Dopo una settimana, dedicata ad una scrittura femminile “generica”, eccone una seconda in cui, invece, compare un’idea di fondo: la saga familiare, la storia delle vicende di una famiglia, anche attraverso generazioni e lunghi periodi. Come ci aveva abituato Stefania Auci, con una riuscita forse migliore. Qui, in realtà, si salva solo Agata Bazzi, non a caso con una storia siciliana. Mentre navigano nel limbo del vorrei avrei scritto meglio, Carla Maria Russo, Natasha Solomons e Ann-Marie Mac Donald. Decisamente inguardabile il romanzo di Romana Petri. Noi, intanto, ci si prepara a leggerne altre, di vicende lunghe anni ed anni.
Agata Bazzi “La luce è là” Corriere della
Sera “Saghe Familiari” 14 euro 7,90
[A: 10/09/2020 – I: 16/01/2021 – T: 19/01/2021]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 365; anno 2019]
Cominciamo da questo recente scritto
l’analisi della collana proposta dal Corriere della Sera in unione con il settimanale
“Oggi”, ed intitolata “Saghe familiari”.
Come prima lettura direi che è completamente
in linea con la scelta editoriale, ed anche gradevole in lettura. Non sicuramente
avvincente come il libro della Auci sui Florio, ma di certo degno di una
attenta lettura. Anche per la complessa genealogia da cui viene fuori. Che
Agata è figlia di Giuliana Raja e Michele Bazzi, e Giuliana è figlia di Margherita
Ahrens e Vincenzo Raja, e Margherita è figlia di Johanna Benjamin e Albert
Ahrens. Albert che è il capostipite di questa famiglia di cui il libro narra la
storia.
È un libro familiare, ma anche, ed è un suo
merito, una fotografia di Palermo e dell’Italia lunga quasi ottanta anni. Un
libro scandito poi da alcune date forti per la famiglia Ahrens. Il 1875, quando
Albert arriva a Palermo. I venti anni a cavallo del secolo scorso, epoca della
grandezza. Il 1919, quando, travolta da tristi vicende familiari, Albert lascia
le industrie da lui fondate. Il 1934, iniziando le restrizioni per gli ebrei,
la famiglia, ebrea e tedesca, comincia ad avere problemi. La morte di Albert
nel 1938. La festa dei 100 anni di Johanna nel 1958.
Come potete capire già da queste date, è
l’intreccio tra la famiglia e la Storia, l’altro elemento sempre presente, che
Agata, pur con qualche frenata letteraria, riesce a rendere in maniera molto
scorrevole. Introducendo diversi piani di scrittura. Ci sono interpunzioni del
progredire nel tempo con brani presi dal diario che Albert cominciò a scrivere
arrivato a Palermo. C’è una terza persona narrante che scandisce gli anni dal
1875 al 1900 (circa). C’è la voce narrante di Martha, figlia di Albert, che
racconta in prima persona gli avvenimenti dal 1900 al 1958. C’è infine
l’epilogo soggettivo di Agata che scandisce gli ultimi rivoli della grande
storia.
Albert nasce poco dopo la metà dell’800
nella città di Varel nel nord della Germania, non distante da Brema. Avviato
alla produzione ed al lavoro già quindicenne in seguito alla morte del padre,
dopo alcune esperienze in varie situazioni lavorative, si trasferisce ventenne
a Napoli presso un cugino. Albert è ebreo, ma non praticante; è bassino e non
particolarmente bello, ma di pronta intelligenza. Nel 1875 decide di tentare la
propria strada, aprendo un mercato nuovo ai mobili della famiglia impiantando
una nuova sede a Palermo. Lì avrà il colpo di fulmine: per il clima, per il
lavoro, per l’ambiente plurinazionale che in quegli anni, e fino alla Prima
guerra mondiale, si respirava a Palermo, sotto la spinta industriale e
ambientale della famiglia Florio. Tanto che sarà proprio con Ignazio che avrà
il primo abboccamento, e la spinta per le sue imprese.
Ma Albert non poteva restare solo, aveva
conosciuto, prima di partire, una forte donna ebrea, Johanna. Quando comincia
ad avviare le sue attività, dopo molte lettere caute, le invia una formale
richiesta di matrimonio. Cui Johanna risponderà con un telegramma di una sola
parola: “Ja”. Da quel sì, cominceranno i giorni belli: l’arrivo a Palermo, il
matrimonio, la nascita di otto figli: Robert, Erwin, Margherita, Berta, Alice,
Marta, Olga e Vera.
