Petros Markaris “Titoli di coda” Repubblica
Noirissimo 19 euro 7,90
[A: 01/11/2017– I: 15/04/2020 – T: 16/04/2020]
- &&& +
[tit. or.: Τίτλοι Τέλους - Τριλογία
της Κρίσεως, Επίλογος; ling. or.: greco; pagine: 333; anno 2014]
Come ben recita il
titolo originale, questo è l’epilogo della trilogia della crisi. I titoli di
coda, come dice la traduzione italiana. Ma se non si aggiunge l’accenno alla
trilogia si perde qualcosa.
Di certo, anche se
si segue la storia, si fanno più labili gli accenni alla crisi greca iniziata
nel 2009, e che dal 2010 con quattro libri, Markaris ha cercato di esorcizzare.
Rimando ai primi tre, di cui già parlai, e cioè “Prestiti scaduti”,
“L’esattore” e “Resa dei conti” per un viaggio nella Grecia delle ristrettezze.
Questo, in realtà, sarebbe il quarto libro, che un po’ stona in una trilogia.
Ma l’autore aggiunge quella parola finale “Epilogo”, per farci capire che dopo,
forse, parlerà di altro. Noto, per la mia scarsa conoscenza del greco, avendo
fatto lo scientifico, l’assonanza con l’italiano, visto che il termine,
traslitterato in caratteri latini, sarebbe “Epilogos”. Noto, invece, la
conoscenza delle lingue di Markaris, perché l’epilogo è il “discorso che viene
dopo la fine di qualche cosa”. Una conoscenza che l’autore riporta anche in
quei piccoli frammenti ripresi dal dizionario magno della lingua greca, il
Dimitrakos, che sarebbe come da noi prendere in mano il Devoto-Oli.
Fatte queste
premesse, l’azione e la risoluzione del libro non è tanto nel risolvere le
questioni poliziesche (che ovviamente il nostro commissario Charitos
brillantemente porta a buon fine), quanto nell’atmosfera generale e nelle
motivazioni dei gesti. Come in tutte le grandi saghe seriali, oltre all’aspetto
esterno, c’è quello familiare, che, data la personalità di Markaris ed il suo
occhio attento alle vicende umane, poi non può che sfociare in un intreccio
esterno – interno.
Ricordiamo che il
commissario ha una moglie, Adriana, che cucina divinamente, una figlia,
Caterina, avvocato ed un genero, Fanis, medico, nonché due consuoceri distanti
fisicamente ma vicini ai loro cuori. Come supporto poi c’è l’aiutante di
Caterina, Monia, con il suo fidanzato tedesco Uli (che darà una mano al
commissario nel tradurre info germaniche). La routine familiare è sconvolta
dall’assalto che Caterina subisce all’uscita dal tribunale. Assalto che si
risolverà con poche conseguenze, ma che dà modo allo scrittore di mettere a
segno due punti. Caterina difende degli immigrati, così Markaris può parlare di
immigrazione attuale, legata poi a quella degli anni ’50 che ha un peso
nell’altra parte della storia. Caterina è assalita da adepti della formazione
“Alba Dorata”, una formazione di estrema destra che negli anni ’10 di questo
secolo ha avuto un piccolo successo, dovuto anche allo stato di crisi greco, ma
che ora pare ridimensionata e contenuta (da 17 seggi nel 2015 a nessuno nel
2019). Una storia parallela che serve a Markaris solo per sottolineare
l’infiltrazione di elementi neofascisti nelle istituzioni, e nella polizia in
particolare.
L’altra storia,
quella principale, prende il via da un suicidio, per poi collegarsi ad una
serie di omicidi. Il primo è di un greco-tedesco, Andreas Makridis. Figlio di
un greco immigrato in Germania negli anni ’50 (e di cui parlo sotto), tornato
in Grecia per impiantare pale eoliche, ma schiacciato dalla burocrazia greca. I
morti sono invece, indifferentemente di destra o di sinistra, ma legati, in
modo diretto o indiretto, a personaggi fascisti del dopo guerra, attori noti
(localmente) durante la guerra civile greca (che ricordo durò ben tre anni dopo
la Seconda Guerra Mondiale) e che alla fine portò a colpi di stato
para-militari e poi militari (come non ricordare la Grecia dei Colonnelli?). Il
tutto è legato dalla rivendicazione “I Greci degli anni ‘50”. Ma quei
personaggi avrebbero una novantina d’anni, più o meno. Si capisce quindi che è
un rimando. Un rimando a chi, ora, negli anni ’10 del XXI secolo è costretto a
comportarsi come i greci di sessanta anni prima.
Alla fine, con
collegamenti vari e soluzioni ad hoc, Charitos trova il bandolo della matassa.
Non vi dico certo quale sia, e come lo scioglie il nostro commissario. Penso di
aver detto già forse troppo.
