domenica 19 giugno 2022

L'altro de Giovanni - 19 giugno 2022

Nei primi anni ’60 Mondadori pubblicò una serie di romanzi di Georges Simenon dove non compariva l’ispettore Maigret, intitolandola “L’altro Simenon”. Riprendo il gioco, e mi occupo qui degli altri libri di Maurizio de Giovanni. Non il commissario Ricciardi, ormai finito, né i bastardi di Pizzofalcone, di cui si aspetta qualche nuova puntata. Ma le altre serie del nostro: quella di Gelsomina Settembre detta Mina, di buona resa, e quella di Sara Morozzi, che invece cala, puntata dopo puntata.

Maurizio de Giovanni “Dodici rose a Settembre” Sellerio euro 14 (in realtà, scontato a 11,90 euro)

[A: 16/09/2021 – I: 16/12/2021 – T: 19/12/2021] &&&-- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 271; anno: 2019]

In effetti, benché siano usciti racconti con al centro la signora Settembre, questo è propriamente parlando, il primo romanzo che la vede protagonista. Che leggo ora, dopo che la bella fiction televisiva si è conclusa, sia perché non mi decidevo in generale, sia per una sorta di odio-amore verso de Giovanni, cui difficilmente perdonerò l’abbandono del commissario Ricciardi, su cui, scientemente, non voglio tornare.

Sempre per rimanere tra fiction e romanzo, devo subito sottolineare che il romanzo, uscito ben prima della serie televisiva, presenta alcune peculiarità che la fiction non ha ripreso. Tre sono quelle che più mi sono saltate in mente (non agli occhi, come si direbbe, che ho visto prima la tv e poi ho letto il testo). Nel romanzo (almeno in questo primo titolo) non è presente l’ingombrante figura del padre della protagonista. Una presenza che, invece, in televisione aveva tutto un suo ruolo. Poi, le tre amiche della nostra eroina sono simili con la differenza che nessuna delle tre ha figli, come invece compare in tv. Ma è soprattutto il ruolo dell’ex marito che mi sembra sia stato snaturato. È vero, il poco simpatico Claudio è sempre ex, ma qui ha un ruolo di magistrato inquirente molto più attivo. Ed invero, anche più simpatico. Spalleggiato dal carabiniere Gargiulo, con il quale inscena duetti memorabili.

Fatte salve queste premesse, il romanzo scorre discretamente bene. Incontriamo subito, e le vogliamo subito bene, la dottoressa Gelsomina Settembre, per gli amici Mina. Viene da una buona famiglia borghese, e da un ambiente cui rimangono attaccati sia la madre Concetta, nel suo ruolo tipico di madre ingombrante e scassapalle, sia le tre amiche, che tuttavia sono pronte a lasciarsi coinvolgere nelle incoscienti uscite di Mina, sempre a fin di bene.

Vediamo anche il ginecologo del consultorio, Domenico “chiamatemi Mimmo” Gammardella, abbastanza coerente. Belloccio ed impacciato, ricercato da tutte le donne del quartiere per farsi mettere le mani addosso. Ma lui, prima rimane attaccato al suo storico amore Veronica. Poi, quando lei lo scarica, rimane fulminato dal Problema numero Due di Mina (le super tette), diventando quindi il Problema numero Tre. Ricordo che il Problema numero Uno è e sarà sempre la madre Concetta.

Come spesso nella serie dei bastardi, si intrecciano nel romanzo due filoni “gialli” o “sociali”. Metto l’accento anche sul secondo aspetto, che essendo Mina una psicologa di base, spesso i suoi problemi vertono anche sul versante sociale, in genere basati su rapporti interpersonali di varia natura. Come in questo caso, dove vediamo Mina alle prese con maltrattamenti verso una donna che non riesce a denunciare il marito. Per paura, ovvio, che lei è una immigrata peruviana di nome Ofelia (casualità, che la mia aiutante di casa è peruviana e si chiama anch’essa Ofelia), e trema per sé e per la figlia Flor. Sarà un’idea peregrina di Mina a porre tutto su di un binario di soluzione, anche se per attuare il tutto deve coinvolgere non solo “chiamatemi Mimmo”, non solo il portinaio soprannominato Rudy, che si crede bello, ma anche le sue amiche. Che uscendo dai loro ranghi daranno vita a delle sceneggiate napoletane di fine tratteggio.

A questo si intreccia il giallo del titolo, che avvengono una serie di omicidi caratterizzati dalla presenza sul luogo del crimine di dodici rose rosse. È Claudio a seguire questo giallo (anche se l’autore cerca di mescolare le acque chiamandolo sempre per cognome). La casualità che anche Mina comincia a ricevere le rose, che Claudio, essendo fidanzato con Mina ai tempi universitari, ed avendo Mina partecipato ad una messa in scena teatrale dal titolo “Le dodici rose”, si ricordi del testo, fa sì che i puntini che non si univano, all’improvviso si uniscono. Precipitando in un finale di buon movimento scenico, e di risoluzione e spiegazione. Anche se già era tutto scritto, da molte e molte pagine.

