Bernard Malamud “Il commesso” Repubblica
Duemila 3 euro 9,90
[A:
21/05/2018 – I: 16/12/2020 – T: 18/12/2020] - &&
e ¾
[tit.
or.: The Assistant; ling. or.: inglese; pagine: 255;
anno 1957]
Il
primo commento da fare è che, pur sapendo di averlo visto e rivisto nella
Biblioteca paterna, nel dubbio di non sapere se ci fosse ancora, l’ho
ricomprato e riletto prima di mettere ordine nei meandri sorianesi. Dove, in
effetti, ho trovato quello che mi ricordavo: una copia della prima edizione
italiana, uscita per le edizioni Einaudi, con il dorso duro, la sovra copertina
bianca, ed i bei caratteri a stampa dell’epoca, compreso l’ovale con struzzo.
Riprendendolo
in mano nei ricordai alcuni tratti di lettura, che sono stati ribaditi da
questa lettura direi della maturità. Anche se risente, e non poco, dell’età.
Non perché lo scritto e le tematiche siano obsoleti, ma perché da quel libro
Einaudi del 1962, molta letteratura di tematiche ebraiche, di immigrazione e di
rapporti sociali sono passate sotto i ponti della storia. Quello che all’epoca
poteva essere se non una novità, quanto meno uno dei primi momenti di scoperta,
ora è diventato un tema suonato e risuonato. In termini tristi ed in termini
ironici. In commedia ed in tragedia. Per cui, in finale, pur riconoscendone i
pregi, non vola così alto come potrebbe.
La
storia, possiamo dire, è ben radicata nelle tematiche yiddish, ed anche nei
vissuti dello stesso Malamud. Tutto ruota intorno ad un negozio, al suo
proprietario, Morris Bober, ed alla sua famiglia, la moglie Ida e la figlia
Helen. Nonché a quello che diventerà il suo commesso, l’italo americano Frank
Alpine.
Morris,
emigrato dalla Russia (come la famiglia Malamud), mette suo il suo negozio di
merce varia, in un quartiere non ebreo di New York. All’inizio ha abbastanza
clienti, poi con il progredire “della civiltà” e con il regredire “dei rapporti
umani”, è sempre più in difficoltà.
Morris
è un uomo buono, e fondamentalmente giusto. Aiuta i bisognosi, magari vendendo
qualche merce sottoprezzo. Cerca di non far torto a nessuno, anche quando il
proprietario (ricco ed ebreo) di quasi tutti i locali della zona gli fa uno
sgarbo. E non da poco: consente l’apertura di un negozio più moderno poco distante
da Morris. Così che lui, sebbene sia sopravvissuto alla grande crisi, e poi
alla guerra, comincia ad avere sempre più difficoltà, aggravate dal fatto che
l’età avanza. Tanto che la figlia Helen, invece di proseguire una possibile
carriera universitaria, si vede costretta ad impiegarsi come segretaria per
poter arrotondare le entrate familiari.
Come
spesso accade agli ebrei, sono ciclicamente coinvolti in avvenimenti che
inizialmente sembrano positivi, poi si rivoltano e ne affossano vieppiù le
velleità di “successo”. Così che mentre sembra poter risollevarsi da una nuova
crisi, Morris viene rapinato da due tipi: uno lo ferisce, l’altro lo soccorre.
Mentre è in convalescenza (e la moglie Ida non sa a chi dare i resti) compare
in zona Frank, che si mette con tutta la sua buona volontà ad aiutare i Bober.
Anche senza farsi pagare.
Capiamo
ben resto che Frank è il buono della rapina, che tenta così di espiare presunte
colpe. Ma Frank ha due problemi: non riesce a frenare i suoi istinti
“rubacchiatori” ed è turbato dalla presenza di Helen nei dintorni. Malamud
descrive con efficacia questa parte: Frank tormentato con desideri di riscatto,
Helen presa tra Frank e mondi diversi, Morris combattuto tra il necessario
aiuto di Frank e la voglia (molto ebrea) di riscattarsi da solo. Anche perché
Morris vede sia la pericolosità del rapporto tra Frank e Helen, sia il fatto
che, seppur attraverso piccole somme, ci siano continui ammanchi in cassa.
