lunedì 6 settembre 2021

Tra New York e Creta 05 settembre 2021

Un’altra settimana di scrittura al femminile, con tre romanzi di ambientazione newyorchese, i primi due un po’ scontati e piatti. Meglio il terzo. E meglio ancora la storia dell’isola greca dei lebbrosi e della sua componente di saga familiare, che ho con gusto letto quest’estate a Creta.

Cathleen Schine “I newyorchesi” Repubblica New York 4 euro 9,90

[A: 05/09/2018 – I: 09/02/2021 – T: 11/02/2021] - && e ½  

[tit. or.: The New Yorkers; ling. or.: inglese; pagine: 292; anno 2007]

Sicuramente un libro molto “newyorchese”, tutto girato come un film di Paul Auster in un angolo della città che potrebbe essere in una qualsiasi piccola città del Middle East americano. Con la scrittrice che simpaticamente si rivolge a noi lettori, invocandone complicità, mentre ci illustra chi fa cosa “in quell’angolo di mondo” (cit. da cover dell’Equipe 84 dal singolo “Stay” degli Hollies).

Facendo un passo indietro, è il primo libro che leggo di Cathleen, in origine medioevalista e tuttora mia coetanea, autrice nella fine del secolo scorso di un fortunato libro (“Lettera d’amore”, poi anche film), dai toni sempre leggeri ma, lì come anche qui, accattivanti.

In questo romanzo, il tocco in più è dato dalla presenza dei cani. Comprimari, ma presenze significative per lo svolgimento della trama. La cui parte migliore, per me, è invece quello spazio di New York che non sembra la Grande Mela. Un ritaglio dell’Upper West Side, tra la Columbus Avenue e Central Park, magari a ridosso del Sol Bloom Playground, con la sua fontana a forma di girasole.

In quest’area metropolitana, tra il 236 ed il 232 (i numeri delle case) abitano i protagonisti della storia: Jody, Polly, Everett, George, Simon, Jamie, mentre l’unica “lontana” è Alexandra dalla cui finestra si vede la Statua della Libertà. Ci sono alcuni negozi etnici, dove fare la spesa all’ultimo minuto, ed un pub-ristorante chiamato “Go Go Grill” tenuto dal simpatico gay Jamie, unico posto in zona che accetti di far entrare i cani. Che, appunto, sono l’alter ego della storia: Beatrice, il pitbull di Jody, Howdy, il cucciolo di Polly, e Jolly, l’isterico cane di Alexandra.

Quindi tra una passeggiata con cane verso Central Park, con annessi bisogni ed altre deiezioni, vediamo lo svolgersi dei piccoli passi di cui ci racconta la Schine. In primo piano Jody, quasi quarantenne quasi zitella, insegnante di musica per bambini, nonché violoncellista. Che per vincere solitudine ed insonnia, prende al canile il bianco pitbull Beatrice. E passeggiando con lui si imbatte nel cinquantenne Everett, non particolarmente né bello né simpatico, ma quando sorride, tutte, ed in particolare Jody, si innamorano di lui.

Ma Everett è sempre con la testa altrove, spesso tra il recente divorzio e seguire la più che ventenne figlia Emily. Talmente sconclusionato che non si accorge neanche di mezza avances fatta da Jody, mentre cade nel vortice amore di Polly, di poco più grande di Emily, ma padrona di un cagnetto, Howdy simpatico e di cui Everett si innamora (inciso: in slang “howdy” sta per “Hello” o “ciao”). Polly si era trasferita in zona alla ricerca di un affitto meno caro, dopo essere stata lasciata dall’inutile Chris, convincendo il momentaneamente disoccupato fratello George a venire con lei. Scelta fortunata, che George trova lavoro come barista da Jamie e pian pianino, con tutti i cani intorno, scopre la sua vocazione di addestratore canino.

Il nucleo dei protagonisti è chiuso da Simon, altro quarantenne, occupato ma disincantato, che aspetta solo il novembre di ogni anno per andare a fare la caccia alla volpe nel Vermont. Nella mancanza di attenzioni di Everett, Simon entra nella vita di Jody (in tutti i sensi), che, ammalandosi Beatrice, si trasferisce da lui che sta al primo piano.