Non devo certo dar merito all’autore, che ho già detto altrove ed in tempi non sospetti, che lo ritengo un degno scrittore, nonché un fine conoscitore e ripropositore di una napoletanità non convenzionale. Tuttavia, la trama alla fine risulta assai debolucci. Ci sono momenti ironici, e finalmente che non se ne poteva più di tutta la seriosità mauriziesca. Ma ci sono anche cadute di tensione e di attenzione. Inoltre, c’è un tormentone, che ogni volta Mina vede Mimmo, questi gli sembra un Robert Redford di uno dei tanti film da lei visti. Ed ogni volta ci tormenta con la sottolineatura che è il più bel film che lei conosce. Dopo il quarto film, il gioco si fa stanco ed anche un poco inutile. Per tutto ciò, il romanzo non sale molto nelle mie considerazioni generali, pur essendo convinto e sostenendo che de Giovanni va comunque letto, almeno quando scrive gialli.

Maurizio de Giovanni “Troppo freddo per Settembre” Einaudi s.p. (Regalo di Mario e Ines)

[A: 07/05/2021 – I: 19/12/2021 – T: 22/12/2021] && e ½  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 255; anno: 2020]

Avevo voglia di togliermi questo dente in fretta, visto che faceva parte dei regali di compleanno (e che siamo quasi a Natale). Così ho preso subito in mano e letto, anche con un po’ di calma, visto che siamo sotto le feste, il secondo libro delle storie di Mina Settembre. Sempre avendo nel retropensiero lo sviluppo della serie televisiva.

Devo confermare la prima impressione. Lo scritto ha una sua valenza diversa dal girato, laddove, forse, viene fatta risaltare di più la presenza di Mina, anche per esaltare la bellezza e la bravura di Serena Rossi. Inoltre, a quanto ne so, lo scrittore ad un certo punto si è tirato fuori dal progetto televisivo, quindi, finiamola qui, dicendo comunque che Claudio, l’ex di Mina, e Domenico “chiamami Mimmo” sono all’opposto. Cioè Claudio è meglio su carta e Mimmo in tv.

Cò detto, la trama segue al solito i binari paralleli di Maurizio, dove c’è un “mistero” che segue Mina e la gente del consultorio, ed un giallo che segue Claudio con il fido Gargiulo.

L’avventura di Mina segue le tracce di una madre che le chiede aiuto per il figlio. Figlio che, dopo alcuni anni di carcere, esce perché, in quanto genero, deve diventare il capo di una parte della malavita napoletana. Obtorto collo, però, che il giovane non sembra tanto per la quale. Sì, è stato in carcere perché denunciato dal suo professore d’italiano, onde evitargli guai peggiori. Ed in carcere studia, si laurea, quasi a voler cercare uno sbocco diverso alla propria vita. Laddove poi, fuori, lo aspetta la moglie (la figlia del boss) nonché il figlio che praticamente non ha conosciuto, visto che Pasqualino ha sei anni e lui sei anni di carcere si è fatto.

Peccato che appena uscito il professore di cui sopra muore e tutto indica nel ragazzo l’esecutore della sentenza.

L’altro filone, invece, segue proprio la morte del professore. Claudio e Gargiulo sono incaricati delle indagini, e come due comici di razza, procedono sulla scena del delitto a cercare indizi, prove ed altre pensate. Che il professore viveva relegato in soffitta dalla nuora bastardina, avendo unica consolazione nella nipote, giovane ed intelligente. Soffitta dove viene trovato morto per le esalazioni della stufa, essendo il camino istruito dall’esterno. Facile per Claudio ricostruire il percorso doloso, e puntare il dito sul giovane che dovevasi vendicare, almeno per rispettare le gerarchie camorriste.

Noi sappiamo già, in quanto vecchi lettori di gialli, che le due storie non potranno che confluire in un’unica soluzione. Claudio è certo dell’innocenza del giovane, ma non riesce a provarla. Mina ha la soluzione del giallo, ma scoprirla metterebbe a repentaglio il giovane. Poiché Claudio è magistrato, non può trovare sbocchi. Mentre Mina, battitore libero, trova il modo di liberare il giovane dalle grinfie della camorra, mettendo, consenzientemente, in cattiva luce la moglie, e coinvolgendo il bel ginecologo nella trama risolutiva, anche senza che questi, veramente torsolo, capisca cosa sta succedendo.

Nella trama generale, poi, ci sono momenti diversi, alti e bassi, che ne consentono una lettura agile e gradevole. Bello il rapporto tra il professore e la nipote Fabiana, anche se il vezzo (mutuato dalle storie del commissario Ricciardi) di inserire capitoli in corsivo mi trova nuovamente freddo. Gradevoli sono le tirate di Mina verso i suoi problemi (il fisico esuberante e la madre opprimente). Molto fuori le righe le visite ginecologiche di Gammardella, che neanche nei peggiori film di Edwige Fenech avrebbero uno spazio decente.

Certo, de Giovanni continua con le sue tiratine sulla società napoletana in particolare, ma valide un po’ ovunque. Il rapporto tra i diversi strati della società. I rapporti familiari, esemplificati nella vita del professore e della sua famiglia. Dove c’è un figlio senza nerbo, una nuora assatanata di soldi, due nipoti di inutile sopravvivenza, ed una sola persona decente, Fabiana. Interessante anche il ruolo del barbone per scelta. Ex medico di grande spessore, ed ancora capace di diagnosticare ad occhi gli stati delle persone, per turbe personali decise di ritirarsi dalla vita, mantenendo pochi e duraturi affetti. Quello con il professore, ad esempio.

Insopportabile, invece il contino battere il dito sulla somiglianza di Domenico con attori famosi. Se nel primo romanzo era tutto un Robert Redford qua e là, ora è tutto un Kevin Kostner su e giù. Da saltare a piè pari. Per rimanere in tema poi, il sunnominato ginecologo sembra sempre venire da un altro pianeta. Non capisce cosa succede, non sa spiccicare una parola neanche se lo prendi a tortorate. Insomma, bello ed inutile.

