domenica 12 settembre 2021

Tra Cina e Islanda - 12 settembre 2021

Questa volta l’impari confronto è tra tre romanzi dell’immigrato cinese Xiaolong, che ci consentono di terminare (finalmente) la saga dell’ispettore Chen (o almeno credo), ed un libro di un nuovo autore islandese. Che, anche per il mio immotivato amore per l’isola, vince alla grandissima.

Qiu Xiaolong “Il principe rosso” Marsilio UE Feltrinelli euro 11 (in realtà, scontato a 8,80 euro)

[A: 05/11/2019– I: 19/03/2021 – T: 20/03/2021] - && --

[tit. or.: Shanghai Redemption; ling. or.: inglese; pagine: 376; anno 2016]

Devo dire che, pur continuando a leggere, anche saltuariamente, gli scritti di Qiu, le avventure, gli intrecci, le pose stesse dell’autore cominciano ad essere abbastanza dissonanti con le mie capacità di lettura. Certo, visto che è un autore seriale, che questo è il nono episodio della serie, e che ne sono usciti altri due, continuerò a leggerne. Magari continuando anche a parlarle non sempre in termini positivi.

Ora il nocciolo della questione è sempre lo stesso: una persona (Chen Cao) discretamente onesta a confrontarsi con tutto l’establishment cinese, discretamente corretto. Sono diversi libri che Qiu gioca su questa contrapposizione, e che non la risolve. Certo, lui, espatriato, correntemente americano, sappiamo da che parte voglia giocare. Ma il fatto che, alla fine, zoppicando forse, Chen riesca ad uscirne “vivo” (in senso letterario non fisico), è come una concessione all’idea che, forse, qualcosa di buono potrebbe esserci.

Ma prima di addentrarci nella trama, c’è da sottolineare tutte quelle parti, magari belle e colte, ma che rendono grossi pezzi del romanzo illeggibili e/o inintelligibili. Sappiamo, per averne letto fin dal suo apparire in Italia, or son vent’anni, che Qiu, prima che scrittore, è ricercatore in lettere e cultore della poesia. Ora, già per me la poesia normalmente è ostica. Figuriamoci quella cinese, che ha metriche, immagini, espressività talmente particolari e proprie che neanche leggendone con una spiegazione a lato riesco a capirne il senso. Peccato che Qiu le usi a volte come chiose a situazioni, o come prodromi di sviluppi di altri momenti topici. Visto che sono limitato, salto a piè pari le parti poetiche, mi concentro sul resto, forse perdendo un po’ del pathos. Ma questo è, e questo sono io, lettore.

In questo libro, inoltre, Qiu tenta un’operazione che può forse sfuggire a chi non conosce la storia cinese recente. O a chi, pur leggendo la quarta, non intende approfondirne i temi. Infatti, tutta la storia è una rivisitazione, abbastanza fedele, delle vicende politiche e personali che convolsero intorno al 2012 l’astro nascente del Partito Comunista Cinese, Bo Xilai. Bo era considerato uno di sinistra, all’interno del PCC, con il suo slogan “canta il rosso e colpisci il nero”, aveva debellato diverse organizzazioni criminali (“colpisci il nero”), ma nelle zone sotto la sua influenza sembra ritornare il sinistro fiato della Rivoluzione Culturale (“canta il rosso”).

La seconda moglie di Bo, eminente avvocato, era ben addentro ad affari vari, tra cui lucrosi appalti. Nonché proficue transazioni con l’estero. Mediate da un consulente americano, Neil Heywood. In seguito a contrasti imprecisati, Neil viene avvelenato, e da lì parte tutta una catena di indagini e contro indagini, che alla fine porteranno Bo e sua moglie Gu alla condanna all’ergastolo per corruzione, concussione e abuso di potere.

Ora, se in questa trama inserite l’ispettore Chen come granello per inceppare il meccanismo, avrete il libro letto e stampato. Infatti, Chen viene rimosso dall’incarico di Ispettore Capo, promuovendolo a capo di un Dipartimento per Riforme Legali (“promoveatur ut amoveatur”). Per rilassarsi, si occupa della tomba di famiglia, ma lì viene coinvolto da una escort in pensione in una trama di ricerca di informazioni, che si collega con alcune indagini che stava seguendo prima di essere rimosso, per finire con collegarsi alla morte di un americano. Eccetera, eccetera, eccetera.

