domenica 12 giugno 2022

Saghe familiari - 12 giugno 2022

Dopo una settimana, dedicata ad una scrittura femminile “generica”, eccone una seconda in cui, invece, compare un’idea di fondo: la saga familiare, la storia delle vicende di una famiglia, anche attraverso generazioni e lunghi periodi. Come ci aveva abituato Stefania Auci, con una riuscita forse migliore. Qui, in realtà, si salva solo Agata Bazzi, non a caso con una storia siciliana. Mentre navigano nel limbo del vorrei avrei scritto meglio, Carla Maria Russo, Natasha Solomons e Ann-Marie Mac Donald. Decisamente inguardabile il romanzo di Romana Petri. Noi, intanto, ci si prepara a leggerne altre, di vicende lunghe anni ed anni.  

Agata Bazzi “La luce è là” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 14 euro 7,90

[A: 10/09/2020 – I: 16/01/2021 – T: 19/01/2021] - &&&     

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 365; anno 2019]

Cominciamo da questo recente scritto l’analisi della collana proposta dal Corriere della Sera in unione con il settimanale “Oggi”, ed intitolata “Saghe familiari”.

Come prima lettura direi che è completamente in linea con la scelta editoriale, ed anche gradevole in lettura. Non sicuramente avvincente come il libro della Auci sui Florio, ma di certo degno di una attenta lettura. Anche per la complessa genealogia da cui viene fuori. Che Agata è figlia di Giuliana Raja e Michele Bazzi, e Giuliana è figlia di Margherita Ahrens e Vincenzo Raja, e Margherita è figlia di Johanna Benjamin e Albert Ahrens. Albert che è il capostipite di questa famiglia di cui il libro narra la storia.

È un libro familiare, ma anche, ed è un suo merito, una fotografia di Palermo e dell’Italia lunga quasi ottanta anni. Un libro scandito poi da alcune date forti per la famiglia Ahrens. Il 1875, quando Albert arriva a Palermo. I venti anni a cavallo del secolo scorso, epoca della grandezza. Il 1919, quando, travolta da tristi vicende familiari, Albert lascia le industrie da lui fondate. Il 1934, iniziando le restrizioni per gli ebrei, la famiglia, ebrea e tedesca, comincia ad avere problemi. La morte di Albert nel 1938. La festa dei 100 anni di Johanna nel 1958.

Come potete capire già da queste date, è l’intreccio tra la famiglia e la Storia, l’altro elemento sempre presente, che Agata, pur con qualche frenata letteraria, riesce a rendere in maniera molto scorrevole. Introducendo diversi piani di scrittura. Ci sono interpunzioni del progredire nel tempo con brani presi dal diario che Albert cominciò a scrivere arrivato a Palermo. C’è una terza persona narrante che scandisce gli anni dal 1875 al 1900 (circa). C’è la voce narrante di Martha, figlia di Albert, che racconta in prima persona gli avvenimenti dal 1900 al 1958. C’è infine l’epilogo soggettivo di Agata che scandisce gli ultimi rivoli della grande storia.

Albert nasce poco dopo la metà dell’800 nella città di Varel nel nord della Germania, non distante da Brema. Avviato alla produzione ed al lavoro già quindicenne in seguito alla morte del padre, dopo alcune esperienze in varie situazioni lavorative, si trasferisce ventenne a Napoli presso un cugino. Albert è ebreo, ma non praticante; è bassino e non particolarmente bello, ma di pronta intelligenza. Nel 1875 decide di tentare la propria strada, aprendo un mercato nuovo ai mobili della famiglia impiantando una nuova sede a Palermo. Lì avrà il colpo di fulmine: per il clima, per il lavoro, per l’ambiente plurinazionale che in quegli anni, e fino alla Prima guerra mondiale, si respirava a Palermo, sotto la spinta industriale e ambientale della famiglia Florio. Tanto che sarà proprio con Ignazio che avrà il primo abboccamento, e la spinta per le sue imprese.

Ma Albert non poteva restare solo, aveva conosciuto, prima di partire, una forte donna ebrea, Johanna. Quando comincia ad avviare le sue attività, dopo molte lettere caute, le invia una formale richiesta di matrimonio. Cui Johanna risponderà con un telegramma di una sola parola: “Ja”. Da quel sì, cominceranno i giorni belli: l’arrivo a Palermo, il matrimonio, la nascita di otto figli: Robert, Erwin, Margherita, Berta, Alice, Marta, Olga e Vera.