Così tra una bevuta ed una pisciata canina si consumano le varie vite dei nostri. George comincia ad addestrare i cani, e si imbatte nel difficile Jolly, che però gli permette di conquistare il cuore di Alexandra. Polly si accorge che troppi sono i venticinque anni di differenza con Everett, e lo lascia, spezzandogli il cuore, privandolo della presenza di Howdy. Simon si scopre sempre più misogino, tanto che decide di lasciare New York e Jody, e trasferirsi definitivamente nel Vermont. Beatrice muore di cancro, e Jody si consola solo con il vino rosso di Jamie.

Se pensate che questa sia la fine avete sbagliato, che altro succede prima, durante ed anche dopo quel poco che ho narrato. Lasciandoci alla fine con quel tocco lieve delle letture poco impegnative, ma con un paio di messaggini su cui riflettere.

Quello che avrei voluto capire è il senso del titolo, tra la citazione della famosa rivista letteraria, un cenno agli abitanti autoctoni della città e qualche altro che forse mi sfugge. Forse “New Doggers” poteva valer la pena di essere tentato. Ma per quello che è, il tutto può rimanere così.

“L’unico matrimonio in cui ci si diverte è il proprio.” (259)

Stephanie Danler “Il sapore dei desideri” Repubblica New York 12 euro 9,90

[A: 01/11/2018 – I: 15/03/2021 – T: 18/03/2021] - && -- 

[tit. or.: Sweetbitter; ling. or.: inglese; pagine: 378; anno 2016]

Sono sincero: non mi è piaciuto. Certo, ha alcuni spunti, e si può leggere (abbastanza) come un romanzo di formazione. Certo l’autrice, passando dal ristorante alla scrivania, ha fatto un bel salto. Anche positivo, che di certo riesce a scrivere ed a dipingerci il suo vissuto in modo realistico. Ma tuttavia, non partecipativo.

Siccome, oltre che sincero sono anche cattivo, comincio subito da quello che mi ha convinto di meno. Prima di tutto, il titolo. Che dal gergale “agrodolce” (con un suo significato sia nella vita che nella cucina) a quel “sapore dei desideri” mi sembra che ci sia un salto ingiustificato. Secondo poi, è il clamore della serie televisiva che ne è stata tratta che ha portato alla fama il libro, o viceversa? In America dicono sia venuto meglio il libro. In Italia, senza il clamore della coppia scritto-tv penso che non avrebbe avuto un gran mercato.

Anche perché, e qui siamo già al terzo punto negativo, starebbe meglio in una collana alla “Hell’s Kitchen” piuttosto che in una su New York. Infatti, la prima uscita in Italia è nel 2017 con Rizzoli, e non mi pare che abbia avuto una grande risonanza.

Dicevo, cosa c’è di New York nella storia dell’agnizione di Tess verso la sua vita adulta?

L’arrivo in macchina da lontano a cercar fortuna nella Grande Mela, certo. Poi alcuni quartieri: Williamsburg, dove si installa Tess, al di là dell’Hudson sulla linea L della metropolitana, ed i dintorni di Union Square, dove si dipana la maggior parte del romanzo, tra i bar ed i ristoranti della zona. Ma anche l’East Village, SoHo, Tribeca, Alphabet City. Vogliamo poi dire New York come metafora di cambiamento, di aperture e possibilità? Forse, ma ho letto altro che più ci dava una potente immersione in città (posso citare Paul Auster?).

Quindi, tolta di mezzo la città, rimane il mondo della ristorazione, che, come dicevo sopra, rimanda ad Anthony Bourdain ed ai suoi eccessi. Stephanie, arrivata a New York, passa del tempo alla Buvette, uno dei ristoranti cult di New York. Qui, cambiano i nomi, ma l’atmosfera è quella, anche quella descritta da Bourdain. Un microcosmo pieno di persone, di attrazioni e di respingimenti. Ma anche pieno di droga e di alcool. Quando non parla di cucina, Stephanie parla di droga, di sesso occasionale, e di bevute al limite dello sfinimento.

