Nicolas
Barreau “Il tempo delle ciliegie” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)
[A: 25/12/2021 – I: 22/02/2022 – T: 24/02/2022]
- & +
[tit. or.: Die Zeit der Kirschen; ling.
or.: tedesco; pagine: 286; anno 2021]
Non meravigliatevi del nome francese di un
autore che scrive in tedesco. Perché Nicolas Barreau non esiste. O meglio, è
un’invenzione dell’editoria tedesca che negli ultimi anni ha scoperto il
fascino della Francia (o degli scrittori francesi). Così come nel “noir”, dove
impazza Jean-Luc Bennelac che è lo pseudonimo di Jörg Bong, Barreau dovrebbe
(poi vi spiego il condizionale) essere lo pseudonimo di Daniela Thiele, editor
tedesca della “Thiele Verlag”.
L’idea nasce agli inizi del secolo, e dopo
qualche anno di gestazione, per la casa editrice Thiele, esce un libro a firma
“Nicolas Barreau” su di una storia d’amore “molto parigina”, da me tramato una
decina di anni fa. Tra l’altro, in quel libro, e qui continua ancora, c’era un
editor francese che, per aver successo, scrive un libro firmandolo con un nome
inglese. Da alcune indiscrezioni della stampa tedesca, analogo sarebbe il
percorso di “Barreau”, se, come si mormora, è un editor che scrive per la
propria casa editrice. Altre voci vorrebbero che fosse qualche “ghostwriter”
che a turno si industria nello scrivere.
Comunque, in conclusione, non è di sicuro
francese l’autore, e la storia è una tipica storia montata ad arte per
coniugare un po’ di “Parigi”, un po’ di “cuisine”, un po’ di libri, e un po’ di
romanticismo. Si sente che è costruita, si sente la voglia di costruire una
storia, complicarla, per poi risolverla con un “happy end” che lascia tutti
felici e contenti.
Anche l’altalena dei capitoli, altra cifra
del finto scrittore, che era già presente in quel primo libro letto (che in
italiano era stata titolata “Gli ingredienti segreti dell’amore”, ben diverso
dal titolo originale che invece riportava “I sorrisi delle donne”). I dispari
al maschile, con André in soggettive, i pari al femminile, dal punto di vista
di Aurélie. Tra l’altro, con la solita scarsa fantasia sui nomi, tutti (almeno
i principali) sulle prime lettere dell’alfabeto: André Chabanis, lo scrittore,
Aurélie Bredin, la cuoca, Artemisie Belfond, la libraia. Solo lo chef
antagonista si stacca rispondendo al nome di Jean-Marie Marronnier (che poi
sarebbe “Castagna”).
Secondo, e non banale problema, se non si è
letto il primo libro si perde un po’ della trama. Là, infatti, c’era la storia
pregressa: un editor per far risalire le vendite della sua casa editrice,
scrive un libro sotto pseudonimo, prendendo spunto dal sorriso di una cuoca in
un ristorante parigino (sul sito torneremo poi). Dopo vicissitudini varie, i
due si innamorano ed instaurano una specie di convivenza, mantenendo tuttavia
ognuna la propria casa.
Qui, si cerca un passo avanti. André vuole
chiedere la mano di Aurélie. Compra un anello e cerca in mille modi di trovare
coraggio e spunto per dichiararsi. Ovvio che non ci riesca mai. O almeno, non
ci riesca per molto tempo (circa 284 pagine). A parte intoppi pregressi (gita
poco felice, pranzo con suocera, ed altro), il primo ostacolo avviene dopo una
serata di presentazione del libro di André in una casa editrice (dove la nuova
presenza, Artemisie, gli fa un corte spudorata, e questo per tutto il libro).
Presentazione di successo, appuntamento al locale di Aurélie, dove però viene
annunciato che il locale ha preso una stella Michelin. Ed allora tutto passa in
secondo piano.
