domenica 20 novembre 2022

Letteratura non anglosassone - 20 novembre 2022

Dopo una puntata giapponese, eccoci ad una nuova trama non inglese. Abbiamo un tedesco (da dimenticare), un argentino che scrive in spagnolo (dove dimentichiamo gli sbagli editoriali non il bel libro), un portoghese da leggere e rileggere, ed un israeliano (con due libri), anche se questa volta Oz (mi spiace non ci sia più) mi ha convinto meno delle trame narrative della sua maturità. Comunque, alla fine, Saramago su tutti.

Nicolas Barreau “Il tempo delle ciliegie” Feltrinelli s.p. (regalo di Alessandra)

[A: 25/12/2021 – I: 22/02/2022 – T: 24/02/2022] - & +

[tit. or.: Die Zeit der Kirschen; ling. or.: tedesco; pagine: 286; anno 2021]

Non meravigliatevi del nome francese di un autore che scrive in tedesco. Perché Nicolas Barreau non esiste. O meglio, è un’invenzione dell’editoria tedesca che negli ultimi anni ha scoperto il fascino della Francia (o degli scrittori francesi). Così come nel “noir”, dove impazza Jean-Luc Bennelac che è lo pseudonimo di Jörg Bong, Barreau dovrebbe (poi vi spiego il condizionale) essere lo pseudonimo di Daniela Thiele, editor tedesca della “Thiele Verlag”.

L’idea nasce agli inizi del secolo, e dopo qualche anno di gestazione, per la casa editrice Thiele, esce un libro a firma “Nicolas Barreau” su di una storia d’amore “molto parigina”, da me tramato una decina di anni fa. Tra l’altro, in quel libro, e qui continua ancora, c’era un editor francese che, per aver successo, scrive un libro firmandolo con un nome inglese. Da alcune indiscrezioni della stampa tedesca, analogo sarebbe il percorso di “Barreau”, se, come si mormora, è un editor che scrive per la propria casa editrice. Altre voci vorrebbero che fosse qualche “ghostwriter” che a turno si industria nello scrivere.

Comunque, in conclusione, non è di sicuro francese l’autore, e la storia è una tipica storia montata ad arte per coniugare un po’ di “Parigi”, un po’ di “cuisine”, un po’ di libri, e un po’ di romanticismo. Si sente che è costruita, si sente la voglia di costruire una storia, complicarla, per poi risolverla con un “happy end” che lascia tutti felici e contenti.

Anche l’altalena dei capitoli, altra cifra del finto scrittore, che era già presente in quel primo libro letto (che in italiano era stata titolata “Gli ingredienti segreti dell’amore”, ben diverso dal titolo originale che invece riportava “I sorrisi delle donne”). I dispari al maschile, con André in soggettive, i pari al femminile, dal punto di vista di Aurélie. Tra l’altro, con la solita scarsa fantasia sui nomi, tutti (almeno i principali) sulle prime lettere dell’alfabeto: André Chabanis, lo scrittore, Aurélie Bredin, la cuoca, Artemisie Belfond, la libraia. Solo lo chef antagonista si stacca rispondendo al nome di Jean-Marie Marronnier (che poi sarebbe “Castagna”).

Secondo, e non banale problema, se non si è letto il primo libro si perde un po’ della trama. Là, infatti, c’era la storia pregressa: un editor per far risalire le vendite della sua casa editrice, scrive un libro sotto pseudonimo, prendendo spunto dal sorriso di una cuoca in un ristorante parigino (sul sito torneremo poi). Dopo vicissitudini varie, i due si innamorano ed instaurano una specie di convivenza, mantenendo tuttavia ognuna la propria casa.

