domenica 5 luglio 2020

Donne del Duemila - 05 luglio 2020


[A: 12/07/2017 – I: 17/02/2020 – T: 19/02/2020] - &&& --
[tit. or.: Man Walks into a Room; ling. or.: inglese; pagine: 317; anno 2002]
Una prima parte molto bella e coinvolgente, seguita da altro che fa un po’ decadere giudizi ed attenzione. Di Nicole avevo letto ed apprezzato “La storia dell’amore”, uno dei pochi libri a raggiungere i 5 libri di gradimento. Ora facciamo un passo indietro nel tempo e nel gradimento, con questo che è il suo primo romanzo, parte di una collana di Repubblica dedicata ai libri significativi degli anni Duemila. Ed in effetti, significativo lo è. A parte la storia, su cui torniamo, per le domande che pone sulla memoria e sul ricordo. La storia ci porta a seguire le vicende di Samson Greene, docente universitario di 36 anni, che viene trovato in stato confusionale vicino a Las Vegas. Operato d’urgenza per un tumore benigno al cervello, al risveglio scopre di aver perduto, nell’operazione, tutti i ricordi successivi ai suoi dodici anni. Non ricorda nulla della morte della madre, cui era molto legato. Ma soprattutto non sa di avere una moglie, Anna, e che vivono a New York (lui è docente alla Columbia) e che hanno una intensa storia d’amore. La prima parte, quella che mi è piaciuta molto, ruota intorno al loro rapporto. Anna prova a lavorare sui ricordi di Samson, ma lui non riesce a ricordare neanche il più piccolo gesto. Non riconosce la sua casa, il suo studio all’Università, i suoi docenti. Insomma, tutte le piccole cose che identificano il nostro spazio nel mondo. I suoi ricordi, e sono quelli molto acuti, tanto che spesso vi torna per trovare un senso di sicurezza, si fermano al 1976, poi tabula rasa. Nicole ce lo mostra solo ed insicuro, privato di ogni riferimento a tempi, luoghi, persone, cose. Non ha più un passato, non sa più cosa ha fatto, come è vissuto, come si chiama, chi è e soltanto perché consigliato intraprende un viaggio alla ricerca di chi, di cosa possa aiutarlo a riprendere quanto smarrito, a riconoscersi in un nome, ad avere un’identità. Da questa parte, intima, personale, si passa ad una seconda parte in cui Samson incontra un fantomatico dottor Ray, che sperimenta di instillare in una persona i ricordi, o almeno, un ricordo, di un altro. Quale miglior campo di prova di una persona “senza memoria”. Ma questa parte è lunga e prende poco, se non per le digressioni che si fanno di tanto in tanto proprio sulla memoria e sui ricordi. L’esperimento ha successo, ma il “nuovo” ricordo non porta sollievo a Samson, anzi ne esce spaventato e solo. Scivolando così verso un lungo e dolente finale, in cui si rincontra con Anna, che aveva lasciato proprio per la difficoltà dei due di convivere con i ricordi da una parte sola. Incontro che non porta a nulla, se non ad un nuovo e definitivo abbandono. Lasciamo infine Samson, l’uomo che “entra nella stanza” (come dice il titolo inglese) casualmente vicino all’albero dove aveva disperso le ceneri della madre. Ma, per l’appunto, la storia è un pretesto che dà modo alla scrittrice ed a noi di riflettere su ciò che ci definisce. L’insieme delle cose che abbiamo visto e che ricordiamo, l’insieme dei gesti che abbiamo imparato a praticare durante la nostra vita ci danno il senso di appartenenza alla stessa. Una volta privati, siamo realmente soli come Samson. Ma forse potremmo intraprendere un cammino diverso. Una strada verso nuovi gesti, nuove sensazioni. Non ha senso, come in un computer dove cancelliamo definitivamente delle cose, cercare di rintracciarle. Se, come nel cervello asportato, i ricordi sono “out” per sempre, dovremmo (se ha un senso) partire da lì per tracciare nuovi solchi, per costruire un insieme di ricordi post-operazione. Certo, il buco di 24 anni sarebbe un fardello pesante. Immagino lo straniamento di vedere persone che parlano di noi e delle cose che abbiamo fatto e detto, e non sapere minimamente di cosa stiano parlando. Certo che un’altra freccia all’arco della Krauss è la crisi d’identità dell’era moderna. La spersonalizzazione, già iniziata nel 2002 alla scrittura del testo, ma di sicuro aumentata dopo quasi venti anni di social, di selfie ed altre azioni di sé fuori da sé senza essere sé. La radicalità dell’ipotesi della scrittrice non è quella dello “smemorato di Collegno” che c’è sempre il dubbio che possa recuperare la memoria. Qui non c’è recupero. Samson sceglie una strada, che io non avrei scelto. Ma di certo, ognuno di noi, di fronte a quel bivio, non avrebbe avuto vita facile. Noi siamo i nostri ricordi. E le nostre azioni si fondano sull’elaborazione di tutte le nostre azioni passate. Per cui chi abbiamo intorno le sa decodificare. Altrimenti, bisognerebbe appunto reinventarsi da capo. Ed allora chi saremmo noi? O meglio, ora, qui, con i nostri passi di tanti anni, chi siamo?