Ribadisco solo due
punti che fanno salire il gradimento del libro, che era invece sceso perché la
risoluzione non mi convinceva, perché molte parti sembravano ricalcare un altro
scritto di Markaris (“Hanno ammazzato il Che”), ed infine perché molto interno
alla politica ed alla storia greca, che forse non tutti conoscono. Uno è la
capacità appunto di descrivere lo stato di crisi che attraversa la Grecia,
dalla bancarotta in poi. Il secondo è per il lavoro di traduzione di Andrea De
Gregorio, che si è anche dovuto barcamenare non solo con il greco, ma con rimandi
ed altre amenità molto interne alla storia greca. Come la vicenda dei Gastarbeiter
che significa "lavoratore ospite", termine coniato durante gli anni
Cinquanta del XX secolo per designare il gran numero di lavoratori stranieri
immigrati nella Germania occidentale. O come le digressioni nel Dimitrakos,
dove si è ben mosso, eccetto per un lemma, il charatsi che viene ben
descritto, ma non tradotto, anche perché (ma sarebbe stato bello metterci una
nota) non ha un esatto corrispettivo italiano, dove viene indicato con il
termine arabo kharāj (per chi ne fosse ignoto, ricordo che è
l'imposta che gli Arabi musulmani applicarono, fin dalle prime fasi della loro espansione,
alle terre appartenenti alle popolazioni sottomesse al loro governo ma non di
religione islamica).
“Il bene arriva
con il contagocce, il male come un’inondazione.” (119)
“Adriana … soffre
di incontinenza commentativa.” (272) [una definizione stupenda per chi
interviene sempre, a proposito e a sproposito]
“Se devi sposare
un turco, che almeno sia un sultano.” (274)
Volker Klupfel & Michael Kobr
“Spiccioli per il latte” Repubblica Noirissimo 21 euro 7,90
[A: 01/11/2017 – I: 20/04/2020 – T:
22/04/2020] - &&& --
[tit. or.: Milchgeld; ling. or.: tedesco; pagine: 348; anno 2006]
Per una volta
tanto un titolo ben tradotto, e come dice il sottotitolo, anche “Il primo caso
del commissario Kluftinger”. Pubblicato per la prima volta in Italia circa
cinque anni fa dalla benemerita case editrice Emons, che stava lanciando una
linea di “gialli” tedeschi, e poi riproposto in questa edizione, da me letta,
nella collana in genere interessante edita da Repubblica.
Un poliziesco
direi abbastanza gradevole, che ben introduce il mondo del commissario
sopracitato. Certo, sconta il fatto che siamo in Germania da autori tedeschi,
una combinazione che non mi ha quasi mai portato delle buone sensazioni. I
gialli germanici sono in genere un po’ troppo cupi, con pochi agganci al
territorio. Qui, fortunatamente, c’è poca cupezza, c’è molto territorio, e c’è
anche qualche tentativo di essere ironici. Con poca fortuna, l’ultimo punto è
quello meno riuscito, che si, si fa pure qualche sollevamento di labbra, ma
satira ed ironia sono ben lungi dallo spirito di questi volenterosi teutonici.
Intanto, siamo in una
parte della Germania atipica per basarci romanzi seriali (i nostri due autori
sono ora arrivati al decimo volume delle storie del nostro Klufti, come viene
spesso chiamato il commissario), e cioè in Algovia, una regione della bassa
Svevia, al confine con l’Austria, e molto vicina anche alla Svizzera. Una
regione di monti, vallate e alpeggi, così che non ci meravigliamo che la prima
avventura del commissario ruoti intorno al latte. Il mondo del nostro
commissario (che credo ritorni nelle successive puntate) è composto dall’ambito
familiare, con la moglie Erika ed il figlio Markus (che qui viene solo
nominato), e dai coniugi Langhammer, con la moglie Annegret molto amica di
Erika, ed il marito Martin che fa infuriare Klufti ad ogni piè sospinto. Poi
c’è la squadra di polizia, che opera nel capoluogo Kempten: i tre sottoposti, Strobl,
Maier e Hefele, il capo Lodenbacher (spesso preso in giro per il suo accento
bavarese) e la segretaria Sandy, che essendo di Dresda spesso non capisce le
battute dei poliziotti (ma è utilissima nell’ottenere informazioni).
Il caso si
presenta abbastanza spinoso sin dall’inizio. Un chimico alimentare del
caseificio locale viene assassinato, apparentemente senza motivo. Veniamo
quindi subito in contatto con le particolarità algoviane: formaggi e derivati
del latte. Wachter, il chimico, era molto quotato sul mercato alimentare, ma in
seguito ad uno scandalo (che faremo fatica a ritrovare), si trova una
quindicina di anni prima senza lavoro e senza fama. Per questo, il caseificio locale,
gestito da padre e figlio Schömanger, ha facilità a prenderlo per un compenso
non elevato. Lì Wachter, dopo alcuni anni di quiete, comincia a sfornare le
idee che lo avevano reso famoso. Formaggi a basso contenuto di grassi,
aromatizzati sapientemente. Klufti, indagando con il suo occhio lungo, scopre
la sparizione di un albume di foto, dal quale risale alla storia del
licenziamento di un tempo. Dove furono estromessi Wachter ed il suo chimico
preferito, Lutzberger. Avevano immesso formaggi che non erano stabili
chimicamente, e che, alla lunga, provocavano disturbi gastrici ed anche morti
sospette. Wachter si era riciclato, l’amico si era invece ritirato a produrre
formaggi di nicchia. Ma muore di cancro nove mesi prima, e rimane sulla scena
solo il figlio.