Poi si scopre che la stella era frutto di
una omonimia con il locale dello chef Marronnier. Bella presenza, e belle
parole, Marronnier incanta Aurélie, e André diventa geloso oltre misura. Da lì,
tutta una serie di inutili capitoli, dove i due litigano, fanno la pace, litigano
ancora, ed arrivano al punto di rottura. Ma il colpo di coda, che noi si
aspettava da pagina tre, arriva alfine.
Festeggiando la falsa stella, André macchia
la giacca di vino, la toglie e viene dimenticata, con ovviamente l’anello in
tasca, in un armadio. Quando Aurélie vuole ridare tutto indietro al torsolo,
scopre facilmente l’anello, ha una crisi di coscienza su come avesse
interpretato male tutto quanto avvenuto per 280 pagine e va alla ricerca del
torsolo. Il quale, come ovvio, fa anche lui la sua brava giravolta, pentendosi
di tutto il pentibile. Tarallucci e vino. Tedeschi contenti, noi un po’ meno. I
francesi per nulla, tanto che “Barreau” non è mai uscito in Francia.
Finiamo tornando sulle location. Molto si
aggira intorno a Place Furstemberg (una delle più deliziose e riservate in
centro, vicino a Saint Germaine. Peccato che la strada dove dovrebbe trovarsi
la casa di Aurélie (rue de l’Ancienne Comédie) è vicina ma non sfocia nella
piazza. Peccato che il locale di Aurélie usa il nome di un vero locale “molto
parigino”, “Le temps des cerises”, che si trova in zona Place d’Italie, ma a
quasi 5 chilometri dalla piazzetta. Inoltre, essendo questo il nome del
ristorante, perché nel titolo tradurlo, come se si trattasse di un tempo
atmosferico e non di una indicazione di luogo? Unico punto logisticamente
rilevante, il locale di Marronnier, si trova a pochi chilometri da Giverny,
cosa che dà modo a “Barreau” di fare un po’ di guida turistica su Monet.
Insomma, divertente da scorrere per capirne
i meccanismi, poco da leggere, e antipatia, usuale, per gli editor malandrini.
“Quando è triste … non legge un libro ma
pianta fiori.” (18)
“Il suo sorriso malandrino quando
sollevava il coperchio della pentola per vedere cosa avevo cucinato di buono e
ne rubava una cucchiaiata, il fruscio del suo giornale, i suoi libri che
avevano invaso il mio appartamento.” (110)
“La prima volta che ero stata a casa sua
ero rimasta basita dalla quantità di libri che aveva. Avrebbe potuto aprire una
libreria.” (123)
Ricardo Piglia “Solo per Ida Brown”
Repubblica Noir 14 euro 9,90
[A: 10/10/2018 – I: 15/06/2022 – T: 17/06/2022]
- &&&
[tit. or.: El camino de Ida; ling. or.:
spagnolo; pagine: 252; anno 2013]
Un’altra
toppa clamorosa dei curatori delle edizioni GEDI di Repubblica. Certo in questo
libro c’è un morto (anzi una morta), ma è tutto fuorché un noir. Si parla certo
di attentati, ma soprattutto si parla del mondo com’è, com’era, come diventa
giorno dopo giorno, si parla di letteratura, si parla delle differenze tra le
Americhe, quella al nord e quella al sud.
Certo
l’autore, argentino poco prolifico, ha sempre scritto di letteratura, ed ha
anche diretto una collana di libri “noir” in Argentina. Nei suoi cinque
romanzi, certo c’è l’elemento poliziesco, in alcuni più che in altri. Questo,
per me, ed è il motivo che ne ho cambiato la collocazione, è un libro che parla
di letteratura, ed anche, molto, diaristico.
Riccardo
Piglia (da pronunciare immancabilmente senza l’unione di G ed L) come tutti gli
originari del mondo ispanico, ha un nome più articolato. Infatti, si chiama Ricardo
Emilio Piglia Renzi. Ora come possiamo non pensare a qualche passaggio
autobiografico in questo libro, scritto in prima persona da un professore
argentino di letteratura che si chiama Emilio Renzi?