Ovvio che nella trama, dalla parte dei buoni, sono coinvolti i personaggi fissi della serie: il vice di Chen, l’ispettore Yu, la di lui moglie, Peiqin, ed il di lui padre chiamato “Vecchio Cacciatore”, e l’ex-entraineuse Nuvola Bianca (che sospetto abbia un debole per Chen, ma…).

Alla fine, a Chen verrà riconosciuto il merito di aver debellato una losca trama, ma sapremo solo negli altri libri come e se si evolverà la sua storia.

Quindi, critica di una certa corruzione a tutti i livelli della vita cinese (“tanti colpi al cerchio”) e speranza che ci siano molti “Ispettori Chen” che non si lascino piegare (“ed uno alla botte”).

Ultimo appunto, oltre alle su deprecate poesie, ci sono anche una serie di termini che magari sono mutuati dalla vita cinese, ma che, nella circolazione internazionale del romanzo, lasciano quanto meno perplessi. Un esempio su tutti: una certa classe di persone facoltose vengono bollate con l’epiteto di “ricconi”, mentre, forse, il termine cinese più aderente sarebbe “nuovi ricchi”. Anche i “ricconi” però hanno una loro gerarchia, e verso i gradi più alti, si ammantano di titoli monarchici, come “Principe Rosso”. Come quello del titolo italiano, che punta diritto al punto dolente della narrativa di Qiu, mentre avrei preferito che si mantenesse l’originale “Il riscatto di Shanghai”. Ovvio, riscatto dalla corruzione imperante. Attraverso il buon, Chen, che sconfiggerà il cattivo (il Principe, cioè). Ma qui si torna alla solita storia della mia lotta verso la mala traduzione, che poi ne riparleremo.

Ragnar Jónasson “L’angelo di neve” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà scontato a 4,50 euro)

[A: 21/05/2018 – I: 23/03/2021 – T: 26/03/2021] - &&&  ----

[tit. or.: Snjöblinda; ling. or.: islandese; pagine: 286; anno 2010]

Torniamo, e veramente dopo troppo tempo, a scritture islandesi, e soprattutto a scritture gialle che non siano il mio amato ed immarcescibile Arnaldur Indriđason. Con una lettura anche interessante (e ne parleremo più avanti). Quello che mi ha disturbato è la solita approssimazione delle edizioni italiane.

In particolare, la quasi certezza che sia stata utilizzata la versione inglese e non l’originale islandese. Sia perché viene ringraziata l’agenzia “Orenda Books”, sia perché la traduttrice è Roberta Scarabelli, che è ben nota come traduttrice dall’inglese e poco (a quanto mi risulta, ma potrei sbagliarmi) come traduttrice dall’islandese.

Il secondo punto negativo viene dal titolo che sia in originale (quello sopra riportato) sia nella traduzione inglese (“Snwoblind”) sta per “Accecato dalla neve”. Non capisco da dove spunti fuori l’angelo del titolo.

Certo, di un corpo femminile nella neve si parla nel prologo (con data 14 gennaio 2009). Poi, il libro comincia, nella primavera del 2008, e prosegue seguendo il corso normale dei giorni, per chiudersi il 24 gennaio 2009, quasi un anno dopo l’inizio. E quel prologo sembra messo un po’ a “muzzo”, senza una ragione apparente. Che tutta la storia è altra, intersecantesi se vogliamo con qualcosa citato nel suddetto prologo, ma solo per fortuite circostanze.

Intanto, facendo un passo indietro (o anche due), diciamo che Ragnar nasce avvocato (mestiere che continua a fare) e traduttore in islandese dei libri di Agatha Christie. Poi nel 2009 comincia a scrivere, innestandosi in un successo abbastanza notevole, in patria e all’estero, con la serie che stiamo leggendo. Serie che in patria è nota sia come “Storie di Siglufjörður” che, meglio, come “Dark Iceland”. In Italia, per motivi arcani, è stati ribattezzata “I misteri d’Islanda”. No comment.

Questo dovrebbe essere il primo libro della serie, anche se il protagonista, Ari Þór Arason (che indicheremo solo come Ari per facilità) compare nel primo libro di Ragnar (“Fölsk nóta”) è probabilmente lì potremmo conoscerne meglio le coordinate di vita. Ma il libro non è mai uscito fuori dall’Islanda.

Così ora vediamo Ari che studia per diventare poliziotto, dopo aver abbandonato gli studi in teologia. Vive a Reykjavík, con la sua fidanzata Kristin, ma riceve l’offerta di finire il tirocinio nella cittadina di Siglufjörður, posta nel nord islandese, discretamente vicina ad Akureyri. Accetta e da lì comincia la storia, cioè la saga della vita in una tipica isolata cittadina, da sempre con l’economia fondata sulla pesca, ed ovviamente, ora, in declino.