La storia si
complica man mano che andiamo avanti. Lutzberger jr. sembra essere sulla scena
del crimine, e si sospetta abbia voluto vendicare il padre. Ma la sua morte
pone forti dubbi. Si scopre però che, dietro la nuova ascesa di Wachter, ci
sono ancora truffe. Latte in polvere a basso costo arrivato clandestinamente
dalla Russia (magari da zone inquinate?), procedimenti poco igienici di
produzione casearia. Tutto per produrre formaggi, e far ottenere a Wachter ed
al caseificio i famosi “spiccioli” del titolo. Dalla truffa ai casini di anni
addietro, dalle voglie di rivincita di Schömanger jr. alla necessità di
mantenere alto il nome del caseificio di Schömanger sr., insomma, tutto il
finale è una serie di piccoli colpi di scena, un po’ prevedibili purtroppo.
Rimane la
scrittura gradevole, l’aria tedesca che, alla fine, è più sopportabile del
previsto, ed alcune schermaglie alimentari che mi portano a due scoperte. Gli Spätzle,
gnocchetti di forma irregolare a base di farina di grano tenero, uova e acqua,
originari della Germania meridionale, diffusissimi anche in Tirolo, Alsazia, Svizzera
e Trentino-Alto Adige, nonostante la loro patria per eccellenza sia la Svevia e
la Baviera. Ma soprattutto il formaggio chiamato Weißlacker, a base di latte
vaccino della Baviera, riconosciuto DOP dal 2015. Bisognerà trovarlo, insieme
al suo parente stretto l’Allgäuer Weißlacker. Pare siano ottimi con la birra.
Insomma, qualche punto positivo, alla fine, lo troviamo anche qui.
Anita Nair “L’ira degli innocenti”
Repubblica Noirissimo 20 euro 7,90
[A: 01/11/2017 – I: 23/04/2020 – T: 24/04/2020] && +
[titolo: Chain of Custody; lingua: inglese; pagine: 365; anno:
2016]
Non avevo ancora
letto le opere “noir” della scrittrice indiana, e devo dire che è stata una
lettura gradevole anche se non eccelsa. Soprattutto perché mi ha riportato nel
cuore dell’India meno nota, e forse più vera. Qui siamo lontano da quel mondo a
sé che è Delhi, e ci muoviamo a Bangaluru (come dovrebbe scriversi con la
grafia attuale, invece dell’inglesizzato Bangalore).
Soprattutto, a
parte il “giallo”, è la parte umana che mi ha preso ed è utile, a chi conosce
poco della vita indiana, per capirne mille risvolti, spesso talmente duri da
far impallidire i morti di Varanasi.
Intanto, questo è
il secondo libro della serie che ha per protagonista l’ispettore Borei Gowda,
dove, purtroppo come spesso accade nei secondi libri letti per primi, si
perdono alcuni dettagli del contro sociale e personale della serie. Vediamo che
Gowda è sposato con figlio grande, ma non ha un gran rapporto con la moglie
lontana, ed ancora peggiore con il figlio, forse già troppo dedito a qualche
“spinello” di troppo. Il cinquantenne ispettore ha anche un’amante, Urmila, con
cui sempre aver un legame migliore che con il resto della famiglia. Legame noto
anche alla sua squadra di agenti. Soprattutto a Santosh, venticinquenne agente
che probabilmente ha avuto qualche ruolo di rilievo nel primo episodio.
Gowda sembra
discretamente attento, ed anche ben introdotto negli ambienti irregolari
(informatori, piccoli truffatori ed altro sottobosco). Ha anche un moto, e non
a caso (in particolare per chi ha visitato il tempio di Pali) è una Royal
Enfield Bullett (e questa volta non vi svelo il mistero).
Tuttavia, ho poco
apprezzato la scelta stilistica della narrazione. Che si svolge nell’arco di
due settimane, ma che inizia il 14 marzo con un omicidio, poi fa un salto al 6
marzo per prendere una narrazione temporalmente conseguente, e quindi
ricongiungersi al prologo e terminare il 18 marzo. Perché non andare invece
sempre avanti sempre flashback? Mistero. La storia è poi legata a fili multipli
con rapimenti ed altre storture a carico di ragazzi e ragazze minorenne e
financo adolescenti. Di certo, una delle grandi piaghe dell’India. Lì c’è
talmente tanta popolazione, e talmente tanti giovani, e talmente tanto poco
lavoro, che spesso giovani teenager vanno in giro solitari e vengono adescati
(quando non proprio rapiti) da procacciatori di loschi affari.
Alla fine,
ricostruiamo le fila della vicenda losca.
C’è un
procacciatore d’affari, Purjay, con moglie, Gita, su sedia a rotelle. Fanno una
bella vita, o almeno decente per gli standard indiani, ma Gita non sa che ciò è
permesso dalla parte losca degli affari di Purjay. Che aveva iniziato un po’
alla mister Fagin di Oliver Twist, mettendo su bande di ragazzini. Poi
utilizzando i più grandi per sistemare i più giovani in posti per lui ben
pagati e per loro di fame. Infine, facendo il salto verso la prostituzione,
soprattutto minorile, procacciando, anche attraverso rapimenti, giovani e
giovanissime a ricchi committenti. Questo gli permetteva anche di ottenere
appalti ed altre situazioni remunerative, invischiando nel suo giro la
borghesia ricca e ricchissima dell’India. Questi spaccati servono ad Anita per
farci vedere il lato oscuro di questa India, i tremendi loschi figuri che si
aggirano per le stazioni adescando i giovani. Ma ci fa anche conoscere una
meritoria ONG che dal 1980 lavoro a Bangalore, la BOSCO (Bangalore Oniyavara
Seva Coota), fondata dai salesiani e che si occupa di recuperare e prevenire gli
adescamenti di cui sopra. Purjay ha un suo “luogotenente”, soprannominato
Krishna, colui che risolve i problemi (un po’ alla mr. Wolf di Tarantino…).
