Amets Arzallus Antia & Ibrahima Balde “Fratellino” Feltrinelli s.p. (Regalo di Alessandra)
[A: 07/05/2021 – I: 28/07/2021 – T: 31/07/2021] - &&&
[tit. or.: Miñan; ling. or.: spagnolo (basco); pagine: 112; anno 2020]
Una gradita sorpresa per un compleanno non viaggiante (per quanto ancora?). Anche perché, pur nella sua brevità, è un libretto intenso, non eccelso, che pone domande a noi lettori occidentali. E non domande banali.
Il libro è narrato da Ibrahima Balde, migrante della Guinea Conakry (per i non viaggiatori ricordo che di “Guinea” ce ne sono tre: la Repubblica di Guinea o Guinea Conakry, la Repubblica della Guinea Equatoriale e la Repubblica di Guinea-Bissau), e scritto da Amets Arzallus Balde, personaggio poliedrico, giornalista, lavoratore con i migranti nella sua terra natia, il Paese Basco, anche se nato nella parte francese. Ma Amets è in particolare un “bertsolari”. Questa è una particolare forma espressiva del mondo basco, una specie di canzone improvvisata, ma con rima e metrica ben definiti. Volendo fare un paragone, si apparenta ai “poeti a braccio”, tipici della Toscana, laddove uno dei maggiori esponenti è stato in gioventù Roberto Benigni. Amets è molto versato in questo certame poetico, tanto da aver vinto il Campionato di Bertsolari nel 2013, ed essere stato più volte finalista.
Già questo rende il libro un’espressione particolare, perché, con la sensibilità poetica che lo contraddistingue, Amets riesce a renderci il narrato di Ibrahima in tutta la sua fresca potenza espressiva, le pause, i silenzi, le riprese. Insomma, una lingua scritta che renderebbe molto bene ad essere letta ad alta voce.
Ibrahima, in prima persona, ci narra quindi la sua storia, dall’infanzia africana al presente come migrante in Spagna, ma anche con un lavoro (fa il meccanico in un’officina a Madrid).
In Arica nasce, in un piccolo villaggio dell’entroterra della Guinea Conakry. Maggiore di quattro fratelli (un maschio e due femmine), come tutti i veramente poveri di ogni dove, deve ben presto pensare a portare soldi al budget familiare, pur continuando (con fatica) ad andare a scuola. Il padre è un venditore di scarpe itinerante, la madre vive al villaggio, cucendo, allevando animali e coltivando l’orto, aiutata dai fratelli più piccoli. Lui aiuta il padre sin dall’età di cinque anni. Ma a tredici il padre muore, e lui deve assumersi non solo il ruolo di capofamiglia, ma soprattutto quello di procurarsi con il lavoro la maggior parte del budget familiare.
L’unico modo è andare nella capitale, dove ci sono più possibilità. Ma sono in tanti, in troppi, quelli che cercano le stesse cose che non riesce a trovare Ibrahima. Così che il ragazzo approfitta (o tenta di approfittare) di ogni piccolo spiraglio, di ogni velato suggerimento, iniziando una lunga serie di avventure che lo porteranno in tante città ed in tanti stati al suo limitrofi. Ogni volta, sentendo un posto, un luogo, un lavoro dove si poteva guadagnare di più, dove si potevano avere migliori condizioni di vita, si mette in moto per arrivarci. In autobus, in minibus, in treno (se riesce a mettere da parte i soldi per il biglietto), altrimenti a piedi.
La sua vita di adolescente è allora dominata da questi elementi che non permettono di pensare ad altro. La fame, la sete, i rischi da affrontare, il caldo, la mancanza di sonno costante, le dolorose attraversate dei deserti. Non ci sarà più una vita scandita da giorno e notte, ma solo da lavoro e non lavoro. Tutte le categorie, morali e quotidiane, volano via. La casa e la strada sono i posti dove si vive e si dorme, quando si può. Il bene ed il male sono rapportati solo al metro di poter mandare soldi a casa.