All’inizio del ‘900 il registro della narrazione passa nella penna di Marta, menomata nell’udito, ma attenta e sempre presente. L’unica che non si sposerà. E con Marta seguiremo gli alti e bassi della famiglia. La morte di Robert nel famoso disastro ferroviario del 17 dicembre 1912. Il suicidio di Erwin mai ripresosi dalle brutture della guerra. Le diaspore delle figlie, alcune verso il Nord, sia Milano sia in Francia. Il doppio incrocio tra gli Ahrens e i Morello con il matrimonio tra due ragazze Ahrens e due ragazzi Morello. La storia tra Margherita e Vincenzo Raja, sindacalista e comunista. Insomma, tutto l’intreccio sociale e politico della famiglia.

In parallelo, vediamo anche Palermo che cresce di importanza fino agli anni ’20, con tutti gli impresari, soprattutto stranieri, ad investire nel Marsala. Poi la decadenza della città, con il crollo della dinastia dei Florio, la sciagurata reggenza del prefetto Mori, e tutte le vicende che hanno portato alla distruzione di gran parte della città, alla sua non ricostruzione ed al proliferare della presenza mafiosa sul territorio.

Infine, lungo tutta la storia, la costruzione della villa Ahrens, poco prima di quella che ora è lo ZEN. Villa di famiglia, poi venduto in seguito alle leggi razziali, ed ora ricostruita, risorta a nuova vita e sede della DIA. Come dice Agata, una fine che avrebbe fatto piacere ad Albert.

Non sempre la scrittura riesce a rendere tutta la complessità di una vicenda familiare e sociale che, seppur non di primissimo piano, è stata comunque presente e vitale per tanti e tanti anni a Palermo. Fa anche piacere sentire il legame solido che soprattutto Johanna (morta a 106 anni) è riuscita a costruire intorno a sé.

Personalmente, mi rimanda la sensazione della mia storia familiare, da quei capostipiti che furono nonno Cesare e nonna Bianca, fino a noi, un tempo 28 cugini, ora meno che qualcuno ci ha lasciato. Ma anche noi, pur nelle ovvie diversità, coesi nel fondo dei nostri cuori.

Romana Petri “Pranzi di famiglia” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 11 euro 7,90

[A: 22/09/2020 – I: 23/02/2021 – T: 26/02/2021] - & +     

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 414; anno 2019]

Un libro che ho faticato a leggere ed a comprendere. Ha anche degli spunti interessanti, tuttavia avrebbe avuto bisogno di una piccola prefazione, che ne spiegasse meglio le vicende narrate e desse qualche indicazione maggiore sull’autrice.

Perché innanzi tutto, il romanzo è la seconda (finale?) puntata di una più grande saga immaginata dalla scrittrice. Riprende ed approfondisce, infatti, i personaggi del suo precedente libro “Ovunque tu sia”. Si poteva quindi inquadrare i personaggi a partire da quel contesto, dove venivano narrate le vicende di Marta de Ceu (la madre) e di Ofelia e Margarida (le nonne). Che qui sono presenti un po’ come ombre. Anche se poi, proprio sulla madre si appuntano prima domande e poi rivelazioni che ne danno un quadro a tutto tondo. Ovvio, unendo i due scritti.

Qui, in realtà, seguiamo meglio la vicenda dei tre figli di Marta e Ceu, Rita, la primogenita, e Vasco e Juana, i gemelli. Nonché quelli di Tiago, il padre.

Ma prima di delineare altro della trama, è bene soffermarsi sull’altro punto di domanda che mi ha attanagliato per tutto il libro. Perché ambientarlo a Lisbona? E qui, sarebbero state d’aiuto note biografiche maggiori (che ho cercato e trovato solo a posteriori). Che Romana Petri è sì scrittrice, ma anche traduttrice, in special modo dal portoghese. Dividendo la sua vita tra Roma e Lisbona. Città dove ha incontrato l’amore in Diogo Madre Deus, ora suo marito. Con il quale ha anche fondato una piccola ma interessante casa editrice “Cavallo di ferro”.

Dicevo dunque che i personaggi principali sono tre (e mezzo).

