domenica 29 agosto 2021

I consigli di Robinson - 29 agosto 2021

Quattro consigli di libri al femminile che provengono da “Robinson” il supplemento letterario di Repubblica. Il quale, ogni settimana, pubblica una sua Top Ten, dalla quale io pesco libri casualmente. Il risultato non è sempre di livello come mi aspettavo dalla lista. Anche perché, in fondo, i gusti degli scrittori di Robinson sono di fondo diversi dai miei. Qui, dopo un inizio decente, si va in calando, sia con autrici straniere che con autrici italiane di non chiarissima fama. Sono tentativi, questa volta poco riusciti. Ma ci si riproverà

Naoise Dolan “Tempi eccitanti” Atlantide euro 16,50 (consigliato da Robinson)

[A: 12/01/2021 – I: 04/02/2021 – T: 07/02/2021] - &&&--- 

[tit. or.: Exciting Times; ling. or.: inglese; pagine: 295; anno 2020]

Continua con questo libro la lettura di suggerimenti non usuali presi dalla rivista “Robinson” di Repubblica. Qui abbiamo un risultato non direi a gambero, ma suggerirei a lumaca. Cioè due passi avanti ed uno indietro. Gli elementi positivi del suggerimento sono innanzi tutto la scoperta di una nuova casa editrice, almeno per me. “Atlantide” che mi sembra avere un iniziale catalogo di interesse per nuovi spunti (nonché avere la sede non distante dalla mia abitazione). Il secondo punto è la scoperta di una nuova autrice, irlandese di Dublino, con un nome impronunciabile, giovane e quindi con possibili aspettative positive, per lei e per noi.

Il passo indietro è il romanzo nel complesso, con spunti interessanti, momenti linguistici da “pensamento”, eppur tuttavia irrisolto nelle sue pieghe maggiori. Quasi la Dolan volesse lasciare zone d’ombra e d’interpretazione, per far sì che poi, il lettore farà proseguire il testo oltre l’ultima pagina. Nella sua immaginazione.

Intanto, altro elemento di curiosità è il nome stesso dell’autrice. Ovvio che sia gaelico, meno ovvio che, generalmente, Naoise (che si pronuncia “Nisha” come ha riferito l’autrice) sia un nome maschile, riferito al marito dell’eroina Deirdre, ed ucciso, nelle saghe locali, da suo zio Conchobar (che sembra invece tanto un nome di un locale sudamericano).

Andando poi a spulciare nella vita di Naoise, oltre che di Dublino, laureatasi al Trinity College, dove aveva come collega Sally Rooney (di cui ho da non molto tramato un libro), ha poi girato molto (Italia, Singapore, e soprattutto Hong Kong), per poi rimpatriare e continuare a scrivere.

Se traguardiamo il testo nel contesto possiamo di certo vedere similitudini, ma noi, oltre che congiunzioni astrali non indaghiamo, e quindi ci immergiamo in questo triangolo scaleno asiatico. Dove seguiamo la vicenda della protagonista, Ava, e dei suoi due principali interlocutori: Julian e Edith. Ci sono altri personaggi al contorno, ma da espungere quando vogliamo concentrarci sul testo e sulla sua resa.

La prima cosa che salta agli occhi è la continua irresolubilità di Ava. Pur essendo la protagonista, nonché il soggetto parlante (o scrivente), pur essendo moderatamente (o almeno, personalmente) simpatica, dotata a volte di battute fulminanti e di pensieri caustico-ironici, non sembra mai fare un passo avanti. Si lascia trasportare dagli eventi, piccolo vascello senza guida. E per duecentonovanta pagine si incarta sulle sue paranoie: paure, bellezze, slanci, tutto nella sua testa. Ci vorranno le ultime quattro pagine per farci capire che, forse, qualcosa è scattato nella sua testolina.