Ovvio che inizi anche una crisi, forse insormontabile, tra Ari e Kristin, lei studentessa e poi medico. Ma quella è solo una parte dello spaccato di vita cui assistiamo. C’è il capo della polizia Tomas, paterno con Ari, ma in crisi familiare. C’è l’aiutante Hlynur, forse troppo incline al pettegolezzo. C’è il vecchio scrittore, autore di un solo libro, Hrólfur, novantenne e poco trasparente. C’è Ugla, fuggita dall’Islanda occidentale (quella parte in alto a sinistra, dove veramente non ci sono quasi paesi, ma solo montagne e porticcioli) per dimenticare brutte esperienze. C’è Palmi pensionato e regista della filodrammatica locale. Gruppo teatrale che vede anche l’autore in seconda Úlfur, il belloccio Karl, sposato con Linda ed amante di Anna, il tuttofare Leifur e la guardarobiera Nina.

In questo microcosmo, prima Hrólfur cade dalle scale del teatro (incidente? Omicidio?) e muore. Poi Linda viene trovata quasi morta e dissanguata nella neve. Ari, che non conosce nessuno, comincia a porsi delle domande. Confrontandosi spesso con Ugla, che sembra l’unica “normale” (e sottolineo sembra). Ma proprio l’estraneità e la caparbietà di Ari serviranno a districare la matassa. La in quella cittadina dove tutti sono accecati dalla neve che in inverno (dicembre e gennaio sono i mesi cruciali della storia) cade in maniera estrema (inciso: a Siglufjörður non c’è la “notte polare”, ma il giorno di luce più corto dell’anno è il 21 dicembre con 2 ore e pochi minuti di sole).

Si scoprono intrecci, si svela il furto letterario di Hrólfur, l’autolesionismo di Linda, la vita di espedienti di Karl. Tutto per trovare colpevoli, se ci sono, ma molto per tratteggiare uno spaccato di vita che sa molto di islandese. Un esempio per tutti: nessuno chiude le porte di casa a chiave (confermo).

L’intreccio è ben fatto, ed i caratteri risultano interessanti e tipicamente locali, anche se ci si aspetta di vedere come si evolveranno. Vi dico già che ho gli altri libri della serie.

Una piccola curiosità linguistico-islandese: il padre di Ragnar Jónasson si chiama Jonas Ragnarson. Se volete, un giorno ve lo spiego.

Qiu Xiaolong “Il poliziotto di Shanghai” Marsilio UE Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 7,20 euro)

[A: 17/12/2019– I: 10/05/2021 – T: 12/05/2021] - && ---

[tit. or.: Becoming Inspector Chen; ling. or.: inglese; pagine: 233; anno 2016]

Aggiungiamo un altro meno al gradimento della decima avventura dell’ispettore Chen Cao, solo per rispetto della storia personale dell’autore e per l’idea di fondo, sempre buona e rilevante, di parlare della Cina odierna, in modo interno, anche se ovviamente critico. Mentre poi la seconda parte è abbastanza chiara (la critica) la descrizione dei meccanismi cinesi descritti senza “mediazioni occidentali” a volte riescono di non facile comprensione.

In questo libro, la “confusione” è anche aumentata dall’incongruenza titolatrice, dalla farraginosità dei racconti presentati, dal tentativo (lodevole ma poco riuscito editorialmente) di mescolare e far convergere pubblico e privato. In questo libro che definirei “di passaggio” in modo da alleviarne il peso, l’esimio scrittore Qiu cerca di presentarci brani della biografia fittizia di Chen, per spiegarci (e spiegare anche a sé stesso) in quale modo il lettore d’inglese nonché fine conoscitore della gastronomia cinese, possa diventare non solo poliziotto, ma diventarlo consapevolmente e con adesione al ruolo.

Intanto, il titolo inglese (che questa è la lingua usata da Qiu per le sue storie) avrebbe meglio indirizzato il lettore: “Diventare l’ispettore Chen”, così che capiamo che lo scritto ci dovrebbe portare per mano verso quello che abbiamo imparato a conoscere nei nove capitoli precedenti. Certo, Chen vive e lavora a Shangai (come l’autore in gioventù), ma il titolo italiano è una fotografia, mentre quello inglese è un video.