Ed
in effetti, il protagonista si muove per gran parte del tempo in un campus
americano, tipo Princeton, dove Ricardo ha insegnato a lungo. Ma il professore
argentino ha una storia alle spalle: sperato dalla sua seconda moglie, lavora
svogliatamente ad un saggio su di un autore inglese dell’Ottocento, William
Henry Hudson, che ha scritto in maniera egregia libri sulla pampa argentina.
Per sfuggire alla routine, accetta di passare in America un semestre, invitato
dalla professoressa Ida Brown, avvenente, colta, dominatrice. Ma anche
esclusiva, ed elusiva, nonché una dei maggiori esperti di Dickens e Conrad.
Non
è esaltante la vita di Renzi in America: lavora con dei dottorandi, fa lunghe
passeggiate sulle rive del fiume, ha modo di entrare in contatto con uno strano
vagabondo di nome Orione, legge e rilegge Hudson, e soprattutto ha lunghe
conversazioni con la sua vicina, l’anziana e molto preparata (ed anche ironica)
Nina Andropova, una esimia biografa di Tolstoj. Questa routine è rotta dal
progressivo avvicinamento di Emilio a Ida, di cui diviene l’amante.
Ma
subito dopo è rotta dalla morte di Ida per lo scoppio di una bomba. Incidente?
Accidente? Attentato? Qui sembra innestarsi il giallo, che giallo non sarà mai,
che non interessa a Piglia fare il detective, lui, o farlo fare a noi lettori.
Certo, ingaggio un investigatore che vorrebbe capire di più. Scopre che ci sono
state altre morti. Tutta la seconda parte ricalcando, parafrasando le vicende
del famoso Unabomber americano.
Non
è la scoperta di chi sia l’attentatore, scoperta che avverrà tramite il
fratello di lui che riconosce in un volantino rivendicativo le frasi appunto
del fratello, l’ex-grande matematico Thomas Munk, che interessa a Piglia. Munk,
dopo una brillante carriera, si ritira dal mondo e comincia il suo delirio
contro la corruzione, il degrado, quasi un eco-terrorista. Sembra creare una
rete di intellettuali anarcoidi, sembra tante cose, sembra anche che Ida possa
essere entrata nella sua rete. Sensazione che viene a Renzi leggendo le
sottolineature del libro “L’agente segreto” di Conrad, che Ida portava sempre
con sé.
Quello
che mette Piglia nel testo è molto altro, altro che viene dai vari momenti di
discussione tra tutti i personaggi. Le differenze e le similitudini tra Usa e
Argentina, i ricordi privati di Emilio e quelli pubblici, spesso legati ai
tempi della dittatura, i deliri di Munk per una società precapitalistica. Con
tutti i contorni dell’utopia, cui si legano le parole di Nina, quando sentenzia
che mentre nel passato l’eroe dei romanzi (e della vita?) era stato
l’Avventuriero, poi il Dandy, ora, nel XXI secolo sarà il Terrorista, colui che
“non uccide per interesse personale né per vendetta, [ma] per un’idea, come un
filosofo platonico”.
Si
capisce quindi anche l’intento metaforico della scrittura dell’autore. La
diversa prospettiva di un lettore che legge. Ralf, l’investigatore, legge in
Internet per arrivare ad una soluzione (anche se non alla soluzione). Emilio da
una sua lettura di una lettura di Ida di un libro di Conrad le ipotesi su cosa
possa essere successo. Tutto, quindi si infarcisce di citazioni, vero o
inventate, di rimandi, di un gioco di specchi, che nella sua deformità,
riflette la deformazione della vita.