All’inizio del ‘900 il registro della
narrazione passa nella penna di Marta, menomata nell’udito, ma attenta e sempre
presente. L’unica che non si sposerà. E con Marta seguiremo gli alti e bassi
della famiglia. La morte di Robert nel famoso disastro ferroviario del 17
dicembre 1912. Il suicidio di Erwin mai ripresosi dalle brutture della guerra.
Le diaspore delle figlie, alcune verso il Nord, sia Milano sia in Francia. Il
doppio incrocio tra gli Ahrens e i Morello con il matrimonio tra due ragazze
Ahrens e due ragazzi Morello. La storia tra Margherita e Vincenzo Raja,
sindacalista e comunista. Insomma, tutto l’intreccio sociale e politico della
famiglia.
In parallelo, vediamo anche Palermo che
cresce di importanza fino agli anni ’20, con tutti gli impresari, soprattutto
stranieri, ad investire nel Marsala. Poi la decadenza della città, con il
crollo della dinastia dei Florio, la sciagurata reggenza del prefetto Mori, e
tutte le vicende che hanno portato alla distruzione di gran parte della città,
alla sua non ricostruzione ed al proliferare della presenza mafiosa sul
territorio.
Infine, lungo tutta la storia, la
costruzione della villa Ahrens, poco prima di quella che ora è lo ZEN. Villa di
famiglia, poi venduto in seguito alle leggi razziali, ed ora ricostruita,
risorta a nuova vita e sede della DIA. Come dice Agata, una fine che avrebbe
fatto piacere ad Albert.
Non sempre la scrittura riesce a rendere
tutta la complessità di una vicenda familiare e sociale che, seppur non di
primissimo piano, è stata comunque presente e vitale per tanti e tanti anni a
Palermo. Fa anche piacere sentire il legame solido che soprattutto Johanna
(morta a 106 anni) è riuscita a costruire intorno a sé.
Personalmente, mi rimanda la sensazione
della mia storia familiare, da quei capostipiti che furono nonno Cesare e nonna
Bianca, fino a noi, un tempo 28 cugini, ora meno che qualcuno ci ha lasciato.
Ma anche noi, pur nelle ovvie diversità, coesi nel fondo dei nostri cuori.
Romana Petri “Pranzi di famiglia” Corriere
della Sera “Saghe Familiari” 11 euro 7,90
[A: 22/09/2020 – I: 23/02/2021 – T: 26/02/2021]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 414; anno 2019]
Un libro che ho faticato a leggere ed a comprendere.
Ha anche degli spunti interessanti, tuttavia avrebbe avuto bisogno di una
piccola prefazione, che ne spiegasse meglio le vicende narrate e desse qualche
indicazione maggiore sull’autrice.
Perché innanzi tutto, il romanzo è la
seconda (finale?) puntata di una più grande saga immaginata dalla scrittrice.
Riprende ed approfondisce, infatti, i personaggi del suo precedente libro
“Ovunque tu sia”. Si poteva quindi inquadrare i personaggi a partire da quel
contesto, dove venivano narrate le vicende di Marta de Ceu (la madre) e di
Ofelia e Margarida (le nonne). Che qui sono presenti un po’ come ombre. Anche
se poi, proprio sulla madre si appuntano prima domande e poi rivelazioni che ne
danno un quadro a tutto tondo. Ovvio, unendo i due scritti.
Qui, in realtà, seguiamo meglio la vicenda
dei tre figli di Marta e Ceu, Rita, la primogenita, e Vasco e Juana, i gemelli.
Nonché quelli di Tiago, il padre.
Ma prima di delineare altro della trama, è
bene soffermarsi sull’altro punto di domanda che mi ha attanagliato per tutto
il libro. Perché ambientarlo a Lisbona? E qui, sarebbero state d’aiuto note
biografiche maggiori (che ho cercato e trovato solo a posteriori). Che Romana
Petri è sì scrittrice, ma anche traduttrice, in special modo dal portoghese.
Dividendo la sua vita tra Roma e Lisbona. Città dove ha incontrato l’amore in
Diogo Madre Deus, ora suo marito. Con il quale ha anche fondato una piccola ma
interessante casa editrice “Cavallo di ferro”.
Dicevo dunque che i personaggi principali
sono tre (e mezzo).
Rita nata con una grave malformazione al
volto, nonostante una serie di interventi chirurgici non riuscirà mai ad avere
un viso piacente, una voce normale. Ne esce viva, ma segnata da tanta rabbia
verso il mondo, che spesso esterna in sfuriate epocali. Non ha un buon
rapporto, in fondo, con nessuna, e cerca (riuscendo infine) di vivere solitaria
nella casa materna.