Secondo problema, benché ritagliati ad hoc, incastrati ed altro, i diversi capitoli sono in realtà tanti racconti, più o meno lunghi, che intrecciano momenti della biografia di Chen con momenti di quella di Qiu. Matrice comune, sempre, la critica ad una certa politica cinese, alle degenerazioni che ha portato, ed anche allo stadio finale cui è arrivata ora.

Punto nodale è la Rivoluzione Culturale, nel testo descritta da diversi punti di vista, sempre dalla parte di chi ne subì le più gravi conseguenze. Certo, non è un romanzo o un racconto che permette di analizzare un fenomeno complesso come quello della Storia Cinese negli anni Sessanta e Settanta. Qiu ce ne fa vedere alcuni esempi macroscopicamente tragici, sui quali di certo non possiamo avere che il suo stesso sentimento, di rabbia e di dolore. Ed è anche abbastanza ovvio che sia difficile descrivere un fenomeno complesso, come il sommovimento popolare di milioni di persone, innescato dal presidente Mao, dopo aver perso la scommessa economica degli anni Cinquanta, il famoso “Grande Balzo in avanti”. Ma di certo non è neanche questo il luogo per entrare in una discussione su Mao, su Lin Biao o su Deng Xiaoping. Forse ci saranno momenti altri per rifletterne.

Qui vediamo appunto alcuni episodi della biografia fittizia di Chen, mescolati a elementi reali della biografia di Qiu. La difficoltà è data dall’inflazione di nomi e di intrecci di situazioni. Ora, in un normale romanzo, pur seguendo nomenclature complesse, ad un certo punto nella mente del lettore si stabilizzano i punti fermi del racconto: il protagonista (ad esempio l’ispettore Chen), i personaggi positivi (l’aiutante di Chen, la moglie dell’aiutante, il “Vecchio Cacciatore”), poi quelli negativi o antagonisti. Ora, vediamo racconti, che introducono nomi. Poi racconti diversi dove ci sono nomi simili. E non si riesce a seguirne il collegamento.

Ad esempio, è il padre di Chen o il padre di Qiu che gestiva una fabbrica di profumi nel ’49? E chi dei due era un intellettuale universitario, esperto di confucianesimo? Come che sia, entrambi vengono travolti dalla Rivoluzione Culturale, costretti a fare autocritica, privati di lavoro e sostentamento. Qiu, all’epoca, ha tredici anni, quindi viene colpito marginalmente dall’ondata iniziale dell’Agosto del ’66. Ne subisce gli effetti, per la perdita economica, per la malattia della madre, per il suo dover diventare adulto anzi tempo.

Sono i due “racconti lunghi” quelli che danno un po’ di respiro al narrato, e che ci fanno vedere meglio dentro i due personaggi, il reale ed il fittizio. Nel primo, si segue l’iniziazione di Chen nella polizia, ed il suo contributo alla prima indagine che gli consentirà di avviare la “gloriosa” carriera che abbiamo seguito nelle puntate precedenti. Chen è esperto d’inglese, e di poesia, si laurea con una tesi su T. S. Eliot, poi il Partito lo invia nel corpo di polizia di Shangai. Dove deve tradurre dall’inglese i manuali investigativi americani. Nel mentre si imbatte in un morto di difficile comprensione investigativa. Tramite il suo acume, l’aiuto dell’amico-gourmet Lu detto “Cinese d’Oltremare” (su questa dizione c’è un’autentica messe di letteratura che non vi entro anch’io) e le visitazioni al circolo delle storie narrate nel Vicolo della Polvere Rossa (dove Qiu scrisse un intero libro “non ispettore Chen” su questo fenomeno), Chen scopre e risolve il mistero. Ma nei capitoli precedenti e seguenti, pur presentando brandelli della vita, non entriamo meglio nel personaggio-Chen. Un solo esempio: sappiamo della sua lunga storia d’amore con Ling, che vediamo sbocciare alla Biblioteca di Pechino, ma che non viene approfondita. Chi sa di Chen capisce, chi non sa rimane con i suoi dubbi sul significato di tutto ciò.

L’altro lungo racconto si incentra sul “vero” Lu, e parlandone, Qiu in effetti parla di sé stesso, del suo percorso negli anni dal ’66 all’89, cioè dall’inizio della Rivoluzione Culturale, al suo definitivo espatrio in America. Luogo dove Qiu ora vive, insegna a Saint Louis (ovviamente, insegna Letteratura Cinese), è sposato, con figlia. Non vi tedio con la storia dell’ascesa e della discesa delle fortune di Lu, né di quelle conseguenti e vicine di Qiu. È un pezzo di storia cinese visto dal di dentro. Forse l’unica parte interessante del libro. Ci fornisce una visione, questa volta non mediata da fittizie colorazioni, di quello che per Qiu fu di sciuro uno dei periodi più difficili della sua storia personale.