Tutto per raccontarci di Tess, che arriva nella grande città, che si apre a tutte le esperienze, che fa un colloquio e viene subito assunta. In un ambiente in cui è tra le più giovani. “La ragazza nuova”, come viene soprannominata. Ben presto, i possibili lati dei rapporti umani si riducono a tre: Tess, ovvio, Simone, una delle cameriere anziane (pare abbia più di 35 anni) e Jake, il barista, ma anche amante (o forse no) di Simone. Jake che va appresso a tutte le gonne che girano nel loro ambiente. Tess che rimane affascinata dal personaggio. Così come è affascinata da Simone, dalla sua capacità di mescolare vino e poesia, cibo e cultura.

Certo, una domanda mi veniva spesso: come fa Tess, che sembra non avere un retroterra di studio e applicazione, a diventare superesperta in vini ed in sapori? Un dono innato per un palato “totale” o una costruzione iperbolica, che mira ad esaltare le virtù nascoste? Come fare ad avere una sensibilità verso il vino in un mese, che io, in tre anni di corso, sono arrivato ad un decimo di quanto sembra arrivi Tess.

Di certo, Tess è comunque presa dal triangolo: ammira Simone ed è innamorata di Jake. Ma anche viceversa, che i ruoli sessuali non sono definiti. Né forse è importante che lo siano. Vediamo tutto il trapasso di Tess da ingenua aiuto-cameriere, ad amante di Jake, a gelosa del rapporto tra Jake e Simone. Alla fine, terminerà come ci si aspetta, anche perché siamo a leggerne lo scritto, quindi sappiamo già in partenza la nota fine del tutto. Ed arrivarci sarà una lunga passeggiata con eccitanti non naturali, ed altri eccessi. Ben scritto, forse, ma un po’ scontato.

Più che di New York, di cui mi piace ricordare altro, e della cucina e del vino, due sono le cose che mi restano della lettura. Una generale ed una personale. In generale, è la disquisizione, corretta, credo, ma di certo innovativa, sul concetto del quinto sapore. Che tutti sanno dei sapori standard (dolce, amaro, aspro e salato), ma pochi si addentrano in quello che, con termine giapponese, viene definito “umami”. Quello della colatura d’alici, del parmigiano stagionato, insomma del glutammato monosodico.

L’altro è il tuffo al cuore che mi ha preso quando Tess definisce il suo top nel Fleurie del Beaujolais. Ed io faccio un salto indietro, quando spesso e con piacere stavo a Parigi. Frequentando il mitico (per me) “Cafè aux Halles”, mi sbafavo per pranzo un plateau di formaggi accompagnato da un Fleurie ben freddo. E se non sapete che quel rosso si può e si deve bere da ghiacciaietta avete perso uno dei piaceri della vita.

Così posso lasciarvi, con una lettura che forse non merita tanta attenzione, ma seduti in poltrona, con in mano un bicchierino, digestivo, di Armagnac d’annata.

“È impossibile dimenticare le storie che raccontiamo a noi stessi.” (354)

Sapphire “Precious” Repubblica New York 16 euro 9,90

[A: 19/11/2018 – I: 09/04/2021 – T: 10/04/2021] - &&& +

[tit. or.: Push; ling. or.: inglese; pagine: 159; anno 1996]

Un’altra lettura nuova, di un’autrice a me sconosciuta. Non nel panorama afroamericano, come ho scoperto cercandone notizie. Ramona Lofton è infatti nata nel 1950 e dopo varie vicissitudini di vita (che potete cercare anche voi in rete), si laurea, si dedica all’istruzione dei non alfabetizzati di Harlem, si prodiga per i “coloured”, diventa una stimata poetessa. In quegli anni, per sottolineare la sua presenza di “donna nera combattente” utilizza lo pseudonimo di “Sapphire”, che diventerà il suo marchio di fabbrica. Poi, nel ’96, scrive questa forte storia di vita newyorchese. Di certo, con qualche reminiscenza delle sue attività pregresse.