Rita nata con una grave malformazione al volto, nonostante una serie di interventi chirurgici non riuscirà mai ad avere un viso piacente, una voce normale. Ne esce viva, ma segnata da tanta rabbia verso il mondo, che spesso esterna in sfuriate epocali. Non ha un buon rapporto, in fondo, con nessuna, e cerca (riuscendo infine) di vivere solitaria nella casa materna.

Juana, la gemella bellissima, mal sposata con l’insulso Nuno, votata a far figli per dare un senso alla propria vita. Ne avrà due (cui darà il nome dei genitori), ma entrerà in una depressione abissale. Perché il marito la tradisce, il padre la ignora, i figli la stressano, i fratelli non entreranno mai in una vera comunicazione con lei.

Vasco, il gemello maschio, il personaggio positivo della famiglia. Quello che si pone domande, che si chiede perché ha rimosso la sua infanzia. Ma anche quello che si riscatterà, incontrando l’amore nell’italiana Luciana. Una pittrice un po’ simpaticamente mattoide, più grande di lui, che gli dà la forza di uscire dalle secche familiari, magari per volere verso più sereni orizzonti italiani. Inciso: anche Romana è più grande di Diogo, ed anche loro si trasferiscono, in gran parte, in Italia, a Roma, e con un piede in Umbria (luogo natio del padre di Romana, il basso nonché attore cinematografica di film del genere “peplum” Mario Petri).

Il mezzo, che sempre presente ma agisce solo per riferite azioni, è il padre Tiago. Antipatico, supponente, che vuole imporre ai figli l’altrettanto antipatica sua seconda moglie. L’unica azione positiva, almeno come motore dell’azione romanzesca, è la sua volontà di vedere i figli ogni  domenica, in un pranzo che sarà poi quello che dà il titolo al romanzo, ed intorno a cui si dipana la vicenda narrativa.

Certo, ci si immerge nella cucina portoghese, soprattutto nel “bacalao”. Certo, seguiamo il percorso di Rita che ricostruisce i ricordi perduti della madre. Ma tutto è annegato in giri di frasi che si scontrano più che incontrarsi. Anche se Luciana riesce a portare quel soffio di italianità spensierata che farà finalmente fuggire la “saudade” lusitana.

Per tutto ciò, alla fine devo dire che non ho un buon ricordo di questo libro. Ora che ne ripasso il filo, tenendo solo l’essenziale, pare più corposo. Durante la lettura no, non vedevo l’ora di voltare pagina, per capirne il finale.

Un ultimo punto a favore, che porta quel segno di addizione nel giudizio è l’immancabile citazione delle “pastel de nata” mangiate a Belém. Lo fanno Vasco e Luciana. L’ho fatto anch’io, ma ne ricordo solo l’ultima volta.

“Quando si metteva a letto … leggeva anche se era stanco. Era convinto che una intera giornata senza un momento dedicato alla lettura fosse una giornata persa.” (234)

“Tolstoj mi ha insegnato che solo il corpo non mente mai, solo il corpo dice chi veramente siamo.” (370)

Carla Maria Russo “Una storia privata” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 10 euro 7,90

[A: 22/09/2020 – I: 19/03/2021 – T: 21/03/2021] - && e ½      

[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 347; anno 2019]

Carla Maria Russo nasce nel 1950 in Molise, ma vive da sempre a Milano, dove per anni ha insegnato italiano e latino in un liceo. Ha iniziato a scrivere nel 2005 imboccando la strada del romanzo storico, imbastando biografie, più o meno romanzato, dalla storia di Costanza d’Altavilla alle vicende storiche della famiglia Sforza. Per passare, raramente ma con efficacia, a romanzi d’ambientazione più recente. Con questo libro, uscito nella collana di “Saghe familiari” del Corriere della Sera fa un po’ un mix, tra biografia (il sottotitolo del libro è infatti “La saga dei Morando”) e romanzo di storia recente.

Il tessuto narrativo è ben formato, indice di una sapienza nel maneggiare la lingua, lasciandomi però con alcune insoddisfazioni. I soliti salti temporali, che non sempre trovo funzionali alle trame dove vengono utilizzati (a volte sono solo indice di voler tenere il lettore in uno stato di sospensione, di “trattenere il respiro”). Ma anche la chiusa, che, pur chiarendo ai protagonisti dei punti oscuri che noi si aveva chiari da lettori onniscienti, lascia alcuni attori della vicenda in un limbo narrativo dove ognuno immagina la fine che vuole. Talvolta è un modo per continuare nel lettore a pensare alla vicenda, tal altra è solo un indizio di non voler prendere partito.