Una vita già penosa e difficile diventerà drammatica quando la madre gli comunica che il fratellino Alhassane non è tornato a casa da scuola. Non vuole pesare sulla famiglia, vuole raggiungere l’Europa ed iniziare una nuova vita. Ibrahima, allora, dovrà, si sentirà in dover di, lasciare tutto ed i quanto responsabile della famiglia si metterà alla ricerca di Alhassane. Una responsabilità non solo oggettiva, instillatagli dalla madre, ma soprattutto soggettiva, che lui si sente addosso per l’affetto che ha per il fratellino.
Comincerà così anche lui un nuovo percorso, da migrante alla ricerca delle piccole tracce lasciate. Si attraversano deserti, si incontra brutta gente, si va anche per mare. Dove saprà che Alhassane è affogato durante la traversata dalla Libia verso l’Italia. Ma ormai anche il percorso di Ibrahima è segnato. Riuscirà, lui sì, a raggiungere l’Europa, la Spagna dove ora vive. E da dove manda, quando e se possibile, sostegni alla madre ed alle sorelle, rimaste in Africa, e che continuano a vivere una situazione altamente precaria.
Non si potrà, alla fine, rimanere indifferenti a tutto ciò. Non si può non pensare alle tonnellate di morti, ai muri che fermano, alle parole che ostacolano. C’è tutto un mondo di riflessione dietro la migrazione, che non si può, non si riesce ad affrontare qui. Ma è tutto il sistema sociale, tutto il modo di distribuire ricchezza e lavoro che andrebbe ripensato a livello globale. Per ora, ci accontentiamo di un libro doloroso, che fa affiorare ferite che non sapremo quando si riuscirà a rimarginare. Di un narrato che, in Africa, ora, non è l’eccezione, ma la regola. Un libro da leggere, anche se fa male.
Nikos Kazantzakis “Zorba il greco” Crocetti euro 15
[A: 10/08/2021– I: 15/08/2021 – T: 17/08/2021] - &&&
[tit. or.: Βίος και πολιτεία του Αλέξη Ζορμπά; ling. or.: greco; pagine: 383; anno 1946]
Che fai stai a Creta e non leggi di Zorba?
Ma andiamo con ordine. Intanto, era uno dei libri consigliati dalle ormai endemiche libropeute, che cercavo di trovare a prezzi giusti, senza riuscirci. Poi, nella bellissima città di Rethymno trovo una libreria favolosa, con scaffali densi di libri, in tutte le lingue “turistiche” di Creta. E tra queste, ecco spuntare una versione italiana direttamente dal greco, e non, come Mondadori, dall’inglese. Ovviamente, subito preso, e, disteso in spiaggia, pronto alla lettura.
Secondo elemento, collegato alla bella traduzione di Nicola Crocetti, è la scoperta che il titolo originale è “Vita e imprese di Alexis Zorba”. Ma, a partire dal film di Cacoyannis, tutti lo individuano come “Zorba il greco”, e questo sarà il titolo che si porterà scritto fino alla fine dei giorni. Inciso: a Matala, ma non solo, ci sono fior di ristoranti che si chiamano “Alexis Zorba”.
Ma veniamo al testo ed al contesto. Devo dire che il film con Anthony Quinn e Alan Bates (nonché Irene Papas), rimane molto indietro nelle nebbie della memoria, riaffiorando solo per qualche musica (ovvio), la faccia di Irene, e l’espressione “giusta” di Quinn per tutto il film.
Poco, invece, veniva alla memoria, della storia in sé. Certo Zorba è un affabulatore, che gode e si gode la vita, che pensa all’oggi (tutt’al più), che non si perita di mettere il mondo in difficoltà, se questo può andare a suo vantaggio ora. Poi, dopo, si vedrà. Per il resto, era buio pesto.