“Che ci facevi in India? … Si va in giro per i Ghat di Varanasi, sulle rive del Gange, a vedere le cremazioni. A respirare il profumo del legno di sandalo e l’odore di carne umana bruciata.” (257)
Joyce Carol Oates “L’età di mezzo” Repubblica Duemila 33 euro 9,90
[A: 05/09/2017 – I: 03/03/2020 – T: 08/03/2020] - &&&& --
[tit. or.: Middle Age; ling. or.: inglese; pagine: 665; anno 2001]
Era molto tempo, invero, che non tornavo alla lettura di uno scritto dell’ottantenne quasi canadese. Un romanzo poderoso, nel senso del numero di pagine, anche se un po’ meno nella gestione globale della materia. Libro che parte con una bella idea, ma che, alla fine, ne lascia dei pezzi per strada. Comunque, una bella lettura, senza dubbio. La Oates è una scrittrice di razza, che nella sua lunga carriera credo abbia scritto più di 100 tra romanzi, racconti, saggi e altro. Non si spaventa certo davanti alla pagina, e sa imbrigliare sapientemente la sua scrittura. Qui si sarebbe potuta perdere mille volte, invece segue una sua idea (credo che spesso faccia scritture a tema) e la porta avanti. Decidendo, ed io lettore la odierò fino alla fine per questo, di lasciare giuste zone d’ombra alla narrazione. Certo, io avrei preferito fosse tutto chiaro, tutto detto, tutto spiegato. Ma in fondo, la scelta stilistica va rispettata, ed ha un senso, che il motore del libro e dell’azione giustamente rimane con delle oscurità, su cui magari torniamo alla fine. Credo, come altri hanno suggerito più adusi di me alle lettere, che l’idea di fondo sia la ricerca di una identità delle persone. Identità che avevano nella giovinezza (l’età dell’innocenza) e che ora non riescono più a trovare, ora che sono nell’età di mezzo. Il fulcro della storia si svolge in una tipica cittadina di quasi provincia, ad un tiro di treno da Manhattan (dove i più facoltosi ed impegnati vanno a lavorare), ed abitata da gente mediamente cinquantenne, mediamente ricca e mediamente senza problemi economici. La zeppa in questo mondo viene messa dalla presenza di Adam Berendt, un misterioso scultore, misteriosamente ed occultamente facoltoso, che non si adegua all’immagine piatta dell’America ricca, e che non perde occasione per stimolare socraticamente le persone cui viene in contatto. Facendo innamorare tutte le donne della città, senza però concedersi ad alcuna. L’elemento scatenante è la sua assurda morte: in barca, si getta nell’Hudson per salvare dei bambini che stanno per annegare, li salva, ma viene stroncato da un infarto. La presenza della sua assenza scatena un putiferio di sensazioni in tutte le persone che lo conoscevano (o almeno credevano di conoscerlo). C’è la giovane (quarantenne) Marina, libraia, unica cui forse si volgeva dell’affetto da parte di Adam, che aveva ricevuto in dono una proprietà da lui, ma che non erano andati mai al di là della forma. Marina, esecutrice testamentaria, scopre che Adam è decisamente ricco, decisamente disinteressato al denaro, e nelle sue carte scopre lettere d’amore di tutte le signore locali. Decide di fuggire nella proprietà suddetta, fa un lungo viaggio tra le non finite sculture di Adam, per trovare alla fine la sua vena di scultrice, realizza opere nuove e “vendibili” (come dice