Un libro che più che di New York, come direbbe la collana, parla, e con forza, di Harlem e, marginalmente, dei quartieri poveri della città. Inoltre, è fortemente radicata, come scrittura e come problematica, agli emarginati, ai poveri, ed anche (ma non solo) ai neri ed ai problemi, enormi, spaventosi, delle famiglie povere lì insediate.

Di grande forza, e di grande difficoltà sia di lettura che di traduzione (per cui non posso che fare un plauso al traduttore Massimo Bocchiola) è la scrittura, per la gran parte in prima persona della inizialmente semianalfabeta Clarice Precious Jones. Una scrittura artatamente sgrammaticata, di cui ho letto esempi in rete, senza riuscire a decifrarne molto. Tanto per dire, l’uso di fonemi al posto della scrittura come “noffin’” invece che “nothing”. Per questo, la traduzione ha eseguito un lavoro encomiabile.

Sapphire ci presenta, scrivendo appunto in prima persona, la “triste istoria” di Precious, facendoci seguire tutto il precorso, anche letterario oltre che mentale, della ragazza. Che inizia a scrivere con un americano difficile e sgrammaticato, finendo il libro con un americano sempre meno colloquiale e sempre più scritto.

Incontriamo Precious che ha sedici anni, è obesa ed analfabeta, e vive ad Harlem con la madre violenta. Ne vediamo subito lo scontro con il mondo (quello della scuola in particolare, preso come primo elemento di descrizione), e vediamo come il mondo la respinge: viene infatti espulsa da scuola in quanto incinta. Ma è già il secondo bambino che ha, il primo l’ha avuto a 12 anni, ed è una bambina “down”. Il fatto (aggravante per i benpensanti) è che i due figli sono frutto della violenza domestica, degli incesti che ha subito dal padre fin dalla più tenera età.

Precious ha la fortuna di incontrare alcune persone che le danno finalmente una mano, senza se e senza ma. La direttrice della scuola, che la indirizza verso una scuola dedicata agli analfabeti. L’insegnante della suddetta scuola, Miss Rain, che con infinta pazienza, l’aiuta a cominciare a scrivere, la sprona, la sostiene. Soprattutto quando, dopo il parto del secondo figlio, la madre la caccia di casa.

Miss Rain la fa rifugiare in una casa di accoglienza con un asilo nido per i bambini. Il suo nuovo ambiente le fornisce la stabilità e il supporto per continuare con la scuola. Per elaborare il grande lutto interiore di aver sempre vissuto nel terrore, e negli abusi, sia del padre che della madre. Mentre sta cercando di andare oltre la sua infanzia traumatica e di prendere le distanze dai suoi genitori, sua madre le annuncia che suo padre è morto di AIDS. I test confermano che Precious è sieropositiva, ma i suoi figli non lo sono.

Il libro si chiude con un'antologia di storie autobiografiche chiamata "LIFE STORIES - Our Class Book", in cui Precious e le sue compagne di classe scrivono brevi racconti sulle loro esperienze di vita.

Come detto è un libro forte, dove lo stupro e la violenza non ci sono risparmiati. Dove vediamo anche che i poveri vanno contro i poveri, i reietti contro i reietti. Ci vorrà pazienza e presa di coscienza, ad esempio, affinché Precious accetti il fatto che il suo mito, Miss Rain, sia omosessuale. Ci vuole il coraggio di Sapphire per presentarci la madre Mary che accusa Precious di “averle tolto le attenzioni di suo marito”. Ma l’autrice in questo è magistrale, e, pur non sempre omogeneo e ben dosato, nonché sicuramente datato, è un libro che ci porta nell’America diversa, in quella dove Trump non è mai stato.

Per finire ricordo che il titolo originale del libro era “Push”, ma la distribuzione italiana ha preferito utilizzare il titolo del film tratto dal libro (appunto “Precious”), dove, nel 2009, l’attrice Mo’Nique aveva preso l’Oscar come miglior attrice non protagonista per la sua interpretazione della madre di Precious..