Qui, si cerca un passo avanti. André vuole chiedere la mano di Aurélie. Compra un anello e cerca in mille modi di trovare coraggio e spunto per dichiararsi. Ovvio che non ci riesca mai. O almeno, non ci riesca per molto tempo (circa 284 pagine). A parte intoppi pregressi (gita poco felice, pranzo con suocera, ed altro), il primo ostacolo avviene dopo una serata di presentazione del libro di André in una casa editrice (dove la nuova presenza, Artemisie, gli fa un corte spudorata, e questo per tutto il libro). Presentazione di successo, appuntamento al locale di Aurélie, dove però viene annunciato che il locale ha preso una stella Michelin. Ed allora tutto passa in secondo piano.

Poi si scopre che la stella era frutto di una omonimia con il locale dello chef Marronnier. Bella presenza, e belle parole, Marronnier incanta Aurélie, e André diventa geloso oltre misura. Da lì, tutta una serie di inutili capitoli, dove i due litigano, fanno la pace, litigano ancora, ed arrivano al punto di rottura. Ma il colpo di coda, che noi si aspettava da pagina tre, arriva alfine.

Festeggiando la falsa stella, André macchia la giacca di vino, la toglie e viene dimenticata, con ovviamente l’anello in tasca, in un armadio. Quando Aurélie vuole ridare tutto indietro al torsolo, scopre facilmente l’anello, ha una crisi di coscienza su come avesse interpretato male tutto quanto avvenuto per 280 pagine e va alla ricerca del torsolo. Il quale, come ovvio, fa anche lui la sua brava giravolta, pentendosi di tutto il pentibile. Tarallucci e vino. Tedeschi contenti, noi un po’ meno. I francesi per nulla, tanto che “Barreau” non è mai uscito in Francia.

Finiamo tornando sulle location. Molto si aggira intorno a Place Furstemberg (una delle più deliziose e riservate in centro, vicino a Saint Germaine. Peccato che la strada dove dovrebbe trovarsi la casa di Aurélie (rue de l’Ancienne Comédie) è vicina ma non sfocia nella piazza. Peccato che il locale di Aurélie usa il nome di un vero locale “molto parigino”, “Le temps des cerises”, che si trova in zona Place d’Italie, ma a quasi 5 chilometri dalla piazzetta. Inoltre, essendo questo il nome del ristorante, perché nel titolo tradurlo, come se si trattasse di un tempo atmosferico e non di una indicazione di luogo? Unico punto logisticamente rilevante, il locale di Marronnier, si trova a pochi chilometri da Giverny, cosa che dà modo a “Barreau” di fare un po’ di guida turistica su Monet.

Insomma, divertente da scorrere per capirne i meccanismi, poco da leggere, e antipatia, usuale, per gli editor malandrini.

“Quando è triste … non legge un libro ma pianta fiori.” (18)

“Il suo sorriso malandrino quando sollevava il coperchio della pentola per vedere cosa avevo cucinato di buono e ne rubava una cucchiaiata, il fruscio del suo giornale, i suoi libri che avevano invaso il mio appartamento.” (110)

“La prima volta che ero stata a casa sua ero rimasta basita dalla quantità di libri che aveva. Avrebbe potuto aprire una libreria.” (123)

Ricardo Piglia “Solo per Ida Brown” Repubblica Noir 14 euro 9,90

[A: 10/10/2018 – I: 15/06/2022 – T: 17/06/2022] - &&&   

[tit. or.: El camino de Ida; ling. or.: spagnolo; pagine: 252; anno 2013]

Un’altra toppa clamorosa dei curatori delle edizioni GEDI di Repubblica. Certo in questo libro c’è un morto (anzi una morta), ma è tutto fuorché un noir. Si parla certo di attentati, ma soprattutto si parla del mondo com’è, com’era, come diventa giorno dopo giorno, si parla di letteratura, si parla delle differenze tra le Americhe, quella al nord e quella al sud.

Certo l’autore, argentino poco prolifico, ha sempre scritto di letteratura, ed ha anche diretto una collana di libri “noir” in Argentina. Nei suoi cinque romanzi, certo c’è l’elemento poliziesco, in alcuni più che in altri. Questo, per me, ed è il motivo che ne ho cambiato la collocazione, è un libro che parla di letteratura, ed anche, molto, diaristico.

