domenica 18 ottobre 2020

Isole - 18 ottobre 2020

 

Ripeto e pluralizzo il titolo di una della trame, che questa settimana parliamo di scritti più o meno riusciti, ma in ogni caso, isolati, scollegati tra loro. Ce ne sono di bellissimi e coinvolgenti, come quello di Giorgio Amendola e la sua Ponza. Ce n’è di belli e stimolanti, nella Svizzera di Dicker. Ce n’è di caldi, amari, e forse da rivalutare, nel Giappone di Kawaguchi. Ce n’è di migliorabili, nell’Irlanda di McCourt. Ma anche laddove meno riusciti, tutti che permettono interessanti letture.

Giorgio Amendola “Un’isola” Rizzoli s.p. (dalla Biblioteca di Proba Petronia)

[A: 27/02/2018 – I: 12/05/2020 – T: 14/05/2020] &&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 252; anno: 1980]

Durante il doloroso trasloco dei libri della casa genitoriale in altre sedi (Santamaura, Soriano e altri), ho trovato alcuni libri che mi ero segnato da leggere e che non avevo ancora iniziato. Questo è il primo della serie, che ho letto con piacere per una serie elencabile di motivi. È scritto in un italiano scorrevole, partecipato e che si legge con facilità. Parla, più o meno, di 10 anni della vita italiana, dal 1930 al 1940, in molti sensi eredi dell’inizio del secolo e forieri di messaggi per la ricostruzione. Ci coinvolge con le avventure pubbliche e private di una delle personalità di spicco del mondo italiano, soprattutto dal ’45 alla morte. Mi fa sentire vicine tutta una serie di voci, che hanno vibrato sin dalla mia infanzia, in particolare quella di mio padre Franco e di mio zio Adriano.

Con la straziante immagine di copertina, di un quadro di Germaine, seguiamo la metaforica isola anche in un contesto concreto. Abbiamo infatti tutta una serie di isole che vagano per l’universo italico in quegli anni, ed intorno alla persona di Amendola. C’è Giorgio isolato nella sua Napoli che non raccoglie l’eredità liberale del padre Giovanni, ma la prende e la spinge sempre più a sinistra. E poi Giorgio isolato nella fuga a Parigi, nell’inizio del lavoro clandestino di cucitura tra le varie anime della sinistra. Un lavoro di Sisifo, che non solo non avrà fine allora, ma che ancora adesso continua ad essere improbo ed irrealizzato. C’è l’isola d’amore che si spande intorno a Giorgio e Germaine (che mi piace pensare uniti, in quella doppia G, in quel “G&G”), quando si conoscono a Parigi nel 1931, quando si sposano nel 1934, fino a quando (anche se non è detto nel libro, ma noi lo sappiamo bene), moriranno a poche ore di distanza il 5 giugno del 1980. E c’è l’isola-isola, cioè Ponza. Isola di confinati dal regime, ma anche isola delle nozze di G&G.

Nelle parole vibranti di Amendola, seguiamo le vicende che partono dalla sua fuga da Napoli nel 1931. Ma anche, con una serie di piccoli flash, con quelle che successe prima proprio lì a Napoli. L’uccisione del padre nel ’26 dalle squadre fasciste, l’allontanarsi dall’Italia della madre lituana (sempre sull’esterofilia che contraddistinse la famiglia), le discussioni con gli amici, l’adesione al Partito Comunista. Poi appunto la fuga, con l’aiuto della rete clandestina, i lunghi giri in treno per sfuggire alla polizia, i documenti falsi.

La vita a Parigi, tra un tocco bohemienne e la vita di funzionario di partito (inciso personale ad uso dei miei amici più cari, un ricordo del funzioMario). Le discussioni feroci e gli incontri significativi. Come il viaggio ad Oxford per incontrare Sraffa e riportare a Togliatti alcune lettere di Gramsci. Ed ancora le discussioni, le aperture e le rotture. Il tentativo di Amendola, da sempre considerato vicino all’ala destra del Partito, di fare un fronte comune con i socialisti contro il fascismo. Tentativo mandato a monte dalle direttive di Mosca. Dove nessuno metteva in discussione gli ordini di Stalin. E ne vediamo i guasti: rotture interne, odio (ahi quanto immotivato) con troskisti e bordighiani. Le liti per accettare una direzione del partito all’estero prima affidata a Togliatti, e poi a Ruggero Grieco, con la sottomissione dello scalpitante Longo.