“Mentre sei lì che devi sopravvivere non puoi farci troppo caso ai dettagli.” (110)

Victoria Hislop “L’île des oubliés” Livre de poche euro 13

[A: 10/08/2021 – I: 10/08/2021 – T: 12/08/2021] - &&& -- 

[tit. or.: The island; ling. or.: inglese; pagine: 520; anno 2005]

Stando ad Agias Nikolaos, ed avendo letto della storia dell’isola di Spinalonga, ho comprato ed immediatamente letto questo libro che ha l’isola come uno dei personaggi centrali. Visto che comunque, se l’avessi letto in italiano, sarebbe stato un libro tradotto, ne ho trovato una versione francese. Tradotto per tradotto, tanto vale.

Non conoscevo l’autrice, né penso sia molto tradotta in italiano, mentre in Grecia è non solo ben nota, ma insignita della cittadinanza onoraria, per i libri da lei dedicati alle vicende nazionali. A cominciare da questo di più di quindici anni fa, che ne decretò il successo come scrittrice e che la spinse a proseguire su questo filone.

Visto che inizio sempre polemicamente, questa volta vorrei tirare un paio di orecchie agli editor francesi. In Italia, infatti, uscito per Bompiani, ha mantenuto il suo titolo (“L’isola”). In Francia vi hanno aggiunto il suffisso “dei dannati”, per ovvie ragioni di marketing. Infatti, è ben vero che il protagonista principale dello scritto è l’isola di Spinalonga. E, come sappiamo dall’aver compulsato la storia locale, è ovvio che fu abitata da dannati, visto che dal 1903 al 1957 fu adibita a lebbrosario per isolare cittadini greci attaccati dalla terribile malattia.

La scrittrice, con l’intento di narrarci dell’isola e dei suoi abitanti, imbastisce un piccolo “romanzo familiare”, dove cominciamo a seguire la bella Alexis, in vacanza a Creta con un inutile e speriamo presto lasciabile fidanzato. Alexis sa che sua madre Sofia è cretese, ma nessuna delle due ha mai parlato delle radici familiari, anche se, in un soprassalto di “espiazione”, Sofia fornisce una lettera di presentazione per Alexis indirizzata alla grande amica di gioventù della madre, la simpatica Fotini.

Alexis dopo molti pensieri, decide di andare a Plaka, a trovare Fotini, che, dopo molte preghiere, alla fine racconta tutta la storia della famiglia. Legata, nel bene e nel male, a Spinalonga ed al lebbrosario. I lebbrosi, storicamente, erano relegati all’emarginazione ed al ludibrio, seguendo le parole del levitico, dove il malato è bollato come “impuro”. Isolando i malati stessi su di un’isola, i Greci la fanno diventare una comunità autosufficiente, che si organizza con proprie strutture sociali e politiche (un sindaco, un’insegnante, negozi, financo un teatro) e con l’aiuto di medici umanitari che sembrano gli antesignani di “Emergency”.

Il collegamento con Creta, anzi con Plaka, è assicurata da Georgios, che, con la sua barca periodicamente fa su e giù con l’isoletta. Il dramma comincia quando ad Eleni, la moglie di Georgios, viene diagnostica la malattia e costretta ad isolarsi a Spinalonga. Eleni non si perderà d’animo, e metterà in piedi una scuola ed altro, fino alla sua non lontana morte per l’avanzamento della malattia.

A Plaka rimane il marito, con le due figlie: l’irrequieta Anna e la sottomessa Maria. Ne seguiamo le vicende, gli studi, la ribellione di Anna che cerca un matrimonio per evadere dalle ristrettezze familiari, trovandolo con una delle famiglie più facoltose di Creta. Tutto sembra andare per il meglio, anche se Anna si impegola in una relazione con un cugino del marito, visto che il marito stesso non sembra essere fecondo, e di un erede c’è bisogno.

Nel frattempo, Maria si ammala anche lei di lebbra, viene isolata nell’isoletta, avrà un bellissimo rapporto con il medico dei lebbrosi che solo dopo anni ed anni sfocerà in qualcosa d’altro. Ma la malattia mette allo scoperto i problemi della famiglia, la possibilità che ci siano tare. Inoltre, la nascita della piccola Sofia fa vedere che ha ben poco del presunto padre e molto del vero cugino. Il marito di Anna va fuori di testa, uccide Anna e il cugino, viene arrestato e morirà in carcere. Sofia, dopo qualche peripezia, viene adottata da Maria e dal dottore gentile.