Ma leggere di de Giovanni è sempre un immergersi nella sua Napoli. Forse non è quella che ci si aspetta, ma siamo lì, giriamo per i bassi, entriamo nei palazzi fatiscenti, e poi si salta al Centro Direzionale, o a Posillipo, o altrove in giro. Si legge bene, si legge facile, ma non è un giallo e non è un romanzo. È una scrittura gradevole, e si continuerà a praticarla.

Maurizio de Giovanni “Le parole di Sara” Rizzoli euro 14 (in realtà, scontato a 11,20 euro)

[A: 07/05/2021 – I: 03/02/2022 – T: 05/02/2022] && e ¾   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 348; anno: 2019]

Torniamo allora ad una delle serie prodotte dalla penna di de Giovanni, quella dedicata a Sara Morozzi, investigatrice in pensione. Con questo abbiamo messo un po’ di ordine nelle vicende di Sara, che compare prima in un racconto lungo, poi in un romanzo (“Sara al tramonto”) cronologicamente successivo, ma letto prima. Tra l’altro, in questo volume, l’editore Rizzoli ha voluto inserire anche il racconto (“Sara che aspetta”) che serve a definire meglio sia Sara che gli altri personaggi ricorrenti della trama. Tant’è che in realtà, il libro è composto da 294 pagine di romanzo e 54 di racconto.

Come già rilevato, in questa serie non c’è la profondità del commissario Ricciardi, né il lavoro corale e ben orchestrato dei Bastardi di Pizzofalcone. Tuttavia, pur con qualche limite, la trama scorre, è di gradevole lettura, ed ogni tanto ha qualche uscita non banale che fanno voler bene allo scrittore. Certo, la trama “gialla” non è esaltante per complessità, ma ha degli spunti di riflessione sul comportamento umano e sulla difficoltà di fare giustizia in un mondo discretamente corrotto, dove le trame “altre” vengono da così lontano che non si riesce a fermarle.

Intanto, approfondiamo la conoscenza dei personaggi principali. Ricordo che Sara ha lavorato una vita in un’unità legata ai Servizi, impegnata a raccogliere informazioni sulle vite degli altri da intercettazioni non autorizzate. Dove si era inserita per la sua capacità di leggere i discorsi dalle labbra dell’interlocutore e di interpretarne parallelamente il comportamento. Quindi, analisi del corpo portata al più alto grado. Si era innamorata del suo capo, per lui aveva lasciato la famiglia, e con lui aveva vissuto circa 15 anni intensi, conclusi con la morte oncologica di Massimiliano.

La famiglia era costituita, morto il primo marito, dal figlio Giorgio la cui morte ed analisi della stessa compare nel racconto lungo. Dove conosciamo Viola, la donna di Giorgio, prima incinta, poi madre di un pargolo battezzato Massimiliano. Viola che viene talvolta coinvolta da “nonna” Sara nelle sue indagine, specie quando c’è bisogno di foto o di intrufolarsi in ambienti giovanili.

La squadra di Sara è poi completata da Davide Pardo, ispettore di polizia, spesso distaccato ai servizi di Sara, quando serve anche una presenza ufficiale. Corpulento e non giovane, ha due problemi: un cane, un “bovaro del bernese”, presentate ed impegnativo, ed una propensione affettiva verso Viola, che non sembra filarselo per nulla, anche se Davide ha un ottimo rapporto con il pargolo da poco nato.

Nel contorno, c’è la sua ex-amica e collega Teresa Pandolfi, che ha preso il posto di Massimiliano, e che nelle precedenti puntate, anche obtorto collo, chiede a Sara aiuti e collaborazione. Loro era conosciute, nei Servizi, come la Bionda (Teresa) e la Mora (Sara), complementari che la specialità di Teresa era predire il comportamento proprio dalla gestualità che Sara fissava nelle sue osservazioni. In questa puntata entra in scena anche Andrea, ex-ipovedente ora definitivamente cieco, anche lui parte a suo tempo della squadra, per la sua capacità di sentire tutto e capire dai rumori, cosa accade, anche se non lo “vede”.

La trama, allora, è divisa in due grandi binari: la vita quotidiana di Viola, di Sara, di Davide, con le loro macchiette comportamentali, i dispetti e le amorevoli cure. Una parte gradevole, che probabilmente vedremo evolvere nelle prossime puntate, ma che vi lascio brillantemente gustare nel corso narrativo. Narrazione che al solito viene contrappuntata da inserti corsivi, che ho già stigmatizzato altrove. Inserti sia che riportano pensieri del morto Massimiliano, poco utili allo sviluppo della trama, sia avvenimenti precedenti, questi forse interessanti, ma che personalmente trovo sempre poco fruibili per come sono inseriti. Si poteva, senza corsivarli, inserirli magari in una conversazione tra Andrea e Sara per ripercorrere tappe precedenti.

Comunque, venendo all’altro binario, vediamo Teresa che si innamora di uno stagista dei Servizi, con il quale sta avviando un’indagine su di un tale politico in odore di connivenze poco chiare. Stagista che viene prima rapito poi ucciso. Morte strana, che sembra quasi essere fortuita e non voluta. Teresa non può indagare ufficialmente, ed allora chiede aiuto a Sara.