Come detto, la storia si muove su due piani temporali: uno comincia nel 1932, muovendosi verso il presente, e narrando le vicende di Pietro Morando in terza persona; l’altro è un qui ed ora, narrato in prima persona da Emanuele, figlio di Pietro, l’intellettuale della famiglia, quello che non ha voluto un posto nell’impresa di costruzioni, ma fa l’editor poco pagato presso una casa editrice.

Nel presente vediamo Emanuele assistere alla morte del padre, e da quella, leggendo le carte dei segreti di famiglia, cerca di risalire a chi fosse realmente Pietro, come avesse vissuto, come avesse fatto fortuna, perché la bella Giulia stava accanto al padre, e chi è anche Giulia.

Intrecciando le carte di Emanuele, con la voce onnisciente, ricostruiamo allora la vita di Pietro, da quando stava in un basso nei Navigli, per poi passare alla casa di ringhiera di Corso San Gottardo (sono poche centinaia di metri, ma erano un mondo culturale). Lì Pietro, madre giovane ed esuberante, padre anziano e bigotto, incontra la famiglia Ronchi. Operai e comunisti, fin da subito impegnati nell’antifascismo. Come, così lo scoprirà Pietro, anche sua madre. Pietro diventa sodale di Giovanni ed Ettore, si innamora non ricambiato della loro sorella Lucia, entra in urto con l’arcigna zia Gina. Giovanni morirà in Spagna lasciando un figlio ed una futura sposa, che si unirà ad Ettore. Anche Lucia avrà un figlio, con il marito che verrà venduto ai fascisti dall’avida zia.

Ma se Pietro aveva cominciato su questa scia, quando scopre la madre in una situazione all’epoca compromettente, tramuta tutto il suo amore in odio. Verso la madre, che fugge con l’amante per darsi alla guerra partigiana. Verso i Ronchi cui, attraverso una frode ben congeniata, ruberà tutto il patrimonio, anche se per farlo dovrà cedere le armi verso la figlia di Gina.

Emanuele troverà, nella cassaforte del padre, anche le prove della sua affiliazione al fascismo, e, sconvolto, cercherà la verità nella madre e nei fratelli. Che non potrà che confermare quello che noi sappiamo. Cosà farà dopo? Ha messo in crisi il suo matrimonio, ha forse avviato una storia con Giulia, che però ha anche lei dei segreti dolorosi da percorrere.

Molto sapremo nel finale, anche se rimane in ombra il modo in cui Pietro riesca a passare indenne verso il dopoguerra. Certo, aveva sempre fatto il doppiogioco, ma qualche zona d’ombra rimane.

La Russo ci fa riflettere su come il passato pesi sempre sulle nostre storie, come il destino possa avere una forza dirompente. Ma sono riflessioni leggere che lasciano il passo alla disamina su quale sia il bene ed il male. A volte intrecciati da non poterli separare. Questo, almeno, nelle intenzioni della scrittrice. Io, con in mente le cose in cui credo, con il mio codice morale, non avrei dubbi, sulla condanna completa di Pietro e delle sue azioni.

Mi domando solo se il rischio di morire per le proprie idee possa, in persone normali come me, trovare modalità di espressione che ora non intravedo.

Quindi, certo, una bella cavalcata. Ma Pietro mi ha disgustato ed Emanuele deluso. Chi eleggere allora a proprio eroe?

Natasha Solomons “I Goldbaum” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 12 euro 7,90

[A: 01/09/2020 – I: 21/03/2021 – T: 23/03/2021] - && +     

[tit. or.: The House of Gold; ling. or.: inglese; pagine: 478; anno 2019]

Una discreta prova letteraria, anche senza troppi acuti. Si legge bene, anche perché Natasha sa di scrittura per due ordini di motivi. Anche il marito, David, scrive, quindi la casa nel Dorset è pervasa dall’afflato di libri. Natasha è dislessica, ed ha sempre utilizzato la scrittura per esprimersi e farsi comprendere. Infine, essendo comunque di discendenza ebraica, ecco che questa prova di scrittura sulle sorti di una facoltosa famiglia ebrea è facilmente comprensibile.

