Luciana Littizzetto
“La bella addormentata in quel posto” Mondadori s.p. (prestito di Alessandra)
[A: 09/10/2021
– I: 17/01/2022 – T: 18/01/2022] &
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 187; anno: 2016]
Mi ero sempre chiesto come si sviluppassero
gli scritti di “Lucianina” a partire dalle discretamente divertenti uscite che
settimanalmente ci propone a “Che tempo che fa”. Finalmente colmo anche questa
lacuna, rimanendone passabilmente insoddisfatto. Cioè, l’autrice è brava,
coglie i momenti essenziali della (brutta) vita quotidiana. Non sbaglia un
congiuntivo. Non ci sono errori di citazioni o altro. Però ci sono due difetti
fondamentali: uno è la ripetitività, soprattutto se si leggono i capitoletti
uno dopo l’altro, senza soluzione di continuità; l’altro è la mancanza della spalla
comica, cioè di Fazio che rimprovera le troppe parolacce e fa finta di
scandalizzarsi quando parla di “Walter” e “Jolanda”, magari rivolgendosi a papa
Frank.
L’idea, ed anche la sensazione, è proprio
quella di seguire la TV e leggere con lei le sue battute. Anzi questo è forse
il maggior pregio, che, leggendone, sembra proprio sia lei a parlarcene. Così
facciamo un lungo viaggio tra le mille storture quotidiana, tra le mille
notiziole che magari ci sono sfuggite, tra le mille pubblicità che offendono,
sempre le donne, spesso l’intelligenza.
Cogliamo dal mazzo gli spunti migliori. La
tirata d’orecchie a Banderas che parla alle galline (lo spot del Mulino Bianco,
e ricordiamoci che il libro ha cinque anni). La descrizione di un reality
spagnolo intitolato “Voglio esser suore”, con cinque ragazzotte che millantano
chiamate divine e passano giorni in un convento di Madrid. Notizia che cinque
anni fa, fece scalpore, ma che ora sappiamo essere stato ripreso, come spunto,
da Discovery+, un super canale da far concorrenza alla “Grande Fabbrica di
Merda” di Robecchi.
Poi c’è l’invenzione della pillola rosa. Che
non porta ottimismo, ma che è il contraltare della pillola azzurra (il Viagra,
insomma), destinata quindi a far crescere la libido femminile, anche se giustamente
Luciana sottolinea le marcate differenze tra le due pillole. L’idea balenga
della scienziata di Cleveland che vuol far partorire gli uomini. O quella di un
altro sito di ricerca che sostiene la ricrescita dei capelli dopo esperimenti
esilaranti sui topi. La presentazione del film più lungo del mondo, lo svedese
“Ambiancé” dalla durata di 720 ore (e qui, forse l’unico errore, che a me
risulta esserci un film più lungo, sempre svedese, dal titolo “Logistics” e
dalla durata di 857 ore, cioè quasi 36 giorni). Si parla di crescita del seno a
comando, attraverso l’uso di sali particolare. Si sottolinea l’improbabile
promessa di Madonna per spingere all’elezione Hillary (ed in effetti, in
quell’elezione vinse Trump). Si cita sommessamente la notizia della scomparsa
dell’inventore del Billy, e del conseguente boom di Ikea all’epoca. Ma anche
della follia della stessa Ikea che, dopo averti prestato una borsa gialla per
fare acquisti alla cassa ti pone la fatidica domanda: “Ti è piaciuta la borsa
gialla? Allora comprane una blu!” I commenti sono già tutti nell’esposizione
della frase.
Per finire, anche qui un po’ alla rinfusa,
con la notizia dell’apertura di un Fast Food in Vaticano, della signora che
perde la chiave della sua cintura di castità, con gli europarlamentari che
discutono animatamente sulle misure delle vongole, o con Andy Garcia che fa la
pubblicità sfoggiando un’orrenda barba ed una ancor più orrenda pancetta.