Juana, la gemella bellissima, mal sposata
con l’insulso Nuno, votata a far figli per dare un senso alla propria vita. Ne
avrà due (cui darà il nome dei genitori), ma entrerà in una depressione
abissale. Perché il marito la tradisce, il padre la ignora, i figli la
stressano, i fratelli non entreranno mai in una vera comunicazione con lei.
Vasco, il gemello maschio, il personaggio
positivo della famiglia. Quello che si pone domande, che si chiede perché ha
rimosso la sua infanzia. Ma anche quello che si riscatterà, incontrando l’amore
nell’italiana Luciana. Una pittrice un po’ simpaticamente mattoide, più grande
di lui, che gli dà la forza di uscire dalle secche familiari, magari per volere
verso più sereni orizzonti italiani. Inciso: anche Romana è più grande di
Diogo, ed anche loro si trasferiscono, in gran parte, in Italia, a Roma, e con
un piede in Umbria (luogo natio del padre di Romana, il basso nonché attore
cinematografica di film del genere “peplum” Mario Petri).
Il mezzo, che sempre presente ma agisce solo
per riferite azioni, è il padre Tiago. Antipatico, supponente, che vuole
imporre ai figli l’altrettanto antipatica sua seconda moglie. L’unica azione
positiva, almeno come motore dell’azione romanzesca, è la sua volontà di vedere
i figli ogni domenica, in un pranzo che
sarà poi quello che dà il titolo al romanzo, ed intorno a cui si dipana la
vicenda narrativa.
Certo, ci si immerge nella cucina
portoghese, soprattutto nel “bacalao”. Certo, seguiamo il percorso di Rita che
ricostruisce i ricordi perduti della madre. Ma tutto è annegato in giri di
frasi che si scontrano più che incontrarsi. Anche se Luciana riesce a portare
quel soffio di italianità spensierata che farà finalmente fuggire la “saudade”
lusitana.
Per tutto ciò, alla fine devo dire che non
ho un buon ricordo di questo libro. Ora che ne ripasso il filo, tenendo solo
l’essenziale, pare più corposo. Durante la lettura no, non vedevo l’ora di
voltare pagina, per capirne il finale.
Un ultimo punto a favore, che porta quel
segno di addizione nel giudizio è l’immancabile citazione delle “pastel de
nata” mangiate a Belém. Lo fanno Vasco e Luciana. L’ho fatto anch’io, ma ne
ricordo solo l’ultima volta.
“Quando si metteva a letto … leggeva
anche se era stanco. Era convinto che una intera giornata senza un momento
dedicato alla lettura fosse una giornata persa.” (234)
“Tolstoj mi ha insegnato che solo il
corpo non mente mai, solo il corpo dice chi veramente siamo.” (370)
Carla Maria Russo “Una storia privata”
Corriere della Sera “Saghe Familiari” 10 euro 7,90
[A: 22/09/2020 – I: 19/03/2021 – T: 21/03/2021]
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[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 347; anno 2019]
Carla Maria Russo
nasce nel 1950 in Molise, ma vive da sempre a Milano, dove per anni ha
insegnato italiano e latino in un liceo. Ha iniziato a scrivere nel 2005
imboccando la strada del romanzo storico, imbastando biografie, più o meno
romanzato, dalla storia di Costanza d’Altavilla alle vicende storiche della
famiglia Sforza. Per passare, raramente ma con efficacia, a romanzi
d’ambientazione più recente. Con questo libro, uscito nella collana di “Saghe
familiari” del Corriere della Sera fa un po’ un mix, tra biografia (il
sottotitolo del libro è infatti “La saga dei Morando”) e romanzo di storia
recente.
Il tessuto narrativo è ben formato, indice
di una sapienza nel maneggiare la lingua, lasciandomi però con alcune
insoddisfazioni. I soliti salti temporali, che non sempre trovo funzionali alle
trame dove vengono utilizzati (a volte sono solo indice di voler tenere il
lettore in uno stato di sospensione, di “trattenere il respiro”). Ma anche la
chiusa, che, pur chiarendo ai protagonisti dei punti oscuri che noi si aveva chiari
da lettori onniscienti, lascia alcuni attori della vicenda in un limbo
narrativo dove ognuno immagina la fine che vuole. Talvolta è un modo per
continuare nel lettore a pensare alla vicenda, tal altra è solo un indizio di
non voler prendere partito.
