domenica 19 settembre 2021

Scritti ebrei - 19 settembre 2021

 Nel senso che, in varia forma, si collegano all’ebraismo. Vuoi per la nascita degli scrittori (Malamud figlio di ebrei russi, Appelfeld figlio di ebrei rumeni, Debenedetti ebro italiano, Auster figlio di ebrei austro-polacchi), vuoi per gli attori delle diverse storie. E dopo il primo, interessante ma forse datato, gli altri, anche per la commozione delle storie, crescono. Insomma, una settimana con un indice di bravura, leggibilità e gradimento decisamente alto.

Bernard Malamud “Il commesso” Repubblica Duemila 3 euro 9,90

[A: 21/05/2018 – I: 16/12/2020 – T: 18/12/2020] - && e ¾ 

[tit. or.: The Assistant; ling. or.: inglese; pagine: 255; anno 1957]

Il primo commento da fare è che, pur sapendo di averlo visto e rivisto nella Biblioteca paterna, nel dubbio di non sapere se ci fosse ancora, l’ho ricomprato e riletto prima di mettere ordine nei meandri sorianesi. Dove, in effetti, ho trovato quello che mi ricordavo: una copia della prima edizione italiana, uscita per le edizioni Einaudi, con il dorso duro, la sovra copertina bianca, ed i bei caratteri a stampa dell’epoca, compreso l’ovale con struzzo.

Riprendendolo in mano nei ricordai alcuni tratti di lettura, che sono stati ribaditi da questa lettura direi della maturità. Anche se risente, e non poco, dell’età. Non perché lo scritto e le tematiche siano obsoleti, ma perché da quel libro Einaudi del 1962, molta letteratura di tematiche ebraiche, di immigrazione e di rapporti sociali sono passate sotto i ponti della storia. Quello che all’epoca poteva essere se non una novità, quanto meno uno dei primi momenti di scoperta, ora è diventato un tema suonato e risuonato. In termini tristi ed in termini ironici. In commedia ed in tragedia. Per cui, in finale, pur riconoscendone i pregi, non vola così alto come potrebbe.

La storia, possiamo dire, è ben radicata nelle tematiche yiddish, ed anche nei vissuti dello stesso Malamud. Tutto ruota intorno ad un negozio, al suo proprietario, Morris Bober, ed alla sua famiglia, la moglie Ida e la figlia Helen. Nonché a quello che diventerà il suo commesso, l’italo americano Frank Alpine.

Morris, emigrato dalla Russia (come la famiglia Malamud), mette suo il suo negozio di merce varia, in un quartiere non ebreo di New York. All’inizio ha abbastanza clienti, poi con il progredire “della civiltà” e con il regredire “dei rapporti umani”, è sempre più in difficoltà.

Morris è un uomo buono, e fondamentalmente giusto. Aiuta i bisognosi, magari vendendo qualche merce sottoprezzo. Cerca di non far torto a nessuno, anche quando il proprietario (ricco ed ebreo) di quasi tutti i locali della zona gli fa uno sgarbo. E non da poco: consente l’apertura di un negozio più moderno poco distante da Morris. Così che lui, sebbene sia sopravvissuto alla grande crisi, e poi alla guerra, comincia ad avere sempre più difficoltà, aggravate dal fatto che l’età avanza. Tanto che la figlia Helen, invece di proseguire una possibile carriera universitaria, si vede costretta ad impiegarsi come segretaria per poter arrotondare le entrate familiari.

Come spesso accade agli ebrei, sono ciclicamente coinvolti in avvenimenti che inizialmente sembrano positivi, poi si rivoltano e ne affossano vieppiù le velleità di “successo”. Così che mentre sembra poter risollevarsi da una nuova crisi, Morris viene rapinato da due tipi: uno lo ferisce, l’altro lo soccorre. Mentre è in convalescenza (e la moglie Ida non sa a chi dare i resti) compare in zona Frank, che si mette con tutta la sua buona volontà ad aiutare i Bober. Anche senza farsi pagare.

Capiamo ben resto che Frank è il buono della rapina, che tenta così di espiare presunte colpe. Ma Frank ha due problemi: non riesce a frenare i suoi istinti “rubacchiatori” ed è turbato dalla presenza di Helen nei dintorni. Malamud descrive con efficacia questa parte: Frank tormentato con desideri di riscatto, Helen presa tra Frank e mondi diversi, Morris combattuto tra il necessario aiuto di Frank e la voglia (molto ebrea) di riscattarsi da solo. Anche perché Morris vede sia la pericolosità del rapporto tra Frank e Helen, sia il fatto che, seppur attraverso piccole somme, ci siano continui ammanchi in cassa.

