Eccoci ad una
settimana senza autori di lingua inglese. Purtroppo, abbastanza al ribasso con
le prime tre prove. Non mi aspettavo molto dallo spagnolo Ortiz, ma sia de
Maupassant (in francese) che Canetti (in tedesco) potevano essere scritti degni
di maggior risultati. Fortunatamente finiamo con il cileno Bolaño, sempre nel
mio cuore, con un libro complesso ma interessante nella struttura e nei
contenuti. Un inciso: dopo molto tempo che scrivo “tutto azzeccato”, cercando
di rispondere a critiche di illeggibilità visiva, provo ad andare qualche volta
a capo. Ditemi voi se la lettura migliora.
Emilio
Ortiz “Attraverso i miei piccoli occhi” Salani s.p. (prestito di Alessandra)
[A:
07/01/2018 – I: 07/03/2020 – T: 09/03/2020] - &+
[tit.
or.: A través de mis pequeños ojos; ling. or.: spagnolo; pagine: 267;
anno 2014]
Una
lettura poco soddisfacente ma dovuta per una serie di atti d’amore. Per Trilli
che ci ha lasciato tre anni fa con molti rimpianti. Per Argo che ci tiene
compagnia, anche se ne fa una più del diavolo. Per Alessandra, Benedetta e
Francesco che non riescono a stare lontani dai cani.
Quindi,
con molta calma, mi avvio alla lettura, scoprendo primo che Ortiz è spagnolo,
mentre pensavo dal nome che potesse essere italiano. Non è certo una critica,
ma una costatazione, anche perché non mi dispiace la lettura in lingua
castigliana. Secondo, che Ortiz, oltre ad essere laureato e giornalista, è
anche ipovedente, e guidato da un cane di nome Spok. Terzo, che questo libro è
un atto d’amore di Emilio a Spok. Adottando un punto di vista della scrittura
veramente arduo: descrivere il rapporto cane-guida con ipovedente dal punto di
vista del cane. E qui cominciano i guai.
Perché
se la scrittura è fresca e scorrevole, il modo di impostarla è di difficile
digestione. Come tutte le volte che vedo qualcuno mascherarsi da altro, trovo
che l’espressione delle motivazioni e dei sentimenti siano sempre un po’
forzati verso quanto si vuole che sia e non quanto è. Così come quando un uomo
scrive impersonando una donna (o viceversa). Anche qui, probabilmente, se il
narratore fosse stato umano ci sarebbe stato forse un minor impatto emotivo nel
lettore, ma una miglior resa della “vita com’è”. Per quanto appunto voglia bene
ai cani, il modo in cui Cross (questo il nome del Golden Retriever che fa da
protagonista) vede la realtà è “troppo umano”. Il suo modo di descrivere modi e
sensazioni della vita, a due ed a quattro zampe, non può che risentire
dell’umanità dello scrivente. Di certo, un conoscitore di cani migliore di me
potrebbe dirmi che sì, i cani annusano, che sì, marcano il territorio, pensano
spesso a mangiare (ed a rubare cibo se non gli viene dato), che sì, usano il
corpo animale che hanno per rapportarsi ad altri animali. Ma detto tutto ciò, i
paragoni tra canidi e bipedi che imbastisce Cross mi lasciano alquanto freddo.
La storia
è in ogni caso lineare, con qualche momento pensieroso e qualche momento ilare.
Uno spagnolo cieco di nome Mario va negli Stati Uniti per addestrarsi con un
cane-guida. Nella scuola canina c’è l’incontro tra Mario e Cross, e vediamo il
nascere di un rapporto forte, e poi di un sincero amore. Vediamo Cross crescere
nell’addestramento, gioire nello stare insieme agli altri cani-guida,
apprezzare gli scherzi degli umani, ed interrogarsi sulla vita di Mario e sui
suoi contatti con familiari ed amici, via mezzi elettronici. So, e non è certo
qui che lo scopro, l’esistenza di modalità di interfaccia e di utilizzo di
sistemi elettronici per ciechi ed ipovedenti, dal desueto braille (che però
deve fare sempre da base) ai sistemi vocali ed altre modernità tecnologiche.
Dopo
l’affiatamento tra Mario e Cross, c’è il ritorno in patria, a Madrid. Dove
Mario riprende la sua vita, studia, si laurea, e cerca di sfondare sul mondo
del lavoro con una sua idea interessante (anche se analoga a quella cui lavorai
io più di venti anni fa, e che ancora non è stata pienamente realizzata; ma
questa è un’altra storia). Vediamo il rapporto di Mario con l’amico Nico,
vediamo il deteriorarsi del rapporto di Mario con Sandra (che né a me né a
Cross era mai piaciuta). Vediamo come Mario deve chiudere la porta in faccia a
Cross quando, come dice il testo, si dedica al “fiki-fiki” con una donzella.
Vediamo infine la nascita dell’amore tra Mario e Maria, lo svilupparsi della
società pensata da Mario, la nascita del loro figlio Toni (e di come i cani
sappiano badare ai cuccioli, di qualsiasi razza essi siano). Ma tutta la
seconda parte, anche se viene detta ancora “in punta di Cross”, è vista sempre
più con il cervello di Mario e suoi sodali. Anche perché ci si avvicina al
decimo (o dodicesimo) compleanno del cane, che essendo di razza e comunque
molto stressato dalla tipologia di lavoro, non può che terminare di fare la
guida, e probabilmente spegnersi.
La
prima parte, durante l’apprendimento, è comunque interessante, per le modalità
anche di rapportarsi cane-uomo. La seconda parte, in cui vediamo Mario lasciare
Sandra, bere come una spugna, incontrare Maria, eccetera, eccetera, risulta
abbastanza melensa. Forse una scrittura alla Danielle Steel l’avrebbe
riscattata. Purtroppo, non una scrittura all’Emilio Ortiz. Forse non sono
ancora troppo cinofilo, per commuovermi alla lettera d’addio di Emilio a Cross.