Quello che riesca alla Littizzetto è di
interpretare il pensiero (e l’incazzatura) di noi comuni attori del presente,
rispetto, ad esempio, alla costruzione di una statua di Padre Pio alta 85
metri, o alla quotidiana dose di inutili telefonate degli operatori dei Call
Center. Per poi stravolgere tutto in senso anche critico: con la colpa è di chi
dona la pubblicità ai call center, o di chi manda i rider in giro a far
consegna a 3 euro l’una.
Lucianina ha il suo linguaggio, il suo modo
di esprimersi, il suo modo di coinvolgerci nell’assurdità della vita
quotidiana. Come detto anche altrove, può piacere o meno, ma questa è lei. A me
piace in TV, piace in teatro, non è piaciuta in questa scrittura, un po’ troppo
fredda senza la sua presenza.
Finisco citando bonariamente il fatto che è
torinese, tifa Juventus, e, come dice nelle sue note biografiche, di
professione fa la scema. 2/3 di convergenza.
Gregorio
Botta “Pollock e Rothko. Il gesto e il respiro” Einaudi s.p. (regalo di
Giovanni&Clara)
[A: 25/12/2021
– I: 20/02/2022 – T: 21/02/2022] &&&&-
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 191; anno: 2020]
La prima lettura dei regali dell’ultimo
Natale, graditi e vari. Questo proviene dal cugino acquisito (spiega: acquisito
in quanto cugino della “nupsisse” e non marito di una cugina di primo grado) e
dal suo amore per l’arte. In realtà, in effetti, Botta l’ho conosciuto nella
sua galleria al tempo di una interessante mostra. Io ne sapevo del giornalista,
lì ho scoperto l’artista, allievo del grande Toti Scialoja. Qui ne vedo le doti
di sintesi tra quei due mondi che sembravano separati, esteriormente, ma che
non possono scindersi. Laddove noi siamo, in genere, uno.
Un libro interessante, che si legge in modo
facile, pur laddove si avventura in sentieri esplicativi della produzione
artistica che non sempre a me riesce facile seguire. Alla fine, tuttavia, mi
verrebbe quasi da definirlo un libro-ossimoro. Un libro utile ed inutile.
Utile, perché ripercorre momenti artistici del Novecento, laddove uno scettro
di “primus inter pares” si sposta da Parigi a New York. Utile perché mi
avvicina a due giganti della pittura, di cui ho visto in giro per il mondo,
anche se solo qui, devo dire, approfondendone la conoscenza posso pensare di
approfondirne anche la comprensione. Inutile visto che quel passaggio viene
preso come dato e poco argomentato. Inutile perché una volta fatti i due nomi,
Jackson Pollock e Mark Rothko, ed una volta enucleata la loro visione
contrapposta non dell’arte, ma del modo di fare arte, poco resta da dire.
Soprattutto, una volta battezzati con i loro momenti eponimi, si può dire
altro?
Perché, da un lato è tutto lì, nel titolo.
Pollock autore dedicato al gesto, all’action painting. Rothko dedito al
respiro, alla fissità delle tonalità cromatiche che si confondono nell’occhio
portando con sé corpo e cervello verso altro. Limitiamoci allora all’utilità.
Botta in effetti ci porta a percorrere in
parallelo la vita e le opere dei due grandi che, pur quasi contemporanei, e pur
sicuramente americani, poco ebbero in comune nell’incontro reciproco. Forse,
l’unico momento reale è la foto di gruppo dedicata alla scuola newyorchese
detta de “Gli irascibili”, dove compaiono entrambi, dove entrambi firmano la
protesta verso le scelte artistiche del Metropolitan Museum. In una lettera
dove, curiosamente (visto che non sembra esserci alcun ordine prestabilito), le
loro due firme appaiono una dopo l’altra, vicine.
Una foto dove la loro postura è, come ci
spiega Botta, paradigmatica. Pollock al centro, di tre quarti ma con lo sguardo
verso l’obiettivo, e la sigaretta in mano. Rothko in prima fila, ma defilato, e
con lo sguardo verso fuori. Pollock che voleva sempre essere perno di tutto,
guardato, citato, amato, odiato. Rothko che preferisce essere guardato per
quello che fa e non per quello che è, che quasi si nasconde dietro i suoi
colori.