Dal testo, allora, prima di tutto, emerge la figura di Basil, l’io narrante, scrittore in crisi, in cerca di uno sbocco per la propria arte e per la propria vita. Da cenni della vita ante-Creta, si intuisce un rapporto quasi omosessuale con Stefanos, velato da una patina d’amicizia, e non riscattato dalla breve notte d’amore con la vedova. Basil per tutto il libro cerca di finire il suo scritto (inopinatamente intitolato “Buddha”) dove prova a riscattare un testo verso la mancanza di desideri (“nirvana”?), e dove (spesso) la sua etereità si scontra, perdendo, con la carnalità di Zorba.
Siamo negli anni ’30 (così si evince da cenni storici) ed i nostri due eroi si erano incontrati ad Atene. Schermaglia dopo schermaglia, Alexis si impone alla vita di Basil. Perché Alexis, macedone sessantenne, è innamorato della vita e dell’oggi. Canta, balla (sirtaki?), ma soprattutto suona, quando gli viene l’estro, il salterio (la cetra greca, in pratica). Tra l’esuberante Alexis ed il tormentato Basil nasce alla fine un sodalizio per la miniera. Dove, organizzando l’estrazione della lignite per Basil, Alexis trova il modo di corteggiare la vedova Hortensia. Ma anche di prendere i soldi destinati ad altro, e sperperarli con una donna in una settimana di follie a Megalo Kastro (il nome originario di Iráklion).
Tutta una parte del libro, forse un po’ pesa, è dedicata ai monaci eremiti cui i nostri due devono sottrarre la concessione per il legname. Qui, c’è molto dell’iconoclastia di Nikos (che poi è un suo modo di vedere la religione, che sarebbe interessante ripercorrere magari leggendo il suo “L’ultima tentazione di Cristo”). Si trattano male i frati (di cui si evidenziano sia i tratti gay che la possessione diabolica), in una sezione del libro che ho trovato un po’ pesante.
La narrazione alterna spesso i momenti duali tra Alexis e Basil, con quelli corali, del villaggio e dei frati. Ma anche momenti di vita e di morte. C’è la vita tra Hortensia e Alexis, c’è un accenno di vita tra Basil e la vedova. E c’è la morte. Di un giovane innamorato non ricambiato dalla vedova. Della vedova, uccisa dal padre del giovane. Di un frate indemoniato che aveva tentato di dar fuoco al monastero. Insomma, luci ed ombre. Ah, alla fine muore anche Hortensia, dopo aver fintamente sposto Zorba. Quando poi il progetto strampalato di Zorba della costruzione di una teleferica fallisce, i due non possono far altro che dire addio ai sogni di gloria nell’isola. Di lasciarsela alle spalle, con il viso rivolto a nuove avventure.
Attraverso lettere che arrivano negli anni e nei posti più disparati, Basil segue le vicende della vita di Zorba, e ce le comunica tutte. Io ve le lascio leggere, pensando sempre a quei rapporti che Alexis ha con le donne. Come un marinaio d’altri tempi, anche nei posti più sperduti, riesce a vivere storie d’amore con le donne. Ce ne comunica anche la filosofia di vita che attraversa questo sentimento. Anche se, sinceramente, il ruolo della donna risulta un po’ bistrattato.
D’altronde, siamo poco dopo la fine della Guerra, in quegli anni tra il ’45 ed il ’55 che sembravano forieri di grandi promesse, non sempre mantenute. Anche Kazantzakis se ne fa interprete, a suo modo. Ed alla fine, ne esce un libro interessante, con spunti da approfondire, ma con qualcosa meno di quello che mi aspettavo dal clamore che ne risuona nella memoria.
David Madsen “Amnesie di un viaggiatore involontario” Meridiano Zero s.p.