Tuttavia,
non solo di letteratura si parla. Che analizzando Munk, Piglia ci fa riflettere
come uno psicopatico che è isolato e solitario non è che un caso clinico;
mentre se diventa un gruppo, si rivela un problema sociale. O meglio ancora,
quando in una discussione viene fuori questa frase: “Il male è questo: non
farsi carico delle conseguenze dei propri atti”. Potremmo aggiunger tutto
quello che fa di questo libro un romanzo senza altre connotazioni: inserti
meta-critici su scrittori, in particolare Hudson e Conrad, pagine sul lirismo
della lingua russa, riflessioni sulle attuali derive della società, non solo
americana, come la cultura del controllo, il puritanesimo esasperato, la deriva
totalitaria.
Non
è un giallo, quindi, forse non è classificabile tout-court. Di certo, nella
mente di Piglia prende l’andamento di un’analisi non banale sulle classi
dominanti, sul potere intellettuale, fino al connubio mortale tra potere
accademico e centri di produzione.
Un’ultima
riflessione sul titolo italiano, che è assolutamente inutile (perché “Solo per
Ida Brown”? cosa intendono gli editori con quel “solo”?). Certo, il titolo
originale non portava verso il giallo (e perché avrebbe dovuto?), visto che
riportava “Il sentiero di Ida” (inteso come percorso fisico e mentale della
protagonista). E che poteva anche essere letto ala spagnolo come “il modo di
andare”, cioè una foto dell’oggi e del suo divenire.
“Aveva quasi ottant’anni, era vicina alla
morte più di quanto potessi immaginare, e viveva con entusiasmo, senza perdere
la passione.” (88)
José Saramago “Le intermittenze della
morte” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 6,20 euro)
[A: 19/06/2020 – I: 18/06/2022 – T:
19/06/2022] - &&&
e ½
[tit. or.: As intermitencias da morte;
ling. or.: portoghese; pagine: 215; anno 2005]
Ottavo libro che leggo del Nobel portoghese,
che ormai son dodici anni che ci ha lasciato. Devo anche dire che molti dei
libri che ne ho letto, sono avvenuti dopo quel fatale 2010. Tutti libri con un
alto tasso di bellezza e di gradimento, anche “Caino” mi è sembrato il meglio
adatto alle mie corde di lettura. Che, nei confronti di Saramago sono sempre in
fibrillazione. Ho una difficoltà endemica ad entrare nella sua scrittura, piena
di lunghe frasi senza punteggiatura. Piena di dialoghi di cui dobbiamo
interpretare le persone coinvolte. Spesso, e qui, ad esempio, in massima parte,
senza personaggi chiaramente individuati, con dei nomi, con delle referenze.
In realtà in questo viaggio nel non senso,
cui dobbiamo abbandonarci per capirne tutti i risvolti, sono solo due le
persone che alla fine isoliamo dalla massa: il violoncellista e la morte.
Già, la morte, che è il lungo filo
conduttore di tutta la vicenda. Abbandoniamo la realtà e caliamoci nel testo.
Il 31 dicembre, in un ignoto paese di cui sappiamo solo che regna una
monarchia, accade il “fatto”: non si muore più. Sembra un sogno, la
realizzazione di tutte le promesse e le speranze, la discesa sulla terra del
Regno dei Cieli. Invece no. perché non è che si guarisce, non è che non si
invecchi. Semplicemente, non si muore più.
Dopo la prima euforia, il panico. Si
invecchia, si continua a soffrire, ma non si muore. Tre l’altro, l’economia del
paese va a rotoli. Gli ospedali scoppiano, la gente va in pensione e continua a
percepirla oltre il legittimo auspicio delle finanze statali. Le assicurazioni
e le compagnie di pompe funebri sono sull’orlo del collasso. Con la cattiveria
che gli è propria, Saramago immette anche la Chiesa in questo tormento: senza
la morte che ne sarà della Resurrezione?