Come detto, la storia si muove su due piani
temporali: uno comincia nel 1932, muovendosi verso il presente, e narrando le
vicende di Pietro Morando in terza persona; l’altro è un qui ed ora, narrato in
prima persona da Emanuele, figlio di Pietro, l’intellettuale della famiglia,
quello che non ha voluto un posto nell’impresa di costruzioni, ma fa l’editor
poco pagato presso una casa editrice.
Nel presente vediamo Emanuele assistere alla
morte del padre, e da quella, leggendo le carte dei segreti di famiglia, cerca
di risalire a chi fosse realmente Pietro, come avesse vissuto, come avesse
fatto fortuna, perché la bella Giulia stava accanto al padre, e chi è anche
Giulia.
Intrecciando le carte di Emanuele, con la
voce onnisciente, ricostruiamo allora la vita di Pietro, da quando stava in un
basso nei Navigli, per poi passare alla casa di ringhiera di Corso San Gottardo
(sono poche centinaia di metri, ma erano un mondo culturale). Lì Pietro, madre
giovane ed esuberante, padre anziano e bigotto, incontra la famiglia Ronchi.
Operai e comunisti, fin da subito impegnati nell’antifascismo. Come, così lo
scoprirà Pietro, anche sua madre. Pietro diventa sodale di Giovanni ed Ettore,
si innamora non ricambiato della loro sorella Lucia, entra in urto con
l’arcigna zia Gina. Giovanni morirà in Spagna lasciando un figlio ed una futura
sposa, che si unirà ad Ettore. Anche Lucia avrà un figlio, con il marito che
verrà venduto ai fascisti dall’avida zia.
Ma se Pietro aveva cominciato su questa
scia, quando scopre la madre in una situazione all’epoca compromettente,
tramuta tutto il suo amore in odio. Verso la madre, che fugge con l’amante per
darsi alla guerra partigiana. Verso i Ronchi cui, attraverso una frode ben
congeniata, ruberà tutto il patrimonio, anche se per farlo dovrà cedere le armi
verso la figlia di Gina.
Emanuele troverà, nella cassaforte del
padre, anche le prove della sua affiliazione al fascismo, e, sconvolto,
cercherà la verità nella madre e nei fratelli. Che non potrà che confermare
quello che noi sappiamo. Cosà farà dopo? Ha messo in crisi il suo matrimonio,
ha forse avviato una storia con Giulia, che però ha anche lei dei segreti
dolorosi da percorrere.
Molto sapremo nel finale, anche se rimane in
ombra il modo in cui Pietro riesca a passare indenne verso il dopoguerra.
Certo, aveva sempre fatto il doppiogioco, ma qualche zona d’ombra rimane.
La Russo ci fa riflettere su come il passato
pesi sempre sulle nostre storie, come il destino possa avere una forza
dirompente. Ma sono riflessioni leggere che lasciano il passo alla disamina su
quale sia il bene ed il male. A volte intrecciati da non poterli separare.
Questo, almeno, nelle intenzioni della scrittrice. Io, con in mente le cose in
cui credo, con il mio codice morale, non avrei dubbi, sulla condanna completa
di Pietro e delle sue azioni.
Mi domando solo se il rischio di morire per
le proprie idee possa, in persone normali come me, trovare modalità di
espressione che ora non intravedo.
Quindi, certo, una bella cavalcata. Ma
Pietro mi ha disgustato ed Emanuele deluso. Chi eleggere allora a proprio eroe?
Natasha Solomons “I Goldbaum” Corriere
della Sera “Saghe Familiari” 12 euro 7,90
[A: 01/09/2020 – I: 21/03/2021 – T: 23/03/2021] - && +
[tit. or.: The House of Gold; ling. or.: inglese; pagine: 478; anno 2019]
Una
discreta prova letteraria, anche senza troppi acuti. Si legge bene, anche
perché Natasha sa di scrittura per due ordini di motivi. Anche il marito,
David, scrive, quindi la casa nel Dorset è pervasa dall’afflato di libri.
Natasha è dislessica, ed ha sempre utilizzato la scrittura per esprimersi e
farsi comprendere. Infine, essendo comunque di discendenza ebraica, ecco che
questa prova di scrittura sulle sorti di una facoltosa famiglia ebrea è
facilmente comprensibile.