[A: 07/05/2021 – I: 27/08/2021 – T: 28/08/2021] - &
[tit. or.: A Box of Dreams; ling. or.: inglese; pagine: 242; anno 2003]
Come dico sempre, e qui ripeto, un libro regalato è sempre un libro in più dove accumulare esperienze. Per cui, è sempre gradito. Anche in questo caso, che credo sia frutto di una cattiva volontà dell’editore che induce in una lettura distorta del titolo. Che credo volesse indurre riflessioni sul viaggio. Cosa che, in realtà, nel libro è assolutamente assente.
Anche perché, se vedete bene in alto, il titolo originale è “Una scatola di sogni”, che in effetti, leggendo il libro, si entra in una dimensione onirica, ed in un gettarsi a capofitto in un universo di “matrioske”. Ora, ci si domanda da dove nasce l’anodino titolo italiano. È vero che il protagonista inizia dalle prime pagine a non ricordare nulla (chi sia, dove sia, cosa faccia nella vita, e così via), da cui l’iniziale “amnesie”. Ed è anche vero che il “male” lo colpisce su di un treno, da dove si intuisce il secondo termine “viaggiatore”. Ma “involontario”? Siamo subito inseriti nella dimensione del sogno, che si dice essere un meccanismo non volontario di tutti noi (tutti sognano, non tutti ricordano). Ma il passaggio dall’inglese all’italiano è una captatio benevolentiae di scarsissima lega.
Seguiamo così, senza purtroppo parteciparvi più di tanto, le vicende del protagonista, narratore anche della storia. Si trova senza memoria sul treno, incontro un omonimo di Sigmund Freud che fa anche lui lo psicanalista e ci delizia con sparate senza troppo senso, anche queste di bassa lega psicologica. Il protagonista, che forse si chiama Hendryck, ma in mancanza di meglio lo chiamiamo così, si trova senza pantaloni, poi inquisito dal capotreno, poi tutti e tre abbandonati dal treno nella campagna, finché non vengono raccolti dai servitori del conte.
Che ovviamente li stava aspettando, poiché Hendryck, il giorno seguente, dovrebbe tenere una conferenza sullo jodel, un ululato (così lo definisce) di cui non sa nulla. Il conte è un maniaco cacciatore di vacche, le cui teste imbalsamate troviamo alle pareti (e scopriremo che sono mucche che vanno fuori di testa per gli ululati, così da poter fare un facile gioco di parole con la ‘mucca pazza’).
Hendryck conosce anche Adelma, la contessina (simpatica solo perché si chiama come mia nonna paterna, e, di riflesso come la mia villa sorianese) con la quale consuma (o sogna di consumare) amplessi amorosi a volte piacevoli a volte un po’ eccessivi. Fatto sta che i sogni si moltiplicano, Freud non riuscendo a spiegarli. Nella magione del conte incontrano altri personaggi (di cui vi risparmio descrizioni e manie, assolutamente poco sensate).
Fino alla sciagurata conferenza, che si rivela un disastro, che innesca una serie di altre catastrofi, finché il nostro Hendryck scopre di essere probabilmente Hendryck, anche se non un esperto di jodel, e finalmente rimette piede sul treno, andando (durante tutto il testo non è mai riuscito a mangiare altro che pane) al vagone ristorante. Non vi dico ovviamente cosa succede dopo, che forse è l’unico elemento interessante del libro, che mi consente almeno di accendere un lumicino, invece che farlo sprofondare nel buio.
Un buio da cui emerge il tema centrale della scatola dei sogni: chi è che sogna? E cosa succede se chi sogna si sveglia? Si vede che l’autore ha letto a suo tempo “I fiori blu” di Queneau, ma non l’ha di certo compreso.
Anche, e qui abbiamo l’ultimo inutile tassello, perché Madsen è uno pseudonimo, e non si sa di chi, né si sa se la quarta propone una biografia utile a rintracciarlo. Quello che si scopre in rete è che, qualche anno dopo questo, pubblica un secondo libro, “Memorie di un nano gnostico”. Anche lì, se ne leggono commenti vari, e piccoli riassunti. Forse, se volete, leggete i riassunti e lasciate perdere i libri di questo scrivano.