Tuttavia,
la presenza di Frank sembra risollevare le sorti del negozio. Ma… ed ecco di
nuovo la catastrofe ebraica che si abbatte. Frank fa uno sgarbo ad Helen ed
avendo Morris scoperto le ruberie, viene allontanato immediatamente. Le sorti
risollevate, tuttavia, non erano merito di Frank, ma dell’altro negozio che ben
presto chiude. Per, tuttavia, riaprire “più bello e più ricco di pria”. Che
Morris non riesce a tenervi testa. Non solo, ma dopo una abbondante nevicata,
nel tentativo di spalare la neve davanti al negozio, si becca un bell’infarto.
Ida
richiama Frank per aiutarli. Frank lavora sodo, rimanendo sempre molto distante
da Helen, cui non sa come chiedere scusa. Morris, tuttavia, non si riprende e
muore. Colpito dalle parole sull’uomo giusto che era stato in vita, Frank
ripensa alla sua vita. Dirà tutto anche a Ida, cercherà (ma Malamud non ci dice
se ci riuscirà) di riavvicinarsi ad Helen. Ma soprattutto, deciderà di
convertirsi all’ebraismo e di rimanere a gestire il negozio.
Come
vedete, i temi che affronta Malamud sono universali e presenti, in tutte le
religioni ed in tutte le latitudini. Esistenze minute che lottano non per
emergere o primeggiare, ma solo per sopravvivere. Il testo è anche tessuto da
elementi etici di assoluta condivisione: rispetto del diverso, voglia di essere
riconosciuti per i propri sforzi, ma anche le cattiverie dei malvagi di ogni
quartiere e di ogni provenienza (il più cattivo, ad esempio, è figlio di un
poliziotto). Sembra quasi uscirne fuori una sorta di etica della rassegnazione,
dove entrambe le facce sono valenti e rappresentate.
Sebbene
quindi non sia completamente nelle mie corde, e nonostante tutti i distinguo
inziali, trovo che sia stata una lettura da tempo di covid da segnalare. Perché
anche noi ci si rimbocchi le maniche, senza infingimenti, e si torni ad uscire
dal guscio. Magari ci riusciremo meglio di Frank Alpine.
[A: 25/01/2021 – I: 30/03/2021 – T: 31/03/2021]
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e ½
[titolo: Bartfuss ben almavet;
lingua: ebraico; pagine: 157; anno: 1983]
Lessi
una dozzina di anni fa un altro libro di Appelfeld, ambientato prima
dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale (“Badenheim 1939”) e ne scrissi in
modo positivo. Così come scrivo di questa nuova lettura, forse non ai livelli
della prima, ma intensa e sapientemente costruita. Ringrazio quindi “Robinson”,
il supplemento librario di Repubblica che lo inserì tra i libri da leggere (ed
era più o meno l’inizio di quest’anno).
Ottima,
come sempre, la traduzione dall’ebraico di Elena Loewenthal, forse meno l’introduzione
che aggiunge poco (e che va letta dopo il libro). Forse, l’unica cosa
significativa per me è stata quella puntualizzazione sul titolo, dove,
letteralmente, “immortale” deriva dall’ebraico “figlio della non morte”.
Piccole significative sfumature.
Il
libro, tuttavia, in molti sensi è difficilmente raccontabile in una successione
di trama coerente. Non che non abbia un suo sviluppo. Ma è tutto, tanto, nei
dettagli che affiorano, nelle mezze parole dette, e nelle mezze parole non
dette. Tanto che, si può dire, il libro non inizia e non finisce. Cioè
Appelfeld ci porta fin dalle prime righe nel mondo di Rex Bartfuss, il
protagonista (a proposito, solo dopo più di cento pagine sapremo che Bartfuss
fa di nome Rex), che accompagniamo per un po’, e che alla fine lasciamo, senza
un vero perché.
