, minuto dopo minuto, comincerà ad avanzare il buio. Noi non lo temiamo, noi che abbiamo il sole dentro, noi che in ogni caso siamo contenti (no, non ho detto felici). Noi che pensiamo ai nostri cari. Io che vi vedo sempre, attorno all’io scrivente, che vi riconosco e so come devo distribuire baci e abbracci.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
GIUGNO 2020
Torniamo da questo mese a piccoli rimedi, come dice l’introduzione, che abbiamo bisogno di qualche blister prima di tornare “normali”.

BLISTER D’AUTOSTIMA 1

Non bisogna mai sottovalutare gli sbalzi di pressione. Soprattutto quelli della pressione emotiva, che può andare su o giù a causa di eventi esterni o di fattori congeniti come il carattere.
La pressione emotiva bassa può causare leggeri episodi di depressione quando l’umore scende in picchiata portandosi dietro l’autostima e la capacità di reagire. I sintomi dell’autostima bassa si manifestano principalmente con la mancanza di fiducia in sé stessi e con il conseguente senso d’inadeguatezza. Una delle principali cause all’origine dei vortici di bassa autostima, che portano temporali nella nostra vita, è il divario tra l’io reale e quello ideale, ovvero tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. A questo sdoppiamento, già difficile da gestire, bisogna aggiungere la frustrazione provocata dalla difficoltà di aderire agli standard, rigidi e spesso irraggiungibili, imposti dalla famiglia e dalla società. Cercare di innalzarsi a livelli inarrivabili comporta un ulteriore abbassamento dei livelli di autostima e sviluppa un pericoloso complesso di inferiorità, spesso legato anche a difetti fisici, che provoca a sua volta la comparsa di altre patologie legate alla disperata ricerca di sicurezza. Non meno pericoloso è il rischio della pressione emotiva troppo alta che, facendo schizzare l’ego al di sopra dei livelli di guardia, comporta spesso preoccupanti episodi di mitomania. Consiglio, in ogni caso, di diffidare sempre delle persone eccessivamente sicure di sé, quelle che godono nel farsi grandi sminuendo gli altri e che garantiscono di avere in tasca la chiave del successo: le tasche si bucano e le chiavi si perdono ma, soprattutto, raramente la gente dice la verità. Al contrario i libri, proprio perché inventano storie, è raro che mentano. Suggerisco di cercare nei libri rimedi di fantasia per colmare reali insicurezze.
Se vi sentite scarafaggi depressi, esseri inetti, brutti, perdenti, insicuri e privi di qualità, in questa sezione troverete la pillola giusta per ristabilire i corretti livelli di pressione emotiva e di autostima.
Avvertenza: le cure qui segnalate sono rivolte soprattutto a pazienti affetti da bassa autostima. Chi soffre di autostima alta difficilmente crede di essere malato e ancora più difficilmente penserà di doversi curare. In ogni caso, i rimedi qui consigliati farebbero tanto bene anche a loro.
Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo”
Vibrante atto di denuncia dei metodi distruttivi degli istituti psichiatrici, commovente inno alla libertà e toccante dichiarazione d’amore per l’umana fragilità, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è un valido rimedio per recuperare l’autostima.
Quando lo spavaldo, ribelle, folle (per davvero o per finta?) Randle Patrick McMurphy irrompe con la sua travolgente simpatia in un tetro manicomio dell’Oregon, porta lo scompiglio nelle vite svuotate dei malati acuti e cronici che vegetano in una sorta di limbo, abbandonati da una società che si rifiuta di capirli e di aiutarli ma vuole solo nasconderli come si fa con la polvere sotto il tappeto. In questa «prigione» gestita dall’inquietante infermiera Ratched, imponente fisicamente ma umanamente minuscola, il cocciuto irlandese porta di contrabbando armi pericolosissime quanto utili per evadere: allegria, entusiasmo e coraggio. Coinvolgendo i pazienti in giochi, partite di basket e battute di pesca in compagnia di prostitute li riporta lentamente alla vita attraverso il divertimento, aiutandoli a rialzare i livelli della loro autostima azzerata dalla paura, dalle ferite dell’anima e dalla mancanza di comprensione. Ma pagherà un prezzo alto per il suo altruismo e per il suo sogno ribelle di libertà. Considero parte integrante della cura letteraria la visione della bellissima trasposizione cinematografica diretta da Milos Forman con Jack Nicholson nei panni di McMurphy.
Pluripremiato agli Oscar, è assolutamente all’altezza del romanzo di cui mantiene inalterati i principi attivi. Non vederlo sarebbe davvero una pazzia, non amarlo è da folli. Ma folli veri. Quando la società vi fa sentire anormali e diversi, e inibisce con continui elettroshock emotivi la vostra capacità di reazione, procuratevi “Qualcuno volò sul nido del cuculo” in versione cartacea o di celluloide.
Senza arrivare ai disturbi psichici, in un mondo distorto come quello in cui ci tocca vivere, anche la fragilità è spesso vista come una malattia. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è quindi un potente antibiotico capace di contrastare la velenosa paura di una società spaventata dalla debolezza e dall’inevitabile imperfezione dell’essere umano. Insieme ai personaggi del romanzo possiamo ristabilire i corretti livelli di pressione emotiva, rivendicando con forza la nostra fragilità e imparando a rispettare quella altrui. Spesso non è pazzia, è solo male di vivere. E se vi considerano pazzi perché diversi, magari un po’ svitati proprio come McMurphy, rispondete come Pirandello: «Così è, se vi pare».