Saltando tutti i vari passaggi intermedi, il nocciolo è dato dal rapimento di
una dodicenne che il gruppo di Purjay vuole avviare alla prostituzione,
facendola sverginare come dono da un deputato in cerca di appalti. Krishna,
vedendola, se ne invaghisce e cerca di mandare a monte i piani di Purjay,
soprattutto nel rapporto per l’antagonista del deputato, l’avvocato (quello che
muore nelle prime pagine). Avvocato che sembra preferire una quindicenne non
avviata al mestiere. E nel giro di tutte queste avventure, abbiamo anche la
crisi di Purjay, quando Gita scopre da dove realmente vengono i profitti del marito.
Non vi dico come
si intrecciano tutte le storie, anche se, ad un certo punto, tutti i sospettati
transitano per la casa dell’avvocato. Sarà Gowda con il suo acume che riuscirà
a separare il finto dal vero, muovendo le pedine giuste, ed arrivando alla soluzione
di tutti gli enigmi del libro. Ma, ripeto, la parte poliziesca non è né
preponderante né meglio narrata. In un certo senso serve solo a presentare
altre parti del mondo indiano: le caste, i rapporti tra capi e sottoposti ed
altre indianità. Ho la sensazione, che questa della descrizione di ambienti
indiani, sia la cifra migliore degli scritti di Anita Nair, che cercherò di
leggere ancora. Un’ultima cosa: perché poi la “catena di custodia” del titolo
indiano diventi “l’ira degli innocenti” è il solito mistero delle traduzioni
che non riesco a decifrare. Anche perché il titolo inglese si riferisce ad un
ben specifico atto giudiziario dell’ordinamento inglese: la documentazione
cronologica degli elementi di prova relativi ad un reato.
“Del viaggio non
ricordava molto. Dopo un po’ tutti i voli internazionali, le destinazioni e i
film sembravano tutti uguali.” (36) [non so i film, ma i voli per me sono
sempre unici]
“M’è venuto in
mente che nel corso della nostra vita non diciamo alle persone che ci sono care
quanto ci sono care.” (87)
“Quale uomo, a
cinquant’anni, poteva illudersi che la vita e le sue possibilità sarebbero
state eterne?” (218)
Pierre Lemaitre “Irène” Repubblica
Noirissimo 25 euro 7,90
[A: 27/11/2017 – I: 11/05/2020 – T: 12/05/2020]
- & ½ e &&&
[tit. or.: Travail soigné; ling. or.: francese; pagine: 395; anno 2006]
Sarete senz’altro
curiosi della doppia valutazione. Ebbene sì, ecco un libro che fino a pagina
344 mi è piaciuto, con un ritmo ed un intreccio non sempre lineari, ma
interessanti. Le ultime 50 pagine lo rivoltano da capo a fondo, e non mi hanno
convinto.
Certo, è comunque
scritto con capacità, e con bravura ed inventiva, ma mi sono sentito quasi
respinto. Come se l’autore avesse fino a lì cercato un’empatia con il lettore,
e poi se ne sia scordato, proseguendo per una strada sua, che non ho condiviso.
Come, e ben più gravemente, non ho condiviso la scelta italiana del titolo.
Il francese
“Lavoro accurato” (più o meno questo il significato) ha un suo perché. Il
titolo italiano fa riferimento ad uno dei personaggi del libro, e neanche tanto
principale, quasi a dirci: attenti che ad un certo punto diventerà importante.
Ma questo toglie ritmo e suspense a tutto il testo. Peccato. Quindi, per ora,
tralasciamo il finale, e veniamo alla parte corposa del romanzo, o del thriller
per meglio dire. Che è un omaggio neanche tanto velato (tutt’al più nelle prime
pagine, ma poi il gioco è scoperto) a grandi maestri del noir, o almeno, a
quelli che l’autore ritiene propri maestri (e che sentitamente, alla fine,
ringrazia).
Il personaggio
principale è questo strano commissario, Camille Verhoeven, che avrà anche dei
meriti ma che qui ricordiamo per due cose: la sua scarsa altezza (ci viene
detto 1,45 cosa che nelle file di tutte le forze armate italiana credo sia
sotto la soglia minima) e (almeno per quanto si vede qui) il suo scarso acume.
È sempre in ritardo su tutto, sembra sempre brancolare nel buio. Anche se, con
certezza posteriore, è uno schematismo indotto da altro. Comunque, il nostro
Camille viene coinvolto in un efferato delitto, subito da due prostitute in un
capanno isolato. Noi capiamo subito che c’è qualcosa di teatrale dietro, visto
come viene descritta la scena del crimine, e come ne vengono descritti tutti
gli elementi presenti.