La lotta interna, mai sopita anche dopo la Guerra, tra Amendola e Pajetta. Le sconfitte dovute a tradimenti vari, che portano all’arresto di Amendola nel 1934, quando, su ordine del Partito, tenta di tornare in Italia per organizzare la lotta clandestina. Ed allora, eccoci a Ponza, alla vita da confinati, isolati, certo, ma in grado di leggere e studiare. Una strana contraddizione, in un’Italia purtroppo sempre più vicina alla Germania. Ma a Ponza arriva l’amata Germaine, arriva il matrimonio, ed arriverà anche la nascita dell’adorata figlia Ada. Qui Amendola, con tocco lieve ma fermo, ci riporta anche al lato privato della sua vita, alla presenza della suocera, al ritorno della madre, alle discussioni con la sorella, al sodalizio con il fratello Pietro. Pieni di umanità, i ritratti dei sodali al confino, dove ancora più forte si fa (e Amendola ben la sente sulla sua pelle) la differenza tra intellettuali ed operai. Ed infine l’amnistia, il ritorno a Roma, e la nuova ultima fuga verso Parigi, preceduto da Germaine e Ada. Qui i ricordi si fermano, accennando a poche cose, e adombrando l’avvicinarsi della Guerra. Qui sarebbe dovuto cominciare un nuovo capitolo, se la morte a soli 73 anni non lo avesse portato via.

Rimane nella mente un ultimo ricordo, con tutte le persone incontrate e nominate, cui Amendola, con tocco lieve, ne dice il futuro. Quasi tutti moriranno, chi nella Guerra Civile spagnola chi sul fronte della Resistenza partigiana. Si nota l’empatia che Amendola comunque ha per tutti. Per tutti quelli che, seguendo un’idea e le proprie convinzioni, hanno votato la vita ad un ideale di libertà. Un ricordo che per me rimarrà indelebile, anche per tutte le vicende private che, di lì a poco, avrebbero visto in prima linea una grossa fetta dei miei parenti. Consiglio quindi di far seguire a questa lettura quella di “Un’isola sul Tevere” di Adriano Ossicini.

“È necessario un ‘comunismo nazionale’ che parta dalle condizioni concrete esistenti nel nostro paese.” (58) [da una discussione con Rodolfo Morandi nel 1932]

“Preferivo starmene solo, conoscere Parigi … ero accusato di individualismo piccolo-borghese, ma me ne fregavo.” (78)

“Ogni crisi non può durare in eterno e deve avere uno sbocco, o rivoluzionario o capitalistico.” (123)

Toshikazu Kawaguchi “Finché il caffè è caldo” Garzanti s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/05/2020 – I: 30/06/2020 – T: 01/07/2020] - && e ¾     

[tit. or.: コーヒーが冷めないうちに Kohi Ga Samenai Uchi Ni; ling. or.: giapponese; pagine: 177; anno 2015]

Un regalo super gradito (visto che sono dipendente dal caffè, e soprattutto lo bevo caldo). Purtroppo, mitigato da alcune colpe, in parte dovute alla distribuzione ed in parte dovute alle edizioni (che a me, personalmente, la Garzanti non mi piace molto).

Allora, veniamo subito alle pecche. La prima è il titolo, che, da attente ricerche, in giapponese significa: “Prima che il caffè si raffreddi”. Che è quasi simile ma con una piccola sfumatura. Nuance che poi ha un importante risvolto nel romanzo stesso (e ne parleremo poi).

La seconda, e molto più grave, è che la traduzione è di seconda mano, essendo stata fatta (come si confessa nelle pagine dei “credits”) dalla versione inglese del romanzo e non dall’originale. La storia poi del romanzo in sé e dell’autore è altrettanto singolare (ed io, sinceramente, ne avrei fatto oggetto di una qualche nota o pre o post-fazione).