“Essere anche solo in parte convinto di essere ‘qualcuno’ è infinitamente meno penoso della certezza assoluta di non essere ‘nessuno’” (110)
Massimo Bontempelli “Gente nel tempo” Utopia euro 16 (consigliato da Robinson)
[A: 15/06/2021 – I: 16/09/2021 – T: 17/09/2021] &&& e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 184; anno: 1936]
Un consiglio questa volta utile di Robinson. Un libro che probabilmente non mi sarebbe venuto in mente di leggere, di un autore che non conoscevo e che non avrei avuto modo di approfondire. Il tutto per dire che, seppur il testo in sé meriterebbe qualche decimale in meno, il contesto generale ne porta ad una approvazione di buon livello, sollecitandovi a leggerne.
Non entrerò qui in una spiega su chi sia stato Bontempelli, cosa ha fatto, cosa ha scritto. C’è tanto in Internet scritto ben meglio di quanto possa io. Diciamo solo, anche per inquadrare il signore, che da insegnante si fa giornalista, soprattutto in Firenze. E da giornalista, scrittore, vicino alle correnti del tempo, vicino alle avanguardie futuriste. Fascista, sì, come Pirandello, ad esempio. Ma poi, emarginato perché contrario alle leggi razziali.
Mi fermo qui, e faccio un passo di lato, che nella vita in quel di Toscana, spesso passa l’estate a Forte dei Marmi. Lì viene a conoscenza della strana storia della famiglia Vietina abitante lì vicino, nel borgo Montignoso (incuneato tra il Forte e Marina di Massa). Ne pensa e ne ripensa, ne elabora la storia, facendo dei Vietina altro dal reale. Poi pubblica il testo a puntate sull’illustre rivista “Nuova Antologia” (nello stesso anno in cui vi scrisse il suo primo articolo Indro Montanelli, nella stessa rivista da cui uscirono le prime scritture di Eugenio Scalfari). Si sente, leggendolo, questa frammentarietà, che spinge un gruppo di capitoli a chiudersi per rimandare ad altro che uscirà più tardi (una tecnica che ebbe il suo apice con i grandi dell’Ottocento, da Dickens a Hugo).
Il romanzo si concentra in pochi personaggi, quella della famiglia Medici. La capostipite, detta la Gran Vecchia, il figlio Silvano con la moglie Vittoria e le nipotine Nora e Dirce, nonché Maurizio, l’amico di famiglia. L’inizio è cupo e terribile. La Gran Vecchia annuncia, nell’estate del 1900, la sua morte. Donna forte e autoritaria, che comanda tutti a bacchetta. E nell’ora della morte avverte la famiglia che non sono mai stati buoni a nulla, e dopo la sua morte sarete ancora più inutili. Quindi, sarà meglio che sappiate di dover morire tutti giovani.
La morte libera le angosce di casa, Silvano e Vittoria cominciano a vivere, frequentano sempre più assiduamente Maurizio, che sembra avere un debole per Vittoria. Ma l’inutilità di ognuno si manifesta presto. Silvano rimane nelle sue lettere, Vittoria non riesce a metter mano al rinnovamento di casa auspicato. Ha uno scatto, invitando Maurizio a raggiungerla a Venezia, a fuggire con lei. Cosa che Maurizio non si risolve a fare. Mentre Silvano, colpito da strani malori, muore nel quinto anniversario della prima morte.
Vittoria torna, si allontana Maurizio, le figlie crescono. Sempre in un clima che non sembra portare benefici. Tant’è che cinque anni dopo, nel solito anniversario, anche Vittoria si ammala e muore. Nora e Dirce decidono allora di andare per il mondo, o almeno per l’Italia. All’entrata in guerra, per dedicarsi ad opere di bene, tornano nel borgo natio, e vengono a conoscenza della profezia. Aspettano ansiose allora la fine dell’anno, pensando che una di loro morirà.