Aiutati da un
dettaglio lasciato a bella posta dall’assassino, il commissario riesce a
collegare questo a tutta una serie di altri delitti, altrettanto scenicamente
realizzati. E noi che qualche libro abbiamo letto, ne seguiamo le ingegnose
realizzazioni. Perché l’assassino cerca, e riesce, di replicare delitti celebri
descritti in altrettanti celebri romanzi noir.
Vediamo così una
morta segata in due come nella “Dalia nera” di James Ellroy. Vediamo una donna
pugnalata alla maniera di uno dei capostipiti della letteratura noir francese,
il “Dramma di Orcival” di Émile Gaboriau. Vediamo la descrizione di uno
spaccato scozzese dell’ideatore del “tartan noir” William McIlvanney, come
descritto in “Laidlaw”. Vediamo l’omaggio ai capostipiti della letteratura
gialla scandinava, la coppia Sjöwall & Wahlöö, con un delitto che ricalca
il primo libro della saga del commissario Beck, “Roseanna”. Ma soprattutto, in
quanto centrale, in quanto super efferato, in quanto il punto di partenza di
tutte le indagini, vediamo la ricostruzione della scena del crimine di Patrick
Batheson in “American Psycho” di Bret Easton Ellis. Abbiamo quindi un assassino
che, seppur in modo mirabile, non fa che copiare scene del crimine altrui.
Un po’ quello che
fa anche Lemaitre, come se non avesse la capacità di imbastire una propria
scena, un proprio e personale modus criminale. Tant’è che, avviandoci verso un
nuovo omicidio, anche questo dovrebbe essere copiato da qualcosa. La suspense
che cerca di creare l’autore è dovuta al fatto che questo è un libro inventato.
Quindi, una specie di meta salto letterario. Ma Lemaitre non dice che, oltre ad
altri marginali omaggi a molti scrittori illustri (eccettuato per sua stessa
ammissione il grande Simenon), sta quasi per cadere nel ricopiare Agatha
Christie nel suo “L’assassinio di Roger Ackroyd”. Dove però Verhoeven non potrà
mai essere Poirot.
Come dicevo, dopo
aver fatto salire l’agitazione per ¾ del libro, la fine ha di certo ritmo, ma
non mi ha convinto. E non dico altro, che molto (troppo?) è già stato citato.
Ultima considerazione metaletteraria, non mi è sembrato un caso che il
commissario si chiami “Verhoeven” come l’olandese regista di film come
“RoboCop” e “Basic Instinct”. In fondo, tutto il libro si riassume nella
citazione di Barthes che Lemaitre porta in esergo. Tuttavia, personalmente
ritengo seppur corretto Barthes, fondamentale il modo come uno scrittore usi le
sue parole per connettere le citazioni. E qui Lemaitre non mi ha convinto, come
ho detto. Per ora non leggerò gli altri due volumi della trilogia di Verhoeven,
mentre prima poi penso di dedicarmi alla lettura di un libro del filone più
thriller, pubblicato dal Corriere in lotta editoriale con Repubblica.
“Roland Barthes:
Lo scrittore è qualcuno che assembla le citazioni eliminando le virgolette.”
(9)
Terza trama, che in sintonia con il momento
storico, ci porta un po’ alle radici del “Black Lives Matters”.
E con questo siamo arrivati a fine agosto. Senza,
purtroppo, nessuna novità. Il Covid non diminuisce. I viaggi non riprendono.
Gli amici girano poco. Ci si manda messaggi, sperando che questo vi arrivi,
sereno, con gli auguri a tutti i compleanni agostani, con molti abbracci e baci.
I LIBRI CHE CI AIUTANO A VIVERE FELICI di Giulia
Fiore Coltellacci con i commenti di Giovanni
AGOSTO 2020
Torniamo anche questo mese a piccoli rimedi, come dice l’introduzione,
che abbiamo bisogno di qualche blister prima di tornare “normali”.
BLISTER
D’AUTOSTIMA 3
Non bisogna mai sottovalutare gli sbalzi di pressione.
Soprattutto quelli della pressione emotiva, che può andare su o giù a causa di
eventi esterni o di fattori congeniti come il carattere.