L’azione,
se di azione possiamo parlare, si svolge in Israele, là dove anche Aharon
riparò alla fine delle sue vicende di persecuzione e di guerra. Ed in un certo
senso traslato, ripercorre idealmente il percorso di Aharon. Sia lui che Rex
finirono in un campo di sterminio, ma ne uscirono vivi. Entrambi passarono per
l’Italia, magari Rex con qualche avventura in più (Aharon aveva solo 14 anni
all’epoca). Entrambi, infine, finirono in Israele. Non seguiamo più lo scrittore,
però, ma l’immortale che finisce a Giaffa.
È un
solitario, ma lì è venuto con la moglie Rosa e le due figlie, Paula e Brigitta.
Sono passati anni, non sappiamo motivi, ma l’immortale si chiude in sé stesso.
Non comunica più con la moglie, che stenta anche a nominarlo. Ha una sincera
antipatia per la figlia maggiore, e per il di lei marito, giudicandolo un
inetto arrivista. Ha solo affetto, inespresso (o inesprimibile) per la piccola,
afflitta da una qualche malattia (dislessia? Autismo? Non sappiamo, invalidante
per la vita sociale, ma affrontabile, almeno così pare).
Rex
rimprovera a Rosa la vita poco ortodossa laggiù in Italia, dove per salvarsi
usava il proprio corpo. Rosa rimprovera Rex di aver un suo tesoro che non
condivide con la famiglia. Sappiamo che c’è, questo tesoretto, e ben protetto.
Sappiamo che Rex fa affari di natura ignota, ma che fruttano di che vivere.
E lo
seguiamo, il nostro uomo, che gira per la città, si sposta verso il mare,
prende il pullman per Netanya, magari si accompagna accidentalmente con delle
donne, tanto per sfogare la carne. Ma più che altro, ne sentiamo il dolore che
non si riesce a sopportare di chi ha visto tante brutture, e pur uscito, ha una
sua spirale invalicabile. Nelle sue peregrinazioni, l’immortale incontra anche
uomini o donne con cui aveva condiviso momenti di prigionia, o momenti di
contrabbando in Italia. Ma non riesce, non riescono ad avvicinarsi.
Bartfuss
è un superstite della Shoah, dovrebbe avere una vita serena, ma
l’indescrivibile orrore, ora passato, lascia un vuoto. C’era tanta tensione per
rimanere vivo, tutto era un urlo, tutto era un tentativo di rimanere vivi. Ora,
come ci ha insegnato anche Primo Levi, non rimane che il silenzio. Così che
Bartfuss evita il contatto, rifugge l’altro che riconoscere significa
ricordare. Ma quando è lui che vuole avvicinare qualcuno, viene sempre anche
lui respinto.
La
scrittura di Appelfeld riesce a non dire una parola sulla deportazione, sui
campi di sterminio, eppure sono lì, presenti ad ogni pagina, in ogni riga.
Presenti quando tutti riconoscono in Bartfuss l’uomo forte. Immortale perché
vive con cinquanta pallottole in corpo. Immortale che vive a dispetto della
famiglia che rifiuta, degli amici di un tempo che non frequenta. Ma Appelfeld,
alla fine guarda dentro il cuore di Rex, e gli consente di liberarlo, e, forse,
finalmente, dormire.