Riccardo Piglia (da pronunciare immancabilmente senza l’unione di G ed L) come tutti gli originari del mondo ispanico, ha un nome più articolato. Infatti, si chiama Ricardo Emilio Piglia Renzi. Ora come possiamo non pensare a qualche passaggio autobiografico in questo libro, scritto in prima persona da un professore argentino di letteratura che si chiama Emilio Renzi?

Ed in effetti, il protagonista si muove per gran parte del tempo in un campus americano, tipo Princeton, dove Ricardo ha insegnato a lungo. Ma il professore argentino ha una storia alle spalle: sperato dalla sua seconda moglie, lavora svogliatamente ad un saggio su di un autore inglese dell’Ottocento, William Henry Hudson, che ha scritto in maniera egregia libri sulla pampa argentina. Per sfuggire alla routine, accetta di passare in America un semestre, invitato dalla professoressa Ida Brown, avvenente, colta, dominatrice. Ma anche esclusiva, ed elusiva, nonché una dei maggiori esperti di Dickens e Conrad.

Non è esaltante la vita di Renzi in America: lavora con dei dottorandi, fa lunghe passeggiate sulle rive del fiume, ha modo di entrare in contatto con uno strano vagabondo di nome Orione, legge e rilegge Hudson, e soprattutto ha lunghe conversazioni con la sua vicina, l’anziana e molto preparata (ed anche ironica) Nina Andropova, una esimia biografa di Tolstoj. Questa routine è rotta dal progressivo avvicinamento di Emilio a Ida, di cui diviene l’amante.

Ma subito dopo è rotta dalla morte di Ida per lo scoppio di una bomba. Incidente? Accidente? Attentato? Qui sembra innestarsi il giallo, che giallo non sarà mai, che non interessa a Piglia fare il detective, lui, o farlo fare a noi lettori. Certo, ingaggio un investigatore che vorrebbe capire di più. Scopre che ci sono state altre morti. Tutta la seconda parte ricalcando, parafrasando le vicende del famoso Unabomber americano.

Non è la scoperta di chi sia l’attentatore, scoperta che avverrà tramite il fratello di lui che riconosce in un volantino rivendicativo le frasi appunto del fratello, l’ex-grande matematico Thomas Munk, che interessa a Piglia. Munk, dopo una brillante carriera, si ritira dal mondo e comincia il suo delirio contro la corruzione, il degrado, quasi un eco-terrorista. Sembra creare una rete di intellettuali anarcoidi, sembra tante cose, sembra anche che Ida possa essere entrata nella sua rete. Sensazione che viene a Renzi leggendo le sottolineature del libro “L’agente segreto” di Conrad, che Ida portava sempre con sé.

Quello che mette Piglia nel testo è molto altro, altro che viene dai vari momenti di discussione tra tutti i personaggi. Le differenze e le similitudini tra Usa e Argentina, i ricordi privati di Emilio e quelli pubblici, spesso legati ai tempi della dittatura, i deliri di Munk per una società precapitalistica. Con tutti i contorni dell’utopia, cui si legano le parole di Nina, quando sentenzia che mentre nel passato l’eroe dei romanzi (e della vita?) era stato l’Avventuriero, poi il Dandy, ora, nel XXI secolo sarà il Terrorista, colui che “non uccide per interesse personale né per vendetta, [ma] per un’idea, come un filosofo platonico”.

Si capisce quindi anche l’intento metaforico della scrittura dell’autore. La diversa prospettiva di un lettore che legge. Ralf, l’investigatore, legge in Internet per arrivare ad una soluzione (anche se non alla soluzione). Emilio da una sua lettura di una lettura di Ida di un libro di Conrad le ipotesi su cosa possa essere successo. Tutto, quindi si infarcisce di citazioni, vero o inventate, di rimandi, di un gioco di specchi, che nella sua deformità, riflette la deformazione della vita.