Harper
Lee “Il buio oltre la siepe”
La
gentilezza, quella capacità di entrare in empatia con gli altri ormai
considerata da idioti, non andrebbe mai separata dal coraggio. Uno dei disturbi
più diffusi legati a livelli eccessivamente bassi di autostima è la paura di
esprimere la propria opinione, una tendenza che con il tempo rischia di
cronicizzarsi nella scelta, un po’ vigliacca, di astenersi da qualsiasi
questione spinosa che rischi di trasformarsi in un problema. Essere diversi
spaventa sempre e chi ha un carattere mite tende a evitare ogni tipo di scontro,
ma questo non deve inibire la volontà di battersi per quello in cui si crede
anche se non è quello in cui crede la maggioranza delle persone. Ad alleviare
questi sintomi fino a farli scomparire è il protagonista de “Il buio oltre la
siepe”, un esempio di essere umano davvero «umano», uno dei migliori di tutta
la letteratura. Un avvocato onesto, un padre single e un uomo davvero buono. Un
idiota, direbbero molti. Sì, perché solo un completo idiota accetterebbe di
difendere un nero accusato di violenza sessuale su una ragazza bianca in una
cittadina di provincia dell’Alabama negli anni Trenta, praticamente un suicidio
sociale. Ma Atticus Finch non è una persona ordinaria. In realtà non ha niente
di straordinario se non una ferrea fiducia in saldi principi umani prima che
civili. E questi principi, che onora con la pratica e per i quali si batte con
convinzione, senza ricorrere a nessun tipo di violenza, neanche verbale, li
trasmette ai figli, due nella storia ma milioni nel mondo, ovvero tutti quelli
che hanno letto “Il buio oltre la siepe” e lo hanno amato (impossibile non
farlo). La vicenda giudiziaria è solo l’episodio centrale di un romanzo che
affronta con ironia e vigore il tema della diversità nelle sue varie manifestazioni,
da quella più clamorosa del razzismo a quella più subdola nei riguardi di tutto
ciò che non si conforma ai modelli condivisi. Oltre a Boo Radley, ragazzo con
problemi mentali emarginato e deriso, anche la protagonista e voce narrante del
romanzo è a suo modo “diversa”: Scout è una bambina straordinariamente vivace e
curiosa, intelligente e spericolata, è un maschiaccio in tutto, da come si
veste a come parla, ed è ben fiera di essere diversa dalle coetanee. Anche suo
padre non è come tutti gli altri papà: è più grande, è vedovo, un po’
acciaccato, non ama le armi e adora leggere. Soprattutto Atticus la pensa
diversamente dalla maggioranza e non fa niente per nasconderlo. Seguiamo
l’intera vicenda attraverso lo sguardo puro e vispo di Jean Louise, in arte
Scout, e con lei impariamo che non c’è niente di forte nel tormentare chi è
diverso, che evitare gli scontri è da saggi e non da vigliacchi e che battersi
per la giustizia è fondamentale per ottenere il rispetto di sé stessi e degli
altri. Con lei mandiamo giù con estrema facilità alcune pillole prescritte da
Atticus e utili a regolarizzare la pressione sanguigna del coraggio (il
cosiddetto sangue freddo). Eccone alcune: «Devi fare una cosa sola: tenere la
testa alta e le mani a posto. Non badare a quello che ti dicono, non diventare
il loro bersaglio. Cerca ci batterti col cervello e non con i pugni, una volta
tanto... E una buona testa, la tua, anche se è dura a imparare!»; «Ma prima di
vivere con gli altri, bisogna che viva con me stesso: la coscienza è l’unica
cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza»; e ancora, la mia
preferita, una mano santa per curare la sensazione d’impotenza e il terrore da
fallimento incrementando la voglia di battersi nonostante tutto: «Volevo che tu
imparassi una cosa: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che
credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Avere coraggio
significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare
egualmente, e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere,
in questi casi, ma a volte succede».
Atticus
riuscirà a dimostrare l’innocenza del suo assistito che, però, sarà ugualmente
condannato a morte. Questa la chiamano giustizia. Ma nonostante tutto, come
Scout e suo fratello Jem, nessun lettore penserà mai che sia un perdente, lui
che si è guadagnato il rispetto di tutti noi.
“Il
buio oltre la siepe” è una delle più poetiche e incisive condanne di ogni forma
di razzismo e di ingiustizia, un farmaco da banco per prevenire, anche nei
ragazzi, l’insorgere di pericolosi virus come pregiudizio, xenofobia,
intolleranza, bullismo. L’ironia e la leggerezza la rendono una medicina
altamente assimilabile dall’organismo e la sua assunzione provoca sorrisi,
riflessioni e una sana indignazione. Se assunta in forma di gocce oculari,
consente di idratare gli occhi migliorando la qualità della vista perché «una
volta Atticus mi aveva detto: “Non riuscirai mai a capire una persona se non
cerchi di metterti nei suoi panni, se non cerchi di vedere le cose dal suo
punto di vista”. Ebbene, io quella notte capii quello che voleva dire. Adesso
che il buio non ci faceva più paura avremmo potuto oltrepassare la siepe che ci
divideva dalla casa dei Radley e guardare la città e le cose dalla loro veranda».
Terminata la lettura, la sensibilità oculare sarà di gran lunga migliorata e
oltre la siepe non ci sarà più il buio. Come dice Atticus, non si conosce
realmente un uomo se non ci si mette nei suoi panni e non ci si va a spasso.
Consiglio quindi di fare una passeggiata salutare in sua compagnia augurandovi
di imparare a zoppicare con lui. Anzi sarebbe auspicabile riuscire a vedere le
cose dal suo punto di vista, anche se da un occhio ci vede male. Ma forse
proprio quell’occhio mezzo chiuso gli garantisce una maggiore larghezza di vedute.
Coraggioso
Atticus, coraggiosa la piccola protagonista e coraggiosa l’autrice. Quando
Harper Lee pubblicò il libro, straordinario successo e premio Pulitzer, era il
1960 e il razzismo una piaga all’ordine del giorno. Il fatto che fosse una
donna bianca a contestare la mentalità della gente in mezzo alla quale era
cresciuta non è un dettaglio da sottovalutare. Non resta che lasciarci
contagiare da tanta forza d’animo anche noi timidi e insicuri, spalmando
abbondantemente questo balsamo prodigioso sui lividi provocati
dall’inconcepibile irrazionalità di ogni manifestazione d’ingiustizia.