Ma io ho letto il libro come un romanzo, non come un trattato di vita canina. Credo
che, intorno alla letteratura, ci siano modi migliori di rappresentare queste
tipologie di rapporti (mi pare di aver letto qualcosa su degli scritti di
Virginia Woolf, ma non sono sicuro).
In
ogni caso, alla fine ribadisco che scrivere dalla parte del cane è forse un
atto d’amore, ma non mi ha fatto amare il libro più di tanto. E la storia in
sé, se togliamo la presenza di Cross, non riesce certo a coinvolgere molto.
Guy de
Maupassant “Racconti e Novelle” Crescere Edizioni s.p. (Regalo di Bene&Fra)
[A:
07/05/2019 – I: 13/03/2020 – T: 17/03/2020] - &&
--
[tit.
or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 477;
anno 2016]
Una
serie di punti negativi, per una raccolta di racconti che ha molti alti e
bassi, è dovuta dal confezionamento del libro da parte della casa editrice.
“Crescere edizioni” è una casa editrice di Varese, specializzata in libri per
l’infanzia e riedizioni di classici. Che però riedita senza curarne granché la
forma. Qui, i varesotti hanno preso una edizione svizzera, e l’hanno riprodotta
senza un minimo di criterio. I 22 titoli sono quindi presentati non solo senza
l’indicazione del titolo originale e della data di pubblicazione (cosa che
riporto in coda a questa trama), ma anche, come credo abbia fatto il testo
svizzero, senza un ordine cronologico di riferimento. Mentre ben sappiamo che
scritti di date diverse, hanno modi e forme stilistiche generalmente diversi.
Così che, una riproduzione più filologica avrebbe consentito anche di
apprezzare l’evolversi della scrittura dell’autore.
I
testi qui riportati vanno dal 1880 al 1890, e non è un caso che negli ultimi si
senta anche l’influenza della scrittura di Edgar Allan Poe, ben noto in Francia
per le traduzioni fatte una quindicina di anni prima da Charles Baudelaire. Il
grande narratore francese non si smentisce nella sua capacità descrittiva: come
comincia a scrivere ci sentiamo subito proiettati nella sua dimensione
narrativa, vediamo le città, le campagne, i personaggi. Purtroppo, molto è
anche datato, anche se, archetipamente, alcuni suoi attori sono immortali. Il
timido, la sciantosa, il sindaco, l’impiegato, le coppie in lite e quelle in
armonia, dopo quasi 150 anni sono sempre attuali. Alcune modalità di vita meno,
ma è ben comprensibile.
Uno
sguardo speciale (sarà l’aria del suo tempo) Guy lo dedica alle case di
tolleranza ed alle donne di “facili costumi”, magari in allegria come il primo
racconto (“Casa Tellier”) o al contrario voglia di riscatto per poi dover
soggiacere ai facili costumi perché non c’è via di scampo (“Yvette”).
Anche
alcune fette significative sono dedicate ai rapporti interpersonali. Paura di
confessare il figlio della colpa (“Storia di una ragazza di campagna”),
rimpianto per non aver ceduto alle avance di un simpatico giovanotto
(“Scampagnata”), ignominia di aver fatto delle avance non richieste che poi si
rivelano favorevoli ad altri (“Quel porco di Morin”), felicità di barattare
viaggi in Italia con le bellezze di Genova (“Le sorelle Rondoli”). Situazioni
familiari intrigate ed intriganti: attesa della morte della vecchia per
un’eredità (“In famiglia”) o un’eredità legata alla nascita dell’erede, che se
non viene tanto vale farlo con il primo venuto (“L’eredità”) o lo sfiorire
della bellezza dopo sette figli, che la moglie confessa fraudolentemente di
aver tradito il marito così che questi si astiene da metterla di nuovo incinta
(“L’inutile bellezza”).
Financo
due racconti simmetrici: in uno la perdita di una collana di poco valore porta
alla rovina una famiglia (“La collana”), nell’altro la moglie fedifraga lascia
al marito i gioielli delle sue avventure che lui crede bigiotterie invece sono
di valori (“I gioielli”). I due preti al centro di vicende opposte: il rigido
che non accetta la crescita della nipote (“Plenilunio”) ed il permissivo, che
si ritrova parroco con un figlio della colpa, ma talmente fuori di testa che
troverà un modo estremo per vendicarsi (“L’oliveto”).
Alcuni
li ho trovati francamente inutili, senza particolari patemi o apporti di
conoscenza (“Sant’Antonio”, “Idillio”, “Toine”). Ci sono i due che risentono
delle atmosfere di Poe, ma mentre il primo ha un andamento quasi da thriller
che ci può stare (“La piccola Roque”), il secondo tenta di descrivere
un’atmosfera nel solco delle angosce della Casa di Usher senza minimamente
riuscirci (“L’Horlà”).
Lascio
per ultimi i migliori, per me.
Il
lanciarsi con tutta la forza dello scritto contro il perbenismo e l’ostracismo
dell’omosessualità femminile (“La ragazza di Paul”). E i tre scritti contro le
guerre ed i prussiani, anche se con diverse tonalità. In “Mademoiselle Fifì”
vediamo la rozzezza degli invasori che solo la puttana Rachel affronta,
dimostrando da sola molto più coraggio che la maggioranza dei cittadini che
hanno sempre e solo continuato a pensare ai propri più materiali e miserabili
interessi. Ne “I due amici”, i due del titolo, nonostante la guerra, chiedono
un salvacondotto per andare a pescare oltre le linee nemiche, ma catturati,
decidono di affrontare la morte piuttosto che tradire. Infine, c’è “Pallina” o
“Palla di Sego” come spesso viene ricordato. Dove la signorina del titolo, in
viaggio con altri sfollati attraverso le linee prussiane, prima viene adulata,
nonostante sia appunto “una ragazza facile”, perché ha da mangiare mentre gli
altri no. Poi, quando i prussiani fermano il convoglio e l’ufficiale esige una
notte di sesso per lasciarli partire, quando Pallina cede, per il bene degli
altri, questi la relegano nel silenzio e nell’isolamento. In questo, che
senz’altro è il migliore di tutti, de Maupassant riesce a colpire tanti
bersagli: il perbenismo, l’umanità delle classi senza speranza, l’arroganza del
potere, la collusione che poi collega prussiani invasori e francesi di buon
denaro.