un esperto d’arte) per tornare infine a Salthill-on-Hudson e riprendere una possibile storia d’amore con Roger. Roger era, forse, l’unico amico maschile di Adam, suo avvocato, divorziato, attratto dalle donne ma da queste sempre respinto. Ha una figlia lontana, da cui lui stesso si allontanerà, che lo chiama, nella bella traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, “caropapimorto”, difficile resa dell’allitterazione inglese “DearDaddyDead”. Spinto dal ricordo della supposta rettitudine di Adam, decide di dedicare parte del suo tempo di avvocato a cause perse, come il togliere dal braccio della morte un detenuto ingiustamente accusato. In questo lavoro conosce la para legale Naomi, femminista dura e pura. Con la quale finalmente fa sesso a gonfie vele, fino a farla rimanere incinta, ed a ritrovarsi con il piccolo Adam quando Naomi decide di andare per la sua strada. Ed è con Adam e la sua nuova sensibilità che riconquisterà Marina. E poi ci sono le donne di mezza età, quelle che si credono innamorate di lui: Abigail, Camilla, e Augusta. La prima è la “mamma”, divorziata, con figlio che lei ossessiona tanto che, anche per altri motivi che non indaghiamo, si allontanerà da lei. Bella, tutta la vogliono (o lei vuole tutti), ma anche lei, con nella mente le parole di Adam, cercherà di vedersi dentro, e troverà il modo di riversare il suo amore su qualche nuova figlia. Camilla ha appena adottato Apollo (cioè Apollodoro) il cane di Adam, che il marito la lascia per una massaggiatrice arrivista e senza scrupoli. Che lo straccerà dentro. Mentre Camilla continuerà ad adottare cani, trovando la sua via nel riversare il suo amore per le quattro zampe. Tanto che ne avrà un ritorno positivo sia dal testamento di un’amante dei cani, sia nel prospettivo futuro familiare. Infine, Augusta, l’unica che si pone la domanda di chi sia o sia stato realmente Adam. Tanto che lascia la casa e va per il territorio al fine di rispondere a questa domanda. Ne troverà delle tracce, per poi tornare a casa e trovare una nuova serenità con il marito che, nel frattempo aveva messo in pratica alcune direttive di Adam. Il bello dell’idea dell’autrice è usare Adam come cartina di tornasole, farlo un po’ il motore di tutta la vicenda. Ma da morto. Come se il suo messaggio socratico sia finalmente giunto ai personaggi di mezz’età di Salthill-on-Hudson. Certo, benché insieme ad altri discorsi più ortodossi (con la mia idea di vita) il quasi ottimismo che pervade parte del libro non mi vede convinto. Sono contento, personalmente, che molte delle persone che mi sono simpatica abbiano un buon svolgimento della loro vita. Per tornare ad un ultimo punto che ho menzionato all’inizio, quello che sceglie l’autrice è di lasciare in ombra alcune parti della vita di Adam. Forse è giusto, ma alla fine, dopo aver chiuso il libro, io mi continuo a chiedere: ma chi era questo Adam? Come ha fatto ad accumulare tanti soldi e tanto carisma, visto che, per quello che sappiamo, fino ai 19 anni era una persona normale ed anche poco riflessiva. Forse Adam è solo una scintilla, ma la mia voglia di sapere tutto rimane un po’ delusa. Mitigata solo dalla, comunque, bellezza del libro e dal coinvolgimento della scrittura.