Una
lettura sempre dolorosa, un quadro desolante con una punta di speranza. Una
scrittura che sempre mi convince. Anche per riportarmi in quelle strade, dove
Israele non è più solo Gerusalemme. Ma Giaffa, Tel Aviv, Netanya, Haifa, il
deserto, e poi, e poi…
Giacomo
Debenedetti “16 ottobre 1943” Einaudi euro 9,50 (consigliato da Robinson)
[A: 25/04/2021
– I: 26/06/2021 – T: 26/06/2021] &&&&&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 82; anno: 1944]
Dietro consiglio del supplemento di
Repubblica dedicato ai libri, il 25 aprile ho comperato questo libro, di
un’agilità sorprendente, di una potente lucidità e di un dolore inestinguibile
per tutti quelli che hanno una coscienza.
Debenedetti,
ebreo torinese, studioso, scrittore, dopo varie peripezie in giro per l’Italia,
negli anni centrali della guerra si trova a Roma. Per caso o per fortuna,
insieme alla moglie Renata, ed ai figli Elena e Antonio, si rifugia a Cortona
dopo il 25 luglio. Ma sa cosa avviene a Roma, dall’arresto di Mussolini in poi.
Sa, conosce, e già nel ’44, a pochi mesi dagli avvenimenti, scrive un libello
di denuncia dell’attività nazista a Roma nell’ottobre dell’anno precedente.
Questo fulminante “16/10/1943”. Lo stesso ’44 scrive anche “Otto ebrei”,
piccolo pamphlet su cui torneremo più avanti. Due scritti di denuncia, due
scritti a loro modo forti. Due scritti che vanno assolutamente letti, ora e
sempre. Non perché siano crudi, duri, puri, ma perché, candidamente, quasi con
educazione, ma in modo fermo, pongono ai lettori alcuni quesiti la cui risposta
è dirimente sul crinale della democrazia.
I
fatti che stanno dietro ai due scritti sono, purtroppo, ben noti. Il 16 ottobre
1943, un sabato mattina, le forze d’occupazione nazista, isolano il Portico
d’Ottavia e zone limitrofe, deportando in Germania 1259. Di queste sopravviveranno
solo 15 uomini ed 1 donna. C’è tutta una catena di avvenimenti che portano a
quell’ottobre. Il 25 luglio Mussolini viene esautorato, arrestato e deportato
prima a Ponza e poi sul Gran Sasso, da dove i tedeschi lo libereranno in
agosto. Roma viene definita città aperta, ma dopo l’8 settembre, giorno
dell’armistizio di Cassibile, e della fuga del Re verso il Sud Italia, le forze
naziste occupano Roma, nonostante la dichiarazione italiana unilaterale di
“città aperta” (cioè città che non deve essere toccata dalle forze in campo).
Herbert
Kappler, comandante della Gestapo di stanza a Roma, verso fine settembre aveva
preteso 50 chili d’oro per garantire la non toccabilità della comunità ebraica.
Oro presto consegnato. Ma era un bluff, e il 16 ottobre Kappler stesso ordina
il rastrellamento e la deportazione.
Nello
scritto Debenedetti narra di fatti minuti, di piccoli episodi eroici, ma anche
della grande ed immeritata fiducia che gli ebrei romani confidavano nella
parola data. Lo scrittore argomenta che gli ebrei sono diffidenti nelle piccole
cose, ma confidenti in quelle grandi. Motivo per cui, nonostante segnali sicuri
dell’imminente catastrofe, pochi ne presero sul serio la possibilità, e quasi
nessuno si mise in salvo. Il tono dello scritto è piano, non iroso, eppure nel
suo incidere di una potenza infinita. Una ferita, inferta agli ebrei ed ai
romani, che impiegherà tempi biblici per essere, parzialmente, ricucita.