Tuttavia, non solo di letteratura si parla. Che analizzando Munk, Piglia ci fa riflettere come uno psicopatico che è isolato e solitario non è che un caso clinico; mentre se diventa un gruppo, si rivela un problema sociale. O meglio ancora, quando in una discussione viene fuori questa frase: “Il male è questo: non farsi carico delle conseguenze dei propri atti”. Potremmo aggiunger tutto quello che fa di questo libro un romanzo senza altre connotazioni: inserti meta-critici su scrittori, in particolare Hudson e Conrad, pagine sul lirismo della lingua russa, riflessioni sulle attuali derive della società, non solo americana, come la cultura del controllo, il puritanesimo esasperato, la deriva totalitaria.

Non è un giallo, quindi, forse non è classificabile tout-court. Di certo, nella mente di Piglia prende l’andamento di un’analisi non banale sulle classi dominanti, sul potere intellettuale, fino al connubio mortale tra potere accademico e centri di produzione.

Un’ultima riflessione sul titolo italiano, che è assolutamente inutile (perché “Solo per Ida Brown”? cosa intendono gli editori con quel “solo”?). Certo, il titolo originale non portava verso il giallo (e perché avrebbe dovuto?), visto che riportava “Il sentiero di Ida” (inteso come percorso fisico e mentale della protagonista). E che poteva anche essere letto ala spagnolo come “il modo di andare”, cioè una foto dell’oggi e del suo divenire.

“Aveva quasi ottant’anni, era vicina alla morte più di quanto potessi immaginare, e viveva con entusiasmo, senza perdere la passione.” (88)

José Saramago “Le intermittenze della morte” Feltrinelli euro 9,50 (in realtà, scontato a 6,20 euro)

[A: 19/06/2020 – I: 18/06/2022 – T: 19/06/2022] - &&& e ½ 

[tit. or.: As intermitencias da morte; ling. or.: portoghese; pagine: 215; anno 2005]

Ottavo libro che leggo del Nobel portoghese, che ormai son dodici anni che ci ha lasciato. Devo anche dire che molti dei libri che ne ho letto, sono avvenuti dopo quel fatale 2010. Tutti libri con un alto tasso di bellezza e di gradimento, anche “Caino” mi è sembrato il meglio adatto alle mie corde di lettura. Che, nei confronti di Saramago sono sempre in fibrillazione. Ho una difficoltà endemica ad entrare nella sua scrittura, piena di lunghe frasi senza punteggiatura. Piena di dialoghi di cui dobbiamo interpretare le persone coinvolte. Spesso, e qui, ad esempio, in massima parte, senza personaggi chiaramente individuati, con dei nomi, con delle referenze.

In realtà in questo viaggio nel non senso, cui dobbiamo abbandonarci per capirne tutti i risvolti, sono solo due le persone che alla fine isoliamo dalla massa: il violoncellista e la morte.

Già, la morte, che è il lungo filo conduttore di tutta la vicenda. Abbandoniamo la realtà e caliamoci nel testo. Il 31 dicembre, in un ignoto paese di cui sappiamo solo che regna una monarchia, accade il “fatto”: non si muore più. Sembra un sogno, la realizzazione di tutte le promesse e le speranze, la discesa sulla terra del Regno dei Cieli. Invece no. perché non è che si guarisce, non è che non si invecchi. Semplicemente, non si muore più.

Dopo la prima euforia, il panico. Si invecchia, si continua a soffrire, ma non si muore. Tre l’altro, l’economia del paese va a rotoli. Gli ospedali scoppiano, la gente va in pensione e continua a percepirla oltre il legittimo auspicio delle finanze statali. Le assicurazioni e le compagnie di pompe funebri sono sull’orlo del collasso. Con la cattiveria che gli è propria, Saramago immette anche la Chiesa in questo tormento: senza la morte che ne sarà della Resurrezione?