Ava, dopo il diploma, decide di emigrare ad Hong Kong, una città ormai cinese, dove per vivere insegna inglese ad una scuola privata di ricchi cinesi. Questa, tra l’altro, credo sia stata la prova più ardua per la traduttrice, la bravissima Claudia Durastanti, che nel battibeccare con gli alunni, Ava si immerge in discussioni su forme grammaticali inglesi e irlandesi, che solo salti pindarici riescono poi a farne capire il senso. Ad esempio, c’è tutta una pagina sulla pronuncia di “what” e “things” (84) o un’altra sulle differenze tra perfect, past, past perfect, present perfect e present perfect continuous (198).

Comunque, conosce Julian, un consulente finanziario di livello medio-alto, di stipendio e mezzi altissimi. Dopo strane schermaglie, Julian le offre una stanza del suo mega appartamento. E dopo altro poco tempo, i due finiscono a letto. Non è amore, è solo sesso. Anche perché i due continueranno a trattarsi male (verbalmente) in fondo solo perché innamorati delle loro relative schermaglie verbali.

Quando Julian deve tornare a Londra per qualche mese, lasciandole l’appartamento, Ava conosce Edith. Anzi, Edith Mei Ling Zhang, visto che è hongkonghese, poi laureata a Cambridge. Tra le due nasce subito un’amicizia, di cui seguiamo i divertiti passi. Che poi sfocia in amore (sì, anche sesso, ma questo è vero amore). Il problema è che Ava è lì sul crinale. Non dice a Edith di Julian ed a Julian di Edith.

Ovvio che poi ci sarà un redde rationem. Anche se Ava mette in chiaro (almeno in sé stessa) che con Julian era sesso e con Edith amore. Il punto di crisi arriva prima quando Edith chiede ad Ava di lasciare l’appartamento di Julian, cosa che lei non fa (perché si lascia vivere). Come conseguenza, le due si lasciano. Facendo nascere pagine e pagine di tormenti amorosi solitari dell’indecisa Ava.

Il secondo e definitivo punto arriva quando Julian viene trasferito a Francoforte, chiede ad Ava di venire con lui. Ed Ava deve decidere: partire? Restare sola a HK? Restare a HK e tentare di ricucire con Edith? Tutte strade possibili, che avrete il gusto ed il piacere di leggere, spero.

Che anche se non eccellentissimo, è un romanzo di gradevole lettura, e di apertura di finestre sul mondo dei venti-trentenni degli Anni Venti di questo Millennio. Con la sua scrittura tutto sommato accattivante (con tutti i limiti evidenziati per il mio gusto). Non lo ritengo, come esprime “Robinson”, un libro da Top Ten, ma sono contento di averne letto.

Carmen Barbieri “Cercando il mio nome” Feltrinelli euro 16,50 (consigliato da Robinson)

[A: 01/02/2021 – I: 31/03/2021 – T: 01/04/2021] && --

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 218; anno: 2021]

Ancora una segnalazione di “Robinson” di Repubblica. Questa volta di gradimento medio, mentre speravo qualcosa in più. Certo, Carmen è interessante, come personaggio, è gradevole (abbastanza gradevole) nella scrittura, è sapiente nel dosare frasi e situazioni. Ma il libro prende poco, pur se è tutto incentrato su di un sentimento. Che è amore, ma quello di una figlia verso il padre.

Su questo trasporto (che tutto sommato, ho difficoltà a recepire, in quanto maschio) si svolge tutto il dramma di Anna, la protagonista. Dramma perché non è tanto e solo l’amore per il padre che vediamo scorrere nelle pagine, ma il dramma di una ragazza di diciannove anni cui muore il padre, come si dice ora, per un male incurabile.

E di certo, questo non favorisce la mia personale serenità, che in questi tempi di malattie, sono molto sensibile a tutto: ai virus, ai tumori, ma anche alle coxalgie, o a qualsiasi cosa che alteri il funzionamento di ognuno di noi.