Ma alla fine, che cos’è questo libro? Una raccolta di racconti? Una miscellanea tra pubblico e privato? Un tentativo poco riuscito di mostrare “altro” da quello che è solito far vedere l’autore? Certo, poi, con tutte le parti “cinesemente strette” riesce anche a volte poco chiaro: ripeto, non tutti, leggendo due versi di una poesia cinese antica, riescono a collegarla con qualcosa che non sia il vento che spira tra le foglie.

Spero che il futuro respiro del Drago ci consenta una lettura meno antagonistica, verso l’autore e verso il protagonista.

Qiu Xiaolong “L’ultimo respiro del drago” Marsilio UE Feltrinelli s.p. (Regalo de “I Floridi”: Mario, Ines e sig.ra Laura)

[A: 07/05/2020– I: 25/05/2021 – T: 26/05/2021] - && e ½

[tit. or.: Hold Your Breath, China; ling. or.: inglese; pagine: 239; anno 2017]

Ed eccoci arrivati all’ultima inchiesta dell’ispettore Chen pubblicata in Italia. Al momento, inoltre, non ho notizia se, in America, sono usciti altri libri di Qiu. Infine, proseguiamo con la saltuaria lettura dell’ingente regalo fattomi dai miei “parenti” in occasione di un compleanno che sembrava segnare la fine di un’epoca pandemica, cosa che purtroppo, ora è passato un anno, non si è mostrata veritiera.

Ma non siamo qui per parlare di Bruto, ma di Giulio Cesare.

Intanto, ci si domanda le motivazioni del titolo italiano. Qiu aveva, credo con intenzioni di spiegazione e collocazione in un determinato ambito (di cui si capirà meglio più avanti), intitolato il libro “Trattieni il respiro, Cina”. Sia per adombrare una trama thriller, o quanto meno, una trama che mettesse in un qualche pericolo i protagonisti della lunga serie (che sottolineo, con questa è arrivata alla puntata numero undici). Sia per collegare il romanzo stesso alle tematiche che verranno toccate nel testo. Mentre qui, Marsilio ci propone un drago e l’ultimo respiro, inteso, forse, come chi sta per morire. Il termine “drago” è di solito legato alla mafia cinese (vedi, ad esempio, “Il respiro del drago” di Michael Connelly), ed è ovvio che, mafia o non mafia, l’ispettore Chen è sempre a confronto con una corruzione diffusa nella società cinese attuale. Sperando che ci siano le forze per portare il drago verso la sua giusta fine (sperando in San Giorgio). Ma anche, e qui abbiamo l’altro incrocio, parlando di respiro ci si ricollega ai temi principali di tutto il romanzo.

Che al solito, come gli ultimi di Qiu, è molto legato alla politica cinese attuale (con ovvi accenti critici, data la personalità del mio coevo scrittore). La tematica, neanche tanto sottesa, è l’alto tasso di inquinamento della Cina, dovuto alle industrie, all’urbanizzazione ed alla sovrappopolazione. Un tema già affrontato ne “Le lacrime del Lago Tai”, ed in un certo senso conseguente a quello. Entra ed esce dalla trama Shanshan, allora protagonista, ed ora ambientalista e produttrice di un documentario sull’inquinamento. Che è inviso sia alle industrie petrolifere (ovvio) sia all’establishment del partito (in un certo senso, altrettanto ovvio). Il nostro ispettore Chen viene allora distolto dagli incarichi polizieschi per seguire questo filone.

Incarichi, e qui finalmente ritroviamo il “vecchio Qiu”, che sono legati ad alcune morti, sospettosamente seriali. Persone uccise al mattino presto (tra le cinque e le sei), con un colpo forte alla testa (un martello?), e con una mascherina gialla che viene ritrovata nei dintorni. Le indagini, prima affidate a Chen, passano al suo sottoposto Yu, che si avvale della preziosa collaborazione della moglie.

Qiu tenta di mescolare le carte, facendo entrare una serie improbabile di coincidenze, facendo vedere la difficoltà di muoversi verso una “verità”, in una società dominata dal Partito Unico, che controlla tutto, anche Internet e la telefonia.