Diciamo subito, inoltre, che la falsariga della famiglia Goldbaum è la grande famiglia Rothschild, esimi banchieri sorti alla notorietà economica nella seconda metà del Settecento, entrati nella loro età dell’oro per tutto l’Ottocento, ed avendo il loro lento declino nello scorso secolo. Lento, che molti discendenti della famiglia sono tuttora in posizioni preminenti nella finanza mondiale. Nonché hanno posti d’onore in vari campi, uno fra tutti il vinicolo con la produzione d’eccellenza coltivata nel domaine Château Lafite Rothschild.

Facendo un passo indietro, e rimanendo sui Rothschild, per chi avesse meno memoria storica, il capostipite nel Settecento, dopo aver accumulato una discreta fortuna, decide di inviare i propri cinque figli in altrettante destinazioni, per sviluppare localmente le rispettive banche. Nascono così i rami tedesco, austriaco, francese, inglese e napoletano. Che mantengono le redini economiche locali, prosperando e non cedendo nulla all’esterno, continuando per tutto l’Ottocento a sposarsi fra cugini di secondo e terzo grado.

Questa è la linea guida che la scrittrice segue per lo sviluppo della sua trama, seguendo i Goldbaum-Rothschild per circa sei anni, dal 1911 al 1917. Il nucleo principale è il ramo austriaco, impersonato dal primogenito Otto e dalla sorella Greta. Otto prenderà le redini della banca viennese, mentre Greta andrà sposa ad Albert del ramo inglese. I londinesi sono guidati da Lord Goldbaum, il vecchio e conservatore capofamiglia, ed è composta dal primogenito Clement, interessato solo al cibo ed agli scacchi, e da Albert, entomologo nell’animo ma destinato a prendere le redini dell’azienda, visto che Clement non ha proprio la testa.

Tra le due famiglie, si inserisce anche il ramo francese con il cugino Henri, che vorrebbe rompere le tradizioni familiari e sposarsi fuori dalla cerchia, ma senza successo.

Vediamo Greta innestata come un ramo spurio nel mondo londinese, vediamo le difficoltà di capire le regole ferree della dinastia, il riservo, il ruolo della donna, la difficoltà di avere un contatto con il marito Albert.

Seguiamo il proseguire delle varie vicende, Greta che si dedica al giardinaggio, dove mostrerà capacità ed inventiva. Trovando anche il modo di far nascere l’amore nel loro matrimonio combinato. Ci sono tutti gli elementi per una descrizione del fatuo mondo degli impaccati di denaro. Ma c’è anche uno sguardo sul mondo reale. Ad esempio, quello del piccolo Karl, ragazzino abbandonato che si scopre ebreo e che diventerà l’attendente di Otto allo scoppio della guerra.

Greta farà due figli. Henri avrà un crollo nell’impossibile sviluppo del suo amore per Claire. Clement troverà pace nell’esilio svizzero insieme alla dolce e determinata Irina.

Ci sarà anche l’arrivo del mondo esterno, con lo scoppio della guerra, la difficoltà di mantenere i rami familiari coesi, laddove saranno su fronti opposti della guerra. Otto verrà preso prigioniero in Russia. Henri cadrà con l’aereo nel fronte tedesco. Albert, andato in America per sollecitare l’intervento degli americani nella guerra, subirà un nubifragio al ritorno in patria.

Non vi dico chi morirà, chi si salverà. Non è importante, anche se piacevole leggerne come in una fiction (e penso che se ne possa fare una bella serie).

La scrittura scorre, qualche elemento “di rottura” c’è (lo scontro tra Greta ed i nobili londinesi sui calzoni alle donne), ma il tutto non è molto più che una piacevole lettura di passaggio, poco più gradevole di una puntata di “Blue Bloods” e meno di una intera serie di Rocco Schiavone o di Màkari. Anche perché vengono solo accennati altri problemi fondamentali, come la situazione degli ebrei in Russia, ma soprattutto l’appoggio fondamentale della famiglia Rothschild alla costituzione dello stato ebraico. Non a caso erano anche sodali di Balfour, e destinatari della famosa dichiarazione, emessa, se guardiamo alle coincidenze, il 2 novembre 1917 (tre giorni prima dello scoppio della Rivoluzione russa). Ma questa, forse, è un’altra storia.