Qui, l’autore mette il primo salto
risolutivo. Nel paese vicino si muore ancora, ed ecco allora che agenti
truffaldini, una mafia vera e propria, promette di portare gli anziani di là
del confine, dove possono morire in pace. Tutto sembra adattarsi al nuovo
equilibrio, ma dopo sette mesi ecco la seconda zeppa dell’autore: la morte di
palesa dicendo che era stato un errore, che vuole rimediare. Si ricomincerà a
morire, ma…
Ecco l’altra invenzione che ci porta in un
successivo baratro logico: per farsi perdonare la morte dice di non voler più
che si affronti la dipartita a caso. Quindi spedirà una lettera in una busta
viola, avvertendo il destinatario che morirà sette giorni dopo. Spavento,
incredulità, soprattutto per chi, ricevendo la lettera, sa di essere in buone
condizioni fisiche. Ma è tutto fintamente vero. E la popolazione cade in un
nuovo tipo di angoscia. Tutti sappiamo che si dovrà morire, ma sapere che il
termine è noto non crea sollievo, ma angosce superiori.
La favola del nostro portoghese si inceppa
quando la lettera è ricevuta da un violoncellista cinquantenne (il nostro
secondo personaggio), ma viene rispedita al mittente. Varie volte, senza che la
morte ne capisca il motivo. Per cui dovrà incarnarsi in una persona umana, ed
indagare sul posto. Ovvio che sarà un corpo di donna che verrà utilizzato. E
che porterà, noi, il violoncellista, la donna e la morte stessa verso una nuova
dimensione, ed una conclusione forse sperata, ma di certo inattesa.
L’abilità di Saramago, pur nella pesantezza
(mia) della lettura di una scrittura difficile, è di farci scommettere con lui
sulla sospensione della realtà. Cominciando dal nostro rapporto verso due
parametri vitali fondamentali: l’invecchiamento e la morte. C’è la descrizione
mirabilmente sottesa di tutta la fragilità umana nei confronti della vita. Se
nella prima parte, sono soprattutto gli anziani ad esserne colpiti, quando
rimangono nel limbo del “né vivi, né morti”, nella seconda assistiamo al cresce
dello sgomento anche nei giovani, nelle persone di tutte le età, che, in salute
e ben presenti, vengono a conoscenza della data della loro morte.
Per la morte, che è immortale ed “altra”,
sembra un aiuto all’umanità consentire un lasso di tempo per mettere ordine
alle proprie cose prima di dipartire. Non per noi, che, anche se qualcuno forse
con più serenità, sempre pensierosi siamo nell’avvicinarsi dell’abbandono.
Tuttavia, al fine, anche nel disperato
Saramago c’è un gesto umano. C’è il riconoscimento che qualcosa può esistere,
con o senza la morte. L’amore, che forse non sarà il dantesco che muove il cielo
e le altre stelle, ma c’è. E chi lo prova, chi lo sente intensamente, sa, al di
là di ogni elemento credibile, che l’amore è l’incredibile motore di tutto.
Della vita, della morte, della nostra esistenza, qui e altrove.
Amos Oz “Finché morte non sopraggiunga”
Corriere Storie 20 euro 8,90
[A: 07/07/2020 – I: 03/08/2022 – T: 04/08/2022]
- && e ½
[titolo: עד מוות Alt: Unto Death: Crusade and Late Love; lingua: ebraico; pagine: 142; anno: 1971]
Torno, a quasi quattro anni dalla morte, su
uno degli ultimi scritti di Oz entrati nella mia biblioteca. Indicando, tra
l’altro, sia il titolo originale, in ebraico, sia quello inglese, con cui il
più sovente, gli scritti di Oz vengono ricordati. Anche perché, la prima parte
del titolo inglese è anche più vicina all’originale, che, in ebraico, significa
proprio “Fino alla morte”. È una raccolta di due novelle, o meglio due racconti
lunghi, che hanno certo similarità che portano al titolo, ma sono anche di diversa
fattura e resa.