Tuttavia, la presenza di Frank sembra risollevare le sorti del negozio. Ma… ed ecco di nuovo la catastrofe ebraica che si abbatte. Frank fa uno sgarbo ad Helen ed avendo Morris scoperto le ruberie, viene allontanato immediatamente. Le sorti risollevate, tuttavia, non erano merito di Frank, ma dell’altro negozio che ben presto chiude. Per, tuttavia, riaprire “più bello e più ricco di pria”. Che Morris non riesce a tenervi testa. Non solo, ma dopo una abbondante nevicata, nel tentativo di spalare la neve davanti al negozio, si becca un bell’infarto.

Ida richiama Frank per aiutarli. Frank lavora sodo, rimanendo sempre molto distante da Helen, cui non sa come chiedere scusa. Morris, tuttavia, non si riprende e muore. Colpito dalle parole sull’uomo giusto che era stato in vita, Frank ripensa alla sua vita. Dirà tutto anche a Ida, cercherà (ma Malamud non ci dice se ci riuscirà) di riavvicinarsi ad Helen. Ma soprattutto, deciderà di convertirsi all’ebraismo e di rimanere a gestire il negozio.

Come vedete, i temi che affronta Malamud sono universali e presenti, in tutte le religioni ed in tutte le latitudini. Esistenze minute che lottano non per emergere o primeggiare, ma solo per sopravvivere. Il testo è anche tessuto da elementi etici di assoluta condivisione: rispetto del diverso, voglia di essere riconosciuti per i propri sforzi, ma anche le cattiverie dei malvagi di ogni quartiere e di ogni provenienza (il più cattivo, ad esempio, è figlio di un poliziotto). Sembra quasi uscirne fuori una sorta di etica della rassegnazione, dove entrambe le facce sono valenti e rappresentate.

Sebbene quindi non sia completamente nelle mie corde, e nonostante tutti i distinguo inziali, trovo che sia stata una lettura da tempo di covid da segnalare. Perché anche noi ci si rimbocchi le maniche, senza infingimenti, e si torni ad uscire dal guscio. Magari ci riusciremo meglio di Frank Alpine.

Aharon Appelfeld “L’immortale Bartfuss” Guanda euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro) (consigliato da Robinson)

[A: 25/01/2021 – I: 30/03/2021 – T: 31/03/2021] - &&& e ½

[titolo: Bartfuss ben almavet; lingua: ebraico; pagine: 157; anno: 1983]

Lessi una dozzina di anni fa un altro libro di Appelfeld, ambientato prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale (“Badenheim 1939”) e ne scrissi in modo positivo. Così come scrivo di questa nuova lettura, forse non ai livelli della prima, ma intensa e sapientemente costruita. Ringrazio quindi “Robinson”, il supplemento librario di Repubblica che lo inserì tra i libri da leggere (ed era più o meno l’inizio di quest’anno).

Ottima, come sempre, la traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal, forse meno l’introduzione che aggiunge poco (e che va letta dopo il libro). Forse, l’unica cosa significativa per me è stata quella puntualizzazione sul titolo, dove, letteralmente, “immortale” deriva dall’ebraico “figlio della non morte”. Piccole significative sfumature.

Il libro, tuttavia, in molti sensi è difficilmente raccontabile in una successione di trama coerente. Non che non abbia un suo sviluppo. Ma è tutto, tanto, nei dettagli che affiorano, nelle mezze parole dette, e nelle mezze parole non dette. Tanto che, si può dire, il libro non inizia e non finisce. Cioè Appelfeld ci porta fin dalle prime righe nel mondo di Rex Bartfuss, il protagonista (a proposito, solo dopo più di cento pagine sapremo che Bartfuss fa di nome Rex), che accompagniamo per un po’, e che alla fine lasciamo, senza un vero perché.

L’azione, se di azione possiamo parlare, si svolge in Israele, là dove anche Aharon riparò alla fine delle sue vicende di persecuzione e di guerra. Ed in un certo senso traslato, ripercorre idealmente il percorso di Aharon. Sia lui che Rex finirono in un campo di sterminio, ma ne uscirono vivi. Entrambi passarono per l’Italia, magari Rex con qualche avventura in più (Aharon aveva solo 14 anni all’epoca). Entrambi, infine, finirono in Israele. Non seguiamo più lo scrittore, però, ma l’immortale che finisce a Giaffa.