Il racconto di Carmen si indirizza subito su due binari. C’è Anna napoletana, che viene dai Quartieri Spagnoli, uno degli angoli più caratteristici ed intensi di napoletanità. Molto legata al padre, cosa ovviamente reciproca, che si sente in quell’intercalare paterno dove ad ogni frase si aggiunge la chiosa “apapà”. Inciso: c’è un interessante studio sulla “Comunicazione parlata” coordinato dall’Università di Napoli, che contiene un articolo sull’utilizzo di questa forma parlata, definita “allocuzione inversa”, in uso nel Meridione, da Roma in giù, e generalmente nella comunicazione verso i bambini (“baby talk”). Ma questo “moto a luogo” (“viene, apapà”, cioè “Vieni da papà”) si trasforma presto in “alfa privativo”. A/papà, cioè senza papà, che Giosuè, il padre, muore, e con lui muore tutta una struttura vitale di Anna.

Alternato, dicevo, c’è il binario romano. Anna ha diciannove anni, vuole fare l’attrice, e vuole studiare. Per cui si trasferisce a Roma, dove però trova subito delle grosse difficoltà. Tutto quello che vuole fare (vitto, alloggio, studio, teatro) è legato al denaro che, mancando il padre, non c’è più. Ma ad Anna è giovane e bella, e lo stesso “Prete Nero” che aveva trovato lavori domestici alla sua coinquilina, la indirizza invece verso il mondo notturno dei night club. Così Anna si sdoppia, diventa Bube, diventa la ragazza della pole dance, degli spogliarelli, degli occhi che la scrutano, delle mani che la vogliono toccare. Bube è insensibile, ma quando torna Anna sale addosso tutto il dolore del mondo. Neanche il rapporto con Alessandro riesce a sanarlo, anche perché Anna non riesce a dire agli altri di essere Bube.

Anna-Bube a Roma è sostanzialmente sola, e nel racconto la sua solitudine spesso si scontra, più che si incontra, con la moltitudine napoletana: la nonna, i due inseparabili gemelli amici fin dall’infanzia, la madre (che però non entra mai in quella dura corazza), la folla del quartiere ed anche i defunti, che la nonna gli fa frequentare fin da bambina. Pur nella durezza dei momenti che vive, il sogno di diventare attrice rimane sempre dentro la sua anima, e quando un evento, potenzialmente tragico (o forse realmente tragico) la spinge a lasciare il mondo notturno, è questo sogno che dà forza alla sua voglia di ricominciare a vivere la sua vita, e non quella di qualche altro.

Così, quando la sua duplicità si ricompone, quando ritroviamo la sola ed unica Anna, noi lettori spettatori capiamo che lei ha ritrovato la sua unità, la sua centralità. Certo, il futuro potrà essere incerto, soprattutto se non abbiamo superato dentro di noi i bagliori di un passato che non siamo mai riusciti ad accettare. Forse Anna lo farà, o almeno noi glielo auguriamo.

Seppur interessante, l’accenno di trama che mi rimane in testa, non riesce a farmi superare la faticosità di certi momenti di lettura, la frammentarietà di certi momenti espositivi. Per cui rimane un interessante esperimento, tuttavia iniziale.

Ringrazio solo, al fine, l’autrice che nella parte ambientata a Roma, spesso ci si muove in questo mondo che sto cominciando a conoscere. Che non sempre capisco, ma che vedo crescere intorno a me: piazza Sempione con i cornetti dell’Angolo Russo, l’autobus “60”, Conca d’Oro e viale Eritrea, Arion e Romoli. Quasi un’aria di casa ormai.

Chiara Mezzalama “Dopo la pioggia” E/O euro 16,50 (consigliato da Robinson)

[A: 22/03/2021 – I: 17/04/2021 – T: 19/04/2021] && e ½ 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 213; anno: 2021]

Anche questo è uno dei libri consigliati settimanalmente da Robinson. Mi era ignota l’autrice, a posteriori scoperto essere una cinquantina romana che vive a Parigi, autrice di libri per l’infanzia e di un pamphlet sulla vicenda di Charlie Hebdo.

Il libro scorre abbastanza facilmente, con qualche spunto, ma anche con una vicenda che, stretta all’ossa, è forse un po’ semplicistica. Tuttavia, affronta, a suo modo, il tema del disastro ambientale, ipotizzando “sacche di resistenza” umana che si oppongono con le loro iniziative a qualche calamità, umana e/o naturale.