Kawaguchi è uno sceneggiatore e regista teatrale giapponese sulla cinquantina. Una decina di anni fa mette su un laboratorio teatrale con un suo testo sperimentale appoggiato da una classe di suoi allievi attori. Sono quattro quadri ambientati in un caffè. Il successo è buono, ed un editore presente lo convince a farlo diventare un romanzo. Cosa che si avvera dopo cinque anni. Non solo, ma il romanzo avrà anche altri due seguiti, sempre preceduti da episodi teatrali. Il successo anche qui è di buon livello, tanto che si decide di farne un film. Che purtroppo, avrà l’assurdo titolo di “Caffè Funiculì Funiculà” (almeno nella distribuzione europea).

L’idea di base su cui Kawaguchi ha sviluppato le sue trame teatrali, cinematografiche e di scrittura, è quella di un caffè dove si possa viaggiare nel tempo. Però, con delle regole precise ed inderogabili:

1.    Non si possono incontrare persone che non sono mai state al caffè.

2.    Anche se interferisci nel passato, il presente non cambierà (o anche il futuro).

3.    C'è solo una sedia nel caffè che ha il potere di farti viaggiare nel tempo e se è occupata, devi aspettare che il cliente lasci.

4.    Quando vai nel passato o nel futuro, resta sulla sedia.

5.    Puoi rimanere nel passato o nel futuro finché il caffè nella tua tazza è caldo e devi finirlo prima che si raffreddi.

Capite anche, dall’ultima regola, il motivo del titolo originale come ho riportato sopra.

Su questo palcoscenico (un caffè ed un viaggio nel tempo), che è molto teatrale, l’autore imbastisce alcune storie. Che vedono alla ribalta alcuni personaggi fissi, ed altri che ruotano intorno, e che a volte ritornano.

C’è Nagare, il gestore del caffè, con la moglie Kei con problemi al cuore e la cugina di Nagare, Kazu. C’è Hirai che gestisce una tavola calda lì vicino, ma passa la maggior parte del tempo al caffè. C’è il signor Fusagi, seduto in un angolo a leggere riviste. E c’è una donna che non parlerà mai, un fantasma che occupa permanentemente la sedia del viaggio. Poi, appunto, ci sono personaggi che entrano ed escono. Kotake, la moglie del signor Fusagi, Kumi, la sorella di Hirai e Fumiko, una giovane donna in carriera. Intorno a questi personaggi, si costruisce, nel romanzo, l’intreccio di quattro storie, di quattro racconti. Legati certo, ma anche episodi che si possono montare in una scatola seriale, come è stato poi per i libri successivi e per una miniserie uscita in Giappone. La storia di Fumiko che nel caffè è stata lasciata da Gore e che vorrebbe tornare indietro per spiegare quello che non è riuscita a dire. Ci sono Fusagi e signora, legati dal progressivo Alzheimer di lui. Ci sono Kumi e Hirai che dovrebbero trovare il modo di fare pace. C’è infine Kei che vorrebbe sapere se riuscirà a portare a termine una gravidanza difficile.

Utilizzando abilmente i vincoli sopra esposti, l’autore riesce a trovare il modo di rispettarli, ma anche di fare in modo che i quattro nodi si risolvano. Forse non sempre in modo positivo, ma di certo in modi interessanti. A volte può essere ripetitivo (una volta capito il meccanismo, non vale la pena ripeterlo ad ogni capitolo), ma si intuisce lo sforzo teatrale che c’è stato. Quasi si tocca con mano, per noi che un po’ conosciamo i laboratori di teatro, l’impegno degli alunni a portare avanti una trama, ad intrecciarla, lasciando poi a Kawaguchi, il maestro, di annodare i fili che si possono allentare. Insomma, un tentativo interessante, che poteva aspirare di più senza le pecche riportate in alto.