“Di tutte le frasi del passato le più dolorose sono quelle scritte nella speranza di farsi amare.” (88)
“Vivere. Diamo per scontato che gli altri siano in grado di farlo meglio … Se l’ha detto Adam, allora è un’osservazione profonda. Se sono stata io … allora è l’ennesima stronzata di una deficiente infelice.” (463)
Dorothy West “Le nozze” Repubblica Duemila 14 euro 9,90
[A: 09/04/2018 – I: 17/03/2020 – T: 19/03/2020] - &&&&
[tit. or.: The Wedding; ling. or.: inglese; pagine: 219; anno 1995]
Molto bello ed intenso, una luce interna in un mondo che non è mai stato facile descrivere. Una donna di colore che scrive delle persone di colore ma che hanno successo e soldi. Un libro uscito quasi per i novanta anni della scrittrice, ma credo abbia avuta una genesi precedente. Non a caso, credo, sia anche ambientato in un anno fondamentale nella storia dell’umanità: il 1953 (fondamentale in quanto anno della mia nascita). La nostra Dorothy, invece, nasce agli albori del secolo scorso, e dai venti anni in poi, si trasferisce ad Harlem, New York, diventando uno dei motori di quella che fu chiamata “Harlem Renaissance”, un insieme di scrittori, poeti, sociologi ed intellettuali e aristocratici vari, si adoperano per approfondire l'esperienza storica degli afroamericani, nonché la vita dei neri dell'epoca nelle grandi città degli Stati Uniti settentrionali. Questa opera, tarda come detto nell’uscita, è in effetti, un tipico esempio di questa espressione artistica. Con uno sguardo lieve, e solcando decenni di storia, la brava scrittrice bostoniana ci fa seguire le vicende della famiglia Coles, un coacervo di razze e di personalità. Dal lato materno, il lato Shelby, c’è tutta una scia di bianchi, schiavisti del Sud, dove rimane ancora in vita l’ava Katherine, che aveva visto crollare il mondo sudista, ed assistito alla trasformazione del mondo. Aveva visto impoverirsi la propria parte di mondo, ed aveva accettato, obtorto collo, il matrimonio tra la sua Josephine ed il nero Hannibal, nero che studia, si laurea, diventa professore e poi preside di una sede di studi (nel sempre complicato mondo studentesco americano). La loro figlia Corinne, meticcia come si direbbe ora, è molto “bianca”, e molto determinata anche lei a “crescere” socialmente. Tanto che, con i buoni uffici (o le coercizioni) di Katherine riesce ad accalappiare (questo è proprio il termine) il dottor Clarke Coles. Lui sì di una schiera di neri doc. Ad un certo punto, Dorothy ce ne fa seguire la genesi, dal capostipite, lo schiavo liberato chiamato “il Predicatore”, che esce dalla sua condizione subalterna con la forza sua e della Bibbia. Forza che trasfonde nel figlio Isaac, che diventerà medico, e che Isaac infonde nel figlio Clarke. Ma chi fonda l’impero Coles è l’attenta moglie di Isaac, che tra speculazioni edilizie ed altre storie finanziarie riesce a mettere insieme un notevole patrimonio. Tanto che i Coles si possono permettere di comperare la residenza detta “l’Ovale” nell’isola di Martha’s Vineyard, uno dei buoni rifugi dei bostoniani. Lì è sepolto John Belushi, lì avviene il mortale incidente aereo di JFK jr, nonché sede estiva della famiglia Clinton. Insomma, l’Ovale è un bel segno di arrivo per una famiglia aristocratica, soprattutto di colore. Il matrimonio tra il nero-nero Clarke e la nero-bianca Corinne è però ben sbilanciato, che Corinne cerca altri colori per il suo letto, e Clarke trova per lungo tempo consolazione con la sua infermiera Rachel. I due hanno due belle figlie: Liz e Shelby. La prima si ribella, fugge per sposare il molto scuro Lincoln, dottore, ma di famiglia povera. Ma poi si riappacifica con la super antipatica madre Corinne, mentre non ci sarà mai pace tra Corinne e Lincoln. Che per l’appunto non viene all’evento intorno al quale ruota lo scritto. Il matrimonio tra la secondogenita Shelby Coles ed il pianista jazz Meade, bianco. Quando finalmente capiamo, tra tutte le parole in scioltezza di Dorothy, che questo è il fulcro del romanzo, tutto lo scritto acquista tutta una luce diversa. All’inizio, in fatti, il modo di agire delle persone che vengono man mano introdotte si adatta a qualsiasi colore di pelle. Ma questo è il punctum dolens. Che viene sollecitato esternamente da Lute e dalla sua famiglia. Questi è un arrivista nero, con tre figlie avute da tre diversi matrimoni. L’ultimo, in odore di crisi, con una ragazza che più bianca non si può. Il modo di vivere di Lute è quello di sedurre donne a raffica, metterle incinta, sposarle, e dopo poco stufarsi e passare ad altre donne. Con il problema, descritto magistralmente dalla scrittrice, delle povere figlie che non hanno un centro affettivo stabile. E che forse lo trovano solo lì, nell’isola, tra le varie mamme affettivamente solide della società bostoniana. Ma Lute ha adocchiato Shelby, e passa tutta l’estate a cercare di conquistarla. Lei sembra cedere, ponendosi dubbi sul suo affetto verso il bianco Meade (che tra l’altro non vediamo mai comparire, quasi che West non riuscisse a descrivere i comportamenti di un bianco-bianco in questo coacervo di attività multirazziali). Fino a che, un evento che non descrivo, mette Shelby davanti alla vera natura di Lute. Facendole, e facendoci, capire che non è la razza o la classe sociale, ma il buon carattere ed il cuore, quello che rendono uomo un essere umano. Scusate il bisticcio di parole, ma non riesco a renderlo meglio. Ma questo suggella in bellezza uno scritto decisamente positivo ed interessante.