Non succede, ed allora pensano sia finita. Dirce rimane al borgo. Nora fugge con un’amante che presto la lascerà. Se ne perdono le tracce. Nel frattempo, un amico di famiglia torna raccontando che Livio, il fratello di Silvano fuggito giovane in America, allo scoppio della guerra, era tornato per combattere, morendo nei primi giorni di guerra, nel 1915.
Dirce è sconvolta, ed accetta con gioia il ritorno di Nora, ormai donna perduta, ed anche incinta. Nel 1920 nasce il nipotino, che però avrà poco tempo da vivere. Le due capiscono l’ineluttabilità delle parole della nonna. Si incartano nella ricerca di una soluzione, che non trovano. Arriviamo così al 1925, che porterà un epilogo, ed una coda che non vi narro.
Qualcuno volle leggere nelle parole di Bontempelli una critica al mondo borghese ed una previsione della sua folle corsa verso il nulla, che solo al suo disfacimento può portare. Noi ci vediamo un terribile proposito, che sintetizzo nell’ultima citazione. L’angoscia che ci trasmette l’autore è lì: cosa fare se sappiamo di avere solo cinque anni di vita davanti?
Il romanzo scorre con una velocità impressionante, sembra di entrare in tunnel, alla fine del quale (ed alla fine del libro) la domanda sopra riportata ci abbaglia, ci stordisce. Inoltre, Bontempelli, da buon laureato in Lettere, usa i tempi verbali con un funambolismo ed una capacità che ci meraviglia ancora per la sua freschezza. Certo, ci sono situazioni che hanno fatto il loro tempo. Ma questa Gente che vive il proprio tempo, siamo noi, con il nostro presente, che dobbiamo usare meglio. Con il nostro futuro, che non sapremo mai quanto durerà, se non quando sarà finito. Da leggere, assolutamente.
“Non riuscivano a credere che fossero passati … anni. … non ci pensavamo quando la vita era bella; se uno quando c’è ci pensasse forte … il tempo non dovrebbe andarsene a questo modo.” (178)
“Non importa morire, importa non sapere quando. … La vita è essere incerti … la vita è non sapere, non sapere né quando né dove uno va.” (184)
Takis Würger “Il club” Keller editore euro 16,50 (consigliato da Robinson)
[A: 01/05/2021 – I: 31/10/2021 – T: 01/11/2021] - && +
[tit. or.: Der Club; ling. or.: tedesco; pagine: 209; anno 2017]
Un interessante consiglio della rivista Robinson, anche se mi aspettavo forse una cosa leggermente diversa. Infatti, come da scaffali da cui era collocato, pensavo fosse da annoverare nei gialli, ma invece, una volta letto, ritengo sia più giusto spostarlo tra i romanzi d’autore.
Würger è un non ancora quarantenne tedesco, per anni giornalista in zone di guerra, anche infiltrato in missioni pericolose. Di certo, sa usare la scrittura, e qui ben lo dimostra. Anche se, personalmente, il suo modo di scrivere l’ho trovato spezzettato. Certo, l’idea di saltabeccare tra i vari personaggi, sia di primo che di secondo piano, è interessante. Tuttavia, il ritmo ne risente. Ne risente anche per la quasi totale assenza di voci femminili (voluta?), sebbene intorno alla donna si svolge una parte significativa del testo.
Il protagonista del romanzo si chiama Hans Stichler, giovane tedesco con una vagonata di problemi. La madre muore di cancro quando lui è molto piccolo. A scuola viene maltrattato (bullizzato diremmo ora), allora il padre gli regala un paio di guantoni da boxe, così può sfogare la rabbia ed eventualmente rispondere ai soprusi. Ma presto anche il padre muore, e lui si inserisce in un collegio di Gesuiti, dove, per sopravvivere, studia e si allena alla boxe.