“Capisco solo adesso quanto devi aver sofferto ad avermi come sorella maggiore.” (132) [o fratello maggiore]

“Aveva pianto al funerale, ma da quel giorno in poi non si era più mostrata triste.” (160)

Frank McCourt “Le ceneri di Angela” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)

[A: 22/01/2018 – I: 18/07/2020 – T: 20/07/2020] - && e ¾

[tit. or.: Angela’s Ashes; ling. or.: inglese; pagine: 377; anno 1996]

Ne avevo sentito parlare molto e non avevo mai capito se mi andava di leggerlo o meno. Ma nella testa a volte si confondeva con altri titoli, non mi veniva in mente il film di Alan Parker. Insomma, una confusione totale, che finalmente decido di prendere per le corna. Ne risulta tuttavia una lettura assai datata, poco coinvolgente. Certo con una scrittura efficace, ma con una storia talmente “dickensiana” da sembrare finta. L’autore, americano figlio di irlandesi immigrati, scrive qui l’autobiografia dei suoi primi diciannove anni, ma la scrive quando ne ha sessantasei, dopo aver insegnato letteratura inglese per più di quaranta anni in una scuola americana. Con un successo immediato e folgorante, tanto da portarlo l’anno successivo al Premio Pulitzer, e poi a scrivere altre parti autobiografiche, seppur con minor successo.

Forse, quello che spinse più di altro al successo, è proprio quel sentimento americano che tutti, impegnandosi, riescono nella vita. McCourt, dopo l’infanzia qui narrata, torna in America che aveva lasciato a quattro anni, fa lavoretti, studia, si laurea, e poi, come detto, insegna. E da pensionato, scrive queste memorie.

La famiglia McCourt, in effetti, sembra essere una delle famiglie più sfortunate e peggio assortite di tutta la storia irlandese. I genitori sono Malachy senior di Belfast e Angela Sheehan di Limerick. Con il mito di altri immigrati vanno negli Stati Uniti. Ovvio che capitano nella Grande Depressione del 1929. Malachy non troverà mai, né qui né altrove, un lavoro. Tutto quello che, eventualmente, ottiene, in genere lo beve, essendo un alcolista perduto (anche se poi morirà a 84 anni). E lì in America nascono Frank (il 19 agosto del ’30) e Malachy jr. (il 30 settembre del ’31). Poi vengono due gemelli. Poi una femmina, l’unica, che muore dopo venti giorni. Angela ha un crollo verticale, e la famiglia McCourt decide di tornare in Irlanda. Prima dalla famiglia di lui, nel Nord, ma i parenti di Malachy sr. Praticamente li buttano fuori casa (il figlio ha sposato una cattolica…). Così che si rifugiano a Limerick, dalla famiglia di Angela. Dove non saranno mai bene accolti, solo sopportati. Per due ragioni fondamentali: non hanno mai un soldo ed il genitore è del Nord (oltre ad essere un ubriacone impenitente).

Lì a Limerick assistiamo alla morte dei due gemelli. E poi alla nascita di Michael e di Alphie. Sempre con gli occhi di Frank assistiamo alle sciagure di Limerick: la vita tra fame, fanghiglia, pulci; il padre disoccupato che, quando trova un lavoro precario, si beve al pub i soldi della paga, torna a casa ubriaco, poi finisce col non tornarci più e sparire; la madre costretta a mendicare, a raccogliere il carbone per terra, ad andare a letto con un parente in cambio dell'alloggio per sé e per i figli; e dopo i fratellini morti di stenti, il gabinetto in mezzo alla via, i troppi funerali, la casa sempre allagata. E via discorrendo, chi più ne ha più ne metta, di disastri che già sarebbero indecenti appunto nella Londra dickensiana dell’Ottocento, sono spaventosi in questa Irlanda nella Seconda Guerra Mondiale.

Nonostante tutto, Frank cresce, legge, si ammala, guarisce, fa mille lavori visto che il padre sparisce, fattorino, porta giornali. Finendo anche per fare lo scrivano di missive minatorie per una usuraia locale. E quando muore, le ruba anche l’ultima parte dei soldi che gli servono per comprare un biglietto in nave e tornare in America. Dove il Frank scrittore farà le attività sopra elencate, mentre il libro finisce con un’imprevista sortita amorosa, e con l’idea che, quando sarà, le ceneri della “povera” mamma, torneranno comunque in Irlanda.