Pur essendo edito in tempi di pandemia e parlando di pioggia senza fine e dei suoi disastri, l’autrice ha detto di averlo scritto prima del virus, e poi di aver passato del tempo a “limarlo”. Operazione fondamentale, anche se non sempre riuscita.

La trama parte piano ed in una direzione familiare: c’è una famiglia composta da Ettore, ingegnere, Elena, traduttrice, con i figli Susanna, una tipica (e per questo simpatica) “Friday for Future” e Giovanni, appassionato di balletto e “poco virile”. Quando Elena scopre l’ennesimo tradimento di Ettore, lascia tutti e si rifugia nella loro casa vicino Orte. Inciso: quando parla delle valli tra Orte, Amelia, Umbria e Viterbese, mi si apre il cuore e penso alla nostra Soriano.

Ettore si arrovella un po’ (ma non tanto), e, sotto la spinta dei figli, decide di muoversi alla ricerca della moglie “scomparsa” (ma tutti sanno che sta o sta andando al casale).

Il tutto complicato da una pioggia torrenziale, che travolge Roma, fa crollare ponti, trasforma in laghetto la bella Piazza Margana dove i nostri (un po’ radical chic, ovvio) abitano. Certo, il diluvio è fonte di riflessione e motore di azioni per i nostri protagonisti. E, ma solo da lontano, eco di quello che succede. Si odono notizie di disastri che sembrano cambiare tutta la geografia della capitale, ma poi ci si concentra su quanto succede in campagna, e tutto il resto tace.

Sperduti nella campagna della Tuscia, con le auto in panne, vicini seppur distanti, con i telefoni che funzionano a singhiozzo (o non funzionano in quanto scarichi) i nostri quattro “eroi” devono proseguire con mezzi di fortuna, e adeguarsi all’incontro con i personaggi alternativi che colà vivono le loro vite “altre”.

Ettore ed i figli incontrano il giovane Ove, un norvegese che come tanti nordici, s’innamorano dell’Italia e si stabiliscono in quelle campagne, conducendo una vita vegetariana e alternativa. Ove li presenta ad una comunità di suore, di clausura, forse, ma ben operose. Che, oltre a disquisire con Susanna di agricoltura alternativa, consentono a Giovanni di esibirsi in un ballo liberatorio, anche per le fobie omofobiche del padre.

Elena, dal canto suo, è slavata da un disastro automobilistico tra pantani e fiumi in piena da Guido, altro “fattone alternativo”, che vive in campagna alla ricerca di fungi e tartufi. Tramite questi, mette in contatto Elena con una strana giapponese, sopravvissuta al disastro di Fukujima, e lì in Umbria riparatasi con il marito cuoco. E tutti cominciano a disquisire sulle vicinanze e sulle diversità tra tartufi e matsutake (inciso: quest’ultimo è un fungo dal forte odore speziato-aromatico, che cresce con difficoltà, tanto che ad inizio stagione l’originale giapponese ha un costo intorno ai mille euro al kilo, circa la metà del costo di un tartufo bianco), entrando nel merito della cultura giapponese, di cui Elena è un’estimatrice.

È anche ovvio che Guido, la giapponese, Ove e le suore si conoscano, così che alla fine c’è una bella “reunion”. Anche se nel frattempo, Guido ed Elena hanno saggiato una loro piacevole intimità. Alla fine, dopo giorni e giorni, la pioggia cessa, ognuno potrebbe riprendere la propria vita. Ma dopo duecento pagine di riflessioni ecologiche, quanti lo faranno? A voi la lettura.