E Sara si attiva. Con Pardo scava nel passato e nel presente del belloccio morto. Trova una fidanzata, più addolorata di quanto potrebbe essere. Trovano collegamenti tra il morto ed il politico. Ma soprattutto, tra il politico ed il padre della fidanzata. Quando Andrea, riandando con la memoria uditiva ad avvenimenti lontani nel tempo, ricostruisce il filone, scopriamo che il politico, il padre ed un imprenditore rampante a suo tempo erano legati all’eversione di destra. Staccatisi da quel filone, intraprendono carriere diversificate, ma che permettono, lavorando di concerto, a tutti e tre di avere un bel tornaconto economico.

La scoperta degli altarini, porta alla comprensione degli avvenimenti. Con alcuni dubbi di fondo. Il morto era stato rapito perché voleva cambiare bandiera o perché non forniva nuovi elementi ai “cattivi”? Il morto stava con Teresa a scapito della fidanzata o viceversa? Date le coperture che i tre hanno, e data l’impossibilità di trovare un reale collegamento che li incastri, tutto finirà in una bolla o Sara troverà un modo di uscire dall’impasse?

Non credo sia giusto che ne parli di più, che una lettura distensiva può essere di giovamento alle vostre diuturne fatiche. Anche in previsione della lettura delle prossime puntate, sperando che rimangano all’altezza.

“A volte bisogna decidere se fidarsi della mente o dell’istinto. I ragionamenti non indicano sempre l strada giusta da prendere. Il cuore, invece, sì. Le parole più sagge, alla fine, le dice proprio il cuore.” (274)

Maurizio de Giovanni “Una lettera per Sara” Rizzoli s.p. (Regalo di Mario e Ines)

[A: 07/05/2021 – I: 18/02/2022 – T: 20/02/2022] && e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 334; anno: 2020]

Eccoci ad un nuovo capitolo delle storie di Sara Morozzi, probabilmente la terza storia seriale per importanza nella testa del nostro autore. Anche se per me è una bella gara con le avventure di Mina Settembre, rimanendo sempre in testa il commissario Ricciardi (specie nelle prime quattro uscite), seguito, ma a distanza, dai Bastardi di Pizzofalcone.

Come si sa, gli autori che si imbarcano in opere seriali, partono da alcuni punti fermi e poi ne allargano i confini. Il punto di partenza, qui, fu Sara, ex dei Servizi, specializzata in analisi dei labiali e della postura. Sara che si innamora del suo capo (ricambiata), per lui lascia marito e figlio, con lui rimane quindici anni fino alla morte di lui. Lei quindi lascia il lavoro, rimanendo solo con servizi “su richiesta”, e spesso la richiesta viene da lei.

Il primo cerchio si allarga quando il figlio abbandonato muore, e lei si trova a confrontarsi con la nuora Viola e con il nipotino Massimiliano. Tra lei e Viola nasce una simpatia di pelle, così che Viola entra in alcune indagini. Poi viene il poliziotto in servizio Davide Pardo, sfortunato con le donne, padrone di un Bovaro del Bernese di taglia eccessiva. Davide è comunque un buon segugio, ha molti contatti, si innamora, non ricambiato, di Viola, e diventa uno zio apprensivo per Massi. Infine, nell’ultima storia, entra anche l’ipovedente gay Andrea, legatissimo al capo di Sara, anche lui pensionato, ma di memoria superiore a molti computer.

Qui, la storia entra di traverso, per mezzo di Nino, un ex-cancelliere del tribunale, in carcere per truffe varie, che si sta avviando verso un non ritorno per carcinoma maligno. Ha ancora qualche pelo sullo stomaco, e vorrebbe “mondarsi” la coscienza. Quindi manda messaggi ad un altro malato terminale, il vicecommissario in pensione Fusco, ed al nipote, mai riconosciuto, Manuel, che vuole aiutare tramite un mini-ricatto, che a Manuel servono soldi per far curare il suo grande amore Carla, ammalata di sclerosi sistemica (questo romanzo è un po’ troppo pieno di malati e malattie, tanto che alla fine scopriremo che anche il piccolo Massi avrà problemi di salute, anche se non sappiamo di quale gravità).

La vicenda inizia in una libreria, dove la commessa part-time Ada rivende ad un padre depredato dal figlio tossico, un libro che dovrebbe contenere un messaggio. Ma la lettera Ada l’ha tolta, l’ha letta, e, per incoscienza pura, la restituisce al malcapitato. Da qui, un mare di guai.

La lettera conteneva un messaggio criptato che nessuno doveva conoscere, così che gli estensori del messaggio convincono Nino a consegnargli Ada. Che ovviamente viene uccisa.

Il messaggio, però, metteva nei guai un magistrato generalmente considerato integerrimo, per cui, quando Fusco (che è il fratello di Ada) comincia ad indagare, lui chiede, in virtù di un vecchio debito di gioventù, al capo di Sara di insabbiare le indagini. Cosa che lui fa, pur soffrendo, e confidandosi solo con Andrea.

Il fatto è che queste storie (ma noi lo sapremo solo abbastanza in là) avvengono una ventina d’anni prima del tempo presente. Quindi, con i soli flashback da me odiati, saltabecchiamo nel tempo, a volte con passaggi, a volte solo con ricordi.

Si tratta però di risalire tutta la catena degli eventi. Rintracciare Manuel, che nel frattempo Nino è morto. Capire chi è il magistrato. Capire perché l’amore di Sara si è così comportato, macchiando, agli occhi di Sara, una vita altrimenti integerrima. E noi (e Sara) ci domandiamo, ma una volta ammessa una macchia, quante altre ce ne potranno stare?