Ferita,
invece, che non si ricuce nel secondo scritto, molto più scomodo. Debenedetti
muove dall’interrogatorio del commissario Alianello, durante il processo al
Questore Caruso, fascista e repubblichino. Nel marzo c’era stato l’attentato di
via Rasella, ed il conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine, dove furono
fucilati per rappresaglia 343 italiani. Alianello depone durante il processo di
aver depennato 8 ebrei dalla lista dei fucilandi. Da qui parte la difficile
arringa di Debenedetti. Che non assolve la polizia italiana per aver tolto otto
ebrei dalla fucilazione, che, secondo lo scrittore, andavano tolti dei nomi a
prescindere dalla loro etnia. La tesi che sostiene è il cattivo uso della razza
che anche in questo caso prese la mano ai poliziotti italiani. Sostiene, e qui
si apre un dibattito forte, che bisognava e bisogna ragionare in termini di
uomini. E che non bisogna dare a qualcuno un compenso a futura memoria perché è
ebreo, nero o altro.
Un
dibattito che sarebbe stata forte da lì a qualche anno, quando, per compensare
delle perdite nella shoah, venne dato un intero stato a compensazione.
Vi
rendete subito conto della forza e della durezza del duplice scritto.
Debenedetti non fa sconti: se la prende con l’ingenuità degli ebrei e con il
distorto uso della pietà nei loro confronti. Ne pagherà a lungo le conseguenze,
che Debenedetti non verrà mai accolto benevolmente da nessuna comunità. Né la
propria, né quella dei professori italiani, che lo emarginarono fino alla di
lui morte poco più che sessantenne.
Io
concordo invece a pieno con le sue tesi, per ragionamento personale e per
spirito familiare. Che leggendo queste scarne righe, mi montano in testa
ricordi belli e dolenti: la lotta di mio zio dentro e fuori il
Fatebenefratelli, mia zia Giovanna che corre scappando di fronte
all’occupazione nazista (lei diciasettenne nelle belle frasi di mio cugino
Alessandro), mia zia Vittoria che fa da staffetta in bicicletta tra Roma e
Viterbo, mia madre Agnese con la sporta carica di pistole mentre attraversa
Ponte Sisto presidiato dai tedeschi. E tanto altro che non c’è spazio qui per
raccontare, ma che rimane e rimarrà sempre nella mia memoria ed in quella di
tutta la mia grande famiglia materna.
È uno
scritto breve, infine. Potete spendere un paio d’ore a leggerlo. Ne vale
proprio la pena.
Paul
Auster “Follie di Brooklyn” Repubblica New York 1 euro 9,90
[A: 21/01/2019 – I: 16/07/2021 – T: 18/04/2021]
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[tit. or.: The Brooklyn Follies; ling. or.: inglese; pagine: 306; anno 2005]
Devo dire che è sempre una sicurezza una
bella lettura di Paul Auster. Può avere un grado di piacere diverso, maggiore o
minore, ma è sempre una storia ben tornito. Una storia che mi prende in
lettura, con personaggi natural-normali, situazioni vivibili, nel corpo o nella
mente. Forse, inoltre, un libro a quasi sessant’anni trova risvolti più terreni
e meno angosciosi, pur nella complicanza di un inserimento nella non facile
vita americana a cavallo del secolo.
Ed è questo che mi ha intrigato, nelle follie
di Brooklyn, questa volta mirabilmente tradotte anche nel titolo. Una sarabanda
strana, che segue il nostro personaggio centrale, Nathan Glass, nelle sue
evoluzioni vitali, una volta che prende la decisione, essendogli stato
diagnosticato un cancro, di terminare la sua vita là dove era iniziata, a Brooklyn.
Il buon esito degli esami medici, e la
sensazione di poter fare qualcosa, ora che si ritrova pensionato e solitario,
ma non solo, mettono Nat nella condizione di accettare il mondo esterno, di
aprirsi, di ascoltare l’altro, e di farsi a sua volta ascoltare.
Così, in questa Brooklyn che sconfina con
Manhattan, in questo periodo che inizia alla fine dello scorso secolo, e
termina nell’ultima pagina l’11 settembre 2001 (anche se usato come data
simbolo, senza che nessuno dei personaggi ne sembri coinvolto), Nat si muove,
pensa di scrivere un libro sulle follie umane, frequenta una libreria
antiquaria, dove, per i casi della vita, incontra suo nipote Tom Wood (ed
evitiamo di approfondire i calembour che possono nascere dai due cognomi di
vetro e di legno).