Commenti

Come ripeto e sottolineo più volte un libro assolutamente da leggere. Come un film assolutamente da vedere.
Ken Kesey “Qualcuno volò sul nido del cuculo” BUR euro 9,90
[pubblicato il 13 dicembre 2015]
Anche questo è un libro che si è infilato nella mia libreria sulla scia dei grandi film che ho amato, e che il libro di cura sui libri mi ha indotto a comperare e leggere. Ora sono indeciso, tra libro e film. Il film era potente, e giganteggiava la figura di Jack Nicholson. Anche il libro è potente, ma a me rimane più impressa qui la figura di “Ramazza” Bromden, il capo indiano mezzosangue, voce narrante del libro. È lui che osserva e descrive gli avvenimenti, lui paziente della clinica psichiatrica che si finge sordo e muto per non dover interagire con le istituzioni mediche. E che osserva l’ascesa verso la serenità del suo reparto, per poi constatarne, inesorabilmente, la caduta verticale di fronte all’autorità implacabile. L’autore (“troppo giovane per essere beat, troppo vecchio per essere hippie” secondo una sua definizione) è partecipe della grande cultura americana tra la fine dei Cinquanta ed i primi Sessanta. È amico di Neal Cassady (a sua volta sodale di Jack Keruac), conosce Timothy Leary e tutti gli allucinogeni e psicotropi di quegli anni. E confeziona questo libro come protesta verso la cultura americana, come grido ed atto di ribellione. Con l’ovvio ed amaro finale. Un’anticipazione del ’68: McMurphy e Ratched l’infermiera sarebbero le due facce della stessa medaglia americana, il primo a simboleggiare lo scontro violento contro l'autorità, la seconda a rappresentare quell'autorità al potere che non si può scalzare. Storia tutta “girata” nel moderno ospedale psichiatrico, con l’indiano che tutto guarda e osserva e registra. Dove ci sono pazienti più o meno cronici, come il balbuziente ed introverso Billy Bibbit, il logorroico Harding Dale, il maniaco delle carte Cheswick Charley. E pazienti ridotti a larve da elettroshock devastanti e lobotomie sperimentali. Un’isola che potrebbe essere felice, se non fosse dominata dalla rigida caposala, Miss Ratched, che usa un pugno di ferro per affermare il suo dominio su questo mondo in rovina. È qui che arriva Randy McMurphy, che si finge pazzo per scontare un periodo di detenzione in seguito ad una condanna per gioco d’azzardo, invece di passarlo in carcere. E da subito c’è lotta dura tra i due. Randy, comunque insofferente, comunque con una vena d’alienazione, porta venti di novità. Crea un tavolo da gioco, organizza partite di basket, fomenta una ribellione per poter vedere il basket in tv. Ottiene inoltre di organizzare una gita in mare, con i pazienti meno “pericolosi”, dove si accompagna con qualche donnina, e dove scorre birra a profusione. Insomma, spinge tutti a ricercare sé stessi, invece di lasciarsi guidare acriticamente da Miss Ratched. Ed anche una seduta di elettroshock non doma il suo spirito ribelle. Che raggiunge il culmine in una notte brava, con medicine psicotrope a go-go, con altre donnine che fa entrare in ospedale, e con una di queste che seduce il poco esperto Billy. Ma l’alcol scorre a fiumi, e la mattina la caposala giunge che sono in piena baldoria, trova l’amplesso di Billy, lo ridicolizza, e questi si uccide. Randy cerca a sua volta di uccidere Miss Ratched, ma viene fermato. E lobotomizzato, riducendolo ad una larva. Allora, il capo indiano che sempre seguiamo con affetto, pietosamente lo soffoca con un cuscino, per poi fuggire in Canada, verso la libertà. Cantandosi internamente la filastrocca che da piccola gli ripeta la sua nonna indiana: “Three geese in a flock / One flew East / One flew West / And one flew over the cuckoo's nest” (“tre oche in uno stormo / una volò ad Est / una volò ad Ovest / ed una volò sul nido del cuculo”). Qui sta tutto il bello e l’atroce del libro, che monta pagina dopo pagina, che ci avvolge con questa lotta di potere che sappiamo già come andrà a finire. Perché Randy andrà sempre sul suo solco comportamentale, non accettando di scendere sul piano delle istituzioni, della caposala. E non capendo i meccanismi dell’antagonista, la ribellione sarà inevitabilmente repressa nel sangue. Ecco, il libro mette forse più su questo lato l’accento, mentre Milos Foreman nel film lo sposta più sul lato psichiatrico, quasi a voler parlare solo di sanità e pazzia e non di potere e ribellione. Manca solo, per essere nelle vette top dei miei gradimenti, una punta di consapevolezza in più. Che tuttavia possiamo scusare guardando alla data di scrittura del libro (1962). Ed al fatto di quanto consapevoli e forse non più tanto ribelli siamo noi ora. Piccolo appunto finale: si nota anche che la traduzione è datata, coeva forse al romanzo stesso, laddove, ad esempio, a pagina 19 si lascia un inutile “pallabase” rispetto all’utilizzo del più corretto “baseball”. Ce ne sono altri, di piccoli intoppi, ma il libro è comunque bello e da leggere.

Finalino

Non so dirvi nulla sull’autostima, sentimento che non è molto nelle mie corde, né in alto né in basso. Ma ripeto il finale, sottolineando che, forse, una nuova traduzione potrebbe essere interessante.


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