Tutto poi inframezzato dalle turbe di Davide che non si sente considerato, e continua a fare svarioni per tutto il tempo. Che quando imbocchi una discesa, non è facile frenare. Dalla “monelleria” di Manuel, ma anche del suo amore per Carla. Di cui è bene leggere, più che raccontare. Dal precisarsi del carattere di tutti quanti, Viola e Andrea in particolare.

Sara è sempre sul pezzo, riesce, decodificando parole e gesti, a fare breccia nelle corazze più agguerrite, anche se tutto il tormento delle sue storie d’amore alla fine è un po’ peso e rischia di portare fuori strada. Come continuano a portare fuori strada, gli inserti in corsivo che de Giovanni continua ad inserire, e che io continuo a ritenere inutili e poco funzionali, alla trama ed alla sua comprensione.

Il nostro, alla fine, ci pone davanti al dilemma di quanto sia lecito mentire per coprire magagne passate, che, se venissero alla luce, potrebbero distruggere un roseo e promettente presente. Un presente che comunque serviva a raddrizzare torti sociali.

Torti che ad esempio, ed in ultimo, de Giovanni cerca di emendare, confessando (ed andatene a vedere le coincidenze) che la figura di Ada è modellata sulla vicenda di Graziella Campagna, vittima innocente della mafia, uccisa il 12 dicembre 1985.

Purtroppo, però, nel tornare alla scrittura, lo stile di de Giovanni, si sta incartando abbastanza, non trova più quella fluidità che caratterizzava, pur con delle trame pesanti, i primi lavori. Speriamo che il successo non abbia tolto troppo inchiostro alla sua penna.

Maurizio de Giovanni “Gli occhi di Sara” Rizzoli s.p. (regalo della sig.ra Laura)

[A: 07/05/2021 – I: 21/02/2022 – T: 22/02/2022] &&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 323; anno: 2021]

Purtroppo, questa nuova, e per ora ultima, puntata delle storie di Sara Morozzi è andata in calando. Già avevo dei sospetti, dal precedente libro. Ma qui, i sospetti diventano certezze. Certo, de Giovanni non delude nell’affabulazione, nell’intrecciare idee. Tuttavia, qui, la storia si incentra molto sul privato (e ci potrebbe stare), mentre quando tocca “il thriller” si perde e si annacqua in rimembranze di momenti non solo poco chiari, ma anche poco chiariti.

Di certo, si approfondiscono i caratteri sia intorno a Sara sia di Sara stessa. Viola, la nuora in pectore, fa un lungo viaggio verso di sé, riflettendo sui suoi metodi di essere verso il figlio Massimiliano, non voluto, ma ora tanto amato. Il poliziotto Davide si irrigidisce nelle sue parti poliziesche, ma si ammorbidisce nel versante intimo, sempre verso Massi, ma anche (noi lo pensiamo da un po’ ma ancora non esce allo scoperto) verso Viola.

Sara, quindi. Lei, per risolvere il caso, non solo dovrà rileggere il proprio passato lavorativo, ma anche fare un risciacquo delle proprie sensazioni verso l’universo maschile. Verso il suo grande ed assoluto amore per Massimiliano, il suo compagno di vita. Verso Nico con cui nulla ha avuto da spartire se non sguardi, ma che sguardi. Tanto, appunto, che l’autore ne fa il titolo del romanzo.

L’innesco si aggancia alla fine del precedente romanzo, che terminava con l’annuncio di una malattia nel piccolo Massi. Ora veniamo a sapere che si tratta del tumore di Wilms, malattia renale non diffusa ma neanche rarissima. Purtroppo, il piccolo sembra essere (è) ad uno stadio quasi irreversibile. Incurabile ed inoperabile, dicono i medici. Ma c’è uno spiraglio: pare che esista un misterioso chirurgo che riesce ad operare miracolosamente malati ritenuti senza speranza. Peccato che sia poco rintracciabile. Peccato che le sue origini provengono da un passato turbolento, o almeno questa è l’idea thrilling dell’autore.

Qui parte il solito su e giù temporale, altra cifra caratteristiche di queste opere. Perché Sara faceva parte di una Squadra Speciale addetta a sorveglianze di vario tipo, e dove lei era specializzata nel capire labiali e atteggiamenti posturali dei sorvegliati.

Si innesca così la seconda storia, imperniata su di un gruppo di studenti rumeni, che studiano a Napoli, poco dopo la caduta del muro di Berlino, e la disgregazione dei paesi dell’Est. Ricordo che Ceausescu fu giustiziato il giorno di Natale del 1989. Qui, il manipolo rumeno si muove nel 1990. Prima cercando di capire gli avvenimenti patri. Poi, cercando di dare sfogo al risentimento. Loro sono “comunisti duri e puri” e vorrebbero far tornare indietro le lancette della storia. Per fare questo, ipotizzano un clamoroso attentato.

Questo, frutto della fervida fantasia di de Giovanni, si dovrebbe collocare durante la visita (storica) di papa Giovanni Paolo II a Napoli, avvenuta dal 9 al 12 novembre 1990. Ora, è ovvio che cinque sbandati rumeni, pur volenterosi nella loro ira, non avrebbero né i mezzi né l’organizzazione per realizzare un simile attentato. Vengono così, a loro insaputa, coinvolti dai Servizi Segreti americani, che li sponsorizzano, e non si capisce (volutamente) se per realizzare il “grande botto” o per fermarlo prima che avvenga. Qui, l’autore si avventura in una trama “ucronica” che però non ci coinvolge tanto.