Ho
letto il tomo con difficoltà, salvando come avete capito solo alcuni punti che
sono imperdibili. Certo, un grande scrittore, ma io non sempre osanno tutto
quello che i grandi scrittori scrivono. Se mi piace bene, se no ne parlo in
modo poco positivo. Come per i racconti che ho taciuto perché assolutamente
inutile. Come questo “Boule de Suif” che invece vale tutto il libro.
“All’incrocio
di Courbevoie furono presi d’ammirazione … a destra laggiù c’era Argenteuil.”
(87) [che salto nel passato, fu a Courbevoie che vissi la mia stagione liceale
a Parigi…]
“Era
diventato vecchion, senza essersi accorto che la vita era trascorsa.” (100)
“A
volte il silenzio è bello. Ci si sente più vicini quando si sta zitti che
quando si parla.” (242)
“Basta
un momento di riflessione per convincerci che la terra non è fatta per esseri
come noi.” (447)
#
|
Titolo italiano
|
Titolo originale
|
Data
|
Casa
Tellier
|
La
maison Tellier
|
01/05/1881
|
|
2
|
Pallina
|
Boule
de suif
|
01/04/1880
|
3
|
Storia
di una ragazza di campagna
|
Histoire
d'une fille de ferme
|
26/03/1880
|
4
|
Scampagnata
|
Une
partie de campagne
|
02/04/1881
|
5
|
In
famiglia
|
En
famille
|
15/02/1881
|
6
|
La
Signorina Fifì
|
Mademoiselle
Fifi
|
23/03/1882
|
7
|
La
ragazza di Paul
|
La
femme de Paul
|
01/05/1881
|
8
|
L’eredità
|
L'héritage
|
15/03/1884
|
9
|
Plenilunio
|
Clair
de lune
|
19/10/1882
|
10
|
Yvette
|
Yvette
|
29/08/1884
|
11
|
Quel
porco di Morin
|
Ce
cochon de Morin
|
21/11/1882
|
12
|
Due
amici
|
Deux
amis
|
05/02/1883
|
13
|
I
gioielli
|
Les
Bijoux
|
27/03/1883
|
14
|
Sant’Antonio
|
Saint-Antoine
|
02/04/1883
|
15
|
Idillio
|
Idylle
|
12/02/1884
|
16
|
La
collana
|
La
parure
|
17/02/1884
|
17
|
Le
sorelle Rondoli
|
Les
soeurs Rondoli
|
29/05/1884
|
18
|
Toine
|
Toine
|
06/01/1885
|
19
|
La
piccola Roque
|
La
petite Roque
|
18/12/1885
|
20
|
L’Horlà
|
Horlà
|
26/10/1886
|
21
|
L’inutile
bellezza
|
L'inutile
beauté
|
02/04/1890
|
22
|
L’oliveto
|
Le
champ d'oliviers
|
14/02/1890
|
Elias Canetti “Autodafé” Adelphi euro 15
[A:
09/09/2017 – I: 12/04/2020 – T: 15/04/2020] - &&
[tit.
or.: Die Blendung; ling. or.: tedesco; pagine: 548;
anno 1935]
Primo e unico
romanzo pubblicato dal premio Nobel bulgaro naturalizzato inglese che scrive in
tedesco. Non un libro facile, per la scrittura, per l’epoca dello scritto e per
l’autore stesso. Un intellettuale a tutto tondo, sodale di tanti circoli
importanti, che legherà la sua vita e la sua opera alla ricerca di un nesso e
di una spiegazione dello stesso che condenserà nel suo libro summa “Massa e
potere”. Ma qui parliamo del romanzo ed a lui torniamo.
Uno scritto che
vede la sua gestazione tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta,
quando l’autore, venticinquenne, vive a Vienna, ed entra in contatto con il
fecondo mondo degli intellettuali tedeschi, da Schnitzler a Kraus, passando
anche per Freud (che però non amava tanto). Che non sia un libro facile lo
mostra anche il fatto che dal suo completamento, nel 1931, alla sua
pubblicazione passano ben 4 anni. Altro punto nodale per la comprensione del
testo stesso è la gestazione del titolo. Che in tedesco suona “Il bagliore” o
“L’accecamento” (non ho una conoscenza tale del tedesco da entrare in una
traduzione più fine, ma mi attengo a quanto ne ricavo da Wikipedia). Mentre,
quando comincia ad essere tradotto all’estero, lo stesso Canetti chiede venga
utilizzato il titolo con cui lo conosciamo. Titolo derivato dai processi
dell’inquisizione, dove l’accusato, se riconosciuto colpevole, veniva
condannato in generale al rogo, consentendogli una dichiarazione finale, che in
spagnolo si chiamava “acto de fé”, cioè “atto di fede”, e che passando per il
portoghese da “acto” ad “auto”, arriva all’attuale dizione di “autodafé”.