Mi aspettavo sinceramente un libro di formazione più intenso, anche perché (solito mio pallino rompiscatole), un bimbo di tre anni difficilmente parla come il Frank del libro, ragiona come il Frank del libro, ed altro. Qualcosa riesce a farci immedesimare. Quando non capisce le parole e le cerca sul vocabolario. Quando non capisce gli adulti che gli dicono che capirà quando sarà grande. Quando si interroga su comportamenti assurdi per un tredicenne (le vergini suicide rimarranno sempre per lui un mistero). Ritengo, al fine, che sia un libro imprescindibile per una sana e variata biblioteca. Anche se non imperdibile.

Vorrei finire con una piccola citazione. Nel libro, proprio alla fine, tornando in America sbarca a Poughkeepsie, che per noi “informatici” rimarrà sempre la sede dell’IBM. Mentre per i letterati è anche la sede del Vassar College, la prima Università completamente femminile americana. Vassar che diventerà mista solo nel 1969. Vassar che vedrà tra le sue allieve, tanto per fare due nomi a caso, Jacqueline Kennedy e Meryl Streep.

“Shakespeare è come il purè di patate, non ti basta mai.” (283)

Joël Dicker “L’enigma della camera 622” La Nave di Teseo s.p. (Regalo di Kikko & Bene)

[A: 24/06/2020 – I: 12/08/2020 – T: 15/08/2020] - &&&& --

[tit. or.: L’énigme de la Chambre 622; ling. or.: francese; pagine: 632; anno 2020]

Interessante secondo libro letto dello svizzero Dicker. Molto metatesto, ma intriga, coinvolge ed alla fine propone uno scioglimento globale delle vicende interne ed esterne che soddisfa.

Dicker è ormai abbonato a best-seller che vendono e vendono. Tuttavia, gli altri due libri usciti non hanno avuto il successo editoriale di “Harry Quebert” e di questo Enigma. Un libro, in un certo senso, anche doloroso, in cui l’autore entra ed esce dal testo, non a caso il protagonista si chiama Joël Dicker. E nasce da un blocco e da uno sblocco. Il blocco è il tipico blocco dello scrittore che sente di avere una storia, ma che non riesce a farla uscire. Lo sblocco deriva da un fatto doloroso, che verrà riproposto più volte nel corso del libro. La morte del mentore dello scrittore (uso il minuscolo per l’autore ed il Maiuscolo per il protagonista), l’editore Bernard de Fallois. Colui che aveva spinto lo scrittore a pubblicare, che lo aveva consigliato, aiutato, pubblicato. Varie volte lo Scrittore ci fa uscire dal corso della storia, ci porta dai suoi momenti con Bernard, che sono belli e toccanti. Poiché poi Bernard aveva detto allo scrittore che doveva solo scrivere, quello fa, e ci porta in questa multi-dimensione abbastanza affascinante.

Lo Scrittore pensa il suo blocco derivi dalla sfortunata storia d’amore che sta vivendo con Sloane, che con un freddo biglietto lo lascia il 22 giugno. Per distrarre la mente, decide di fuggire in un paesaggio incantato nel pieno delle alpi svizzere, rifugiandosi nel lussuoso Palace de Verbier. Lì gli viene assegnata la stanza 623, e recandovisi, scopre che c’è la stanza 621, poi la 621 bis, poi la 623. Non la 622. Si incuriosisce ma non andrebbe avanti se un’ospite dello stesso hotel non lo coinvolgesse in questo mistero. Entra così in scena la dinamica Scarlett Leonas. Ed insieme scoprono tante cose.

Quindici anni prima si stava svolgendo nell’hotel un grand gala organizzato da una delle più potenti banche d’affari svizzere. Morto l’anno precedente il patriarca, si doveva nominare il successore: il figlio Macaire o il rampante Lev? Tuttavia, prima della proclamazione, una persona muore assassinata nella stanza 622. La bravura dello scrittore, a questo punto, è portare avanti tutta la storia, per dire chi sia morto solo dopo quattrocento pagine.