Come in molti scritti di Auster, le persone,
le amicizie, le piccole e grandi storie, si intrecciano con la vita del
quartiere e dei suoi personaggi (ricordiamoci sempre il film “Smoke”). Tra gli
altri, introdotto da Tom, c’è il padrone della libreria, Harry, ex-detenuto per
truffa, gay con l’ex-amante che torna per coinvolgerlo in altre folli
avventure.
E soprattutto c’è la storia familiare della
famiglia Woods, con la sorella di Tom, Aurora, che compare e scompare, e di cui
si ricostruisce, a brandelli, la vita sregolata. Con la comparsa della di lei
figlia Lucy, un mostro di intelligenza e di simpatia. Che si presenta muta alla
porta di Tom, e sconvolge la vita di zio e nipote. Mitica sarà il suo riempire
il serbatoio della macchina di Nat con venti lattine di Coca Cola. Episodio che
farà partire una serie di altri piccoli episodi. Che riusciranno, anche se con
fatica, e molta ilarità (mia) a smuovere Tom dalla sua apatia. In fondo la
trama è tutta qui: matrimoni, divorzi, problemi di soldi, amicizie, cotte e
rapporti genitore-figlio oltre che a molte stravaganze, che Auster parla sempre
anche quando parla di altro.
Con quell’attacco che mi ha legato alla
pagina per non farmene uscire più (“Stavo cercando un posto tranquillo per
morire”). Con quella scrittura in cui è vero, Nat parla in prima persona, ma
sentiamo che ha la doppia voce (Nat e Paul), e sento che mentre narra si
rivolge proprio a me. Un libro che riporta alla felicità della lettura, e non è
poco.
Un inciso vorrei dedicarlo ad alcuni pezzi di
scrittura nella scrittura. Con le citazioni sotto riportate, che non commento.
Ma anche con le parole di Tom, che per consolare (o spingere) Nat alla
scrittura, fa un lungo elenco di persone di lettere illustri che hanno lasciato
la scena prestissimo, dai 23 anni, 5 mesi e 5 giorni della vita di Christopher
Marlowe ai quasi 41 di Franz Kafka, passando per tutta una serie di autori di
cui vi lascio leggere in coda. Ma non vi dico quali siano i commenti di Tom.
Diciamo solo che cerca di convincere l’anziano Nat che si può scrivere a
qualsiasi età.
Per uno strano caso della vita di lettore,
questo che uscì come primo libro della collana su New York, l’ho letto per
ultimo. E devo dire, ne sono contento, che è una degna conclusione di questa
collana. Che finisco ringraziando sempre la mia amica Luana che mi aprì le
porte di Auster ormai vent’anni fa.
“Stai diventando un vero scrittore … No,
sono soltanto un [uomo] … in pensione che non ha meglio da fare … Nessuno
diventa scrittore a sessant’anni.” (151)
“Quando una persona è abbastanza fortunata
da vivere all’interno di una storia … i dolori di questo mondo svaniscono.
Perché fino a quando la storia continua, la realtà non esiste più.” (158)
“Ricordo una battuta di un film … I
bambini consolano di tutto … tranne che di averli.” (173) [a me, più che di un
film, ricorda una frase di Hippolyte Taine]
“Il sesso tra persone non più giovani
comporterà anche i suoi momenti di imbarazzo … ma … quando una persona che ti
piace … ti bacia sulla bocca, puoi sdilinquirti esattamente come ti succedeva
quando credevi che saresti vissuto per sempre.” (277)
Terza
settimana, orfana di libri felici, ma riempita dai miei florilegi di citazioni.
Come
molti di voi sanno, come molti di voi non sanno ma sapranno, questa settimana
ha segnato una svolta fondamentale di questa parte della mia vita, portandomi
laddove non pensavo, sinceramente, potessi ancora salire.