È sempre Canetti
che ci permette anche, nella sua nota finale, di capire meglio il romanzo
stesso. In realtà Canetti aveva l’idea ambiziosa di scrivere otto romanzi sul
tema di una rappresentazione grottesca ed ironica del mondo, e del momento di
crisi che stava attraversando. Otto romanzi che poi condensa in questo, facendo
confluire più voci nel flusso narrativo. Non entro nel merito se questo abbia
appesantito il romanzo stesso. Certo, visto così come viene terminato, se ne
risaltano i rimandi alle grandi opere dei russi ottocenteschi (che non a caso
ho sempre avuto difficoltà a leggere), da Nikolaj Gogol' a Fëdor Dostoevskij.
Per parte mia,
devo dire che ho apprezzato e seguito con piacere la prima parte, o meglio, le
prime cento pagine, in cui vediamo delinearsi la personalità e la vita del
sinologo ed intellettuale Peter Kien (il cognome in tedesco vuol dire “legno
resinoso”, ed anche questo ha un senso). Ed in modo analogo e in un certo senso
reciproco, la parte finale, nel rapporto tra Peter ed il fratello Georg, dove
esce fuori da un lato l’embrione del pensiero che segnerà tutta la vita di
Canetti, quel rapporto tra massa e potere di cui porto una citazione in fondo.
Dall’altro i discorsi eruditi e trasversali nelle varie materie, che saranno
anch’essi l’ossatura del suo pensiero, come l’antropologia, la sociologia, la mitologia,
l’etologia, la storia delle religioni. Quest’ultima accennata in una serie di
dotte citazioni tra Confucio, Buddha, testi talmudici e religiosi.
Di converso, tutte
le 400 pagine intermedie mi sono state di difficile lettura, tanto che ne ho
letto anche con insofferenza, cosa a me non molto usuale.
La storia, in sé,
è in realtà un apologo abbastanza poco mascherato. Seguiamo l’ascesa e la
caduta del protagonista, Peter, letterato, autore di saggi che magari non
pubblica che nessuno li capirebbe, tanto sono elevati. Ci sarebbero tanti
piccoli avvenimenti che in un saggio aulico andrebbero analizzati, ma qui si va
di grandi linee. Il secondo libro che si intreccia con Peter è la storia di
Thérese, che inizia da governante ed amante dei libri (almeno formalmente), per
poi trovare il modo di farsi sposare, ed iniziare una carriera da “femme
fatale”. Prima, mossa dopo mossa, relega il povero Peter in una delle quattro
stanze originarie. Poi lo mette alle strette per cercare di estorcergli un
testamento a suo favore, e quindi lo caccia di casa. Dopo un periodo di
assestamento, pensa bene di circuire il portiere dello stabile, di utilizzarlo
per vendere la biblioteca enorme di Peter a poco a poco al Monte di Pietà. Ma
lì trova, o ritrova, Peter, che riprende il suo posto nel palazzo, ma non nella
casa. Sostituendosi al portiere che lo sostituisce nel letto matrimoniale. Fino
a che il fratello Georg viene da Parigi, lo libera, e caccia Thérese e il
portiere. Il fratello era venuto da Parigi a seguito di un telegramma inviato
dal nano Fischerle (da Fischer à pesce e suffisso
vezzeggiativo -le, quindi pesciolino), co-protagonista di tutta la parte
centrale libro. Dove Peter, cacciato di casa, va in giro con i suoi libri sulla
testa (immagine grottesca del sapere), dormendo in alberghi sordidi,
frequentando bar malfamati, dove appunto incontra il nano. Grande appassionato di
scacchi, che vuole sfidare l’allora campione del mondo José Raul Capablanca
(cosa che quindi colloca la vicenda tra il 1921 ed il 1927, periodo del regno
del cubano), ma che è soprattutto autore di raggiri, e legato ad una grassa
prostituta. Per uno strano senso di solidarietà intellettuale, il nano decide
di prendersi cura di Peter. Un po’ lo aiuta, un po’ lo raggira, per avere i
soldi con cui andare in Americas, che otterrà come soldi ma che poco gli
serviranno. A parte il ruolo da quasi chaperon che consente a Fischerle di far
rincontrare Thérese e Peter, sono duecento pagine inutili.
Come detto sopra,
tuttavia, il nano ha il pregio di far intervenire Georg, che libera Peter, che
caccia Thérese e il portiere (quindi ecco che dopo la storia di Peter, la storia
di Thérese, con il nano, la governante e il fratello abbiamo almeno cinque
delle otto storie di Elias). La fine sarà come da copione già spiegata nel
titolo. Peter, intellettuale e poco legato alla realtà, dalla realtà uscirà
sconvolto, senza punti di orientamenti, tanto che si immaginerà cose che non
esistono, e finirà come Sansone, dove i libri saranno i suoi filistei (che per
chi ha percorso quei luoghi sa bene essere l’antico nome degli attuali
philistin, cioè palestinesi).
Un appunto di
“storia e preveggenza”: nel 1972 divenne campione mondiale di scacchi Bobby …
Fischer, come il nano di Canetti. Per tornare al libro, forse ha ragione la
lunga citazione autoreferenziale: i romanzi scritti come questo di Canetti
andrebbero proibiti. In tutte e quasi le seicento pagine, rimangono solo gli
appunti sull’amore per i libri, sulle citazioni incrociate, nonché tutta una
parte misogina sulle attività femminili nei secoli, di cui non è chiaro
l’intento ironico. Io, al fine, preferisco il Canetti autobiografico, e tutt’al
più descrittivo come nel bellissimo “Le voci di Marrakech”. Confesso che ho dei
dubbi se e quando leggerò il volume sulla nascita della massa, sulla sua
psicologia, sull’influenza per l’ottenimento ed il mantenimento del potere.
Magari in questo
potrebbe aiutarmi il mio amico Pietro.