Inoltre, mentre il primo riprende i titoli
noti nelle diverse traduzioni, cioè “Amore tardivo”, il secondo, in italiano
viene riproposto con quel sopraggiungere della morte, laddove, originariamente,
riportava invece “Crociata”. E di certo i titoli inglesi avevano questo di
avvicinamento all’autore: la morte era nel cappello unificante, mentre ognuno
dei racconti aveva la sua autonomia nel titolo, e quindi anche nell’approccio
alla lettura.
I due testi, in realtà, sono molto diversi nella
forma e nella resa. Personalmente ho gradito il primo, pur immerso nel
profluvio di parole che il protagonista riversa sulla pagina per noi lettori.
Mentre il secondo l’ho trovato troppo cerebrale. Di certo, si sente che il
ventitreenne Amos vive ancora nel kibbutz dove si trasferisce a 15 anni e dove
vivrà fin quasi ai quaranta. E da dove ha bisogno di esprimere, di mandare
messaggi.
Messaggi forti nel primo, “Amore tardivo”,
che si svolge alla fine degli anni ’60, una sorta di lunga lettera, di cui, all’inizio,
non si sa il destinatario. L’autore si chiama Unger, ebreo russo immigrato
prima della guerra in Israele. Prima, in Unione Sovietica, negli anni ’20 era
un commissario politico. Ora, si sposta di kibbutz in kibbutz, tenendo
conferenze per denunciare l’antisemitismo russo. È un solitario, paranoico,
pauroso fino al midollo. Teme sempre che i russi vogliano invadere Israele
sbarcando dal mare.
Ma tutto il carico esteriore serve ad Amos
per mettere alla berlina i timori guerrafondai del periodo. Non che Israele, ed
Oz con lui, non si sentisse accerchiato. Ma i nemici esterni, gli antisemiti,
non sono i bolscevichi da barzelletta. Né tanto meno un Unger qualunque potrà
mai arrivare, se non nella testa, a scambiare due chiacchere sulla guerra con Moshé
Dayan.
L’altro lato di questo amore giunto ormai
troppo tardi, è lo scambio finale di parole e gesti mancanti con Ljuba, la sua
partner in tanti giri oratori. Anche qui, c’è il senso della mancanza. Mancanza
dei nemici, mancanza del coraggio. Unger non dirà tutto quello che pensa a
quella che avrebbe potuto essere la sua fiamma, ma… (qualcosa dovrete pure
leggere, no?).
Il secondo, invece, “Finché morte non
sopraggiunga”, è ambientato nel 1095, quando, dopo la morte della seconda
moglie Guglielmo di Touron decide di partire per una crociata tesa alla
liberazione di Gerusalemme, che non raggiungeranno mai. Infatti, vengono
bloccati in un convento abbandonato per la peste, durante un inverno
particolarmente duro. Lì, già provati dalle fatiche del viaggio, gli aspiranti
crociati muoiono di fame, di freddo, si perdono nella neve, ardono di desideri
insoddisfatti, che anche le donne son fuggite.
Tuttavia, nel mentre, riescono, i Franchi
malvagi, a far piazza pulita di tutti gli ebrei che incontrano: mercanti
sorpresi lungo la strada, abitanti di villaggi che vengono torturati, e poi
messi al rogo, magari insieme ai libri sacri, in un susseguirsi di piccoli e
grandi pogrom.
Proprio nella loro diversità, comunque, i
due scritti si rimbalzano la palla di tante similitudini: la morte, l’odio, il
razzismo, la paura dell’altro, il fanatismo, la solitudine. Non ancora
venticinquenne, Amos aveva già delle belle idee in testa. Ancora doveva passare
per alcune forche caudine (soprattutto, rispetto al suicidio della madre), ma
nella rivolta verso gli stereotipi familiari (i parenti erano tutti molto
schierati nella destra israeliana) trovava già una sua misura. Forse non
equilibrata, ma per me, che gli ho sempre voluto bene, e che lo cercai nel suo
ristorante preferito di Gerusalemme, una lettura che non delude mai.