Facendo ora un passo indietro, ricordiamo
che Mark Rothko nasce come Markus Yakovlevich Rothkowitz nella città di Dvinsk
allora nell’Impero Russo (ora Daugavpils in Lettonia), il 25 settembre 1903, a
7 anni la famiglia emigra in America a Portland, poi a vent’anni inizia la sua
vita a New York. Ci sono mille diversi sviluppi della sua carriera e della sua
arte (che potete leggere sia nel libro che altrove). Io ricorderei solo che, a
poco a poco, il colore diventa l’unico oggetto del quadro. Tanto che alla fine
la cosa più importante non è comprendere il dipinto ma guardarlo.
Jackson Pollock, invece, è più giovane,
nasce il 28 gennaio 1912 a Cody (inciso, città che deve il suo nome a Buffalo
Bill, e dove ho dormito una volta prima di entrare nel Parco di Yellowstone).
Anche lui negli anni Venti si trasferisce a New York, sulle orme del fratello,
e per suo merito entra in contatto con la pittura, le avanguardie, ed altre
tecnicherie varie. Il suo modo di dipingere, quello che poi lo porta alla fama
(ma mai al successo, almeno in vita), è il “dripping” (scolatura), laddove
mette la tela sul terreno, e vi fa colare sopra il colore.
Visto che siamo nella collana di
contrapposizione, la loro morte invece fu convergente. Pollock, ubriaco dalla
mattina alla sera, si schianta alla guida della sua Oldsmobile nel ’56. Rothko,
accanito fumatore, dopo la diagnosi di un cancro, si suicida nel ’70 con
un’overdose di barbiturici.
Ripeto, non sono io a poter parlare di arte,
forse qualche mia esimia amica lo farà e farebbe meglio di me. Io posso
concludere che il libro mi è piaciuto, in un contesto dove ultimamente non ci
sono state molte letture di livello.
Un penultimo pensiero lo dedicherei ad una
frase che Rothko riprende spesso per la sua arte: ”Less is more”. Una frase attribuita
al grande architetto Ludwig Mies van der Rohe, ma che in realtà proviene da una
poesia del 1855 di Robert Browning dedicata al grande pittore Andrea del Sarto.
Ma che a me risuona come una parafrasi dell’aforisma di Gustave Flaubert
dedicato alla scrittura “Il vero problema dello scrivere non è tanto di sapere
ciò che dobbiamo mettere nella pagina, ma ciò che da questa dobbiamo togliere”.
Perché “Meno è meglio”.
Finirei, infine, con un soprassalto verso
l’inutilità di una collana come questa di Einaudi, anche se a volte
interessante, che cerca in ogni volume di andare alla contrapposizione di due
elementi, di due scuole, di due personaggi. Non a caso, la collana si chiama
“VS”. citando a memoria ricordo uscite come “Oriente e Occidente”, “Sparta e
Atene”, “Caravaggio e Vermeer”, “Beatles e Rolling Stones”. Aspetto solo
l’uscita di “Coppi e Bartali”, ed il ciclo sarebbe chiuso.
Ronnie
O’ Sullivan “Ronnie. The autobiography” Orion s.p. (regalo di Francesco)
[A:
25/12/2021 – I: 24/02/2022 – T: 01/03/2022] - &&
[tit.
or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 291;
anno 2003]
Per
le feste natalizie, l’ottimo Francesco ha trovato un regalo originale e
gradito. Sapendo la mia (insana) passione per lo snooker, non potendo regalarmi
un biliardo, ha scovato questo libro, l’autobiografia di quello che credo sia
il più grande giocatore di snooker in attività, Ronald Antonio O’ Sullivan.