“Quanto a lui, possedeva la più importante
biblioteca privata di quella grande città.” (15)
“Il piacere che … offrono [i romanzi] lo
si paga a carissimo prezzo: essi finiscono per guastare anche il carattere più
solido. Ci si abitua ad immedesimarsi in chicchessia. Si prende gusto al
continuo mutare delle situazioni. Ci s’identifica con i personaggi che
piacciono di più. Si arriva a capire qualunque atteggiamento. Ci si lascia
guidare docilmente verso le mete altrui e per lungo tempo si perdono di vista
le proprie. I romanzi sono dei cunei che un attore con la penna in mano insinua
nella compatta personalità dei suoi lettori. Quanto più precisamente egli saprà
calcolare la forza di penetrazione del cuneo e la resistenza che gli verrà
opposta, tanto più ampia sarà la spaccatura che rimarrà nella personalità del
lettore. I romanzi dovrebbero essere proibiti per legge.” (48)
“Di una sola scoperta … menava vanto …
l’azione della massa nella storia e nella vita dell’individuo, il suo influsso
su certi mutamenti dello spirito.” (470)
Roberto
Bolaño “I detective selvaggi” Adelphi s.p. (regalo de “I Floridi”: Mario, Ines
e la signora Laura)
[A:
07/05/2019 – I: 16/04/2020 – T: 20/04/2020] - &&&&
+
[tit.
or.: Los detectives salvajes; ling. or.: spagnolo; pagine: 688;
anno 1998]
Un
libro che impegna nella lettura pieno com’è di rimandi e di informazioni altre.
Ma una delle prove migliori, per me, tra quelle del mio coevo Bolaño (che in
effetti è nato dieci giorni prima di me) che ormai da troppo tempo ci ha
lasciato. Il romanzo è veramente complesso, tanto che meriterebbe un libro a sé
per poterne parlare, e decrittare tutte le sfaccettature. Di certo è il
tentativo di uno scrittore con una testa meravigliosa di lanciare un peana, o
meglio come direbbe uno dei suoi personaggi, Juan Garcia Madero, una trenodia
ad una generazione centroamericana che uscirà con le ossa rotte dal calderone
della storia.
Non
solo è complesso nella storia, ma lo è anche nella struttura, tripartita e
polifonica. Il nodo centrale è l’incontro di vari giovani latino-americani,
scrittori, poeti o comunque vicini alla letteratura (anche giornalisti, grafici
di riviste, ed altro) che convergono verso la creazione di un movimento
letterario dal nome attraente “realismo viscerale”. Movimento che qualcuno di
loro fa risalire ad un analogo, simile movimento degli anni ’20, che avrebbe
avuto esponente di spicco una poetessa, Cesarea Tinajero, poi scomparsa senza
lasciare traccia nel distretto di Sonora (una regione semi-desertica di confine
tra Messico e Arizona).
Già
da questo vediamo il mascheramento ed il tentativo dell’autore di descrivere
un’epopea basata sui rimandi.
Infatti,
si vede in trasparenza il movimento che intorno al 1974 fondarono lo stesso Bolaño
ed il suo carissimo amico Mario Santiago con il nome “infrarrealismo”. L’idea
dei due è di dare vita, in Messico ed in lingua spagnola, ad una “cosa” (e mi
scuso ma non c’è un nome singolo per quello che volevano fare) che percorresse
strade analoghe, letterarie e di vita, alla Generazione Beat americana degli
anni ’50. Anche il movimento messicano aveva un antenato anteguerra mondiale,
con lo stesso nome, legato però non ad uno scrittore ma al pittore cileno
Roberto Matta, che lo avrebbe coniato quando fu espulso dal movimento
surrealista da parte di André Breton. Anche il “realvisceralismo” di Cesarea
aveva avuto a suo tempo un ombrello da cui fu espulso. Ero lo “stridentismo”,
fondato nel 1921 in Messico dal poeta Manuel Maples Arce, anche qui un
movimento interdisciplinare, legato al sociale, con radici nel futurismo, nel
dadaismo, nel surrealismo, così denominato per il gran rumore che suscitò alla
sua comparsa (stridente à rumore sgradevolmente acuto secondo il
dizionario). Già da questa genesi vediamo la complessità dell’idea di base.
Ma
anche la struttura, come detto polifonica, è magistrale.
Il
libro è composto da tre parti.
La
prima e la terza sono il diario scritto dal giovane Juan Garcia Madero,
diciassettenne innamorato di poesia, che ci racconta gli avvenimenti da lui
vissuti dal novembre 1975 al febbraio 1976. L’incontro con i fondatori del
“realvisceralismo”, Arturo Belano e Ulises Lima. La sua entrata nel movimento.
L’incontro con tutti i personaggi che gravitano intorno, in special modo le
donne (di cui si innamora ed altro). La fuga con Arturo, Ulises e
l’ex-prostituta Lupe sia per sfuggire al di lei magnaccia, sia per cercare
tracce di Cesarea nello stato di Sonora. Di certo non vi dico cosa succede
prima, durante e dopo questa ricerca, e se viene trovata Cesarea, ed altro.
La
parte centrale, corposa e molto articolata, è invece basata su decine e decine
di voci diverse, che raccontano cosa succede della vita di Arturo e Ulises dal
1976 al 1996. Questo coro, cui i due letterati centrali del romanzo non
partecipano mai, ci farà seguire le loro gesta.
Arturo,
il cileno, e le sue donne. I suoi amici omosessuali. La sua fuga in Europa,
dove farà mille mestieri, dal commesso, al guardiano di campeggio. I suoi
matrimoni, e forse uno o due figli. La voglia di non star mai fermo, come se
avesse paura di qualcosa. La sua seconda ed ultima fuga in Africa, dove, come
Rimbaud, pare (o riesce?) voler perdersi senza ritorno.