Ann-Marie MacDonald “Chiedi perdono” Corriere della Sera “Saghe Familiari” 5 euro 7,90

[A: 08/07/2020 – I: 07/06/2022 – T: 09/06/2022] - &&     

[tit. or.: Fall on Your Knees; ling. or.: inglese; pagine: 577; anno 1996]

Avrei aspettato tempi diversi per la lettura di questo libro, che non era ancora maturato nelle mie liste mentali come uno da leggere prioritariamente. Tuttavia, avendolo letto Ale, ed avendomene chiesto un giudizio, ed un confronto, ho avuto necessità di leggerlo subito. E di concordare con lei, che, certo, la scrittura è bella, capace e variata, ma non coinvolge, anzi, il modo di passare da un soggetto all’altro, nonché tutto un centinaio di pagine dedicate ad una scrittura diaristica, non ne facilitano la lettura.

Rimane anche freddo per le problematiche affrontate, che certo, partono da un punto che tuttavia è abbastanza remoto, una cittadina canadese sperduta, negli ultimi anni dell’Ottocento. Ed è certo che il modo di vivere di 130 anni fa, e di milioni di chilometri nello spazio, era, è diverso, non solo dall’attuale, ma anche dal corrispettivo nazionale italiano dell’epoca coeva.

Due parole preliminari. La prima sull’autrice, Ann-Marie Mac Donald, solo parzialmente scrittrice (in effetti ha firmato tre romanzi ed una pièce teatrale), ma ben presente nella scena dello spettacolo canadese: attrice, conduttrice televisiva, nonché bandiera dei movimenti di liberazione sessuale, insieme alla sua compagna Alisa.

La seconda sul titolo, che ci si chiede perché da inginocchiarsi passa a chiedere perdono. È ovvio che, generalmente, si chiede perdono in ginocchio. Meno ovvio che inginocchiarsi implichi direttamente chiedere perdono. Ma si sa, i titoli nelle traduzioni si permettono grandi libertà (ad esempio, in Francia è uscito con il titolo “Un profumo di cedro” o in Germania come “Ascolta le mie preghiere”).

Comunque, la scrittrice prende le mosse dalla sua terra, che, nata in Germania da un militare canadese ed una madre libanese, torna in patria e si installa nel territorio del New Brunswick, passando molto tempo a Cape Breton Island, dove ambienta questa storia. Una storia legata a quattro sorelle, più o meno, diverse e complementari tra loro, unite dalla presenza di un padre forte, ambizioso, ed a suo modo intelligente.

James Piper, in fatti, ha un buon orecchio musicale, si dedica ad accordare i pianoforti, così che lui diciottenne conosce Materia Mahmoud, una canado-libanese di tredici anni. Amore folle a prima vista, con James che si invaghisce della sua sposa-bambina. Dalla loro unione nasce Kathleen, carattere indipendente, dotata dell’orecchio musicale del ramo paterno, e di una voce deliziosa ed operistica. Anche notevolmente graziosa. Ricordo lei nasce il 1° gennaio 1900.

Nella prima parte assistiamo alla vita quasi idilliaca della famiglia Piper, anche se James, una volta cresciuta la moglie, sembra aver turbamenti verso la figlia. Così che, per distoglierne le mira, Materia continua a sfornare figli, vivi o morti. Vivranno solo le femmine, in particolare Mercedes, che si rivelerà una cattolica ossessiva, e farà sempre la parte di protettrice del gruppo familiare, e Frances, incorreggibilmente bugiarda, portata dalla sua natura a percorrere tutte le cattive strade per redimire qualche suo vero o presunto peccato infantile.

Kathleen viene mandata a New York a studiare canto per la sua carriera di Diva. Lì, attraverso il diario dell’ultima parte del libro, seguiamo la sua storia, il suo innamoramento per la negra Rose, dai tratti assai maschili. Saputolo, James la va a riprendere, succede qualcosa, e Kathleen torna a casa, dove si scopre incinta. Di due gemelli, che però crescono male così che al momento del parto, la madre levatrice, dovendo decidere chi salvare, salva i piccoli e Kathleen muore. Scoramento di James, con Frances, di sei anni, che tenta di battezzare i neonati nel fiume, facendone morire uno e ammalando di poliomielite l’altra. Così che Lily avrà sempre una gamba più corta. Materia, non resistendo a tutto quanto le sta avvenendo intorno, alla tenera età di 33 anni, si uccide con il gas del forno.