Un
libro raccontato da Ronnie e riversato in forma editabile da Simon Hattenstone,
un giornalista del Guardian. Volevano forse fare meglio del libro “Serious” di
John McEnroe (e forse lo hanno fatto, che non ho letto il libro). Di certo,
ora, fanno un’impressione in minore dopo aver letto “Open” di André Agassi.
Ma
di certo, non è un libro che scala (o ha scalato) le classifiche di vendita.
Per il contenuto, di certo, ma anche perché, fuori dai paesi anglofoni, siamo
in pochi a seguire questo sport. E se non conosci lo snooker, non avrai molta
voglia di leggerne. Anche se, nella parte più strettamente biografica, vediamo
il costruirsi di un personaggio, a prescindere dal dato sportivo.
Partiamo
allora da questa parte, dove, malgrado un po’ di autocompiacimento ed
autoindulgenza, il nostro giocatore si narra abbastanza apertamente.
Ronnie
nasce nei sobborghi di Birmingham (che per i non geografi, ricordo che è a metà
strada tra Liverpool e Londra) nel 1975 (e precisamente il 5 dicembre, un
sagittario quindi). Il dato caratteristico è l’ambiente familiare. La madre,
Maria Catalano, ha origini siciliane, ed in Sicilia passerà molte estati
giovanili. Ha zii e parenti che si cimentano nello snooker. Il padre, invece,
gestisce una catena di sexy shop a Soho. Tutto porta il bambino Ronnie a
frequentare le sale da biliardo. Dove si trova a passare molto tempo, sia dopo
la scuola, sia per l’ambiente quasi familiare che vi si crea, dato che anche il
padre usa la stecca (anche se molto blandamente).
Dato
poi il momento economicamente familiare, e dato che dimostra buone capacità,
viene a vivere presso i biliardi molto tempo. Il padre, in mancanza di meglio,
gli paga già qualche ora al tavolo. Ed è così che, visto che lo studio non lo
appassiona tanto, si trova a vivere intorno al panno verde molto tempo che gli
altri ragazzi vivono altrove. Ed è così che comincia anche a vincere piccoli
tornei locali. Mostrando una superlativa tecnica di gioco. Per i conoscitori
del gioco, Ronnie sigla il suo primo centone a 10 anni e la sua prima serie
perfetta a 15. Quindi, a 16 diventa professionista, status che mantiene
tuttora, dopo 31 anni.
La
svolta, nella vita e nella psicologia del personaggio, avviene l’anno
successivo: il padre, durante una rissa, uccide un uomo e viene condannato a 18
anni di carcere. Alcuni anni dopo, anche la madre andrà un anno in prigione per
evasione fiscale. Tutto ciò non passa indenne, Ronnie utilizza lo snooker come
rivalsa nella vita. Rimane sempre legato al padre (e nello scritto minimizza il
comportamento violento del genitore), ma, fuori dal tavolo verde è assai
sbandato. Non ha mai un grande e stabile rapporto con le donne. Ha diverse
compagne, per più o meno tempo, ed ora, ha anche tre figli da due donne
diverse, e si è, un mese fa, lasciato anche dalla sua terza compagna. Anche se
tutto ciò è fuori dal libro, che scrive a 27 anni, cioè venti anni fa.
Il
libro è tutto concentrato quindi sulla nascita del fenomeno “Ronnie” e sulla
conquista del primo titolo mondiale. Seppur vediamo accenni dei suoi travagli,
non ultimo la dipendenza, mai sopita, verso la cannabis, non riesce a filtrare
i motivi anche tecnici della sua eccezionale bravura. Che poi, nei seguenti
venti anni, lo porterà a vincere altri 5 titoli mondiali, e ad altri record che
non sarà facile battere (il numero di “century” ottenuto, ora sopra i 1.100,
dove il secondo è intorno agli 800, il numero di serie perfette, 15, con il
secondo fermo a quota 11; so che per i non addetti significano poco, ma per me
sono cifre impressionanti).