Crescerà ignara della sua storia, fino a che, decidendo di andare ad Atene all’Università, Maria le confessa la verità. Sofia rimane scioccata, non l’accetta subito. Anzi fa in modo di sposarsi presto con un inglese, di andare a vivere a Londra, senza mai tornare a Creta.

I destini delle varie donne del romanzo, alcune le ho indicate, altre ne potete leggere, sono ben crudeli, legati alle prepotenze di una società maschile e ben chiusa. Un procedere che va letto come contraltare della storia cretese di Zorba, che non a caso si chiama Alexis (un nome double face a quanto pare).

Una storia gradevole, non eccezionale, ma soprattutto un modo per rimanere vicino ad un’isola che non conoscevo e che mi ha da subito affascinato. Motivo per cui, non possiamo che terminare dicendo “grazie, Fako”.

Primo florilegio settembrino, quindi ripassiamo le letture di giugno. Un giugno costellato da libri che poco ho gradito. In particolare, oltre alla serie di Repubblica Investigatori (una delle peggiori scelte di Gedi), dove vi consiglierei di evitare il viaggio di Alicia Giménez-Bartlett e la dea di Manuel Vazquez Montalban, questo mese ha visto precipitare anche la collana delle letterature del mondo con l’illeggibile cinese Mo Yan ed il poco digeribile australiano Tim Winton. Per fortuna che c’è stato un libro sublime come “16 ottobre 1943” di Giacomo Debenedetti.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Alicia Giménez-Bartlett

Un vero e proprio viaggio

Repubblica Investigatori

s.p.

1

2

Göran Tunström

L’oratorio di Natale

Corriere Boreali

9,90

3,5

3

Thorkild Hansen

Arabia Felix

Corriere Boreali

9,90

3,5

4

Arthur Conan Doyle

Uno scandalo in Boemia

Repubblica Investigatori

s.p.

3

5

Tim Winton

Il nido

Repubblica Mondo

9,90

1,5

6

Djuna Barnes

I racconti di Lydia Steptoe

Adelphi

5

3

7

Gary Shteyngart

Mi chiamavano piccolo fallimento

Repubblica New York

9,90

3

8

Anne Perry

Il fiume della vendetta

Mondadori

5,90

2,5

9

Mo Yan

I quarantuno colpi

Repubblica Mondo

9,90

1

10

Agatha Christie

Il sogno

Repubblica Investigatori

s.p.

3

11

Maurizio De Giovanni

L’omicidio Carosino

Repubblica Investigatori

s.p.

2

12

Manuel Vazquez Montalban

La dea nuda

Repubblica Investigatori

s.p.

1

13

Pınar Selek

La casa sul Bosforo

Repubblica Mondo

9,90

3,5

14

Antonio Manzini

Vecchie conoscenze

Sellerio

15

3

15

Einar Már Guðmundsson

Angeli dell’universo

Corriere Boreali

9,90

3

16

Giacomo Debenedetti

16 ottobre 1943

Einaudi

9,50

5

17

Ellery Queen

L’avventura della signora barbuta

Repubblica Investigatori

s.p.

3

18

Frank Westerman

Ararat

Corriere Boreali

9,90

2,5

19

Yasmina Reza

Il dio del massacro

Adelphi

10

3

20

Liza Marklund

Ferro e sangue

Feltrinelli

s.p.

3

 

Sarà che serve anche a dimenticare i pensieri delle problematiche mediche che ci contornano, ma questa settimana rivolgo un pensiero all’amore, con una citazione tratta da “Storia di un amore straordinario” di Carl-Johan Vallgren: “sapeva che l’amore che nasce improvviso è quello più lungo e difficile da guarire, e che esiste un solo rimedio alla sofferenza che procura: amare ancora di più.”

E quindi, amiamo ancora di più, non facciamoci mancare gli abbracci.

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