In tutto questo, insieme a Scarlett, entra nella storia della banca, nella storia dei personaggi, nei loro intrecci. C’è appunto Macaire, abbastanza bravo, ma prima succube del padre, poi incapace di volare con le proprie gambe, sposato con la bella Anastasia, ed in amicizia/competizione con il molto più bravo Lev. C’è Anastasia che sposò sbadatamente Macaire, pur amando Lev. E, ritrovandolo, si trovano a tessere trame altre, sia tradendo Macaire, sia pensando a futuri congiunti. C’è Lev, di cui veniamo a brandelli a conoscere la storia, con il padre attore/fantasista che fa mille mestieri per sopravvivere. Lui viene accolto dal padrone del Palace de Verbier, che lo fa studiare, che lo mette in condizione di fare grandi opere e grandi soldi, anche perché vuole che diventi il suo successore. Ci sono gli altri due membri del Consiglio d’Amministrazione, padre e figlio, che vorrebbero pesare di più nella Banca. Infine, c’è il misterioso Sinior Tarnogol, un finanziere entrato nella banca a fronte di una incauta vendita di azioni da parte di Macaire.

Scartabellando, facendo entrare altri personaggi, lo scrittore scrive e lo Scrittore indaga. Nel flusso della storia compaiono rivoli di narrazioni intriganti. Macaire è realmente una spia dei Servizi Segreti? Dov’è finito il padre di Lev? E, soprattutto, chi è morto nella stanza 622 e perché?

La bravura dello scrittore è portarci passo dopo passo anche verso il finale, quando grazie al pensiero del suo mentore Bernard, finisce il libro, scioglie l’enigma della stanza. Ed esce dalle multi-dimensioni testuali. Per spiegare a Denise, la sua segretaria che lo Scrittore ha finito il libro, e lo Joël confessa che la coprotagonista si chiama Scarlett perché adora “Via col Vento”, che l’autista tuttofare di Lev si chiama come il segretario di Marcel Proust.

Noi che siamo attenti lettori poi non possiamo che notare come il cognome di Scarlett, Leonas, non sia altro che un anagramma della fiamma dello scrittore (Sloane). E che la stanza porta un numero che non è altro che la data dell’abbandono di Sloane scritta all’inglese (22 giugno à 22/6 à 622).

Alla fine, un buon romanzo, che mi ha portato in giro fra le mie rimembranze di scrittori che si insinuano nelle pagine, e nel mondo dei piccoli editori. Dicker mi rimanda a Fallois ed alla sua casa editrice, che mi fa venire in mente Nicolas Bouvier ed i suoi “scrittori viaggiatori”, per portarmi ai piccoli editori svizzeri, ed all’opera poco conosciuta ed a me cara di Vladimir Dimitrijević. Insomma, se si comincia a fare metatesto non si finisce più. Ma io finisco, tributando il dovuto omaggio ad un libro che va letto.

“Il successo di un libro … non si misura dal numero delle copie vendute, ma dalla felicità e dal piacere che si prova a editarlo.” (196) [e a leggerlo…]

“Quando sei un artista, lo sei per sempre! Ce l’hai nel sangue.” (287)

“La vita è un romanzo di cui già si conosce la fine: il protagonista muore. La cosa più importante, in fondo, non è come va a finire. Ma in che modo ne riempiamo le pagine.” (632)

Sebbene sia la terza settimana, non metterò alcun allegato, che, avendo praticamente esaurito i libri felici, devo spulciare le mie raccolte per vedere se sia rimasto qualcosa.

È vero, siamo ad una ripresa dei contagi e del virus, anche se (come dicono i miei amici matematici), i numeri sono diversi da marzo e aprile (essendo aumentati il numero di controlli effettuati). Sebbene quindi con molta cautela, spero di non avere occasione di inviarvi altre mail per il mese di ottobre, augurandomi di poter fare quello che programmo da mesi.  

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