È un solitario, ma lì è venuto con la moglie Rosa e le due figlie, Paula e Brigitta. Sono passati anni, non sappiamo motivi, ma l’immortale si chiude in sé stesso. Non comunica più con la moglie, che stenta anche a nominarlo. Ha una sincera antipatia per la figlia maggiore, e per il di lei marito, giudicandolo un inetto arrivista. Ha solo affetto, inespresso (o inesprimibile) per la piccola, afflitta da una qualche malattia (dislessia? Autismo? Non sappiamo, invalidante per la vita sociale, ma affrontabile, almeno così pare).

Rex rimprovera a Rosa la vita poco ortodossa laggiù in Italia, dove per salvarsi usava il proprio corpo. Rosa rimprovera Rex di aver un suo tesoro che non condivide con la famiglia. Sappiamo che c’è, questo tesoretto, e ben protetto. Sappiamo che Rex fa affari di natura ignota, ma che fruttano di che vivere.

E lo seguiamo, il nostro uomo, che gira per la città, si sposta verso il mare, prende il pullman per Netanya, magari si accompagna accidentalmente con delle donne, tanto per sfogare la carne. Ma più che altro, ne sentiamo il dolore che non si riesce a sopportare di chi ha visto tante brutture, e pur uscito, ha una sua spirale invalicabile. Nelle sue peregrinazioni, l’immortale incontra anche uomini o donne con cui aveva condiviso momenti di prigionia, o momenti di contrabbando in Italia. Ma non riesce, non riescono ad avvicinarsi.

Bartfuss è un superstite della Shoah, dovrebbe avere una vita serena, ma l’indescrivibile orrore, ora passato, lascia un vuoto. C’era tanta tensione per rimanere vivo, tutto era un urlo, tutto era un tentativo di rimanere vivi. Ora, come ci ha insegnato anche Primo Levi, non rimane che il silenzio. Così che Bartfuss evita il contatto, rifugge l’altro che riconoscere significa ricordare. Ma quando è lui che vuole avvicinare qualcuno, viene sempre anche lui respinto.

La scrittura di Appelfeld riesce a non dire una parola sulla deportazione, sui campi di sterminio, eppure sono lì, presenti ad ogni pagina, in ogni riga. Presenti quando tutti riconoscono in Bartfuss l’uomo forte. Immortale perché vive con cinquanta pallottole in corpo. Immortale che vive a dispetto della famiglia che rifiuta, degli amici di un tempo che non frequenta. Ma Appelfeld, alla fine guarda dentro il cuore di Rex, e gli consente di liberarlo, e, forse, finalmente, dormire.

Una lettura sempre dolorosa, un quadro desolante con una punta di speranza. Una scrittura che sempre mi convince. Anche per riportarmi in quelle strade, dove Israele non è più solo Gerusalemme. Ma Giaffa, Tel Aviv, Netanya, Haifa, il deserto, e poi, e poi…

Giacomo Debenedetti “16 ottobre 1943” Einaudi euro 9,50 (consigliato da Robinson)

[A: 25/04/2021 – I: 26/06/2021 – T: 26/06/2021] &&&&&

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 82; anno: 1944]

Dietro consiglio del supplemento di Repubblica dedicato ai libri, il 25 aprile ho comperato questo libro, di un’agilità sorprendente, di una potente lucidità e di un dolore inestinguibile per tutti quelli che hanno una coscienza.

Debenedetti, ebreo torinese, studioso, scrittore, dopo varie peripezie in giro per l’Italia, negli anni centrali della guerra si trova a Roma. Per caso o per fortuna, insieme alla moglie Renata, ed ai figli Elena e Antonio, si rifugia a Cortona dopo il 25 luglio. Ma sa cosa avviene a Roma, dall’arresto di Mussolini in poi. Sa, conosce, e già nel ’44, a pochi mesi dagli avvenimenti, scrive un libello di denuncia dell’attività nazista a Roma nell’ottobre dell’anno precedente. Questo fulminante “16/10/1943”. Lo stesso ’44 scrive anche “Otto ebrei”, piccolo pamphlet su cui torneremo più avanti. Due scritti di denuncia, due scritti a loro modo forti. Due scritti che vanno assolutamente letti, ora e sempre. Non perché siano crudi, duri, puri, ma perché, candidamente, quasi con educazione, ma in modo fermo, pongono ai lettori alcuni quesiti la cui risposta è dirimente sul crinale della democrazia.