Ulises
che invece rimane ancora in Messico all’inizio, ed è quasi ignorato. Ma che poi
va anche lui in Europa, si incontra con Arturo, poi decide di andare a trovare
una sua fiamma in Israele, dove trova che questa è sposata con un altro. Il
ritorno in Messico. L’incontro con l’ormai anziano Octavio Paz, l’emblema
contro cui i realvisceralisti avevano scagliato le prime pietre.
Ma
queste sono solo piccole piume della ricchezza della scrittura. Perché ogni
voce, ogni persona che interviene, fa nascere spesso un microracconto interno
al romanzo. Un racconto che a volte si esaurisce, a volte si riprende più
tardi. E da tutte queste voci, che di sicuro non riesco a riportare qui, alla
fine esce fuori il monumento dolente di una generazione. Di un insieme di
intellettuali che avrebbero voluto portare novità, che avevo iniziato a
portarne, ma che, come di tutte le cose, alla fine rimane solo qualche
elemento, qualche rovina, anche se delle rovine bellissime.
Qualcuno,
meglio attrezzato di me, parla di una “educazione sentimentale” alla Flaubert
legata a persone e a movimenti. Non so, non mi pronuncio. Quello che è certo, è
che dietro ogni personaggio c’è sempre una persona. Non a caso i due di cui
cerchiamo di capire le gesta e la vita, Arturo e Ulises, sono gli alter ego di Bolaño
e di Mario Santiago. Come molti altri personaggi, per cui penso che dedicherò
del tempo a ritrovarne voci e sentimenti nello spazio e nella memoria. Nel
libro Arturo-Roberto sparisce e Ulises-Mario rimane a vagare in una Città del
Messico che, ad ogni passo, mi torna alla memoria.
Nella
realtà, in quel 1998 in cui finì la scrittura, Roberto stava ormai da tempo a
Barcellona, cercando di curarsi per un male che ce lo porterà via cinque anni
dopo. Mario stava sì in Messico, ma venne travolto in un incidente stradale e
non riuscì mai a leggere di questi detective selvaggi. Di questi cercatori che
le voci del bravissimo cileno utilizza per cercare di trovare, e di
presentarci, l’anima di una generazione. Investigatori dell’anima e scopritori
di sentimenti.
Un
libro che a volte è troppo “messicano” per me profondamente occidentale. Ma che
mi ha stimolato, mi ha preso, e mi ha fatto voglia di andare oltre. Di
viaggiare, col corpo e con la mente. Di visitare il deserto di Sonora, e di
trovare i segni del passaggio di Juan Garcia Madero, uno dei pochi al mondo che
sapeva cosa fosse l’epanadiplosi.
“Tutti
i libri del mondo stanno aspettando che io li legga.” (20)
“Peccato
che il tempo passi, vero? peccato che si muoia e si invecchi e che le cose
belle si allontanino da noi al galoppo.” (204)
“Le
storie che si raccontano negli aeroporti si dimenticano in fretta, a meno che
non siano storie d’amore.” (560)
Come
sapete ormai, siamo alla terza domenica di luglio, per cui ci pregiamo di
allegare un piccolo panegirico contro i ricci.
Per
il resto siamo ancora qui, a leggere, scrivere, e pensare. Forse voi giovani
lettori di ogni età, non ve ne accorgete, ma il tempo sta passando. Ed ogni
volta c’è un piccolo dolore in più che ci ricorda sia l’esistenza che
l’assenza.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
LUGLIO 2020
Torniamo anche questo mese a piccoli rimedi, come dice l’introduzione,
che abbiamo bisogno di qualche blister prima di tornare “normali”.
BLISTER
D’AUTOSTIMA 2
Avvertenza: le cure qui segnalate sono rivolte soprattutto a
pazienti affetti da bassa autostima. Chi soffre di autostima alta difficilmente
crede di essere malato e ancora più difficilmente penserà di doversi curare. In
ogni caso, i rimedi qui consigliati farebbero tanto bene anche a loro.
Utile
per abbassare la presunzione in chi ne ha in eccesso e incrementare l’autostima
in chi ne è poco provvisto, “L’eleganza del riccio” si rivela efficace anche
per stroncare senza pietà i primi subdoli sintomi di pregiudizio nei confronti
dei diversi (per indole, per ceto sociale o anche per scelta). Viceversa, è
indicato per innalzare le difese immunitarie in chi è cronicamente schiacciato
dal senso d’inferiorità, aiutandolo ad alzare la testa, a rivendicare la
dignità e a rivelare al mondo le proprie doti nascoste. L’automortificazione è
una malattia grave quanto il pregiudizio e adattarsi ai pregiudizi è ancora
peggio. Ma ora passiamo alla cura.
La
protagonista di questo raffinato romanzo francese è Renée, portinaia di un
elegante palazzo parigino al numero sette di rue de Grenelle (che già conoscete
se vi siete sottoposti a una cura ricostituente a base ai “Estasi culinarie”).
È bassa, brutta, grassottella, con i calli ai piedi e l’alito di un mammut. Non
ha studiato ed è sempre stata povera e insignificante. Non sono io a essere
indelicata nel descriverla, perché è lei stessa, io narrante, a presentarsi in
questo modo al lettore. Confessa anche di non fare alcuno sforzo per integrarsi
con i suoi simili, che è educata ma mai gentile, che nessuno le vuole bene e
che tutti la tollerano in quanto aderisce perfettamente allo stereotipo della
portinaia e, così facendo, consente il corretto funzionamento di ‘quella grande
illusione universale secondo cui la vita ha un senso facile da decifrare’.