Qui, l’autore mette il primo salto risolutivo. Nel paese vicino si muore ancora, ed ecco allora che agenti truffaldini, una mafia vera e propria, promette di portare gli anziani di là del confine, dove possono morire in pace. Tutto sembra adattarsi al nuovo equilibrio, ma dopo sette mesi ecco la seconda zeppa dell’autore: la morte di palesa dicendo che era stato un errore, che vuole rimediare. Si ricomincerà a morire, ma…

Ecco l’altra invenzione che ci porta in un successivo baratro logico: per farsi perdonare la morte dice di non voler più che si affronti la dipartita a caso. Quindi spedirà una lettera in una busta viola, avvertendo il destinatario che morirà sette giorni dopo. Spavento, incredulità, soprattutto per chi, ricevendo la lettera, sa di essere in buone condizioni fisiche. Ma è tutto fintamente vero. E la popolazione cade in un nuovo tipo di angoscia. Tutti sappiamo che si dovrà morire, ma sapere che il termine è noto non crea sollievo, ma angosce superiori.

La favola del nostro portoghese si inceppa quando la lettera è ricevuta da un violoncellista cinquantenne (il nostro secondo personaggio), ma viene rispedita al mittente. Varie volte, senza che la morte ne capisca il motivo. Per cui dovrà incarnarsi in una persona umana, ed indagare sul posto. Ovvio che sarà un corpo di donna che verrà utilizzato. E che porterà, noi, il violoncellista, la donna e la morte stessa verso una nuova dimensione, ed una conclusione forse sperata, ma di certo inattesa.

L’abilità di Saramago, pur nella pesantezza (mia) della lettura di una scrittura difficile, è di farci scommettere con lui sulla sospensione della realtà. Cominciando dal nostro rapporto verso due parametri vitali fondamentali: l’invecchiamento e la morte. C’è la descrizione mirabilmente sottesa di tutta la fragilità umana nei confronti della vita. Se nella prima parte, sono soprattutto gli anziani ad esserne colpiti, quando rimangono nel limbo del “né vivi, né morti”, nella seconda assistiamo al cresce dello sgomento anche nei giovani, nelle persone di tutte le età, che, in salute e ben presenti, vengono a conoscenza della data della loro morte.

Per la morte, che è immortale ed “altra”, sembra un aiuto all’umanità consentire un lasso di tempo per mettere ordine alle proprie cose prima di dipartire. Non per noi, che, anche se qualcuno forse con più serenità, sempre pensierosi siamo nell’avvicinarsi dell’abbandono.

Tuttavia, al fine, anche nel disperato Saramago c’è un gesto umano. C’è il riconoscimento che qualcosa può esistere, con o senza la morte. L’amore, che forse non sarà il dantesco che muove il cielo e le altre stelle, ma c’è. E chi lo prova, chi lo sente intensamente, sa, al di là di ogni elemento credibile, che l’amore è l’incredibile motore di tutto. Della vita, della morte, della nostra esistenza, qui e altrove.

Amos Oz “Finché morte non sopraggiunga” Corriere Storie 20 euro 8,90

[A: 07/07/2020 – I: 03/08/2022 – T: 04/08/2022] - && e ½

[titolo: עד מוות Alt: Unto Death: Crusade and Late Love; lingua: ebraico; pagine: 142; anno: 1971]

Torno, a quasi quattro anni dalla morte, su uno degli ultimi scritti di Oz entrati nella mia biblioteca. Indicando, tra l’altro, sia il titolo originale, in ebraico, sia quello inglese, con cui il più sovente, gli scritti di Oz vengono ricordati. Anche perché, la prima parte del titolo inglese è anche più vicina all’originale, che, in ebraico, significa proprio “Fino alla morte”. È una raccolta di due novelle, o meglio due racconti lunghi, che hanno certo similarità che portano al titolo, ma sono anche di diversa fattura e resa.