Seppur storicamente probabile (quante trame eversive sono passate per il suolo italico senza che noi se ne sappia qualcosa), tutta questa parte è risibile, come risibili sono le sparate degli esuli rumeni. Meno risibili, e più probabili, sono invece gli atteggiamenti dei Servizi segreti italiani. Vediamo la squadra di Sara all’opera alla grande. Lei la Mora, Teresa la Bionda, Andrea l’ipovedente, l’arrivista Lembo, il grande capo Massimiliano, ognuno impegnato al proprio meglio, anche se non sempre è il meglio per la verità. Ma i meccanismi potevano essere quelli.

L’aggancio è che un giovane chirurgo, Nicolae Popescu, esterno al gruppo, è coinvolto sentimentalmente con Ana, un elemento centrale nell’attentato. Sara, contro tutto e tutti, vorrebbe salvare capra e cavoli. Ma per una miriade di ragioni, anche se non ci sarà lo scoppio previsto (e questo lo sappiamo dalla storia) i cinque rumeni spariranno nel nulla. Solo Nico sparisce, ma non nel nulla. Sarà quel chirurgo che tutti cercano per salvare Massi.

Ma lui sa (o pensa di sapere) che Sara non ha mantenuto le promesse del tempo, sa che quei giorni hanno segnato per sempre il suo destino. Il loro incontro, che ci vogliono trecento pagine per organizzare, dovrà portare ad uno scioglimento. Guardandosi negli occhi, che anche Nico ha uno sguardo potente. Uno sguardo che qualcuno aveva interpretato ed aveva agito per spegnerlo, senza riuscirci.

Così, con un ritorno agli occhi finisce anche questo romanzo. Saranno occhi capaci di vedere? Saranno occhi capaci di salvare ancora qualcosa, dal passato o dal presente? Arrivate alla fine e ne saprete.

Ma arrivati alla fine, saltate, per favore, la descrizione dei personaggi, un aggiunta (spero editoriale) di scarso valore letterario, ed anche poco gradita. Sappiamo noi lettori chi sia cosa, e non c’è bisogno di spiegazioni esterne.

Inoltre, e qui chiudo, come già accennato, la parte “gialla” è debole, e la nuova squadra di Sara si sta formando ma ancora non è nel pieno delle sue funzioni. Ci si chiede, quindi, se ci sarà un seguito. Anche se, per ora, de Giovanni è distratto e si dirige verso altre mete letterarie. Dico distratto perché ad un certo punto fa dire ad Andrea che non ha mai mancato una promessa fatta al suo capo, mentre lo aveva già fatto nel libro precedente. Ahi, ahi, ahi!

“I tempi andati non sono abbastanza andati, per dimenticare.” (189)

Qui andrebbe bene quella sentenza latina d'incerta origine, che si pronuncia spesso, nell'uso corrente, quando si sta per ripetere qualche cosa che già si sia sperimentata come piacevole, ma che non riporto perché sembrerebbe io sia saccente. Tuttavia, vi consiglio di cercare i Pooh nell’allegato. Meritano.

Poiché poi c’è sempre da prendere qualcosa nei posti più impensati, vi regalo una frase del grande scrittore di noir Giorgio Scerbanenco che ci consola dicendoci “Non si sa mai perché si fanno le cose” (50) verso la metà del suo agile romanzetto “Le principesse di Acapulco”.

Un inciso, purtroppo d’attualità. Di doppia nazionalità, il nostro scrittore in realtà si chiamava Volodymyr-Džordžo Ščerbanenko ed era nato a Kiev. E non dico altro.

Pare invece, che i viaggi si riescano a concludere, tanto che, con molta probabilità, salterò la prossima settimana. Se così fosse, spero che sarete contenti insieme a me, anche se dovrò rimandare di poco l’abbracciarvi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di giugno – secondo

Come detto la scorsa settimana, andiamo centellinando le citazioni, tanto che oggi ci focalizziamo nel solo mese di marzo del 2010. Ci sono alcune citazioni sparse di diversi autori, lungo tutto il mese. Poi ci sono alcuni lunghi estratti di un libro a me molo caro di Francesco Piccolo, di cui parlerò in finale.

Cominciamo allora con la prima settimana di marzo, occupata da due autori di ben diverso stile. Il primo è l’ex-magistrato Gianrico Carofiglio di cui dal suo “Né qui né altrove” estraggo prima una frase molto “Zelig”, che mi riporta alla festa dei miei quarant’anni: “non avendo le idee chiare su me stesso… nella vita sociale interpretavo personaggi, diversi a seconda delle circostanze confusamente ispirati a film e libri” (12). La seconda, è una considerazione che tante volte ho fatto quando, in giro per il mondo, mi imbatteva in persone che parlavano per ovvie e sbagliate frasi fatte: “viene qualcuno dall’estero e inevitabilmente si finisce a parlare del fatto che, incredibile, gli italiani (addirittura i meridionali) rispettano il divieto di fumare. Ogni volta che sento questo discorso mi viene voglia di dare una testata al responsabile. Più o meno come quando sento dire che il clima sta cambiando, che non ci sono più le stagioni intermedie, che i giovani d’oggi non hanno interessi, noi eravamo diversi” (63).