L’unico elemento che salva Qiu dal precipizio è la capacità finale di far convergere le due indagini, verso una problematica anch’essa legata all’inquinamento. Non vi svelo in che modo le morti seriali siano collegate alle polveri sottili, ma il legame c’è. E per risolvere le due inchieste Chen sarà costretto ad alcune scelte (che neanche queste vi svelo) che potrebbero condizionare futuri testi, se Qiu deciderà di continuare nella scrittura.

La mia difficoltà nella scrittura di Qiu è spesso dovuta all’uso di modalità espressive molto cinesi, che non sono mie e che non riesco a decifrare. L’uso della poesia, in primis, ma anche il rifarsi ad antichi testi, e perché no, ai “trentasei stratagemmi”, che hanno una loro capacità espressiva (e dove molte parole sono state usate per descriverli). Ma io mi trovo sempre bloccato, ad esempio, quando Chen per descrivere una sua decisione, ci dice, rifacendosi a quelli, “Solcare il mare all’insaputa del cielo”. Qualcuno lo sa spiegare, ma nel corso della lettura, questi “intarsi” colti mi spiazzano e non mi danno materiali conoscitivi utili per capire meglio la trama. È solo un esempio, ma fa capire perché, alla fine, pur piacendomi la lettura (in particolare dei primi libri), non riesco a riportare Qiu ai livelli iniziali.

Comunque, saluto degnamente il ritorno della scrittura e della trama ad un livello più sciolto rispetto al precedente.

“Sono trascorsi vent’anni, è sorprendente che io sia ancora qui.” (211)

“Confucio: anche sapendo che ti è impossibile fare una cosa devi comunque provarci, purché sia la cosa giusta da fare.” (238)

Seconda settimana ed una bella visita ad una cura contro la vigliaccheria.

Tutti stanno aspettando la metà di settembre, e ci sarà un motivo, credo. Intanto, una pallida riflessione di un’autrice che si impegnò in un compito titanico (scrivere 26 libri gialli, uno per lettera dell’alfabeto), e che ci ha lasciato pochi capitoli prima della fine. Comunque, Sue Grafton in “R come Rancore” ci diceva: “Lo sai qual è il peggio? È che continuo a sperare che ci possano capitare delle cose carine. Magari non sempre, ma giusto ogni tanto.”

Io credo che capitino, io credo che ho voglia abbracciarvi tutti.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

SETTEMBRE 2021

Penso che la prossima cura svelerà di più, ma questa è una cura che tutti dobbiamo affrontare.

VIGLIACCHERIA

Harper Lee                  “Il buio oltre la siepe”

È impossibile vivere bene ed essere vigliacchi. Come si può aspirare a fare la cosa giusta per gli altri - o anche per sé stessi - se il primo impulso, quando le cose si complicano, è scappare con le ginocchia che tremano?

Non vogliamo farvi diventare temerari. Avere paura va bene. Bisogna, però, avere paura e fare comunque qualcosa, come vi suggerirebbe un libro di auto-aiuto. Se avete la tendenza a svignarvela, a comportarvi da buoni a nulla o a lasciar sempre fare agli altri - o vi serve una flebo per affrontare un’occasione che richieda particolare sangue freddo - fatevi ispirare dalle gesta di alcuni tra i più coraggiosi personaggi letterari.

Il nostro preferito - oh, lo amiamo davvero - è Atticus Finch, ne “Il buio oltre la siepe”. Questo padre single di Jem e Scout rivela il proprio coraggio davanti al pericolo quando uccide con freddezza un cane rabbioso nella via principale di Maycomb, Alabama, con un solo colpo di fucile. Il gesto gli vale l’immediato, attonito rispetto dei figli, che fino a quel momento lo avevano liquidato come debole e mezzo cieco, e inoltre più anziano degli altri padri del posto. Atticus insegna ai figli che non c’è niente di coraggioso nel tormentare il recluso del quartiere, Boo Radley, e che a volte ci vuole più coraggio a evitare lo scontro, quando qualcuno si fa beffe di noi (“Scout è una vigliacca!”), che a rispondere. È tuttavia il suo coraggio nel difendere Tom Robinson, un nero accusato di avere stuprato una donna bianca in una comunità dove il razzismo è endemico, a insegnare loro - e a noi - la lezione più importante. Coraggioso abbastanza da mantenere la calma anche quando i figli vengono scherniti, a scuola, per le sue prese di posizione e da affrontare - da solo - una folla inferocita e determinata a linciare Robinson rinchiuso nella prigione locale, Atticus è un uomo che si distingue da tutti gli altri.