“Era una brutta cosa avere un corpo da bambola di pezza e una mente integra che faceva così fatica a controllarlo.” (36)
Shifra Horn “Quattro madri” Repubblica Duemila 44 euro 9,90
[A: 20/11/2017 – I: 09/05/2020 – T: 11/05/2020] - &&&+
[titolo: Arba Imahot - ארבע אמהות; lingua: ebraico; pagine: 379; anno: 1996]
Pur cercando spesso di documentarmi meglio sulle letterature non europee, devo dire che non conoscevo questa scrittrice israeliana, dalla penna interessante, seppur non molto prolifica. Nonostante si stia avvicinando a grandi passi alla settantina, ha pubblicato solo 5 romanzi e 4 saggi. Quest’ultimi poi, spiegandoci le sue grandi permanenze all’estero (in Giappone ed i Nuova Zelanda) al servizio della diffusione ebrea nel mondo, ci danno forse la cifra per capire la poca estensione romanzesca. Che, al contrario, in questo romanzo d’esordio di venticinque anni fa, si dispiega con molta intensità, ed anche con qualche perplessità. Intanto è un romanzo che si spande su di un lungo lasso di tempo, che va dall’infanzia di Mazal, sino al suo matrimonio a 13 anni, ed alla nascita di Sarah, poi la nascita della figlia di Sarah, Pnina Mazal, poi la nascita della figlia di questa, Gheula, fino alla nascita della narratrice nel 1948 ed a quando partorirà il figlio maschio. Che interromperà una lunga catena non direi di disgrazie, ma di avvenimenti singolari. In particolare, il fatto che dopo la nascita di una figlia, il marito e/o compagno delle madri si allontana. Sparisce, muore, non si fa più vedere. Tanto che le donne cresceranno da sole le altre donne del clan. Intanto farei un piccolo inciso, che in ebraico (come anche in arabo) più che per le onomastiche occidentali, i nomi hanno un preciso significato. Così, Mazal significa “fortuna”, Sarah significa “regnante”, Pnina significa “perla”, Gheula significa “salvezza” e Amal si usa quando si iniziano le storie, tipo “c’era una volta…”. Ed infatti è Amal che narra il suo clan, volteggiando nel tempo e poco nello spazio. Che tutta la storia è bene o male incentrata a Gerusalemme, città magica ed a me cara come non poche. Diciamo che, riprendendo la marca temporale, la vicenda si svolge in meno di 100 anni. La capostipite Mazal, come detto sposata a tredici anni, in un matrimonio sciagurato che darà il via agli eventi. Ma la figura più interna è Sarah, sposatasi con forse un fratellastro senza saperlo, da cui prima nascerà il ritardato Isacco, e poi la perla fortunata. Ma Sarah è il perno perché farà sempre scelte sue, sorretta da una bellezza senza pari. Aprirà commerci, venderà, coltiverà rose profumate, sino a diventare un’icona nel quartiere, visitata da tutte le donne che hanno bisogno di qualcosa: sostegno, conforto, incitamento. Tanto rispettata, che anche Amal, la bis-nipote, quando le vuole parlare, farà la fila. Sarah che, dopo tanti approcci sentimentali sfortunati, approderà, nella maturità della vita ad un sereno vivere, lontani seppur vicini, con l’inglese Edward. Che per lei divorzia, e lascia partire la famiglia, rimanendo a vivere in una Gerusalemme sempre più tormentata da contrasti e guerre. Perché mentre il nostro clan avanza, matura anche l’esterno. La prima e poi la Seconda guerra mondiale. La dichiarazione Balfour (che spero conosciate), ma anche Sir Alan Gordon Cunningham ultimo commissario prima dell’indipendenza del 1948. A dispetto del ritardato Isacco, la figlia ha il dono di capire tutte le lingue, così che non ci sorprenderà finirà a fare l’interprete. Pnina Mazal che dà alla luce Gheula dai capelli rossi. Saranno i capelli, sarà il momento, Gheula è quella che più si impegna nella politica. Dato che nessuno la può controllare, Gheula viene data a balia ad un’araba, e diventerà sorella di latte di Mohammad. Sarà anche per questo, ma si intravede la sua vita