La critica e l’intento “morale” della scrittrice è di portare alla luce un modo di vivere individualista e contro natura (nel senso di andare contro la natura), incentrato su Ettore ingegnere poco sostenibile, viaggiatore in aereo, inquinatore senza rendersene conto. Ma, senza cadere in facili preconcetti, il viaggio campagnolo dei nostri è costellato da figure maschili e femminili positive. Per farci capire che tutti, se prendiamo coscienza, possiamo cambiare, migliorare, fermare, forse, il disastro. O comunque, attuare una micropolitica di resilienza sostenibile: utilizzo di pannelli solari, sistemi di raccolta delle acque, struttura composite che consentono di avere energia anche con un’intera regione in blackout. Tanto che il grido di dolore dell’autrice sembra portarci alla richiesta di non accettare compromessi, ecologici, etici e sentimentali. È di certo una forzatura soggettiva, ma lo spunto di dire basta, di cambiare vita, c’è. Bisogna solo accoglierlo. Soggettivamente. Grazie per lo spunto, Chiara tra le tante Chiare.

Juliet Lapidos “Talento” Bompiani euro 17 (in realtà, scontato a 16,15 euro; consigliato da Robinson)

[A: 06/04/2021 – I: 29/04/2021 – T: 01/05/2021] - && 

[tit. or.: Talent; ling. or.: inglese; pagine: 233; anno 2019]

Ulteriore consiglio di Robinson, questa volta meno riuscito del solito. Di certo ben pensata la trama nel complesso, lascia invece a desiderare il modo in cui si evolve (o si involve) nel finale.

Non conosceva l’autrice, che vedo essere di origini ebraiche e per anni, dopo la laurea a Yale, giornalista ed opinionista per diversi giornali, su entrambe le coste americane. Ciò le dà una facilità di scrittura, come spesso accade ai giornalisti, anche se rende più vivide le descrizioni ambientali che il tratteggio dei personaggi. Tutti quelli che si muovono sulla scena sono forse un po’ troppo “tagliati con l’accetta”, mentre risalta meglio lo scrittore al centro della vicenda, quello che forse (o forse non) ha talento. Anche perché Frederick Langley è morto e su di lui si riversano le congetture della protagonista Anna, e delle persone che lo hanno conosciuto.

Facendo un po’ d’ordine, quindi, abbiamo la protagonista Anne Brisker, ventinovenne dottoranda, Helen Langley, rilegatrice di libri, casualmente incontrata che la introduce alle notizie sullo zio Frederik, il professor Davidoff, relatore di Anne, accademico e tronfio, ed Evan, già dottorato e forse amico di Anne (o forse no). Poi, ovvio, Frederik Langley, poco prolifico scrittore, autore di tre raccolte di racconti in gioventù, poi cessa di scrivere, vive qualche decennio in Europa, per tornare in America, vivere alle spalle del fratello, morendo presto in un incidente d’auto avendo (o forse no) scritto altro, senza pubblicarlo.

Anne sta facendo la tesi sulla “Storia intellettuale dell’ispirazione”, con alcuni spunti interessanti, ma un po’ arenata. Tanto che Davidoff la sprona ad altro. L’incontro casuale con Helen, la porta sulle tracce di Langley. Soprattutto, sul possibile contenuto dei suoi taccuini, custoditi in una biblioteca, ma rivendicati da Helen. Anne trascorre le sue giornate ciondolante, beandosi del lascito del nonno, così che non ha fretta di scrivere. Viene però coinvolta nelle elucubrazioni di Helen, legge i taccuini, capisce una verità fondamentale: Langley scriveva perché era l’unica cosa che non potesse essere governata dal padre prepotente e autoritario. Un padre che metteva in ogni instante in competizione lui ed il fratello Thomas, premiando sempre Thomas. Tipico momento, ad esempio, la richiesta di pulire l’orto, col premio al migliore. Ovvio che sia Thomas, che viene premiato con le figurine dell’album di Frederik. Io un padre così lo strangolerei sulla porta di casa.

Langley è anche paradigmatico per la storia sull’ispirazione. Non che la finisca, ma smette di scrivere quando il padre commenta positivamente il suo lavoro. Riprenderà a scrivere, anche se di nascosto, solo alla morte del padre. Farà anche altre cose per scrollarsi freudianamente il macigno, ma queste ve le lascio leggere.