“Non è possibile che tu sia nato e che tu
muoia senza aver vissuto … niente di speciale, non è possibile che tu abbia
trascorso tutti i giorni della tua vita sempre soltanto con un vago sogni
dentro di te, ci sarà pure qualcosa …” (16)
“Sono una persona che ascolta e legge
molto, che ha tanti diversi e strani pensieri.” (30)
Amos Oz “Tocca l’acqua, tocca il vento”
Corriere Storie 4 euro 8,90
[A: 22/01/2020 – I: 13/08/2022 – T: 15/08/2022] - &&
[titolo: אנשים אחרים Alt: Touch the Water, Touch the Wind; lingua: ebraico; pagine: 197; anno: 1973]
Con questo siamo arrivati alla fine di tutti
e venti i libri di Amos Oz presenti nella mia libreria. Dispiace solo che si
sia finiti in calando, con un libro, pur interessante in alcuni aspetti, ma
concepito e realizzato in un modo che non è nelle mie corde di lettore.
Comunque, per dovere di esattezza bibliografica, anche qui indico sia il titolo
originale ebraico (che mi si dice stia a significare “le altre persone”) sia
quello della traduzione inglese, da cui poi vengono i titoli di tutte le altre
traduzioni.
Tra l’altro, pur scritto nel ’73 (a valle
della tragedia di Monaco del ’72 e della guerra dello Yom Kippur), esce in
Italia solo nel 2017. Ed in questo caso gli anni si sentono. Non solo e non
tanto per le tematiche toccate (che alcune corde sono immortali), ma
soprattutto per la scrittura e per quel tocco di “realismo magico” che ne rende
ostica la lettura. Tanti sono i rimandi oscuri, i voli pindarici, le citazioni
nascoste e le verità ingarbugliate da parole e (forse) menzogne, che non è
facile districarsi ed andare al nocciolo del libro.
In realtà, se spogliamo il testo di tutte le
sovrastrutture, il racconto ci presenta una situazione interessante, e devo
dire, usuale nelle tematiche degli scrittori ebraici. Si comincia allo scoppio
della Guerra Mondiale, in Polonia, dove vive una coppia, Stefa ed Elisha
Pomeratz. Ebrei. Elisha, figlio di orologiai, ha una mente ordinata e dedita
alla matematica ed ai grandi sistemi. Stefa ne accompagna il pensiero, in
particolare quando si accendono dispute filosofiche nel loro mondo sull’essere,
su Nietzsche, sulla musica, sul significato dell’esistenza, su Goethe.
Elisha fugge nei boschi, vaga per l’Europa
orientale, si rifugia per un po’ in Grecia, per poi riuscire ad arrivare in
Israele. Dopo una breve parentesi cittadina, si rintana in un kibbutz (e qui
Amos trasla molta della sua esperienza personale, visto che alla scrittura del
testo, lui è un quasi trentacinquenne che vive e collabora alla vita del
kibbutz di Hulda, dove visse per più di trent’anni), aiutando il suo mondo tra
orologi e pecore, tra passeggiate e ripetizioni matematica, trovando il tempo
di riflettere sulla matematica e sulla musica (un tema a me assai caro), sino
ad arrivare ad una scoperta relativa all’infinito matematico (su cui
fortunatamente Amos opportunamente non si dilunga).
Stefa invece rimane in Polonia, passa
(quasi) indenne la Guerra, accudendo un vecchio filosofo. Ma verrà poi
inglobata nel mondo russo conquistatore. Per sopravvivere, probabilmente, dovrà
far merce del suo corpo, sposarsi nuovamente, ma riesce a sfruttare le sue
caratteristiche di pura intelligenza, dando la scalata alle strutture
spionistiche sovietiche. Riesce anche ad incontrare Stalin. Non smette mai di
pensare al suo perduto Elisha. Sfruttando la sua posizione, quando la scoperta
di Elisha rende nota la sua presenza in Israele, Stefa “si vende” ai servizi
segreti israeliani, riesce a farsi portare nella Terra Promessa, ed in un tutto
sommato commovente finale, i due sempre innamorati, riescono a ricongiungersi.