Diciamo
subito, inoltre, che la falsariga della famiglia Goldbaum è la grande famiglia
Rothschild, esimi banchieri sorti alla notorietà economica nella seconda metà
del Settecento, entrati nella loro età dell’oro per tutto l’Ottocento, ed
avendo il loro lento declino nello scorso secolo. Lento, che molti discendenti
della famiglia sono tuttora in posizioni preminenti nella finanza mondiale.
Nonché hanno posti d’onore in vari campi, uno fra tutti il vinicolo con la
produzione d’eccellenza coltivata nel domaine Château Lafite Rothschild.
Facendo
un passo indietro, e rimanendo sui Rothschild, per chi avesse meno memoria
storica, il capostipite nel Settecento, dopo aver accumulato una discreta
fortuna, decide di inviare i propri cinque figli in altrettante destinazioni,
per sviluppare localmente le rispettive banche. Nascono così i rami tedesco,
austriaco, francese, inglese e napoletano. Che mantengono le redini economiche
locali, prosperando e non cedendo nulla all’esterno, continuando per tutto
l’Ottocento a sposarsi fra cugini di secondo e terzo grado.
Questa
è la linea guida che la scrittrice segue per lo sviluppo della sua trama,
seguendo i Goldbaum-Rothschild per circa sei anni, dal 1911 al 1917. Il nucleo
principale è il ramo austriaco, impersonato dal primogenito Otto e dalla
sorella Greta. Otto prenderà le redini della banca viennese, mentre Greta andrà
sposa ad Albert del ramo inglese. I londinesi sono guidati da Lord Goldbaum, il
vecchio e conservatore capofamiglia, ed è composta dal primogenito Clement,
interessato solo al cibo ed agli scacchi, e da Albert, entomologo nell’animo ma
destinato a prendere le redini dell’azienda, visto che Clement non ha proprio
la testa.
Tra
le due famiglie, si inserisce anche il ramo francese con il cugino Henri, che
vorrebbe rompere le tradizioni familiari e sposarsi fuori dalla cerchia, ma
senza successo.
Vediamo
Greta innestata come un ramo spurio nel mondo londinese, vediamo le difficoltà
di capire le regole ferree della dinastia, il riservo, il ruolo della donna, la
difficoltà di avere un contatto con il marito Albert.
Seguiamo
il proseguire delle varie vicende, Greta che si dedica al giardinaggio, dove
mostrerà capacità ed inventiva. Trovando anche il modo di far nascere l’amore
nel loro matrimonio combinato. Ci sono tutti gli elementi per una descrizione
del fatuo mondo degli impaccati di denaro. Ma c’è anche uno sguardo sul mondo
reale. Ad esempio, quello del piccolo Karl, ragazzino abbandonato che si scopre
ebreo e che diventerà l’attendente di Otto allo scoppio della guerra.
Greta
farà due figli. Henri avrà un crollo nell’impossibile sviluppo del suo amore
per Claire. Clement troverà pace nell’esilio svizzero insieme alla dolce e
determinata Irina.
Ci
sarà anche l’arrivo del mondo esterno, con lo scoppio della guerra, la
difficoltà di mantenere i rami familiari coesi, laddove saranno su fronti
opposti della guerra. Otto verrà preso prigioniero in Russia. Henri cadrà con
l’aereo nel fronte tedesco. Albert, andato in America per sollecitare
l’intervento degli americani nella guerra, subirà un nubifragio al ritorno in patria.
Non
vi dico chi morirà, chi si salverà. Non è importante, anche se piacevole
leggerne come in una fiction (e penso che se ne possa fare una bella serie).
La
scrittura scorre, qualche elemento “di rottura” c’è (lo scontro tra Greta ed i
nobili londinesi sui calzoni alle donne), ma il tutto non è molto più che una
piacevole lettura di passaggio, poco più gradevole di una puntata di “Blue
Bloods” e meno di una intera serie di Rocco Schiavone o di Màkari. Anche perché
vengono solo accennati altri problemi fondamentali, come la situazione degli
ebrei in Russia, ma soprattutto l’appoggio fondamentale della famiglia
Rothschild alla costituzione dello stato ebraico. Non a caso erano anche sodali
di Balfour, e destinatari della famosa dichiarazione, emessa, se guardiamo alle
coincidenze, il 2 novembre 1917 (tre giorni prima dello scoppio della
Rivoluzione russa). Ma questa, forse, è un’altra storia.
Ann-Marie MacDonald “Chiedi perdono”
Corriere della Sera “Saghe Familiari” 5 euro 7,90
[A: 08/07/2020 – I: 07/06/2022 – T: 09/06/2022] - &&
[tit. or.: Fall on Your Knees; ling. or.: inglese; pagine: 577; anno 1996]
Avrei
aspettato tempi diversi per la lettura di questo libro, che non era ancora
maturato nelle mie liste mentali come uno da leggere prioritariamente.