Il
libro è un capolavoro da leggere e rileggere, una cura da ripetere
ciclicamente, e ogni inguaribile lettore non potrà che condividere questo
pensiero di Scout: «Fino al giorno in cui minacciarono di non lasciarmi più
leggere, non seppi di amare la lettura; si ama forse il proprio respiro?».
Attraverso
le pagine del romanzo i personaggi diventano parte di noi, innescando una
reazione chimica, o alchemica se preferite, che genera un’incredibile e
preziosa forma di empatia resa sullo schermo con uguale classe, incisività e
delicatezza da Robert Mulligan nel 1962. Gregory Peck è uno straordinario
Atticus Finch, rassicurante e forte, gentile e deciso, e il film è all’altezza
del libro. Non vi consiglio di vederlo, vi obbligo a farlo. La vostra salute ne
trarrà sicuro giovamento.
Avvertenza:
a distanza di più di mezzo secolo è stato deciso di pubblicare, tra mille
polemiche, il seguito del romanzo, “Va’, metti una sentinella”, che per anni
era rimasto in un cassetto. In questo misterioso sequel, scritto in realtà
prima de “Il buio oltre la siepe”, ritroviamo Scout ormai adulta che torna a
far visita al vecchio padre. Proprio il personaggio di Atticus potrebbe
scatenare crisi di rigetto nei lettori più sensibili. Per vedere se il nostro
cuore malato d’amore per il capolavoro della scrittrice americana tollera o
rigetta questa nuova cura, bisogna aspettare i risultati dei primi test. La
risposta sarà estremamente soggettiva, ma state pur certi che niente potrà mai
ridurre la grandezza dell’anima pura di Atticus Finch, neanche lui stesso.
Commenti
Dopo aver rimandato per molto tempo questi commenti, ora che
ho letto anche il secondo libro di Harper Lee, posso riportarne e commentarne.
Harper Lee “Il buio
oltre la siepe” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato 6)
[pubblicato il 14 settembre 2008]
Un
libro pieno di sorpresa, o almeno tre: la prima è che Harper Lee è una donna,
mi ero sempre fissato fosse un uomo. La seconda è la dura gradevolezza. La
terza è che Atticus Fintch anche nella scrittura ha sempre la faccia di Gregory
Peck. Unico libro degno di nota della Harper, anche ora, a quasi 50 anni dall’uscita,
mantiene la sua forza, la sua freschezza, la sua dolente attualità. Un libro in
fondo pieno di diversi, con i quali fare i conti. E sarà proprio uno tra i più
bistrattati a salvare da una sordida fine i “Fintch brothers”. Vogliamo parlare
del nero accusato solo perché nero? Dei benpensanti che vanno in giro a fare le
ronde? Dei padri padroni? Forse sarebbe giusto, come sarebbe giusto proiettare
nelle scuole lo stupendo film. A Maycomb, Jem e Scout (figli di Atticus Finch)
un'estate conoscono un altro bambino, Dill, e fanno amicizia. I tre sono
attirati da Arthur Radley detto Boo, considerato un uomo pericoloso e violento,
rinchiuso nella casa accanto alla loro. Ma, col passare del tempo, si accorgono
che Boo, senza farsi vedere, si preoccupa dei tre. Atticus spiega che è stato
nominato d'ufficio per difendere un uomo nero, Tom Robinson, accusato di
violenza carnale su una bianca, anche se sapeva che avrebbe perso. Al processo,
Atticus dimostra, senza ombra di dubbi l’innocenza del nero e la colpevolezza
di Bob il padre della violentata. Ma Tom viene condannato ugualmente da una
giuria di bianchi. Durante una festa di Halloween Scout e Jem stanno andando
verso casa, dopo la recita, quando vengono assaliti da un adulto. Nel luogo
della lotta, alla fine viene ritrovato il corpo di Bob pugnalato al petto. Ho
detto quasi tutto, ma lascio un po’ di buio, infondo alla siepe. Note di merito
alla traduttrice (se è merito suo) che ha reso nel titolo molto dell’atmosfera.
Infatti, in italiano, il titolo è una metafora: il buio oltre la siepe è ciò
che è sconosciuto pur essendo vicino. Nel romanzo, è la figura di Boo, il
vicino di casa dei Finch che loro non hanno mai visto e che, per questo, non
conoscono. E infatti anche Scout afferma che, col tempo, la casa di Boo non la
spaventava più, ma non le appariva meno buia. Nel testo, invece, ci sono diversi
riferimenti al titolo originale (“To kill a mockingbird” che significa:
Uccidere un usignolo). L' usignolo è un uccello innocuo, che delizia con il suo
cinguettio. Uccidere un passero è quindi un peccato doppiamente grave.
Harper Lee “Va’,
metti una sentinella” Repubblica Duemila 9 euro 9,90
[scritto il 12 agosto 2020, inedito]
Iniziamo
dalla fine: ho messo la data ufficiale del libro, ma tutti concordano che sia
stato scritto molto tempo prima. Tanto che il famoso buio della siepe, nella
prima stesura, pare avesse questo titolo. Poi è stato preso, allungato, smembrato.