I fatti che stanno dietro ai due scritti sono, purtroppo, ben noti. Il 16 ottobre 1943, un sabato mattina, le forze d’occupazione nazista, isolano il Portico d’Ottavia e zone limitrofe, deportando in Germania 1259. Di queste sopravviveranno solo 15 uomini ed 1 donna. C’è tutta una catena di avvenimenti che portano a quell’ottobre. Il 25 luglio Mussolini viene esautorato, arrestato e deportato prima a Ponza e poi sul Gran Sasso, da dove i tedeschi lo libereranno in agosto. Roma viene definita città aperta, ma dopo l’8 settembre, giorno dell’armistizio di Cassibile, e della fuga del Re verso il Sud Italia, le forze naziste occupano Roma, nonostante la dichiarazione italiana unilaterale di “città aperta” (cioè città che non deve essere toccata dalle forze in campo).

Herbert Kappler, comandante della Gestapo di stanza a Roma, verso fine settembre aveva preteso 50 chili d’oro per garantire la non toccabilità della comunità ebraica. Oro presto consegnato. Ma era un bluff, e il 16 ottobre Kappler stesso ordina il rastrellamento e la deportazione.

Nello scritto Debenedetti narra di fatti minuti, di piccoli episodi eroici, ma anche della grande ed immeritata fiducia che gli ebrei romani confidavano nella parola data. Lo scrittore argomenta che gli ebrei sono diffidenti nelle piccole cose, ma confidenti in quelle grandi. Motivo per cui, nonostante segnali sicuri dell’imminente catastrofe, pochi ne presero sul serio la possibilità, e quasi nessuno si mise in salvo. Il tono dello scritto è piano, non iroso, eppure nel suo incidere di una potenza infinita. Una ferita, inferta agli ebrei ed ai romani, che impiegherà tempi biblici per essere, parzialmente, ricucita.

Ferita, invece, che non si ricuce nel secondo scritto, molto più scomodo. Debenedetti muove dall’interrogatorio del commissario Alianello, durante il processo al Questore Caruso, fascista e repubblichino. Nel marzo c’era stato l’attentato di via Rasella, ed il conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine, dove furono fucilati per rappresaglia 343 italiani. Alianello depone durante il processo di aver depennato 8 ebrei dalla lista dei fucilandi. Da qui parte la difficile arringa di Debenedetti. Che non assolve la polizia italiana per aver tolto otto ebrei dalla fucilazione, che, secondo lo scrittore, andavano tolti dei nomi a prescindere dalla loro etnia. La tesi che sostiene è il cattivo uso della razza che anche in questo caso prese la mano ai poliziotti italiani. Sostiene, e qui si apre un dibattito forte, che bisognava e bisogna ragionare in termini di uomini. E che non bisogna dare a qualcuno un compenso a futura memoria perché è ebreo, nero o altro.

Un dibattito che sarebbe stata forte da lì a qualche anno, quando, per compensare delle perdite nella shoah, venne dato un intero stato a compensazione.

Vi rendete subito conto della forza e della durezza del duplice scritto. Debenedetti non fa sconti: se la prende con l’ingenuità degli ebrei e con il distorto uso della pietà nei loro confronti. Ne pagherà a lungo le conseguenze, che Debenedetti non verrà mai accolto benevolmente da nessuna comunità. Né la propria, né quella dei professori italiani, che lo emarginarono fino alla di lui morte poco più che sessantenne.

Io concordo invece a pieno con le sue tesi, per ragionamento personale e per spirito familiare. Che leggendo queste scarne righe, mi montano in testa ricordi belli e dolenti: la lotta di mio zio dentro e fuori il Fatebenefratelli, mia zia Giovanna che corre scappando di fronte all’occupazione nazista (lei diciasettenne nelle belle frasi di mio cugino Alessandro), mia zia Vittoria che fa da staffetta in bicicletta tra Roma e Viterbo, mia madre Agnese con la sporta carica di pistole mentre attraversa Ponte Sisto presidiato dai tedeschi. E tanto altro che non c’è spazio qui per raccontare, ma che rimane e rimarrà sempre nella mia memoria ed in quella di tutta la mia grande famiglia materna.