Quindi, in contro citazione, menzionerei Marc Augè che nel suo bellissimo “Non
Luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità” dice: “uno non è
più a casa sua, a suo agio, … là dove i suoi interlocutori non comprendono più
le ragioni che egli dà … dei suoi gesti, né dei risentimenti che nutre o delle
ammirazioni che manifesta”.
Mentre ora qualcuno li ha capiti, ed io ho fatto il grande passo. Ne sono felice. Siatelo per me. Ed io non vi farò mai mancare gli abbracci.
Citazioni dagli appunti di Giovanni
Citazioni di settembre
Non
possiamo certo passare sotto silenzio che questo settembre sta cambiando
radicalmente modi di vivere consolidati. Un cambio rischioso ma pieno di
splendide premesse. Così che mi è più facile tornare a tredici anni fa, dove
nel giugno del 2008 ancora elaboravo il lutto della morte di mio padre.
Così
che non sorprenda l’affiorare, l’8 giugno un moto di insofferenza sollecitato
da un poco interessante libro (“Lola Motel”) di un autore, Marco
Archetti, di cui null’altro ho letto. Ma lì mi si fermo questa frase:
“C’è qualcosa di peggio che avere mio
padre come padre? Me lo sono chiesto per giorni, per mesi, per anni. Ho sempre
finito per rispondermi: sì, avere mia madre come madre.”
Nelle stesse tornate, riandavo più volte alla lettura,
facile, di Fabio Volo. Passando così da sentimenti verticali (verso
i genitori), a sensazioni orizzontali nei rapporti con le donne. Ne “Il giorno in più” cercavo di capire quanto realmente avessi in
comune con il protagonista. Leggendo: “io per stare bene con una donna …
meno mi sento legato e più sto bene”, oppure “questo è stato sempre il mio
pensiero con le donne: ho sempre creduto che se stavo con una avrei perso tutte
le altre.” Di sicuro, mi trovo in disaccordo (purtroppo?) con la sua chiusa: “quando
si viaggia da soli si scopa sempre”.
Verso la fine del mese, passarono sotto i miei occhi,
stranamente con non ne sono mai molto convinto, autori russi. Prima le “Poesie”
di Marina I. Cvetaeva dove tante
frasi sembravano affiorare, ma una sola rimanere: “io sono una pagina per la
tua penna”. Poi Michail J. Lermontov che nel suo “Un eroe dei nostri tempi” svariate frasi mi ha lasciato. Nella
prima, dialogo fra due innamorati/amanti, lui dice “dovrei odiarti, da quando
ti conosco mi hai dato solo sofferenze”. E lei risponde “forse per questo mi vuoi
bene: la felicità si dimentica, le pene mai…”. Poi, ancora, verso passati i
fuori giovanili, così si esprime l’eroe: “è passato quel momento in cui si
cerca la felicità; adesso voglio solo essere amato, e da pochissimi”.
Concludendo “nella giovinezza si passa da una donna all’altra, fino a cadere su
quella che non ci può sopportare … e dà inizio ad una passione costante ed
infinita, … il [cui] segreto è solo nell’impossibilità di raggiungere la meta”.
Innegabilmente, quel giugno ero alla ricerca di
qualcosa che non trovavo stabilmente. Così che mi fermai anche sulla seguente
frase di Daniel Wallace tratta da un veramente poco leggibile libro “Mr. Sebastian e l’ombra del diavolo”: “sarebbe
bello se dentro di noi ci fosse una lampadina che si accende automaticamente
quando qualcuno si innamora di noi. Sarebbe bello se l’amore venisse sempre
corrisposto”.
Luglio invece porto riflessioni veramente forti sul
passare del tempo e sulla letteratura in generale, e nello specifico di alcuni
meandri.