Inoltre, mentre il primo riprende i titoli noti nelle diverse traduzioni, cioè “Amore tardivo”, il secondo, in italiano viene riproposto con quel sopraggiungere della morte, laddove, originariamente, riportava invece “Crociata”. E di certo i titoli inglesi avevano questo di avvicinamento all’autore: la morte era nel cappello unificante, mentre ognuno dei racconti aveva la sua autonomia nel titolo, e quindi anche nell’approccio alla lettura.

I due testi, in realtà, sono molto diversi nella forma e nella resa. Personalmente ho gradito il primo, pur immerso nel profluvio di parole che il protagonista riversa sulla pagina per noi lettori. Mentre il secondo l’ho trovato troppo cerebrale. Di certo, si sente che il ventitreenne Amos vive ancora nel kibbutz dove si trasferisce a 15 anni e dove vivrà fin quasi ai quaranta. E da dove ha bisogno di esprimere, di mandare messaggi.

Messaggi forti nel primo, “Amore tardivo”, che si svolge alla fine degli anni ’60, una sorta di lunga lettera, di cui, all’inizio, non si sa il destinatario. L’autore si chiama Unger, ebreo russo immigrato prima della guerra in Israele. Prima, in Unione Sovietica, negli anni ’20 era un commissario politico. Ora, si sposta di kibbutz in kibbutz, tenendo conferenze per denunciare l’antisemitismo russo. È un solitario, paranoico, pauroso fino al midollo. Teme sempre che i russi vogliano invadere Israele sbarcando dal mare. 

Ma tutto il carico esteriore serve ad Amos per mettere alla berlina i timori guerrafondai del periodo. Non che Israele, ed Oz con lui, non si sentisse accerchiato. Ma i nemici esterni, gli antisemiti, non sono i bolscevichi da barzelletta. Né tanto meno un Unger qualunque potrà mai arrivare, se non nella testa, a scambiare due chiacchere sulla guerra con Moshé Dayan.

L’altro lato di questo amore giunto ormai troppo tardi, è lo scambio finale di parole e gesti mancanti con Ljuba, la sua partner in tanti giri oratori. Anche qui, c’è il senso della mancanza. Mancanza dei nemici, mancanza del coraggio. Unger non dirà tutto quello che pensa a quella che avrebbe potuto essere la sua fiamma, ma… (qualcosa dovrete pure leggere, no?).

Il secondo, invece, “Finché morte non sopraggiunga”, è ambientato nel 1095, quando, dopo la morte della seconda moglie Guglielmo di Touron decide di partire per una crociata tesa alla liberazione di Gerusalemme, che non raggiungeranno mai. Infatti, vengono bloccati in un convento abbandonato per la peste, durante un inverno particolarmente duro. Lì, già provati dalle fatiche del viaggio, gli aspiranti crociati muoiono di fame, di freddo, si perdono nella neve, ardono di desideri insoddisfatti, che anche le donne son fuggite.

Tuttavia, nel mentre, riescono, i Franchi malvagi, a far piazza pulita di tutti gli ebrei che incontrano: mercanti sorpresi lungo la strada, abitanti di villaggi che vengono torturati, e poi messi al rogo, magari insieme ai libri sacri, in un susseguirsi di piccoli e grandi pogrom.

Proprio nella loro diversità, comunque, i due scritti si rimbalzano la palla di tante similitudini: la morte, l’odio, il razzismo, la paura dell’altro, il fanatismo, la solitudine. Non ancora venticinquenne, Amos aveva già delle belle idee in testa. Ancora doveva passare per alcune forche caudine (soprattutto, rispetto al suicidio della madre), ma nella rivolta verso gli stereotipi familiari (i parenti erano tutti molto schierati nella destra israeliana) trovava già una sua misura. Forse non equilibrata, ma per me, che gli ho sempre voluto bene, e che lo cercai nel suo ristorante preferito di Gerusalemme, una lettura che non delude mai.