Insomma,
un libro un po’ autocompiaciuto ed imperfetto. Ma l’ho letto con gusto, durante
una sua ulteriore vittoria in un torneo che ho seguito online. Perché, lo devo
pur dire, lo snooker è un gioco affascinante. Sia per il biliardo usato, ed è
bello vedere le palle muoversi su traiettorie e su colpi di un’esattezza
impressionante, sia per il meccanismo stesso del gioco. Devo infine confessare
che solletica anche le mie non sopite passioni verso geometrie e matematiche.
Finisco
quindi con l’accenno al gioco stesso. Il biliardo utilizzato è un rettangolo
ben proporzionato, in inglese misura 12 piedi per 6, cioè sono due quadrati
6x6, cosparsi, in modo geometrico, di biglie colorate, che il giocatore
colpisce attraverso la stecca, usando una biglia bianca. La geometria
simmetrica del tavolo si riflette poi nelle traiettorie che le biglie stesse
disegnano sul panno verde. Un ricordo di mio padre, appassionato di biliardo,
seppur all’italiana (cioè con i birilli) e di mia madre, anche lei
televisivamente dedita allo snooker. Nonché un ricordo di mio fratello, che
dopo un viaggio in Inghilterra, regalò a mio padre una bellissima stecca smontabile
da snooker.
Un
libro che risveglia ricordi, e ringraziamenti per chi, non potendo regalarmi un
biliardo, mi ha fatto viaggiare sui tavoli verdi e dentro fumosi pub inglesi.
Yoyo
Maeght “La saga Maeght” Robert Laffont s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 02/01/2022
– I: 07/03/2022 – T: 09/03/2022] - &&
e ½
[tit.
or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 425;
anno 2014]
Nella
seconda parte della nostra luna di miele, abbiamo deciso di dedicarci ad una
settimana in Costa Azzurra, e nel suo entroterra. Per vedere alcuni dei posti e
delle case dei nostri amati pittori: Picasso, Matisse, Renoir, Mirò, anche un
po’ di Chagall (che io amo meno), ma anche Giacometti e le sue sculture. Niente
di più facile, allora, che tornare dopo più di quindici anni a vedere un altro
dei musei cult della mia vita: la fondazione Maeght.
Lì,
tanti anni fa, vidi la riedizione di una delle mostre più interessanti che mi
sia capitato di vedere: “Il nero è un colore”. Lì, questa volta, abbiamo visto
in mostra i capolavori di tutta la famiglia Giacometti: il padre pittore
Giovanni, ed i tre fratelli, lo scultore Alberto, il designer Diego e
l’architetti Bruno.
Per
rendere omaggio a tutto ciò, e per entrar meglio in quel mondo, alla fine del
viaggio, ho ricevuto questo graditissimo regalo, che, seppur in modo parziale,
mi ha fatto fare un lungo viaggio artistico nel mondo “Maeght”. Parziale non
perché mancante, ma perché di parte, essendo Yoyo parte in causa della grande
diatriba familiare dei Maeght, dove quindi, alla lettura, bisogna accostare una
buona dose di elementi altri di indagine.
Non è facile narrare del libro, che tuttavia
si può suddividere in tre grandi fasce di ricordi. Nella prima parte, Yoyo
parla della sua infanzia, cominciando dalla storia curiosa della sua nascita.
Narra infatti che i suoi genitori, insieme al loro amico Jacques Prévert
trovano una bambina abbandonata, poggiata su di un giornale, “France-Soir”.
Dopo varie peripezie, i due adottano la piccola, ed in onore del giornale, la
chiamano Françoise, anche se da tutti verrà sempre chiamata Yoyo. Solo dopo
molti anni, la madre confessa di aver inventato la storia, perché Yoyo era
“molto brutta”, lontana dalla bellezza delle sorelle Isabelle e Florence. Non
poteva essere sua figlia, ed inventò la bizzarra storia. Un dolore che Yoyo non
superò mai.