Sul primo fronte, il mio sempre caro Tiziano Terzani nelle “Lettere contro la
guerra” mi solleticava con una
frase che allora, forse, era un po’ prematura, mentre non lo è ora: “ci sono giorni nella vita in cui non
succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una
traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così,
e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più
limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare,
distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima
e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe
averlo nel presente. Ma non c’è più.”
Per la seconda, e per finire, c’è un libro che è una
pietra angolare della mia costruzione mentale, intorno ai libri ed alla
lettura. È un libro immancabile, un saggio sulla lettura che chi ama i libri
deve leggere almeno una volta. Sto parlando de “La saggezza dei libri” di Harold Bloom.
In realtà si dovrebbe avere
il coraggio di citare tutto il libro. Coraggio o possibilità. Io, allora mi
accontento di alcune frasi, magari raggruppandole per temi similari.
C’è un inizio molto biblico,
con citazioni dall’Ecclesiaste (9, 10-11): “Tutto ciò che trovi da fare, fallo … perché
il tempo ed il caso ci raggiungono tutti”. Poi dal Libro della Sapienza
(2, 1-9): “Siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati … su,
godiamoci i beni presenti … lasciamo dovunque i segni della nostra gioia perché
questo ci spetta”.
Poi si passa a letteratura tra il 1500 ed il 1700. Parlando
di Shakespeare, Bloom ci confessa: “Io preferirei essere Falstaff … che Amleto
… poiché l’invecchiamento mi ha insegnato che l’essere è più importante del
conoscere”.
Poi ci si dedica lungamente a Montaigne. Pensieri
sulla saggezza (“Montaigne ci incoraggia a vivere la nostra vita, … il [suo]
motto potrebbe essere conoscerete la verità e la verità vi renderà saggi”),
pensieri sulla tolleranza (“Montaigne sostiene … che le idee di ordine diverso
dalle nostre ci sono sempre difficili da comprendere”), pensieri in fondo sul
montarsi la testa (“Anche sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul
nostro culo”).
Ma soprattutto concludendo con una domanda che
Montaigne rivolge anche a noi: “La più famosa domanda di Montaigne è Che
cosa conosco?”.
Partendo da queste riflessioni, Bloom mi consigliò: “La
conoscenza di sé stessi conduce all’auto accettazione, a nutrire delle
aspettative realistiche su ciò che possiamo essere, e alla benevolenza verso sé
stessi e gli altri”.
Venendo ai “moderni”, Bloom si inchina a Freud (“Di
fronte a Freud dobbiamo dire che dopo di lui troveremo solo commenti su quanto
ha scritto”), cita Ralph Waldo Emerson che cita Platone (“Platone mette in
crisi la nostra possibilità di dire qualcosa di originale”), erige un monumento
a Proust (“Proust … è la nostra autorità di riferimento in tema di gelosia”).
Un Proust che, verso la fine della sua “Alla ricerca
del tempo perduto” ci ricorda: “È raro che le creature che hanno recitato un
ruolo importante nella nostra vita ne escano di colpo in maniera definitiva”.
Finendo per tornare ai padri della lettura, se non
della letteratura. Perché leggere è ricordare: “È da Sant’Agostino che
impariamo a leggere, dato che egli è stato il primo a dimostrare la relazione
tra lettura e memoria”. Ed è lo stesso Agostino che “è stato il primo ad
insegnarci che i libri, da soli, nutrono il pensiero, la memoria, e la loro
fitta rete di interazioni nella vita della nostra mente. La sola lettura non
basterà a salvarci o a renderci saggi, ma senza di essa veniamo a cadere in
quella forma di vita-nella-morte che è l’odierno abbattimento del livello
culturale”.
Perché, qui chiudo
e vi invito come sempre alla lettura, come dice Bloom: “Sono del parere che leggiamo per porre rimedio alla
nostra solitudine, anche se poi, di fatto, la nostra solitudine cresce
parallelamente all’aumentare … delle nostre letture”
Leggiamo insieme,
allora.
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