Tuttavia, avendolo letto Ale, ed avendomene chiesto un giudizio, ed un
confronto, ho avuto necessità di leggerlo subito. E di concordare con lei, che,
certo, la scrittura è bella, capace e variata, ma non coinvolge, anzi, il modo
di passare da un soggetto all’altro, nonché tutto un centinaio di pagine
dedicate ad una scrittura diaristica, non ne facilitano la lettura.
Rimane
anche freddo per le problematiche affrontate, che certo, partono da un punto
che tuttavia è abbastanza remoto, una cittadina canadese sperduta, negli ultimi
anni dell’Ottocento. Ed è certo che il modo di vivere di 130 anni fa, e di
milioni di chilometri nello spazio, era, è diverso, non solo dall’attuale, ma
anche dal corrispettivo nazionale italiano dell’epoca coeva.
Due
parole preliminari. La prima sull’autrice, Ann-Marie Mac Donald, solo
parzialmente scrittrice (in effetti ha firmato tre romanzi ed una pièce
teatrale), ma ben presente nella scena dello spettacolo canadese: attrice,
conduttrice televisiva, nonché bandiera dei movimenti di liberazione sessuale,
insieme alla sua compagna Alisa.
La
seconda sul titolo, che ci si chiede perché da inginocchiarsi passa a chiedere
perdono. È ovvio che, generalmente, si chiede perdono in ginocchio. Meno ovvio
che inginocchiarsi implichi direttamente chiedere perdono. Ma si sa, i titoli
nelle traduzioni si permettono grandi libertà (ad esempio, in Francia è uscito
con il titolo “Un profumo di cedro” o in Germania come “Ascolta le mie
preghiere”).
Comunque,
la scrittrice prende le mosse dalla sua terra, che, nata in Germania da un
militare canadese ed una madre libanese, torna in patria e si installa nel
territorio del New Brunswick, passando molto tempo a Cape Breton Island, dove
ambienta questa storia. Una storia legata a quattro sorelle, più o meno,
diverse e complementari tra loro, unite dalla presenza di un padre forte,
ambizioso, ed a suo modo intelligente.
James
Piper, in fatti, ha un buon orecchio musicale, si dedica ad accordare i
pianoforti, così che lui diciottenne conosce Materia Mahmoud, una
canado-libanese di tredici anni. Amore folle a prima vista, con James che si
invaghisce della sua sposa-bambina. Dalla loro unione nasce Kathleen, carattere
indipendente, dotata dell’orecchio musicale del ramo paterno, e di una voce
deliziosa ed operistica. Anche notevolmente graziosa. Ricordo lei nasce il 1°
gennaio 1900.
Nella
prima parte assistiamo alla vita quasi idilliaca della famiglia Piper, anche se
James, una volta cresciuta la moglie, sembra aver turbamenti verso la figlia.
Così che, per distoglierne le mira, Materia continua a sfornare figli, vivi o
morti. Vivranno solo le femmine, in particolare Mercedes, che si rivelerà una
cattolica ossessiva, e farà sempre la parte di protettrice del gruppo
familiare, e Frances, incorreggibilmente bugiarda, portata dalla sua natura a
percorrere tutte le cattive strade per redimire qualche suo vero o presunto
peccato infantile.
Kathleen
viene mandata a New York a studiare canto per la sua carriera di Diva. Lì,
attraverso il diario dell’ultima parte del libro, seguiamo la sua storia, il
suo innamoramento per la negra Rose, dai tratti assai maschili. Saputolo, James
la va a riprendere, succede qualcosa, e Kathleen torna a casa, dove si scopre
incinta. Di due gemelli, che però crescono male così che al momento del parto,
la madre levatrice, dovendo decidere chi salvare, salva i piccoli e Kathleen
muore. Scoramento di James, con Frances, di sei anni, che tenta di battezzare i
neonati nel fiume, facendone morire uno e ammalando di poliomielite l’altra.
Così che Lily avrà sempre una gamba più corta. Materia, non resistendo a tutto
quanto le sta avvenendo intorno, alla tenera età di 33 anni, si uccide con il
gas del forno.