avventurosa. Un bel tocco è quando, per sfuggire ai servizi segreti, visto che propugna uno stato unito di arabi ed ebrei, si rifugia in una casa a Mea Shearim, il quartiere più ortodosso di tutta Gerusalemme. Tra una scomparsa e l’altra, allo scoccare della terribile guerra di secessione, la ribelle dai capelli rossi partorisce Amal. Che per tutta la vita cercherà di capire dove finiscano i maschi del suo clan. Ha comunque il merito di scrivere queste memorie così che possiamo gioire del loro universo femminile. Sarà la stessa Amal che tirerà fuori la teoria dello stambecco: il maschio stambecco mette in cinta una femmina, poi va via per metterne incinta altre; tanto sono le donne stambecco che cresceranno i piccoli. Comunque, come detto, Amal partorirà un maschio. E finalmente, Sarah la centenaria, che ha visto morire anche Edward, avrà pace. Si sente un certo che di datato nella narrazione di Shifra. Ma è comunque una lettura che pone due problemi irrisolti: la gestione del mondo tutta al femminile e la gestione della convivenza tra arabi ed ebrei. Problemi posti, e non risolti, sia perché scritti nel secolo scorso, sia perché difficilmente si riuscirà a risolverli. È un romanzo che in ogni caso, portandomi in un Israele che amo, mi è piaciuto leggere e seguire nel suo meandrico svolgimento. Non è completamente risolto in tutte le sue fasi, ma ho gradito molto girare le pagine, ed immergermi in quella atmosfera. Chicca finale: Amal, per uscire da una crisi amorosa, si ritira per qualche settimana a Koh Samui, isola tailandese dove anch’io stetti a suo tempo a crogiolarmi al sole ed alla birra!
Inizia il (caldo) mese di luglio, e noi riandiamo al secondo mese di quarantena, meno intenso come numero di libri, ma cresciuto nelle pagine. Un mese illuminato da uno splendido ricordo asiatico di Terzani e dalla funambolica scrittura del compianto Bolaño. In mezzo a tante letture di media piacevolezza, in fondo alla scala scendono una prova spagnolo guatemalteca da ricordare solo quando mi riporta con la mente ad Antigua sentimentale spagnola giustamente dimenticabile ed un titolo di Breat Easton Ellis di cui, dopo questo romanzo, non capisco ancora la fama.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Maurizio De Giovanni
Nozze per i bastardi di Pizzofalcone
Einaudi
s.p.
3
2
Tiziano Terzani
In Asia
TEA
5
4
3
Roberto Costantini
La moglie perfetta
Repubblica Noirissimo
7,90
2
4
Anabella Giracca
Demasiados secretos
Punto de lectura
15
1
5
Ian Manook
Yeruldelgger. Morte nella steppa
Repubblica Noirissimo
7,90
3
6
Andrea Camilleri
Il re di Girgenti
Sellerio
s.p.
2
7
Elmore Leonard
Raylan
Repubblica Noirissimo
7,90
2
8
Elias Canetti
Auto da fé
Adelphi
15
2
9
Petros Markaris
Titoli di coda
Repubblica Noirissimo
7,90
3
10
Roberto Bolaño
Detective selvaggi
Adelphi
s.p.
4
11
Volker Klupfel & Michael Kobr
Spiccioli per il latte
Repubblica Noirissimo
7,90
3
12
Ilaria Gaspari
Lezioni di felicità
Repubblica FilosofiaViva
9,90
3
13
Anita Nair
L’ira degli innocenti
Repubblica Noirissimo
7,90
2
14
Breat Easton Ellis
Lunar Park
Repubblica Duemila
9,90
1
15
Carlo Parri
Cardosa e il codice Modigliani
Mondadori
5,90
3
16
J. R. Moehringer
Il bar delle grandi speranze
Repubblica Duemila
9,90
3

E già libri da leggere, come questi ed altri. Come tanti che ci circondano e che ogni volta mi fanno ripensare a Troisi ed alla sua stupenda battuta (“Voi siete in tanti a scrivere ed io sono uno solo a leggere!”). ma anche se non leggiamo tutto (e se qualche volta ci perdiamo novità forse interessanti), continuiamo nella nostra opera di diffusione. I ritorni che ne ricavo sono i rinforzi di impalcature che a volte barcollano. Ma come diceva il mio amico Alberto, anche se altrove ripreso, “barcollo ma non mollo”.

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