Il buio oltre la siepe rimane una delle più feroci condanne letterarie del pregiudizio razziale, e il coraggio della stessa Harper Lee - una donna bianca che scrive delle persone in mezzo alle quali è cresciuta - non dovrebbe essere trascurato. Lee pubblicò il romanzo nel 1960 - prima che il movimento per i diritti civili americano arrivasse al culmine - e la decisione di far sentire la propria voce la mette sullo stesso livello del suo personaggio.

Non permettete che la paura vi renda vigliacchi. Qualunque cosa dobbiate fare, portatela con voi. Seguendo l’esempio di Atticus e di Harper Lee, indossate con coraggio le vesti di un eroe dei nostri giorni.

Bugiardino

Non è la prima volta che parlo di Harper Lee, per cui, insieme alla breve analisi del testo di cui sopra, per completare il discorso vi allego anche la trama del successivo libro dell’autrice.

Harper Lee “Il buio oltre la siepe” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato 6)

[tramato il 14 settembre 2008]

Un libro pieno di sorprese, o almeno tre.

La prima è che Harper Lee è una donna, mi ero sempre fissato fosse un uomo.

La seconda è la dura gradevolezza.

La terza è che Atticus Finch anche nella scrittura ha sempre la faccia di Gregory Peck.

Unico libro degno di nota della Harper, anche ora, a quasi 50 anni dall’uscita, mantiene la sua forza, la sua freschezza, la sua dolente attualità. Un libro in fondo pieno di diversi, con i quali fare i conti. E sarà proprio uno tra i più bistrattati a salvare da una sordida fine i “Finch brothers”.

Vogliamo parlare del nero accusato solo perché nero? Dei benpensanti che vanno in giro a fare le ronde? Dei padri padroni? Forse sarebbe giusto, come sarebbe giusto proiettare nelle scuole lo stupendo film.

A Maycomb, Jem e Scout (figli di Atticus Finch) un'estate conoscono un altro bambino, Dill, e fanno amicizia. I tre sono attirati da Arthur Radley detto Boo, considerato un uomo pericoloso e violento, rinchiuso nella casa accanto alla loro. Ma, col passare del tempo, si accorgono che Boo, senza farsi vedere, si preoccupa dei tre.

Atticus spiega che è stato nominato d'ufficio per difendere un uomo nero, Tom Robinson, accusato di violenza carnale su una bianca, anche se sapeva che avrebbe perso. Al processo, Atticus dimostra, senza ombra di dubbi l’innocenza del nero e la colpevolezza di Bob il padre della violentata. Ma Tom viene condannato ugualmente da una giuria di bianchi.

Durante una festa di Halloween Scout e Jem stanno andando verso casa, dopo la recita, quando vengono assaliti da un adulto. Nel luogo della lotta, alla fine viene ritrovato il corpo di Bob pugnalato al petto. Ho detto quasi tutto, ma lascio un po’ di buio, infondo alla siepe.

Note di merito alla traduttrice (se è merito suo) che ha reso nel titolo molto dell’atmosfera. Infatti, in italiano, il titolo è una metafora: il buio oltre la siepe è ciò che è sconosciuto pur essendo vicino. Nel romanzo, è la figura di Boo, il vicino di casa dei Finch che loro non hanno mai visto e che, per questo, non conoscono. E infatti anche Scout afferma che, col tempo, la casa di Boo non la spaventava più, ma non le appariva meno buia.

Nel testo, invece, ci sono diversi riferimenti al titolo originale (“To kill a mockingbird” che significa: Uccidere un usignolo). L' usignolo è un uccello innocuo, che delizia con il suo cinguettio. Uccidere un passero è quindi un peccato doppiamente grave.

Harper Lee “Va’, metti una sentinella” Repubblica Duemila 9 euro 9,90

[tramato il 06 gennaio 2021]

Iniziamo dalla fine: ho indicato la data ufficiale del libro (2015), ma tutti concordano che sia stato scritto molto tempo prima. Tanto che il famoso buio della siepe, nella prima stesura, pare avesse questo titolo. Poi è stato preso, allungato, smembrato. Una parte è diventata il famoso e celebrato “To Kill a Mockingbird”, reso famoso anche da un’interpretazione cinematografica maiuscola di Gregory Peck.