Seguiamo tante storie, soprattutto di Frances da quel momento in poi. Che forse, inconsciamente, cerca di punirsi delle malefatte inconsciamente perpetrate (e che nessuno la fece ragionare mai su questo). Ragazza perduta, ballerina provocante, forse donna di facili costumi, si innamora anche lei di una donna di colore, ma non sa fare il passo “vero”, e decide di farsi mettere incinta dal di lei fratello. Nasce, vivo o forse no, un altro piccolo Piper. Mercedes cresce e diventa insegnante, salvaguardando il padre, colpito da ictus, e Frances, chiusa in un suo mondo altro. Ma facendo in modo che la figlia di Kathleen, Lily, abbia soldi per fuggire dal Canada ed andare in America alla ricerca di Rose.

Tutto si chiuderà molti anni dopo, leggendo l’albero genealogico disegnato da Mercedes, dal quale anche noi, se non lo abbiamo già fatto, capiremo tutti i legami della lunga ed intrecciata storia.

Come detto, una trama complicata non sorretta da una scrittura adeguata, anche se capisco come 25 anni fa possa non solo aver fatto scalpore, ma essere balzato agli onori di classifiche e premi. Non è che non sia una bella saga familiare, e che non è riuscita a coinvolgermi.

Solo una cosa, molto familiare, mi rimane, che quando si pubblica l’annuncio della morte di Frances Piper, scopre che muore il 25 aprile 1953, lo stesso giorno di nonno Arduino Fanuele, il suocero di mia zia Loriana, che viene ricordato nelle memorie familiari in quanto si voleva che il primo bimbo nato dopo quella morte ne prendesse il nome. Pericolo scampato da me per l’opposizione ferma ed irremovibile di mio padre.

Come forse ho già detto, per ora ho terminato l’esame delle letture “libropatiche” e “felicioferenti”, che riprenderanno se e quando si avranno nuovi elementi. Continuiamo quindi ad allegare le trame citazionali di diverse mezze dozzine di anni fa.

Al solito, mentre si aspetta una gestione viaggiosamente serena, si addensano sempre nubi cariche di pioggia all’orizzonte. Di certo chi mi sta vicino da tanto tempo, mi aiuterà anche qui a risolvere le ingarbugliate trame. E, altrettanto certamente, tutti voi, quando serve, continuerete a farlo, ed io ad abbracciarvi.

Citazioni dagli appunti di Giovanni

Citazioni di giugno – primo

Siamo ormai al 2010, e recuperiamo alcune memorie dei primi mesi di un anno che fu molto importante (ma ne parleremo a suo tempo).

Intanto, all’inizio di febbraio, sodalmente al compleanno del mio amico Emilio, leggevo e commentavo il libro “A un cerbiatto somiglia il mio amore” di David Grossman. Dove in effetti c’erano diversi livelli di frasi da ricordare. Le prime riguardavano l’amore. Con delle frasi che lui dice a lei: “Forse è questo che rimpiango: non aver provato amore per una donna. Non averne incontrata una che fosse un’ancora per me, alla quale poter dare tutto me stesso” (570) e “Lei gli chiedeva tanto poco, e nemmeno quello riuscivo a darle” (586). Ed altre che lei rivolgeva a lui: “Sei proprio un coglione, giochi con i sentimenti degli altri, ecco quello che fai” (65) e “Non mi hai mai detto… che mi ami. Una ragazza ha bisogno di sentirselo dire... Ma tu sei avaro, al massimo dici ‘amo il tuo corpo’, ‘mi piace stare con te’, ‘mi piace il tuo sedere’” (584-5).

C’era poi una frase che mi colpì perché ero sempre stato in dubbio su come si facesse realmente a scegliere: “Non capisco come si può scegliere il nome a un figlio, prendere una decisione tanto cruciale…” (408). Infine, si ragionava sullo scrivere: “Davvero, chi immaginava che facesse così bene scrivere?” (372) e sull’analisi di quello che ci succede: “ricordati soltanto che a volte una cattiva notizia non è che una buona noti-zia che è stata fraintesa, e ricordati anche che quella che era una cattiva notizia, può tramutarsi in buona col tempo, forse la migliore” (401).

Una settimana dopo invece, e subito dopo il compleanno della mia amica Rosa, passavo ad una delle scrittrici del mio pantheon personale, Alicia Gimenez-Bartlett che sottolineava, per la sua Petra, alcuni fatti caratteriali di base in “Il silenzio dei chiostri”. Diceva infatti, nella prima parte del libro, quella che serve ad introdurre l’azione vera e propria: “il fatto è che non so essere riconoscente quando gli altri si occupano di me” (63) e “il fatto è che l’amore può trasformare il carattere di un uomo, perfino la sua vita, ma si rivela del tutto inefficace contro le miserie quotidiane” (95).