“Non è possibile che tu sia nato e che tu muoia senza aver vissuto … niente di speciale, non è possibile che tu abbia trascorso tutti i giorni della tua vita sempre soltanto con un vago sogni dentro di te, ci sarà pure qualcosa …” (16)

“Sono una persona che ascolta e legge molto, che ha tanti diversi e strani pensieri.” (30)

Amos Oz “Tocca l’acqua, tocca il vento” Corriere Storie 4 euro 8,90

[A: 22/01/2020 – I: 13/08/2022 – T: 15/08/2022] - && 

[titolo: אנשים אחרים Alt: Touch the Water, Touch the Wind; lingua: ebraico; pagine: 197; anno: 1973]

Con questo siamo arrivati alla fine di tutti e venti i libri di Amos Oz presenti nella mia libreria. Dispiace solo che si sia finiti in calando, con un libro, pur interessante in alcuni aspetti, ma concepito e realizzato in un modo che non è nelle mie corde di lettore. Comunque, per dovere di esattezza bibliografica, anche qui indico sia il titolo originale ebraico (che mi si dice stia a significare “le altre persone”) sia quello della traduzione inglese, da cui poi vengono i titoli di tutte le altre traduzioni.

Tra l’altro, pur scritto nel ’73 (a valle della tragedia di Monaco del ’72 e della guerra dello Yom Kippur), esce in Italia solo nel 2017. Ed in questo caso gli anni si sentono. Non solo e non tanto per le tematiche toccate (che alcune corde sono immortali), ma soprattutto per la scrittura e per quel tocco di “realismo magico” che ne rende ostica la lettura. Tanti sono i rimandi oscuri, i voli pindarici, le citazioni nascoste e le verità ingarbugliate da parole e (forse) menzogne, che non è facile districarsi ed andare al nocciolo del libro.

In realtà, se spogliamo il testo di tutte le sovrastrutture, il racconto ci presenta una situazione interessante, e devo dire, usuale nelle tematiche degli scrittori ebraici. Si comincia allo scoppio della Guerra Mondiale, in Polonia, dove vive una coppia, Stefa ed Elisha Pomeratz. Ebrei. Elisha, figlio di orologiai, ha una mente ordinata e dedita alla matematica ed ai grandi sistemi. Stefa ne accompagna il pensiero, in particolare quando si accendono dispute filosofiche nel loro mondo sull’essere, su Nietzsche, sulla musica, sul significato dell’esistenza, su Goethe.

Elisha fugge nei boschi, vaga per l’Europa orientale, si rifugia per un po’ in Grecia, per poi riuscire ad arrivare in Israele. Dopo una breve parentesi cittadina, si rintana in un kibbutz (e qui Amos trasla molta della sua esperienza personale, visto che alla scrittura del testo, lui è un quasi trentacinquenne che vive e collabora alla vita del kibbutz di Hulda, dove visse per più di trent’anni), aiutando il suo mondo tra orologi e pecore, tra passeggiate e ripetizioni matematica, trovando il tempo di riflettere sulla matematica e sulla musica (un tema a me assai caro), sino ad arrivare ad una scoperta relativa all’infinito matematico (su cui fortunatamente Amos opportunamente non si dilunga).

Stefa invece rimane in Polonia, passa (quasi) indenne la Guerra, accudendo un vecchio filosofo. Ma verrà poi inglobata nel mondo russo conquistatore. Per sopravvivere, probabilmente, dovrà far merce del suo corpo, sposarsi nuovamente, ma riesce a sfruttare le sue caratteristiche di pura intelligenza, dando la scalata alle strutture spionistiche sovietiche. Riesce anche ad incontrare Stalin. Non smette mai di pensare al suo perduto Elisha. Sfruttando la sua posizione, quando la scoperta di Elisha rende nota la sua presenza in Israele, Stefa “si vende” ai servizi segreti israeliani, riesce a farsi portare nella Terra Promessa, ed in un tutto sommato commovente finale, i due sempre innamorati, riescono a ricongiungersi.