Seguiamo
tante storie, soprattutto di Frances da quel momento in poi. Che forse,
inconsciamente, cerca di punirsi delle malefatte inconsciamente perpetrate (e
che nessuno la fece ragionare mai su questo). Ragazza perduta, ballerina
provocante, forse donna di facili costumi, si innamora anche lei di una donna
di colore, ma non sa fare il passo “vero”, e decide di farsi mettere incinta
dal di lei fratello. Nasce, vivo o forse no, un altro piccolo Piper. Mercedes
cresce e diventa insegnante, salvaguardando il padre, colpito da ictus, e
Frances, chiusa in un suo mondo altro. Ma facendo in modo che la figlia di
Kathleen, Lily, abbia soldi per fuggire dal Canada ed andare in America alla
ricerca di Rose.
Tutto
si chiuderà molti anni dopo, leggendo l’albero genealogico disegnato da
Mercedes, dal quale anche noi, se non lo abbiamo già fatto, capiremo tutti i
legami della lunga ed intrecciata storia.
Come
detto, una trama complicata non sorretta da una scrittura adeguata, anche se
capisco come 25 anni fa possa non solo aver fatto scalpore, ma essere balzato
agli onori di classifiche e premi. Non è che non sia una bella saga familiare,
e che non è riuscita a coinvolgermi.
Solo
una cosa, molto familiare, mi rimane, che quando si pubblica l’annuncio della
morte di Frances Piper, scopre che muore il 25 aprile 1953, lo stesso giorno di
nonno Arduino Fanuele, il suocero di mia zia Loriana, che viene ricordato nelle
memorie familiari in quanto si voleva che il primo bimbo nato dopo quella morte
ne prendesse il nome. Pericolo scampato da me per l’opposizione ferma ed
irremovibile di mio padre.
Come forse ho già detto, per ora ho terminato
l’esame delle letture “libropatiche” e “felicioferenti”, che riprenderanno se e
quando si avranno nuovi elementi. Continuiamo quindi ad allegare le trame
citazionali di diverse mezze dozzine di anni fa.
Al solito, mentre si aspetta una gestione viaggiosamente serena, si addensano sempre nubi cariche di pioggia all’orizzonte. Di certo chi mi sta vicino da tanto tempo, mi aiuterà anche qui a risolvere le ingarbugliate trame. E, altrettanto certamente, tutti voi, quando serve, continuerete a farlo, ed io ad abbracciarvi.
Citazioni dagli appunti di
Giovanni
Citazioni di giugno – primo
Siamo
ormai al 2010, e recuperiamo alcune memorie dei primi mesi di un anno che fu
molto importante (ma ne parleremo a suo tempo).
Intanto,
all’inizio di febbraio, sodalmente al compleanno del mio amico Emilio, leggevo
e commentavo il libro “A un cerbiatto somiglia il mio amore” di
David
Grossman. Dove
in effetti c’erano diversi livelli di frasi da ricordare. Le prime riguardavano
l’amore. Con delle frasi che lui dice a lei: “Forse è questo che rimpiango: non
aver provato amore per una donna. Non averne incontrata una che fosse un’ancora
per me, alla quale poter dare tutto me stesso” (570) e “Lei gli chiedeva tanto
poco, e nemmeno quello riuscivo a darle” (586). Ed altre che lei rivolgeva a
lui: “Sei proprio un coglione, giochi con i sentimenti degli altri, ecco quello
che fai” (65) e “Non mi hai mai detto… che mi ami. Una ragazza ha bisogno di
sentirselo dire... Ma tu sei avaro, al massimo dici ‘amo il tuo corpo’, ‘mi
piace stare con te’, ‘mi piace il tuo sedere’” (584-5).
C’era poi una frase che mi
colpì perché ero sempre stato in dubbio su come si facesse realmente a
scegliere: “Non capisco come si può scegliere il nome a un figlio, prendere una
decisione tanto cruciale…” (408). Infine, si ragionava sullo scrivere: “Davvero,
chi immaginava che facesse così bene scrivere?” (372) e sull’analisi di quello
che ci succede: “ricordati soltanto che a volte una cattiva notizia non è che
una buona noti-zia che è stata fraintesa, e ricordati anche che quella che era
una cattiva notizia, può tramutarsi in buona col tempo, forse la migliore”
(401).
Una settimana dopo invece, e
subito dopo il compleanno della mia amica Rosa, passavo ad una delle scrittrici
del mio pantheon personale, Alicia Gimenez-Bartlett che sottolineava, per la sua
Petra, alcuni fatti caratteriali di base in “Il silenzio dei chiostri”. Diceva infatti, nella prima
parte del libro, quella che serve ad introdurre l’azione vera e propria: “il
fatto è che non so essere riconoscente quando gli altri si occupano di me” (63)
e “il fatto è che l’amore può trasformare il carattere di un uomo, perfino la
sua vita, ma si rivela del tutto inefficace contro le miserie quotidiane” (95).