Altri requisiti della categoria presuppongono che le portiere siano
teledipendenti e che la loro guardiola debba puzzare di brodo. Così Renée fa
credere a tutti di astenersi dal cucinare intingoli maleodoranti solo perché la
puzza non sarebbe degna del palazzo, abitato da insigni rappresentanti della
ricca borghesia. Allo stesso modo, mentre si diletta con altre e ben più
intellettuali occupazioni, tiene sempre accesa la televisione solo per
rassicurare i condomini che la loro portinaia possiede anche lo status di
teledipendente. Renée non ha studiato ma ha una cultura eclettica da
autodidatta proletaria, una cultura sincera perché frutto dell’interesse che
nasce dal piacere. Affamata di letteratura e arte, ha abbandonato gli studi per
lavorare, rassegnata all’idea che forse era meglio così. In questo modo,
infettata da quel senso d’inferiorità che, se non preso in tempo, rischia di
condizionare il corretto svolgimento di una vita appagante, ha preferito non
battersi in un mondo di ricchi, lei figlia di nessuno, senza bellezza,
ambizione e savoir-faire, desiderando solo di essere lasciata in pace,
nell’indifferenza, appagando in solitudine la sua fame di filosofia, arte,
musica e cultura giapponese. Il riccio ha messo gli aculei per non essere
disturbato mentre cova di nascosto la sua eleganza. Intimoriti dagli aculei,
gli altri si guardano bene dall’avvicinarsi troppo. Ma Renée non è l’unico
‘personaggio in incognito’ del romanzo, non è la sola a mentire sulla sua vera
identità. Nel palazzo abita anche Paloma, dodicenne che si finge lo stereotipo
dell’adolescente mediocre mentre ha un cervello che marcia a ritmo di riflessioni
brillanti. Il padre è un ministro di strette vedute che fa dell’aggressività la
sua politica di vita, mentre la madre, che ha letto l’opera omnia di Balzac e
cita Flaubert a tutte le cene, è la dimostrazione quotidiana di come
l’istruzione, o meglio lo sfoggio d’istruzione, sia una vera e propria truffa.
Paloma non soffre di bassa autostima, anzi è consapevole di possedere
un’intelligenza eccezionale (è lei stessa, seconda voce narrante del romanzo, a
dirlo apertamente) ma non le va di farsi notare, vuole essere lasciata in pace
e quindi simula un’intelligenza media imitando la mediocrità dei coetanei.
Diversa da tutti e solitaria, cosciente e lucida della realtà delle cose, e
quindi leopardianamente sofferente (ma con una buona dose d’ironia e leggerezza
francese), per lei la vita è una farsa e, convinta di non riuscire a resistere
fino alla fine, ha deciso di suicidarsi il giorno del suo compleanno. Ma
proprio perché la vita è una farsa a volte riserva colpi di scena inattesi:
grazie all’arrivo del ricco e sensibile giapponese Ozu, orientale nei modi e
nell’animo, le due protagoniste incroceranno le loro vite, uscendo allo
scoperto, scoprendosi spiriti affini e rendendosi conto che la vita è ‘molta
disperazione, ma anche qualche istante di bellezza [...]’.
Con
grazia, filosofia e ironia, “L’eleganza del riccio” consente di correggere quei
difetti di miopia che rendono difficile vedere al di là delle apparenze e,
favorendo il rilassamento emotivo, aiuta a ritrovare la calma e il tempo
necessari per conoscere una persona prima di catalogarla frettolosamente
(catalogare le persone è anche più superficiale che giudicarle). Non tutte le
guardiole puzzano di brodo, non tutti gli intellettuali brillano
d’intelligenza. Una persona non è una categoria, una portinaia può anche
rivelarsi sorprendentemente colta e un politico estremamente ottuso (cosa che
non si fatica a credere). Un possibile effetto collaterale della cura potrebbe
essere il sospetto che l’eventuale puzza di brodo proveniente dalla guardiola
del vostro palazzo nasconda ben altri profumini e che la vostra portiera probabilmente
cucini meglio di Alain Ducasse.
Se
voi siete il riccio e come Renée e Paloma tendete a nascondere la vostra
personalità dietro una maschera, la lettura del romanzo è uno stimolante per
abbandonare la tana e rivelare la vostra eleganza. È vero che il mondo è pieno
di mediocrità ma anche di bellezza. Privarsi della bellezza per proteggersi
dalla mediocrità può essere una strategia di sopravvivenza che, però, aiuta a
sopravvivere e non a vivere. Accorgersi di tutto questo il prima possibile
giova alla salute in quanto la vita è una farsa che a volte riserva colpi di
scena imprevisti ma spesso anche brutte sorprese. In proposito, fate attenzione
al finale perché vi conficca un aculeo nel cuore.
Per
una terapia cinematografica sostitutiva, si può ricorrere al film diretto da
Mona Achache: “Il riccio”.
Una
curiosità: il raffinato e distinto signor Ozu è l’unico a intuire l’inganno
della protagonista e l’unico a prendersi il giusto tempo per scoprirne la vera
natura. Come riesce a far uscire il riccio dalla sua tana? Ma con il suo cibo
preferito, ovviamente: i libri. Quale in particolare? Anna Karenina.
Commenti
Non mi ha convinto mai fino in fondo la scrittura della pur
simpatica Muriel, tanto che dopo i due libri che distano ormai una decina di
anni, niente è più comparso all’orizzonte delle mie ricerche.