È uno scritto breve, infine. Potete spendere un paio d’ore a leggerlo. Ne vale proprio la pena.

Paul Auster “Follie di Brooklyn” Repubblica New York 1 euro 9,90

[A: 21/01/2019 – I: 16/07/2021 – T: 18/04/2021] - &&&&

[tit. or.: The Brooklyn Follies; ling. or.: inglese; pagine: 306; anno 2005]

Devo dire che è sempre una sicurezza una bella lettura di Paul Auster. Può avere un grado di piacere diverso, maggiore o minore, ma è sempre una storia ben tornito. Una storia che mi prende in lettura, con personaggi natural-normali, situazioni vivibili, nel corpo o nella mente. Forse, inoltre, un libro a quasi sessant’anni trova risvolti più terreni e meno angosciosi, pur nella complicanza di un inserimento nella non facile vita americana a cavallo del secolo.

Ed è questo che mi ha intrigato, nelle follie di Brooklyn, questa volta mirabilmente tradotte anche nel titolo. Una sarabanda strana, che segue il nostro personaggio centrale, Nathan Glass, nelle sue evoluzioni vitali, una volta che prende la decisione, essendogli stato diagnosticato un cancro, di terminare la sua vita là dove era iniziata, a Brooklyn.

Il buon esito degli esami medici, e la sensazione di poter fare qualcosa, ora che si ritrova pensionato e solitario, ma non solo, mettono Nat nella condizione di accettare il mondo esterno, di aprirsi, di ascoltare l’altro, e di farsi a sua volta ascoltare.

Così, in questa Brooklyn che sconfina con Manhattan, in questo periodo che inizia alla fine dello scorso secolo, e termina nell’ultima pagina l’11 settembre 2001 (anche se usato come data simbolo, senza che nessuno dei personaggi ne sembri coinvolto), Nat si muove, pensa di scrivere un libro sulle follie umane, frequenta una libreria antiquaria, dove, per i casi della vita, incontra suo nipote Tom Wood (ed evitiamo di approfondire i calembour che possono nascere dai due cognomi di vetro e di legno).

Come in molti scritti di Auster, le persone, le amicizie, le piccole e grandi storie, si intrecciano con la vita del quartiere e dei suoi personaggi (ricordiamoci sempre il film “Smoke”). Tra gli altri, introdotto da Tom, c’è il padrone della libreria, Harry, ex-detenuto per truffa, gay con l’ex-amante che torna per coinvolgerlo in altre folli avventure.

E soprattutto c’è la storia familiare della famiglia Woods, con la sorella di Tom, Aurora, che compare e scompare, e di cui si ricostruisce, a brandelli, la vita sregolata. Con la comparsa della di lei figlia Lucy, un mostro di intelligenza e di simpatia. Che si presenta muta alla porta di Tom, e sconvolge la vita di zio e nipote. Mitica sarà il suo riempire il serbatoio della macchina di Nat con venti lattine di Coca Cola. Episodio che farà partire una serie di altri piccoli episodi. Che riusciranno, anche se con fatica, e molta ilarità (mia) a smuovere Tom dalla sua apatia. In fondo la trama è tutta qui: matrimoni, divorzi, problemi di soldi, amicizie, cotte e rapporti genitore-figlio oltre che a molte stravaganze, che Auster parla sempre anche quando parla di altro.

Con quell’attacco che mi ha legato alla pagina per non farmene uscire più (“Stavo cercando un posto tranquillo per morire”). Con quella scrittura in cui è vero, Nat parla in prima persona, ma sentiamo che ha la doppia voce (Nat e Paul), e sento che mentre narra si rivolge proprio a me. Un libro che riporta alla felicità della lettura, e non è poco.

Un inciso vorrei dedicarlo ad alcuni pezzi di scrittura nella scrittura. Con le citazioni sotto riportate, che non commento. Ma anche con le parole di Tom, che per consolare (o spingere) Nat alla scrittura, fa un lungo elenco di persone di lettere illustri che hanno lasciato la scena prestissimo, dai 23 anni, 5 mesi e 5 giorni della vita di Christopher Marlowe ai quasi 41 di Franz Kafka, passando per tutta una serie di autori di cui vi lascio leggere in coda. Ma non vi dico quali siano i commenti di Tom. Diciamo solo che cerca di convincere l’anziano Nat che si può scrivere a qualsiasi età.