Una parte è diventata il famoso e celebrato “To Kill a Mockingbird”, reso
famoso anche da un’interpretazione cinematografica maiuscola di Gregory Peck.
Una
parte è rimasta nell’ombra, che troppo dolorosa per il Sud Unionista ma anche
per l’America in toto, con la sua denuncia del sostrato razzista che negli anni
Cinquanta permeava tutta una gran parte del suolo americano. Ed è un peccato,
questa scelta editoriale imposta alla brava Lee, che, didascalicamente, aveva
un senso presentare prima questa America, e poi far capire come, per la
correttezza e l’onestà personale, anche una persona con posizioni borderline,
avrebbe dovuto comportarsi. Ne sarebbe uscito un manifesto per quella che ritengo
una delle più belle frasi rimaste nella mia memoria. Il Voltaire cui si faceva
dire: “Non sono d’accordo in una sola virgola di quello che dici, ma mi batterò
fino alla morte perché tu possa dirlo.” (Non entro sulla lunga esegesi della
estraneità di Voltaire al testo della frase ma non al suo senso di tolleranza).
Ragionando
allora come se fossimo vicino alla compianta Harper, quasi un suo secondo
Truman Capote, vediamo come si possa sviluppare il tutto. Il libro, nel suo
complesso, si riferisce al Libro di Isaia della Bibbia, dove nel sesto versetto
del capitolo 21 si dice “Poiché così mi ha detto il Signore: «Va', metti una
sentinella che annunzi quanto vede...”. È un brano dove il profeta Isaia
annuncia la caduta di Babilonia. Un brano che serve ad Harper per plasmare
tutto il testo intorno alla caduta. Di tutti gli eroi che ha costruito, ma
anche, cosa più importante, del mondo retrogrado dell’Alabama degli anni
Cinquanta, ancora vicina all’Ottocento più che al Duemila.
In
terza persona, seguiamo la nostra eroina, Jean Louise ‘Scout’ Finch, ventenne,
emigrata in quel di New York, che torna per le festività nel paesello natio.
Dove ritrova i suoi affetti: il padre Atticus, avvocato quasi pensionato, in
declino fisico ma non mentale, la zia Alexandra, separata e bigotta, lo zio
Jack, con le sue sentenze dotte ed iperboliche, ed Hank, quello che potrebbe
essere il suo fidanzato, ma che forse non lo diventerà mai. Non trova invece il
fratello Jem, morto tragicamente da qualche anno. Vediamo subito che Scout ed
il resto della cittadina non sono in sintonia, soprattutto per quello che è il
nodo principale del profondo sud dell’America: il rapporto tra bianchi e negri
(non sono politically correct, ma non me ne importa). Vedendo i comportamenti
dei suoi, in special modo di Atticus ed Hank, Scout si trova sbalestrata. Ha
sempre pensato che comunque fossero tolleranti ed aperti al confronto raziale,
mentre qui li vede immersi in un tessuto sociale che, se non frequentato,
rischia di emarginarti. Scout non capisce che i suoi tentano di moderare gli
animi, ma per farlo devono entrare in contatto, devono convivere con le
pulsioni più retrograde. Lei, aperta e cittadina, vorrebbe invece affrontare
tutto di petto. Scout dovrà fare un doloroso percorso interiore per arrivare a
capire, anche se non ad accettare, quello che in particolare Atticus va facendo
nella città. E noi ci domandiamo ancora quale sia il giusto modo di affrontare
il problema (che ancora è aperto, in America ed in molte parti del mondo). Sarà
un distacco mentale penoso ma necessario. Che avrebbe aperto ai ricordi di
‘Scout’ di quello che pensava essere l’atteggiamento aperto del padre, così che
si poteva sviluppare, ricordato in prima persona, tutto quello che noi abbiamo
letto ed ammirato ne “Il buio oltre la siepe”.
Ma
se questo aveva un suo senso, non è questo quello che abbiamo vissuto. Siamo
cresciuti nel mito del buon Atticus, e qui ci ritroviamo a doverlo far scendere
dal piedistallo. Nel percorso inverso, non ci saremmo fatti illusioni, ma avremmo
avuto una storia più aderente al vissuto locale, di Scout, ma anche di Harper,
di Truman e di tutta la gente del Sud. A prescindere quindi dalle costruzioni e
dalle ricostruzioni, devo dire che, se non ci fasciamo gli occhi con i
pregiudizi, il libro è altrettanto potente dell’altro. Dato che ci pone la
domanda fondamentale: per cambiare, bisogna sfasciare o cercare di erodere?
Credo che sia una domanda che vada bene anche in altri contesti. Ce la facemmo
noi cinquanta anni fa, e, personalmente, non ho ancora trovato una risposta
convincente. Alla fine, quello che l’autrice mi comunica è che siamo umani.
Quello che dice in più, partendo dal suo retroterra protestante, è che la
Babilonia delle lotte raziali cadrà, come predice Isaia. Ma questa, purtroppo,
è una questione di fede.
Finalino
Beh, questa volta credo sia stato proprio centrato. Seguire
Scout e Atticus mina (o fortifica) la propria autostima. Quindi, che si legga.