L’altro, diverso per stile e per resa, è il soprattutto poeta Valerio Magrelli di cui lessi un libro, “La vicevita”, soprattutto per il sottotitolo: “Treni e viaggi in treno”. Intanto per la definizione che dà della prima parte del titolo: “La nostra vita pullula di ... attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere… sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita” (3). Poi fa un’osservazione che mi aveva fatto mio padre viaggiando in aereo da Samarcanda a Mosca negli anni ’70: “il vecchio Tupolev … mi portò a Tbilisi: non avevo mai visto un aereo dove i passeggeri salivano a bordo con le galline in gabbia, fra panini e bottiglie… era una specie di jet agrario, una via di mezzo fra la corriera, l’aia e l’osteria” (39). Infine, mi fornisce due assist sul comportamento umano, che sottoscrivo in pieno: “Quanti amanti, quanti amici, non sprofondano nell’anonimato, allontanandosi dalla nostra orbita come navi spaziali in avaria?” (58) e “Le tragedie, come i quadri, vogliono la giusta distanza” (71).

Una settimana dopo, cosa per me non usuale, lessi invece “Una cosa piccola che sta per esplodere”, un libro di racconti di Paolo Cognetti. Quasi a ricordarmi il mio amato Seneca ed il suo “De senectute ovvero L’arte di saper invecchiare”, prima sottolinea la nostra incolmabile mancanza di saggezza: “non è vero che da vecchi si diventa più saggi... io non mi sento saggio. Ho fatto tanti sbagli e mi sa che ne farò ancora… [ma] lunga o corta, la tua sia una bella partita” (101). Poi, citando proprio Seneca, chiosa: “la maggior parte dei mortali si lamenta per la crudeltà della natura. Siamo al mondo per così poco tempo, e questo tempo a noi concesso trascorre così in fretta, che la vita sembra abbandonarci nel momento stesso in cui comincia” (134).

Nella stessa tornata, tornai a leggere un’autrice che quindici e più anni fa mi consigliò la mia amica Chiara. La torinese Paola Mastrocola in “Che animale sei?” mi fece da consolazione (perché stavo e sto vivendo quel momento): “si sentì anche molto felice, perché è molto bello quando qualcuno ci dice qualcosa di noi e di come siamo: ci sentiamo subito meglio, come dire, più… definiti, e quindi meno soli!” (23). Poi mi rimandò proprio a Chiara, laddove usò quel termine che sottolineo e che solo da Chiara avevo sentito: “il lupo e l’anatra se ne stavano sbacaliti dallo stupore” (187).

Infine, c’era Francesco Recami che ne “Il ragazzo che leggeva Maigret”, ci dà una ricetta per affrontare i momenti d’angoscia: “Quando c’è qualcosa che fa paura non bisogna tenerselo per sé. Bisogna parlarne il più possibile. E molto spesso si rivela una cosa da niente” (37).

Passa un’altra settimana e mi trovo ad affrontare la scrittura di Corrado Augias non in un suo saggio, come ci si poteva aspettare, ma in un giallo di discreta fattura: “Il fazzoletto azzurro”. Senza entrare nel giallo, in una prima parte ci sono sensazioni di vita che mi fecero riflettere, anche per il nome del protagonista: “Giovanni si considerava un uomo del tutto normale, non fosse stato per il fatto di sentire a volte che una seconda vita viveva dentro di lui, non altrimenti avvertita che nell’improvviso desiderio di essere altrove” (87); “C’era stato un tempo in cui … aveva pensato che Giovanni fosse il compagno ideale per un viaggio lungo la movimentata corrente della vita” (113). Ma più che altro le ricordanze sul tempo e sul nostro esservi immersi: “Non ci si dovrebbe permettere di esprimere giudizi se non si sono passati i quarant’anni, prima si è troppo impazienti, troppo crudeli e anche troppo ignoranti” (190) e “Il presente è il lato più doloroso dell’esistenza, ma ha il vantaggio di passare in fretta” (191).

Verso la fine, poi, fa un considerazione sul vero e sul falso che è un capolavoro di finezza: “Fate conto che manchi un minuto a mezzogiorno e che qualcuno vi chieda che ore sono. Se rispondete ‘Sono le dodici precise’, dite il falso. Se invece affermate ‘è un’ora compresa tra le undici del mattino e l’una del pomeriggio’ dite una cosa vera. Eppure, l’asserzione falsa è più vicina alla verità di quella vera, oltre ad essere certamente più utile per capire che ore sono veramente. … Non sempre le cose false sono anche sbagliate. Meglio ancora, non sempre le cose vere sono utili” (227).

Finivo quel marzo faticoso con un autore tedesco che non era (e forse non è ancora) molto noto, Daniel Kehlmann. Di lui, io, ho invece letto molto, e nel suo “Io e Kaminski” mette in bocca alla bella di turno una frase ironicamente superba: “se hai intenzione di sedurmi, dovresti farti la barba e non dovresti indossare un pigiama…” (128).

Come detto finisco ritornando su un autore che leggo sempre con piacere, per gli spunti ironici che riesce a tirar fuori dall’osservazione della realtà (e non a caso ha sceneggiato diversi film, punteggiandoli di sagaci affermazioni). Mi riferisco a Francesco Piccolo.

In un libretto dedicato ad una serie su luoghi e situazioni italiani edito da Laterza, “L’Italia spensierata”, fa due lunghe osservazioni su di una sua partecipazione televisiva, che non posso emendare e riporto integralmente.