Ma se questo può essere il filo narrativo
sotteso, Oz immerge tutto in una scrittura da realismo magico, abbandonando il
realismo delle sue prime opere. Così che viene da pensare che non sempre i
primi scritti diano il meglio di sé. Infatti, ci vorranno altri trent’anni anni
perché scriva quello che è considerato il suo capolavoro (“Una storia di amore
e di tenebra”), e solo meno di dieci anni fa un libro che per me lo faceva
degno degli onori del Nobel (mi riferisco al bellissimo “Giuda”).
Quell’intreccio narrativo lineare si perde
nelle pagine nascosto tra storie parallele, a volte poco comprensibili, a
lunghe descrizioni, a sparate filosofiche. Qualcuno, più ferrato di me
nell’esegesi letteraria, parla di una volontà di scrittura che ripercorrendo
l’odio tedesco (da cui nacque “anche” lo stato d’Israele) Oz voglia esorcizzare
l’odio arabo – israeliano, in un anno topico come fu il ’72 della scrittura del
libro. Laddove, riprendendo il titolo, l’acqua, il fuoco, il vento sono
elementi che si possono toccare, mentre Elisha guarda il suo kibbutz e si
domanda “Ma è davvero possibile questo posto?”.
Quello che mi ha lasciato, come si intuiva
dall’accenno posto alle ricerche di Elisha, è la ricerca di una chiave che
riporti l’armonia nell’universo. Una chiave che lui trova nell’unione tra la
musica e la matematica, due elementi che furono sì cari alla mia giovinezza, ed
a cui, ora, ritorno spesso, pur con pensieri assai diversi.
Devo infine confessare che (e si è capito)
non amo questa scrittura (che mi ricorda il mio mai troppo sopportato Amado),
ma non riesco ad allontanarmi dall’uomo che scrive queste pagine. Un toro forte
che, come molti altri, ci ha lasciato, e se ne sente la mancanza.
“Di fronte al male bisogna alzarsi e
dire: male.” (31)
Tornati
da un bel viaggio scozzese, mi pare consono citare alcune sentenze di un libro scritto
da un grande viaggiatore. Penso a Robert
Byron ed alla sua “La via per l’Oxiana”. Tre frasi mi hanno colpito. La prima riguarda
la mia giovinezza, quando mi staccavo mai da Venezia: “[sono al Lido di
Venezia:] in una giornata di calma, deve essere la peggiore località balneare
d’Europa” (25). La seconda riguarda pensieri della mia età matura: “il
viaggiatore di un tempo era la persona che andava in cerca della conoscenza, e
a cui gli indigeni erano fieri di mostrare e raccontare le cose interessanti
del posto. In Europa [il turista] ... fa parte del paesaggio e nove volte su
dieci ha pochi denari da spendere … Da queste parti, il turista è ancora
un’anomalia. Se uno viene in Siria da Londra per affari, deve essere ricco. Se
uno poi ci viene senza motivi d’affari, deve essere ricchissimo. Nessuno si
cura se la località vi piace, o se non la potete soffrire e perché. Siete
semplicemente un turista, … una variante parassitica della specie umana, che esiste
per essere munta, come una mucca da latte o un albero della gomma” (56). L’ultima
è un omaggio postumo a mamma Agnese: “[mia madre] a cui consegno questo diario,
ora che è finito; quello che ho visto, è lei che mi ha insegnato a vederlo, e
mi dirà se sono stato all’altezza” (389). Peccato che non potrà più dirmelo.
Del resto, taccio, stretto nella morsa del gelo, del raffreddore, della tosse, tanto per citare le cose più visibili. Quindi, mi rimetto ai miei amici sia per le segnalazioni, dove mi viene indicato da non perdere “L'arte di respirare” di James Nestor, sia per gli immancabili abbracci finali.
Nessun commento:
Posta un commento