Helen apre un mondo a Anne, che ci si precipita dentro. Ma quando da questo cilindro, tira fuori lo scrittore Langley, la mancanza di supporti adeguati (non vi dico certo perché) lascia tutto un po’ poco credibile. O almeno, credibile se si dà credito ad Anne. Cosa che, con momenti terribilmente astiosi, non fa il professor Davidoff, in questo supportato dall’atteggiamento di Evan. Anche Helen, alla fine, e non vi dico né come né perché, si tira indietro. Lasciando al centro della scena, un Anne sconfitta, e senza particolari velleità di risollevarsi.

Mentre allora, tutta la prima parte scorre piacevolmente, così come sono interessanti gli intarsi che Juliet inserisce qua e là: brani del taccuino, note alla Nabokov che aprono microracconti, anche su più pagine; la parte finale va alla deriva anche con poca originalità. Non dico che le tesi di Anne dovesse trionfare, ma se ne seguiamo le gesta per duecento pagine, empatizzando con lei, non possiamo, non posso pensare che sia, alla fine, un personaggio negativo. O sconfitto dall’insipienza altrui, magari con il contributo della propria apatia. Ripeto poi, che l’ambiente universitario, il campus, financo la mansarda di Langley entrano nella memoria, mentre troppo stereotipati sono Anne, Helen e gli altri.

Un passaggio divertente è quando, a pagina 11, si cita il gioco introdotto dallo scrittore David Lodge nel suo libro “Scambi”: si chiama “Umiliazione”, dove si ottengono punti a fronte della non lettura di classici della letteratura, o libri in genere. Qui Anne fa un grosso balzo in avanti, confessando di non aver letto il “Paradiso Perduto” di Milton. Spero di aver anch’io un buon punteggio, non avendo letto né “Ulysses” di Joyce né “I fratelli Karamazov” di Dostoevskij.

“Se fai qualcosa perché ti aspetti una ricompensa, allora significa che non vivi il momento presente e che non ti gusterai quello che stai facendo.” (74)

Terza trama, dove in mancanza di “libri felici”, vi lascio una pagina di citazioni.

Come se non bastasse, in questo possibile inizio di un percorso autunnale, vi rimando anche un pensiero di Pino Roveredo che nel suo molto interessante “Capriole in salita” discettava della malinconia, sostenendo: “La malinconia ha la capacità di toglierti il sorriso di bocca e lasciarti in cicatrice il malumore, ti fa vedere tutte le cose sempre dal lato peggiore e riesce a farti credere che anche il niente ce l’ha su con te”.

Noi invece sappiamo che non è mai il niente, ma a volte siamo noi stessi che ci stortiamo su noi stessi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di agosto

Sempre in un momento pandemico, ma pronti ad intraprendere uno dei viaggi più difficili da me organizzato (anche se questa volta non da solo), ritorno a quei momenti dove si stava mettendo le basi a quanto poi sarebbe successo.

La fine di marzo del 2008, ancora calda delle lacrime della morte di mio padre, e pronti, io ed il mio fratellino, a prenderci cura di nostra madre, riporta nelle mie letture Banana Yoshimoto con un Giappone che non mi toglierò più dal cuore. Lei riesce a dare un senso alle mie vicinanze ed alle mie paure. Ne “L’abito di piume” Infatti, prima afferma “sapevo bene che quando si sentono più o meno le stesse cose, si comunica meglio col silenzio”, poi con un colpo di coda mi mette paura dicendo: “le storie troppo belle finiscono sempre con un colpo di scena tragico”.

Ad inizio aprile, affrontai un trittico di letture tra lo slavo ed il teutonico. Iniziai con uno dei pochi russi che ho sempre ammirato. Nelle sue "Umili prose", il grande Aleksander S. Puskin mi suggerisce una riflessione che, tuttavia, negli anni, mi ha portato al contrario. Lui diceva “il mio amore bruciava in solitudine e ora dopo ora diveniva per me più penoso. Persi la voglia di leggere…”. Mentre io la voglia di leggere non l’ho mai persa.