La prima: “la Rai ha una caratteristica molto romana riguardo a qualsiasi richiesta, che nel campo lavorativo romano corrisponde non soltanto alle richieste gratuite come in questo caso, ma anche a quelle fatturabili e pagabili come per qualsiasi artigiano, commerciante eccetera. Cioè, alla prima richiesta di un posto da spettatore a Domenica In, di un elettricista per montare delle luci, di un meccanico per un problema alla moto, di un esperto per il cambio del telefonino, di un ascensorista per un preventivo di ascensore, di un tassista per essere condotti in un luogo nemmeno troppo lontano, la prima reazione è sempre fortemente scoraggiante; di solito ci si sente rispondere immediatamente: non si può fare; si vede l'ascensorista o il tassista o l'elettricista che scuotono la testa e dicono che non si può fare, oppure, quando va bene, che è molto difficile (e comunque tendono a scuotere la testa). Poi, se si riesce a superare quest'ostacolo innalzato repentinamente, si può anche procedere con normalità, ma la soglia psicologica di quest'ostacolo è alta, molto alta, abbastanza alta da costituire appunto una soglia psicologica nella quale il primo consiglio che cerca di darti chi risponde è: lascia perdere. E, ripeto, anche quando è occasione di guadagno facile e immediato. E come se a Roma ci fosse una sorta di training continuo in cui la popolazione lavorativa ti chiede in modo filosofico - mistico - agonistico di fare qualsiasi cosa solo se davvero la vuoi fare, se ne sei fortemente convinto, se senti di doverla fare e di non potervi assolutamente rinunciare. Ti chiede, insomma: davvero è necessario mettere delle lampade nuove al soffitto? Davvero la tua moto non può andare avanti così? Davvero c'è bisogno di un telefonino nuovo? Davvero non puoi salire le scale che ti farebbe anche bene? Davvero è così urgente raggiungere una strada secondaria del quartiere Prati? E davvero nella tua vita è importante andare come spettatore a Domenica in??” (12-13).

Ancor più da leggere e meditare la seconda: “La prima canzone che cantano i Pooh … è Tanta voglia di lei, la loro canzone più famosa e che ognuno di noi canta a memoria … mentre il Pooh canta la storia di quest'uomo a cui dispiace di svegliare lei e che forse un uomo non sarà, ma a un tratto sa che deve lasciarla e tra un minuto se ne andrà (la sveglia apposta per comunicarle che deve lasciare e che tra un minuto se ne sarà già andato). La cantiamo tutti in coro, come se fosse una splendida canzone d'amore e nell'immaginario è sempre passata così, ma, in effetti, quest'uomo (che forse non è un vero uomo, dice, ma forse invece è proprio il classico uomo) si scopa una e poi poco dopo, a un tratto, sente il senso di colpa, a un tratto, e non può fare a meno di confessarle che adesso ha tanta voglia di un'altra, che poi è la sua vera donna. Quella che si è appena scopato non dice una parola, tanto che uno sulle prime pensa che stia dormendo, e invece sta mordendo le lenzuola in silenzio e lui sa che non perdonerà. Ma non può farci niente: si è reso conto all'improvviso che il suo posto non è qua, è là, e nella mente c'è tanta, tanta voglia di lei. Ora, nessuno può avere nulla in contrario sul fatto che lui senta che il suo posto è là e non è qua. È legittimo. Però, secondo me, una cosa del genere si dovrebbe sentire prima di scopare, non appena dopo. Il senso di colpa - perché questa è una canzone sul senso di colpa, non sull'amore - o gli viene prima, oppure se lo può pure trattenere un po'. No, invece accade esattamente il contrario: prima non dice niente, anzi non avrà probabilmente neanche detto di avere qualcuno che lo aspetta, per carità, e se ha detto qualcosa saranno state parole gentili, seducenti e romantiche. Poi, d'un tratto, dopo, subito dopo, d'un tratto, sa che deve lasciarla e sa che il suo posto è da un'altra parte. Lo sa con certezza assoluta. E non solo. Ma deve pure andare via subito, perché il suo amore si potrebbe svegliare e chi la scalderà, che non è una cosa molto carina da dire a qualcuno con cui hai appena - appena! - scopato. Ma non può farci nulla: nella sua mente c'è tanta, tanta voglia di lei. E quel «tanta, tanta» ripetuto due volte è davvero cinico. Poi la seconda strofa è tutta dedicata alla tenerezza del suo amore (quello vero) che si gira dormendo nel letto e cerca il suo uomo che non c'è. Però la strana amica di una sera si sente uno schifo e la donna amata è stata tradita, e se apre gli occhi lo scoprirà. Noi contribuiamo alla sua esperienza cantando a squarciagola insieme al Pooh, identificandoci con chi, non ho capito - con la ragazza sconosciuta e abbandonata? Con la donna che cerca il suo uomo che non c'è? Con il senso di colpa di lui? Boh.” (52-53).

L’ultimo brano d Piccolo lo dedico a tutte le persone che ho visto in tutti questi anni, ed anche, non sono ipocrita, a me stesso: “Potrei fare un lunghissimo elenco di amici che mi chiamano immediatamente quando gli è successo qualcosa di terribile e poi rispondono a una mia telefonata allarmata, qualche tempo dopo, dicendo distratti: ah, sì, quella cosa lì, no, poi si è risolto tutto... Io mi lamento, loro dicono che ho ragione, ma poi me lo fanno di nuovo. Le persone hanno bisogno di compagnia e condivisione quando stanno male, ma poi i momenti felici vogliono viverseli tutti da soli; mentre tu sei ancora lì che ti struggi per loro, loro si sono dimenticati di avvertirti che poi si è risolto tutto” (172).

Insomma, Piccolo, se non esistesse, bisognerebbe inventarlo.

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