Passa un’altra settimana, si avvicina un compleanno esimio, rotondo per il mio amico Luciano, e dedicai quelle trame ad un trio di autori sbilenco. Due che amavo ed amo, uno cui non sono ancora entrato in sintonia.

Il primo è il grande scozzese Alexander McCall Smith in uno dei libri dedicati alla sua creatura Isabelle e a “Il club dei filosofi dilettanti”. Dove tanti, proprio come dice il titolo, sono gli spunti morali: “So che non dovrei parlarti così, perché non bisognerebbe dire agli altri cosa devono fare” (23); “Chi è più felice: chi è consapevole e ha dei dubbi o chi è sicuro delle sue certezze e non le mette mai in discussione?” (57); “Non ricordo quando è diventato normale che i politici mentano. … è iniziato con Nixon … poi la moda è arrivata di qua dell’Atlantico e hanno iniziato anche i nostri. … Adesso è la norma” (68) [ed ora, dopo più di dieci anni è peggio]; “L’educazione consiste nel prestare attenzione agli altri: bisogna trattarli con serietà e correttezza, comprenderne i sentimenti e i bisogni. Gli egoisti tendono a non comportarsi così, e si vede. Sono impazienti con quelli che ritengono contino poco… Chi è educato presta attenzione a tutti” (152-3).

Ma non mancano le riflessioni sul rapporto tra i sessi: “A volte … trovava stupefacente il fatto di essere stata così attratta da lui. … ‘è il sesso’ [le diceva] una delle amiche di Isabel ‘fa stare insieme la gente più diversa’” (49); “Le persone che amiamo non ci mettono mai in imbarazzo” (51); “Di solito agli uomini non piace sapere che una donna li trova attraenti… è un’informazione fastidiosa che li mette a disagio. Ecco perché gli uomini scappano dalle donne che li inseguono” (230).

Sarà stato il momento difficile (era il secondo anniversario della morte di papà), ma mi veniva anche a fagiolo la seguente frase: “[Ci] sono quei giorni in cui vuoi rannicchiarti su te stessa e far sparire il mondo” (184).

La seconda è dovuta alla bella penna di Margherita Oggero che in “Qualcosa da tenere per sé” riesce a farci una bella fotografia di Torino nelle diverse stagioni: “L’inverno, se si ha un tetto sulla testa, è la stagione più bella di Torino. Quella in cui i colori hanno una nettezza nordica e gli spazi delle piazze diventano percepibili nella loro grandezza; quella in cui l’ombra fredda sotto i portici divide il selciato in parti che non comunicano tra loro, appartenenti a spaccati diversi di una scenografia monumentale e fantastica. L’estate invece è una stagione estranea che fa affondare la città in una mollezza orientale … con le strade quasi deserte e le serrande dei negozi abbassate come palpebre su occhi sonnacchiosi, con le alberate dei viali – tigli siliquastri ippocastani aceri platani – stremate dal peso delle foglie immobili nella calura. Il sole che picchia duro fa incassare le teste tra le spalle e nessuno alza lo sguardo…” (9-10).

Infine, l’autore che non ho ancora affrontato a dovere, anche se so che a molti piace incondizionatamente. Parlo di Joe R. Lansdale. Che riesce, nel suo “Una stagione selvaggia” a tirar fuori tre frasi soggettivamente stupende: “Andai a vedere come stava venendo il suo lavoro di falegnameria… Stava lavorando un po’ alla volta, e come sempre in quel genere di cose, la sua abilità era impressionante. Io non ero capace di mettere un preservativo senza istruzioni, e comunque l’avrei anche potuto infilare al contrario” (22); “[ho fatto l’amore con..] … – Non è quello che volevo sentire. – È la verità. – A volte è meglio una piccola bugia innocente.” (90); “Mio padre mi diceva sempre che se hai paura di qualcosa l’unica cosa da fare è affrontarla faccia a faccia. In questo modo ti risparmi un sacco di notti insonni” (116).

Come avrete capito dal testo di riferimento delle trame, intensifico per ora queste citazioni, per cui ne centellino l’uscita, fermandomi ad aspettare la prossima occasione.

 

 

 

 

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