E sulla stessa falsariga del silenzio, mi parlava invece un russo che ho sempre letto con difficoltà. Mai riuscendo a portare avanti il suo “Delitto e Castigo”. Ma Fëdor Dostoevskij ne “La mite” ribadiva “Sono un maestro nel parlare con il silenzio. Per tutta la mia vita avevo parlato tacendo, avevo vissuto con me stesso…”.

Scendendo verso le Alpi, l’austriaco Arthur Schnitzler cercava invece di farmi riflettere sui dolori appena passati. In un passo delle sue “Novelle” sostiene “ci si può riconciliare senza perdonare e si può perdonare senza dimenticare”.

Altro invece mi portò la Pasqua di quell’anno. Il mio vecchio sodale Peppe, per l’inizio degli anni che dall’uscita dal mondo del lavoro mi avrebbero portato alla pensione, mi regalò un inusuale libro di Adriano Sofri che usando il titolo come autoriferimento nel “Chi è il mio prossimo” parlava di come affrontare la fine di qualcosa. Per me, era del lavoro, per altri non so, e lui sosteneva: “è difficile smettere, e smettere bene”.

Fortunatamente, ripresi a viaggiare. E quale viatico migliore di Ryszard Kapuscinski per accompagnare le escursioni intorno al mondo. Mentre organizzavo di andare in Perù (che torna come un mantra quando decido di essere felice), lessi alcune riflessioni che diventarono fondamentali nel bellissimo “Autoritratto di un reporter”. La prima si ricollegava a quanto avevo sempre tentato di fare anche quando lavoravo: “la mia principale ambizione è di dimostrare agli europei che l’Europa non è il mondo intero”. La seconda sottolineava una speranza, una voglia, che forse si è realizzata solo nella mia testa: “vai in giro per dieci anni senza prendere appunti. Poi comincia a scrivere. Le cose che avrai vissute te le ricorderai comunque, e quelle che dimenticherai vuol dire che non valevano la pena di essere scritte”. La terza rendeva palese quello che mi aveva, sempre, motivato: “la curiosità è sempre stata la molla che mi ha spinto a partire”.

Nel mese che si avvicinava ai miei 55, ripresi anche le letture in francese, che mi hanno sempre gradevolmente accompagnato. Il primo fu il mio grande amore dai tempi di Beirut e delle sfortunate imprese libanesi. Amin Maalouf scriveva in “Origines” una frase che spero poter ripetere anche ora a testa altaNotre unique consolation, avant d’aller nous endormir sous terre, c’est d’avoir aimé, d’avoir été aimés …” [la nostra unica consolazione, prima di addormentarci sottoterra, è di aver amato, di essere stati amati].

Mentre, in negativo, leggevo anche un autore che non mi è mai piaciuto, Michel Houellebecq. Nel suo romanzo allora più noto “Les particules élémentaires” sottolineava con una frase quanto io non vorrei mai vivere “Notre malheur n’atteint son plus haut point que lorsque a été envisagée, suffisamment proche, la possibilité pratique du bonheur.” [La nostra infelicità raggiunge il punto più alto, quando si scorge, sufficientemente vicina, la possibilità pratica della felicità].

Finché, verso la fine del mese, prima dall’Indocina, mi arrivano le parole di Marguerite Duras, che nel suo “Occhi blu, capelli neri” ribadisce un sentimento che sono stato sempre il primo a sostenere essere di fondamento dei rapporti d’amore: “Lei gli dice di avvertirla se per caso un giorno lui si metterà ad amarla”.

Infine, l’inqualificabile Charles Bukowski, rozzamente sregolato, nel poco amato (almeno da me) “Storie di ordinaria follia”, anche se lo ritengo uno scritto da leggere, terminava i miei pensieri sparsi arringando la folla: “signori, arriva il momento nella vita di ogni uomo, in cui questi deve scegliere fra resistere o scappare. Io scelgo di resistere”.

Anch’io, e spero di farcela, anche se poi non è che sia tanto sicuro.

Lottiamo insieme, allora.

Nessun commento:

Posta un commento