L’unico modo per “sopravvivere” fu di
avvicinarsi al nonno Aimé ed ai suoi amici. Così, ci si narra di una giovinezza
passata tra Giacometti e Mirò, con i pastelli che le regalava Matisse. Che
leggendone sembra quasi una fiaba, tuttavia reale, come poi si sviluppa quando
Yoyo passa a narrarci la meravigliosa storia dei nonni Aimé e Marguerite.
Una storia che comincia nel 1930, quando il giovane Aimé Maeght e sua moglie
Marguerite, aprirono un negozio chiamato Arte a Cannes. Aimé era un litografo
di professione, di grande talento, tanto che l'artista Pierre Bonnard lo
utilizza per realizzare stampe dei suoi quadri. Ne nasce una forte amicizia, e
per casi strani della vita i Maeght diventano gli agenti di Bonnard. Non solo,
ma, trasferendosi a Vence per sfuggire alla guerra che si fa sempre più dura,
incontrano un amico di Bonnard, Henri Matisse, che entra anche lui nel cerchio
magico.
Questi
gli inizi, poi una galleria a Parigi, di grande successo, con la prima mostra
di Matisse, ed altri avvenimenti mondani, così che i Maeght e la loro galleria
diventano un punto di riferimento, per tanti artisti come Mirò, Braque, Picasso
e Chagall, per intellettuali, tra cui Albert Camus e Jean-Paul Sartre, ed anche
per sarti famosi come Dior e Hermès.
La
svolta arriverà negli anni ’50, quando il piccolo Bernard muore di leucemia. I
Maeght sono distrutti, ma gli amici artisti convincono i due ad andare avanti.
Ed Aimé comincia a lavorare al suo grande sogno: una Fondazione che
nell’entroterra della Costa Azzurra possa diventare un punto di riferimento per
l’arte. Nasce così il progetto ospitato in un edificio progettato
dall'architetto catalano Josep Lluís Sert che si fonde perfettamente con i
giardini e consente ai visitatori di godere contemporaneamente sia dell'arte
che della natura circostante.
Tutto
procederà per il meglio, fino al ’77, quando muore Marguerite, e cominciano le
liti tra Aimé e suo figlio Adrien, e poi, alla morte di Aimé, tra Adrien
spalleggiato da sua figlia Isabelle e Yoyo sostenuta dalla sorella Florence.
Questa è l’ultima parte del libro, la più opinabile, la meno riuscita, troppo
piena di visioni parziali e di rancori. Tanto che anche io, lettore ma anche
ricercatore di notizie, non ho capito bene quale sia la verità. E soprattutto,
se ce ne sia una.
Per
questo, lascio in ombra questa mesta fine, ricordandomi solo delle grandi
mostre che negli anni Sessanta organizzava la Fondazione, i grandi concerti di
jazz, e la vista, ora, di Saint-Paul-de-Vence, con tutta la sua bellezza, e
tutte le opere che riempiono il giardino e gli occhi.
Una
storia da vedere, delle opere da non perdere, a prescindere da tutti i
pettegolezzi che vi girano intorno.
Io
sono solo un lettore, ed un amante delle cose belle. Questo è un libro
interessante, non proprio bello. Il mondo e gli artisti descritti, quelli sì,
sono belli, e inarrivabili.
Ian
Stewart “I numeri uno. La vita dei più grandi matematici del mondo” Le Scienze
euro 15
[A: 28/11/2020
– I: 02/06/2022 – T: 04/06/2022] &&&
e ½
[titolo:
Significant Figures. Lives and Works of Trailblazing Mathematicians; lingua: inglese; pagine: 299; anno: 2017]
Durante un break della prima pandemia, il mio
amico edicolante mi mise da parte, senza che io glielo chiedessi, questo libro.
Non ero molto attirato, ma sembrava una scortesia. Ora, quasi due anni dopo, ne
leggo, e ne ricavo sentimenti ambivalenti. Ian Stewart è di certo un valente
divulgatore, ed ha scelto con cura le figure che sono, o possono essere,
significative dell’evoluzione della matematica, dagli albori sino ad oggi, ma
spero che mio cugino Stefano, valente fisico, possa fare di meglio.