La svolta arriva quando deve andare ad una università. Riceve allora una lettera di sua zia Alex, che insegna Storia dell’arte a Cambridge, e che gli fa un’offerta che potrebbe cambiargli la vita. Lei gli offre una borsa di studio per l’Università, in cambio dovrà indagare per conto suo su qualcosa di spregevole che è successo, che succede all’interno dell’Università. Qui, appunto, scatta il lato giallo, che ha fatto mettere il libro fuori posizione.
Perché è vero che Hans indaga, cerca, collega fatti, ricostruisce, ed alla fine si farà artefice, anche se non in prima persona, della relativa vendetta. Ma non è questo però che risalta bene nella trama del libro. Sì, c’è giallo, c’è qualcosa da scoprire, e noi siamo messi, sapientemente, da Würger nella stessa condizione di Hans. Non sappiamo cosa dobbiamo scoprire, ma perseguiamo lo scopo guidati dalla nostra intrinseca dignità.
Quello che è in realtà il vero sviluppo del testo, è questo in effetti. Scoprire comportamenti non corretti, mettendo in gioco sé stessi. A contatto con un mondo dorato, con la ricchezza, con il potere, rimaniamo integri o ci facciamo travolgere? Rimaniamo noi stessi o ci facciamo integrare in qualcosa che sembra luccicare ma che forse è solo smalto falso-berlusconiano?
Hans percorre tutte le tappe per arrivare al nocciolo della questione. Diventa un buon boxeur, entra a far parte della squadra di boxe dell’incontro tra Cambridge ed Oxford. Per questo viene ammesso all’elitario Pitt Club, una confraternita che riunisce i più ricchi ed i più sportivi dell’università. Per questo incontra Charlotte, una dottoranda di Alex che lo aiuta nell’impresa senza però dargliene i confini. E lì, arrivato al vertice conoscitivo, deve fare una scelta.
Ignorare i misfatti? Oppure trovare il modo di vendicare chi quei misfatti ha subito? Odiare? Oppure prendere il potere che gli viene offerto? La vita intera di Hans non potrà che portarlo a fare la scelta giusta, in questo aiutato, al fine, non da zia Alex, ma da Charlotte.
Würger lascia il finale in una specie di zona d’ombra, quasi a voler dire che potrebbe esserci altro. Ma a noi basta così. Abbiamo visto la cattiveria, e la prevaricazione che offre il potere a chi ce l’ha, o pensa di averlo. Che tifiamo grandemente per Hans.
Anche se tutta la parte sulla boxe mi lascia freddo. Uno sport che non ho mai capito fino in fondo. Anche se la pluralità delle voci non mi ha aiutato a scorrere il romanzo. Anche se preferisco sapere cosa pensa l’autore e non mi piacciono i finali (troppo) aperti. Ma è un libro interessante, e mediamente godibile.
“Non sapevo se qualcuno di loro mi avrebbe considerato il suo migliore amico. Non è questo quello che conta davvero nella vita? Poter definire qualcuno il tuo migliore amico?” (57)
Ultima trama di febbraio, nessun allegato così ci si riposa, ma un pensiero ecologico che, in questi giorni, torna (o non è mai passato) d’attualità. Viene da un libretto di Antonio Pascale, intitolato “La città distratta”, e ci ricorda: “il territorio che la Domiziana delimita è stato dichiarato dall’ONU uno dei tre esempi di maggiore devastazione ambientale al mondo. Caso unico in Italia … presenta il fenomeno della subsidenza, ovvero la terra frana sotto il livello del mare”.
Queste letture in giro per il mondo rinforzano la sensazione di sgomento in questi giorni dove, al termine di un biennio pandemico, iniziano giorni tambureggianti di rumori di guerra. Come dice il noto proverbio “Guerra, peste e carestia, vanno sempre in compagnia”. Sperando tuttavia, che ci sia risparmiata l’ultima catastrofe. Dobbiamo essere forti e consapevoli in questi giorni, ed anche fermi nelle nostre posizioni. Non posso quindi che avvicinarmi a tutti voi, amici, lettori, viaggiatori, per tenerci vicino in un grande abbraccio.
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