Muriel Barbery
“L’eleganza del riccio” E/O euro 18
[pubblicato il 17 dicembre 2008]
Fenomeno
del 2006 in Francia, opera seconda della Barbery (ed ora è uscita anche l’opera
prima). Mi incuriosiva il successo, ma devo dire che, seppur non mi ha deluso,
qualche interrogativo me lo lascia. Dalla sua guardiola di Rue de Grenelle 7,
assiste allo scorrere della lussuosa vacuità della vita la portinaia Renée, che
appare in tutto e per tutto conforme all'idea stessa della portinaia: grassa,
sciatta, scorbutica e teledipendente. Niente di strano, dunque. Tranne il fatto
che, all'insaputa di tutti, Renée è una coltissima autodidatta che adora
l'arte, la filosofia, la musica, la cultura giapponese. Cita Marx, Proust,
Kant... dal punto di vista intellettuale è in grado di farsi beffe dei suoi
ricchi e boriosi padroni. Ma tutti nel palazzo ignorano le sue raffinate
conoscenze, che lei si cura di tenere rigorosamente nascoste. Poi c'è Paloma,
la figlia di un ministro ottuso; dodicenne geniale, brillante e fin troppo
lucida che, stanca di vivere, ha deciso di farla finita (il 16 giugno, giorno
del suo tredicesimo compleanno). Fino ad allora continuerà a fingere di essere
una ragazzina mediocre e imbevuta di sottocultura adolescenziale come tutte le
altre, segretamente osservando con sguardo critico e severo l'ambiente che la
circonda. E si va avanti così per pagine e pagine, citando, rinviando, ma in
sostanza rimandando ad una cattiva metafora (uscire dal proprio gregge provoca
disastri). Forse è un po’ snob, del tipo, vedete quanto sono brava nel dire
cose forti con leggerezza. Comunque, qualche corda me la tocca (come non voler
bene a chi ama Blade Runner?) ma così, con un sorriso a fior di labbra, senza
la grassa risata del discoprimento. La fine poi è tutta da discutere. Ah, per
finire, la ragazzina mi sembra poi difficilmente sostenibile nella realtà.
Leggere per rimanere aggiornati. E poi discuterne.
Muriel Barbery
“Estasi culinarie” E/O euro 8
[pubblicato il 19 settembre 2010]
Per
quanto il riccio mi era piaciuto fino ad un certo punto, questo mi ha lasciato
al quanto indifferente. Cominciamo dal titolo orrendamente tradotto: “Une
gourmandise” l’avrei reso con “Una ghiottoneria” che è quella che va cercando
il grande esperto di cucina sul suo letto di morte. Perché le estasi culinarie
ci sono, vero, ma sono il filo su cui scorre il racconto. Una serie di
siparietti in cui il sempre grande critico ci fa immergere in sapori, trovando
le auliche parole per raccontarli. Ma non si capisce (o non capisco io) quanto
ci sia di ironico (perché l’uso di quelle metafore potrebbe indurre) e quanto
di falsamente vero. I grandi critici culinari si riempiono letteralmente la
bocca di queste parole, di assonanze, di rimandi, per cercare di “suscitar nel
cuor la meraviglia”, quando il cibo lo suscita di per sé, senza bisogno di
grandi voli (e leggete quando parlo del buon Sapo in altre trame per un confronto).
Per esemplificare ne riporto il brano sul crudo giapponese: “Il vero sashimi è
croccante, eppure si scioglie sulla lingua. Invita ad una masticazione lenta e
flessuosa che non ha lo scopo di far cambiare natura all’alimento, ma soltanto
quello di assaporarne l’aera morbidezza. Già la morbidezza: né morbidezza né
mollezza, perché il sashimi, polvere di velluto simile ala seta, porta con sé
un po’ di entrambe e, nella straordinaria alchimia della sua essenza vaporosa,
mantiene una densità lattiginosa che le nuvole non hanno.” Ecco, dopo alcune
pagine di questa scrittura mi viene voglia di farne un falò, utilizzando il
gambero rosso come combustibile. Ma certo, direte voi, questa è una delle
nervature della storia, perché l’altra, la più importante (secondo i critici
esimi) è quella del contraltare tra il delirio culinario del morente, e le
persone che lo hanno accompagnato in vita. La moglie, i figli, l’amante, la
cuoca, i detrattori, gli estimatori, financo la portinaia Renée (che ben altro
spessore avrà nel Riccio). Perché l’idea è quella di tessere una trama in cui
alla fine si possa in controluce vedere la complessità della persona umana. Non
c’era bisogno di tante pagine (anche se non sono molte) per dimostrare che
ognuno di noi è diverso nella percezione che ogni altro ne ha. E soprattutto
nella propria auto-percezione. Facciamo fatica a conoscere noi stessi? Non
sappiamo chi siamo? Come direbbe la mia maestra Maria Luisa, facciamo a questo
punto un bagno di realtà, e piuttosto che sbudellarla anche in punta di penna,
viviamola. Insomma, l’ho trovato inutilmente pesante, senza un grosso filo
conduttore, una prima scrittura acerba, che sboccerà nel successivo riccio, ma che
qui mi ha francamente annoiato. Un solo punto mi ha rimandato uno sguardo non
estraneo (si vede che ho letto la Müller, eh?, ma si vede anche che la Muriel è
nata in Marocco), ed è quando descrive paesaggi di Rabat, che mi hanno
riportato al bell’albergo che frequentai con vista sul Mausoleo di Hassan. Tutto
il resto è califaniamente noia.
“Il
calvario non è lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli che non ti
amano.” (40)
“Mi
ricordo la magnificenza floreale della sala da tè degli Oudaïa dalla quale
contemplavamo Salé e il mare in lontananza, alla foce del fiume che scorre
sotto i bastioni; le stradine variopinte della Medina; le cascate di gelsomino
sui muri dei cortiletti, ricchezza dei poveri distante mille miglia dal lusso
dei profumieri occidentali; mi ricordo, infine, la vita sotto il sole, che è
diversa da tutte le altre perché chi vive all’aperto concepisce lo spazio in
modo differente … e il pane marocchino, preludio folgorante alle unioni
carnali.” (75)
“Tutti
pensano che i bambini non sanno niente. Viene da chiedersi se i grandi siano
mai stati bambini” (79)
Finalino
Siamo sempre lì, con le piccole pillole di autostima. Continuo
ad essere scettico, ma il libro del riccio, pur con obtorto collo, le leggerei,
mentre tralascerei la cucina.
Nessun commento:
Posta un commento