Una parte è rimasta nell’ombra, che troppo dolorosa per il Sud Unionista ma anche per l’America in toto, con la sua denuncia del sostrato razzista che negli anni Cinquanta permeava tutta una gran parte del suolo americano. Ed è un peccato, questa scelta editoriale imposta alla brava Lee, che, didascalicamente, aveva un senso presentare prima questa America, e poi far capire come, per la correttezza e l’onestà personale, anche una persona con posizioni borderline, avrebbe dovuto comportarsi. Ne sarebbe uscito un manifesto per quella che ritengo una delle più belle frasi rimaste nella mia memoria. Il Voltaire cui si faceva dire: “Non sono d’accordo in una sola virgola di quello che dici, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa dirlo.” (Non entro sulla lunga esegesi della estraneità di Voltaire al testo della frase ma non al suo senso di tolleranza).

Ragionando allora come se fossimo vicino alla compianta Harper, quasi un suo secondo Truman Capote, vediamo come si possa sviluppare il tutto. Il libro, nel suo complesso, si riferisce al Libro di Isaia della Bibbia, dove nel sesto versetto del capitolo 21 si dice “Poiché così mi ha detto il Signore: «Va', metti una sentinella che annunzi quanto vede...”. È un brano dove il profeta Isaia annuncia la caduta di Babilonia. Un brano che serve ad Harper per plasmare tutto il testo intorno alla caduta. Di tutti gli eroi che ha costruito, ma anche, cosa più importante, del mondo retrogrado dell’Alabama degli anni Cinquanta, ancora vicina all’Ottocento più che al Duemila.

In terza persona, seguiamo la nostra eroina, Jean Louise ‘Scout’ Finch, ventenne, emigrata in quel di New York, che torna per le festività nel paesello natio. Dove ritrova i suoi affetti: il padre Atticus, avvocato quasi pensionato, in declino fisico ma non mentale, la zia Alexandra, separata e bigotta, lo zio Jack, con le sue sentenze dotte ed iperboliche, ed Hank, quello che potrebbe essere il suo fidanzato, ma che forse non lo diventerà mai. Non trova invece il fratello Jem, morto tragicamente da qualche anno. Vediamo subito che Scout ed il resto della cittadina non sono in sintonia, soprattutto per quello che è il nodo principale del profondo sud dell’America: il rapporto tra bianchi e negri (non sono politically correct, ma non me ne importa). Vedendo i comportamenti dei suoi, in special modo di Atticus ed Hank, Scout si trova sbalestrata. Ha sempre pensato che comunque fossero tolleranti ed aperti al confronto raziale, mentre qui li vede immersi in un tessuto sociale che, se non frequentato, rischia di emarginarti. Scout non capisce che i suoi tentano di moderare gli animi, ma per farlo devono entrare in contatto, devono convivere con le pulsioni più retrograde. Lei, aperta e cittadina, vorrebbe invece affrontare tutto di petto. Scout dovrà fare un doloroso percorso interiore per arrivare a capire, anche se non ad accettare, quello che in particolare Atticus va facendo nella città. E noi ci domandiamo ancora quale sia il giusto modo di affrontare il problema (che ancora è aperto, in America ed in molte parti del mondo). Sarà un distacco mentale penoso ma necessario. Che avrebbe aperto ai ricordi di ‘Scout’ di quello che pensava essere l’atteggiamento aperto del padre, così che si poteva sviluppare, ricordato in prima persona, tutto quello che noi abbiamo letto ed ammirato ne “Il buio oltre la siepe”.

Ma se questo aveva un suo senso, non è questo quello che abbiamo vissuto. Siamo cresciuti nel mito del buon Atticus, e qui ci ritroviamo a doverlo far scendere dal piedistallo. Nel percorso inverso, non ci saremmo fatti illusioni, ma avremmo avuto una storia più aderente al vissuto locale, di Scout, ma anche di Harper, di Truman e di tutta la gente del Sud. A prescindere quindi dalle costruzioni e dalle ricostruzioni, devo dire che, se non ci fasciamo gli occhi con i pregiudizi, il libro è altrettanto potente dell’altro. Dato che ci pone la domanda fondamentale: per cambiare, bisogna sfasciare o cercare di erodere? Credo che sia una domanda che vada bene anche in altri contesti. Ce la facemmo noi cinquanta anni fa, e, personalmente, non ho ancora trovato una risposta convincente. Alla fine, quello che l’autrice mi comunica è che siamo umani. Quello che dice in più, partendo dal suo retroterra protestante, è che la Babilonia delle lotte raziali cadrà, come predice Isaia. Ma questa, purtroppo, è una questione di fede.

Conclusioni

Una cura ineccepibile. Nulla da aggiungere. 


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