Ma se questo può essere il filo narrativo sotteso, Oz immerge tutto in una scrittura da realismo magico, abbandonando il realismo delle sue prime opere. Così che viene da pensare che non sempre i primi scritti diano il meglio di sé. Infatti, ci vorranno altri trent’anni anni perché scriva quello che è considerato il suo capolavoro (“Una storia di amore e di tenebra”), e solo meno di dieci anni fa un libro che per me lo faceva degno degli onori del Nobel (mi riferisco al bellissimo “Giuda”).

Quell’intreccio narrativo lineare si perde nelle pagine nascosto tra storie parallele, a volte poco comprensibili, a lunghe descrizioni, a sparate filosofiche. Qualcuno, più ferrato di me nell’esegesi letteraria, parla di una volontà di scrittura che ripercorrendo l’odio tedesco (da cui nacque “anche” lo stato d’Israele) Oz voglia esorcizzare l’odio arabo – israeliano, in un anno topico come fu il ’72 della scrittura del libro. Laddove, riprendendo il titolo, l’acqua, il fuoco, il vento sono elementi che si possono toccare, mentre Elisha guarda il suo kibbutz e si domanda “Ma è davvero possibile questo posto?”.

Quello che mi ha lasciato, come si intuiva dall’accenno posto alle ricerche di Elisha, è la ricerca di una chiave che riporti l’armonia nell’universo. Una chiave che lui trova nell’unione tra la musica e la matematica, due elementi che furono sì cari alla mia giovinezza, ed a cui, ora, ritorno spesso, pur con pensieri assai diversi.

Devo infine confessare che (e si è capito) non amo questa scrittura (che mi ricorda il mio mai troppo sopportato Amado), ma non riesco ad allontanarmi dall’uomo che scrive queste pagine. Un toro forte che, come molti altri, ci ha lasciato, e se ne sente la mancanza.

“Di fronte al male bisogna alzarsi e dire: male.” (31)

Tornati da un bel viaggio scozzese, mi pare consono citare alcune sentenze di un libro scritto da un grande viaggiatore. Penso a Robert Byron ed alla sua “La via per l’Oxiana”. Tre frasi mi hanno colpito. La prima riguarda la mia giovinezza, quando mi staccavo mai da Venezia: “[sono al Lido di Venezia:] in una giornata di calma, deve essere la peggiore località balneare d’Europa” (25). La seconda riguarda pensieri della mia età matura: “il viaggiatore di un tempo era la persona che andava in cerca della conoscenza, e a cui gli indigeni erano fieri di mostrare e raccontare le cose interessanti del posto. In Europa [il turista] ... fa parte del paesaggio e nove volte su dieci ha pochi denari da spendere … Da queste parti, il turista è ancora un’anomalia. Se uno viene in Siria da Londra per affari, deve essere ricco. Se uno poi ci viene senza motivi d’affari, deve essere ricchissimo. Nessuno si cura se la località vi piace, o se non la potete soffrire e perché. Siete semplicemente un turista, … una variante parassitica della specie umana, che esiste per essere munta, come una mucca da latte o un albero della gomma” (56). L’ultima è un omaggio postumo a mamma Agnese: “[mia madre] a cui consegno questo diario, ora che è finito; quello che ho visto, è lei che mi ha insegnato a vederlo, e mi dirà se sono stato all’altezza” (389). Peccato che non potrà più dirmelo.

Del resto, taccio, stretto nella morsa del gelo, del raffreddore, della tosse, tanto per citare le cose più visibili. Quindi, mi rimetto ai miei amici sia per le segnalazioni, dove mi viene indicato da non perdere “L'arte di respirare” di James Nestor, sia per gli immancabili abbracci finali.

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