Passa un’altra settimana, si
avvicina un compleanno esimio, rotondo per il mio amico Luciano, e dedicai
quelle trame ad un trio di autori sbilenco. Due che amavo ed amo, uno cui non
sono ancora entrato in sintonia.
Il primo è il grande
scozzese Alexander McCall Smith in uno dei libri dedicati alla sua creatura Isabelle
e a
“Il club dei filosofi dilettanti”. Dove tanti, proprio come dice il titolo, sono gli
spunti morali: “So che non dovrei parlarti
così, perché non bisognerebbe dire agli altri cosa devono fare” (23); “Chi è
più felice: chi è consapevole e ha dei dubbi o chi è sicuro delle sue certezze
e non le mette mai in discussione?” (57); “Non ricordo quando è diventato
normale che i politici mentano. … è iniziato con Nixon … poi la moda è arrivata
di qua dell’Atlantico e hanno iniziato anche i nostri. … Adesso è la norma”
(68) [ed ora, dopo più di dieci anni è peggio]; “L’educazione consiste nel
prestare attenzione agli altri: bisogna trattarli con serietà e correttezza,
comprenderne i sentimenti e i bisogni. Gli egoisti tendono a non comportarsi
così, e si vede. Sono impazienti con quelli che ritengono contino poco… Chi è
educato presta attenzione a tutti” (152-3).
Ma non mancano le riflessioni sul rapporto tra i
sessi: “A volte … trovava stupefacente il fatto di essere stata così attratta
da lui. … ‘è il sesso’ [le diceva] una delle amiche di Isabel ‘fa stare insieme
la gente più diversa’” (49); “Le persone che amiamo non ci mettono mai in
imbarazzo” (51); “Di solito agli uomini non piace sapere che una donna li trova
attraenti… è un’informazione fastidiosa che li mette a disagio. Ecco perché gli
uomini scappano dalle donne che li inseguono” (230).
Sarà stato il momento difficile (era il secondo anniversario
della morte di papà), ma mi veniva anche a fagiolo la seguente frase: “[Ci]
sono quei giorni in cui vuoi rannicchiarti su te stessa e far sparire il mondo”
(184).
La seconda è dovuta alla bella penna di Margherita
Oggero che in “Qualcosa da tenere
per sé” riesce a farci una bella
fotografia di Torino nelle diverse stagioni: “L’inverno, se si ha un tetto
sulla testa, è la stagione più bella di Torino. Quella in cui i colori hanno
una nettezza nordica e gli spazi delle piazze diventano percepibili nella loro
grandezza; quella in cui l’ombra fredda sotto i portici divide il selciato in
parti che non comunicano tra loro, appartenenti a spaccati diversi di una
scenografia monumentale e fantastica. L’estate invece è una stagione estranea
che fa affondare la città in una mollezza orientale … con le strade quasi
deserte e le serrande dei negozi abbassate come palpebre su occhi sonnacchiosi,
con le alberate dei viali – tigli siliquastri ippocastani aceri platani –
stremate dal peso delle foglie immobili nella calura. Il sole che picchia duro
fa incassare le teste tra le spalle e nessuno alza lo sguardo…” (9-10).
Infine, l’autore che non ho
ancora affrontato a dovere, anche se so che a molti piace incondizionatamente.
Parlo di Joe R. Lansdale. Che riesce, nel suo “Una
stagione selvaggia” a tirar fuori tre frasi soggettivamente stupende: “Andai a vedere come stava venendo il suo lavoro di
falegnameria… Stava lavorando un po’ alla volta, e come sempre in quel genere
di cose, la sua abilità era impressionante. Io non ero capace di mettere un
preservativo senza istruzioni, e comunque l’avrei anche potuto infilare al
contrario” (22); “[ho fatto l’amore con..] … – Non è quello che volevo sentire.
– È la verità. – A volte è meglio una piccola bugia innocente.” (90); “Mio
padre mi diceva sempre che se hai paura di qualcosa l’unica cosa da fare è
affrontarla faccia a faccia. In questo modo ti risparmi un sacco di notti
insonni” (116).
Come avrete capito dal testo di riferimento delle
trame, intensifico per ora queste citazioni, per cui ne centellino l’uscita,
fermandomi ad aspettare la prossima occasione.
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