Per uno strano caso della vita di lettore, questo che uscì come primo libro della collana su New York, l’ho letto per ultimo. E devo dire, ne sono contento, che è una degna conclusione di questa collana. Che finisco ringraziando sempre la mia amica Luana che mi aprì le porte di Auster ormai vent’anni fa.

“Stai diventando un vero scrittore … No, sono soltanto un [uomo] … in pensione che non ha meglio da fare … Nessuno diventa scrittore a sessant’anni.” (151)

“Quando una persona è abbastanza fortunata da vivere all’interno di una storia … i dolori di questo mondo svaniscono. Perché fino a quando la storia continua, la realtà non esiste più.” (158)

“Ricordo una battuta di un film … I bambini consolano di tutto … tranne che di averli.” (173) [a me, più che di un film, ricorda una frase di Hippolyte Taine]

“Il sesso tra persone non più giovani comporterà anche i suoi momenti di imbarazzo … ma … quando una persona che ti piace … ti bacia sulla bocca, puoi sdilinquirti esattamente come ti succedeva quando credevi che saresti vissuto per sempre.” (277)

Terza settimana, orfana di libri felici, ma riempita dai miei florilegi di citazioni.

Come molti di voi sanno, come molti di voi non sanno ma sapranno, questa settimana ha segnato una svolta fondamentale di questa parte della mia vita, portandomi laddove non pensavo, sinceramente, potessi ancora salire.

Quindi, in contro citazione, menzionerei Marc Augè che nel suo bellissimo “Non Luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità” dice: “uno non è più a casa sua, a suo agio, … là dove i suoi interlocutori non comprendono più le ragioni che egli dà … dei suoi gesti, né dei risentimenti che nutre o delle ammirazioni che manifesta”.

Mentre ora qualcuno li ha capiti, ed io ho fatto il grande passo. Ne sono felice. Siatelo per me. Ed io non vi farò mai mancare gli abbracci.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di settembre

Non possiamo certo passare sotto silenzio che questo settembre sta cambiando radicalmente modi di vivere consolidati. Un cambio rischioso ma pieno di splendide premesse. Così che mi è più facile tornare a tredici anni fa, dove nel giugno del 2008 ancora elaboravo il lutto della morte di mio padre.

Così che non sorprenda l’affiorare, l’8 giugno un moto di insofferenza sollecitato da un poco interessante libro (“Lola Motel”) di un autore, Marco Archetti, di cui null’altro ho letto. Ma lì mi si fermo questa frase: “C’è qualcosa di peggio che avere mio padre come padre? Me lo sono chiesto per giorni, per mesi, per anni. Ho sempre finito per rispondermi: sì, avere mia madre come madre.”

Nelle stesse tornate, riandavo più volte alla lettura, facile, di Fabio Volo. Passando così da sentimenti verticali (verso i genitori), a sensazioni orizzontali nei rapporti con le donne. Ne “Il giorno in più” cercavo di capire quanto realmente avessi in comune con il protagonista. Leggendo: “io per stare bene con una donna … meno mi sento legato e più sto bene”, oppure “questo è stato sempre il mio pensiero con le donne: ho sempre creduto che se stavo con una avrei perso tutte le altre.” Di sicuro, mi trovo in disaccordo (purtroppo?) con la sua chiusa: “quando si viaggia da soli si scopa sempre”.

Verso la fine del mese, passarono sotto i miei occhi, stranamente con non ne sono mai molto convinto, autori russi. Prima le “Poesie” di Marina I. Cvetaeva dove tante frasi sembravano affiorare, ma una sola rimanere: “io sono una pagina per la tua penna”. Poi Michail J. Lermontov che nel suo “Un eroe dei nostri tempi” svariate frasi mi ha lasciato. Nella prima, dialogo fra due innamorati/amanti, lui dice “dovrei odiarti, da quando ti conosco mi hai dato solo sofferenze”. E lei risponde “forse per questo mi vuoi bene: la felicità si dimentica, le pene mai…”. Poi, ancora, verso passati i fuori giovanili, così si esprime l’eroe: “è passato quel momento in cui si cerca la felicità; adesso voglio solo essere amato, e da pochissimi”. Concludendo “nella giovinezza si passa da una donna all’altra, fino a cadere su quella che non ci può sopportare … e dà inizio ad una passione costante ed infinita, … il [cui] segreto è solo nell’impossibilità di raggiungere la meta”.