Alcuni problemi tuttavia sorgono. La
scrittura, che per i primi pionieri è facile e coinvolgente, andando avanti
nella complessità della materia, a volte diventa una sorta di messaggio per noi
adepti della disciplina. Non è bello, in un’opera divulgativa. Secondo problema,
quel “Numeri uno” appiccicato nel titolo. Che non solo non compare
nell’originale, ma nulla ci azzecca neanche con il testo. Stewart voleva
parlare di “Figure significative. Vite e opere di pionieri della matematica”.
Non solo spariscono le figure, ma anche la menzione alle opere, ed i pionieri
della materia diventano “i più grandi”, traslazione non automatica. Terzo, e
solo cavillosamente, certo scegliere 25 persone dal mazzo è un’operazione di
scelta, qualcosa rimane fuori. Peccato che ne faccia spese Pitagora, che avrei
inserito benevolmente.
Tra il prologo e l’epilogo, due sono i
messaggi, forti e condivisibili, che manda Stewart. La matematica non nasce nel
o dal vuoto, è una scienza creata dalle persone. Persone che non hanno
caratteristiche comuni, né classe sociale, né istruzione, né stato civile.
C’erano savi e c’erano pazzi, c’erano uomini, donne e gay. Una sola cosa
avevano ed hanno tutti in comune: un profondo amore per la matematica.
La scelta dei 25 matematici procede poi, ed è
un bene, in modo progressivo nel tempo, partendo dai primi greci (anche se
siculi) ed arrivando ai giorni nostri, alle scoperte della geometria
iperbolica.
Partiamo allora da Archimede di Siracusa che
tra le altre cose trova le formule per calcolare la superficie ed il volume
della sfera, ancorché utilizzando la geometria piuttosto che la matematica in
senso stretto. Stewart sa anche che dai greci al Medioevo, i numeri presero la
via dell’Oriente. Così passiamo per la Cina con Liu Hui (III secolo), con i
suoi straordinari commentari matematici, dove tra l’altro, attraverso lo studio
delle frazioni, trova un valore di Π migliore di quello di Archimede,
nonché formule per le soluzioni di equazioni a più incognite. Come tutti sanno,
poi, dalla Cina, si passò al mondo arabo, dove visse, intorno al 900, Muhammad
ibn Mūsā al-Khwārizmī, cultore delle scienze esatte in quel di
Baghdad, che, con la sua opera maggiore, in arabo al-jabr, diede nome alla
nostra “algebra”, e con il suo nome, lui cultore dei calcoli, ci porta al nostro
“algoritmo”. Infine, come la denominazione araba si estende ad Est, abbiamo il
primo grande indiano Madhava of Sangamagrama, originario del Kerala, nel sud
dell’India, ideatori dei metodi trigonometrici e degli sviluppi in serie. Si
suppone poi che essendo il Kerala il porto di passaggio verso l’Europa, questi
calcoli vengono al mondo occidentale.
Cominciamo
allora con Gerolamo Cardano, fondatore del calcolo delle probabilità, ma anche
grande truffatore e baro, nonché a lungo in lotta con il coevo Niccolò Fontana
detto Tartaglia, tanto per sottolinearne un difetto fisico, sulla scoperta
della formula risolutiva dell’equazione cubica. Poi in grande successione
vediamo Pierre Fermat, per secoli detentore di una scoperta (il suo teorema)
che solo in epoca moderna viene dimostrato, e che era un avvocato appassionato
di numeri. Vediamo Isaac Newton, che oltre ad essere matematico e fisico (non
ci dilunghiamo sulle sue scoperte che non voleva pubblicare temendo di essere
critico) era anche dedito all’alchimia ed al soprannaturale (pare fosse anche
gay, ma non è acclarato). Vediamo lo svizzero Eulero, i cui contributi furono cruciali
in svariate aree: analisi infinitesimale, funzioni speciali, meccanica
razionale, meccanica celeste, teoria dei numeri, teoria dei grafi, oltre ad
essere inventore di un numero che porta il suo nome per la risoluzione dei
logaritmi. Vediamo i primi dell’Ottocento con il (quasi) rivoluzionario Jean
Baptiste Joseph Fourier, famoso per le sue serie numeriche, Carl Friedrich Gauss
che abbandona lo studio delle lingue dopo aver scoperto il modo di dividere il
cerchio in 17 segmenti uguali e diventando uno dei padri dell’analisi
matematica, il russo Nikolaj Ivanovič Lobačevskij fondatore delle geometrie non
euclidee, il francese Evariste Galois, morto in un duello a 20 anni,
capostipite degli studi in algebra astratta. In quegli anni compare anche la
prima donna, Ada Lovelace, figlia illegittima di Lord Byron, ritenuta il
capostipite del calcolo analitico e dell’uso di algoritmi che porteranno un
secolo dopo alla nascita dei calcolatori (non a caso, Ada si chiamò il primo
linguaggio per elaboratori).
Nello stesso
anno di Ada, nasce George Boole, il fondatore della logica matematica, e poco
dopo Bernhard Riemann, noto per una funzione particolare, la Funzione zeta di
Riemann. In Russia nasce il tedesco Georg Cantor, padre della teoria degli
insiemi, ma anche molto labile psicologicamente, tanto che muore per la
depressione. Sempre dalla Russia viene la seconda donna, Sof'ja Vasil'evna
Kovalevskaja, risolutrice di equazioni differenziali alle derivate parziali,
nonché prima donna al mondo ad ottenere una cattedra universitaria.
Ci avviciniamo
al Novecento, con il fondatore della topologia, Henri Poincaré, con il
sistematizzatore delle teorie matematica David Hilbert, con la terza donna,
studiosa delle simmetrie in fisica teorica, Emmy Noether, l’indiano (secondo
gay) Srinivasa Ramanujan dalle geniali intuizioni sui numeri primi.
Un inciso, a
Poincaré le idee venivano mentre saliva sull’omnibus per andare all’Università,
a mio zio, che mi fece innamorare della matematica, mentre andava al cinema,
riempendo i biglietti d’entrata di formule su formule.
Manca poco alla
fine, dove incontriamo due altri “disturbati”: Kurt Gödel, un logico che
dimostra l’indimostrabilità della matematica, ma è anche paranoico, mangia solo
quello che gli cucina la moglie, e quando questa si ricovera per sei mesi in
ospedale, Kurt muore di anoressia, e Alan Turing, l’inventore dei moderni
computer, esperto di crittografia, terzo e più perseguitato gay, che per questo
si suicida, forse, con il cianuro.
Finendo con i
due “moderni”: l’inventore dei frattali Benoît Mandelbrot e l’analista della
topologia tridimensionale William Thurston.
Mi spiace
essermi dilungato a lungo sui 25 pionieri di Stewart, ma di certo sapete che i
numeri sono da sempre la mia passione (un tempo anche professionale). Per cui
finisco con due aneddoti. Uno storico: l’indiano Ramanujan vedendo passare un
taxi con la sigla 1729 esclama “quello è il primo numero che si può scrivere
come somma di due cubi in due modi diversi”. Uno personale: ritengo
particolarmente affascinante il numero 72.
Grazie allora
Stewart, anche se avrei preferito una trattazione più elementare.
P.S.:
1729 si può
scrivere come 123+13 e come 103+93
Su 72 vi lascio ragionare.
“Fisicamente non
siamo nati tutti uguali.” (298)
Continuiamo a svariare senza allegati, senza citazioni, visto che siamo in situazioni di precaria stabilità di scrittura e di pensiero. Lontano dal rassicurante studio, sballottati tra mare e campagna (anche se piacevolmente, devo dire), pensierosi tra un ritorno lusitana ed un agognato ma quanto mai problematico proseguimento vichingo. Ma sempre con l’ottimistico pensiero che tutto anche se non al meglio, va positivamente. Così che collegandomi con l’ultimo libro, vi abbraccio in modo immaginario.
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