Innegabilmente, quel giugno ero alla ricerca di qualcosa che non trovavo stabilmente. Così che mi fermai anche sulla seguente frase di Daniel Wallace tratta da un veramente poco leggibile libro “Mr. Sebastian e l’ombra del diavolo”: “sarebbe bello se dentro di noi ci fosse una lampadina che si accende automaticamente quando qualcuno si innamora di noi. Sarebbe bello se l’amore venisse sempre corrisposto”.

Luglio invece porto riflessioni veramente forti sul passare del tempo e sulla letteratura in generale, e nello specifico di alcuni meandri.

Sul primo fronte, il mio sempre caro Tiziano Terzani nelle “Lettere contro la guerra” mi solleticava con una frase che allora, forse, era un po’ prematura, mentre non lo è ora: “ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più.”

Per la seconda, e per finire, c’è un libro che è una pietra angolare della mia costruzione mentale, intorno ai libri ed alla lettura. È un libro immancabile, un saggio sulla lettura che chi ama i libri deve leggere almeno una volta. Sto parlando de “La saggezza dei libri” di Harold Bloom.

In realtà si dovrebbe avere il coraggio di citare tutto il libro. Coraggio o possibilità. Io, allora mi accontento di alcune frasi, magari raggruppandole per temi similari.

C’è un inizio molto biblico, con citazioni dall’Ecclesiaste (9, 10-11): “Tutto ciò che trovi da fare, fallo … perché il tempo ed il caso ci raggiungono tutti”. Poi dal Libro della Sapienza (2, 1-9): “Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati … su, godiamoci i beni presenti … lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché questo ci spetta”.

Poi si passa a letteratura tra il 1500 ed il 1700. Parlando di Shakespeare, Bloom ci confessa: “Io preferirei essere Falstaff … che Amleto … poiché l’invecchiamento mi ha insegnato che l’essere è più importante del conoscere”.

Poi ci si dedica lungamente a Montaigne. Pensieri sulla saggezza (“Montaigne ci incoraggia a vivere la nostra vita, … il [suo] motto potrebbe essere conoscerete la verità e la verità vi renderà saggi”), pensieri sulla tolleranza (“Montaigne sostiene … che le idee di ordine diverso dalle nostre ci sono sempre difficili da comprendere”), pensieri in fondo sul montarsi la testa (“Anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo”).

Ma soprattutto concludendo con una domanda che Montaigne rivolge anche a noi: “La più famosa domanda di Montaigne è Che cosa conosco?”.

Partendo da queste riflessioni, Bloom mi consigliò: “La conoscenza di sé stessi conduce all’auto accettazione, a nutrire delle aspettative realistiche su ciò che possiamo essere, e alla benevolenza verso sé stessi e gli altri”.

Venendo ai “moderni”, Bloom si inchina a Freud (“Di fronte a Freud dobbiamo dire che dopo di lui troveremo solo commenti su quanto ha scritto”), cita Ralph Waldo Emerson che cita Platone (“Platone mette in crisi la nostra possibilità di dire qualcosa di originale”), erige un monumento a Proust (“Proust … è la nostra autorità di riferimento in tema di gelosia”).

Un Proust che, verso la fine della sua “Alla ricerca del tempo perduto” ci ricorda: “È raro che le creature che hanno recitato un ruolo importante nella nostra vita ne escano di colpo in maniera definitiva”.

Finendo per tornare ai padri della lettura, se non della letteratura. Perché leggere è ricordare: “È da Sant’Agostino che impariamo a leggere, dato che egli è stato il primo a dimostrare la relazione tra lettura e memoria”. Ed è lo stesso Agostino che “è stato il primo ad insegnarci che i libri, da soli, nutrono il pensiero, la memoria, e la loro fitta rete di interazioni nella vita della nostra mente. La sola lettura non basterà a salvarci o a renderci saggi, ma senza di essa veniamo a cadere in quella forma di vita-nella-morte che è l’odierno abbattimento del livello culturale”.

Perché, qui chiudo e vi invito come sempre alla lettura, come dice Bloom: “Sono del parere che leggiamo per porre rimedio alla nostra solitudine, anche se poi, di fatto, la nostra solitudine cresce parallelamente all’aumentare … delle nostre letture”

Leggiamo insieme, allora.


Nessun commento:

Posta un commento