domenica 13 novembre 2022

Haruki 最初 - 13 novembre 2022

Che, come tutti i nippologi sanno, sta per primo Haruki, cioè prima trama dedicata allo scrittore giapponese Haruki Murakami, da me sempre preso in considerazione sia per il Nobel, sia per la scrittura, che, se anche non sempre mi coinvolge, spesso mi prende e mi coinvolge. Ho collezionato, come dico sotto, quasi tutta la sua produzione, che, con i miei tempi vado a leggere. Già nel tempo ne avevo letto e commentato libri: il bellissimo   “Norwegian Wood (Tokyo Blues)”, l’intrigante “Kafka on the shore”, l’interessante e complesso “1Q84”. Qui prendiamo in esame invece scritti poco noti e non molto diffusi in Italia.

Haruki Murakami “Ranocchio salva Tokyo” Einaudi s.p. (prestito di Alessandra)

Haruki Murakami “Ranocchio salva Tokyo” Corriere – Murakami 23 s.p. (vedi sotto)

[A: 17/08/2020 – I: 28/01/2021 – T: 29/01/2021] - && e ½     

[tit. or.: かえるくん、東京を救う Kaeru-kun, Tōkyō o sukuu; ling. or.: giapponese; pagine: 60; anno 1999]

Iniziamo con questo libro la lettura dell’opera (quasi) completa di Murakami, pubblicata dal Corriere della Sera. Questo che, come indicato nel titolo, è anche l’unico titolo che non ho comprato, tra quelli non letti, in quanto ne aveva una copia natalizia Alessandra.

Anche altri titoli del piano dell’opera erano già stati letti, e non da molto, come “1Q84”, “Kafka sulla spiaggia” o “Norwegian Wood (Tokyo Blues)”, che poi rimane per me il migliore, ad oggi.

Per il resto, abbiamo una ventina di titoli, che spaziano dalle prime opere degli anni ’90 a quasi le ultime. Non le ultimissime, che la serie del commendatore, ancora non entrata nella mia biblioteca.

Fatta questa premessa, ed aspettando le altre letture, devo anche sottolineare che l’edizione Einaudi che ho letto è corredata anche da interessanti inserti grafici, dovuti alla penna di Lorenzo Ceccotti, fumettista romano di sicura buona mano (ottime alcune copertine per Sergio Bonelli e per lo stesso Einaudi).

Il libricino in sé è un po’ una favola nello stile di fate leggere questo ai ragazzi per svegliare un po’ di autocoscienza.

È la favola del signor Katagiri, onesto quando oscuro funzionario bancario, che, tornando a casa una sera, trova il salotto invaso da una rana gigante. Ovvio che dobbiamo subito fare una sospensione della realtà, che non sembra frequente incontrare rane in salotto, nonché rane giganti, nonché rane giganti che parlano. Ma su questa simbologia torniamo alla fine.

La rana, o meglio il Ranocchio, convince Katagiri che c’è un grosso pericolo di terremoto per la città di Tokyo. Terremoto provocato dalle inconsulte contrazioni di un super-lombrico che vive sotto la città. Ranocchio induce anche Katagiri a credere che il cattivo animale è sotto la sede della sua banca, uno dei due motivi che spinge il Ranocchio a chiedere aiuto a Katagiri.

L’altro è l’onestà del giapponese. Ben presto orfano, si occupa del fratello e della sorella più piccoli, facendoli studiare e lasciandoli poi liberi di seguire le loro strade. Lui restando, solo e poco propenso alla compagnia. Inoltre, è sempre corretto nella sua pur non gradita mansione di recupero crediti. Corretto perché non si aspetta nulla dalla vita, quindi non ha paura, neanche delle ramificazioni della yakuza giapponese (la potente mafia locale).

Ranocchio ha bisogno del sostegno morale, più che materiale, di Katagiri. E qui c’è la parte che cerca di coniugare realtà e fantasia. Katagiri soggettivamente, viene colpito da un sicario, si ritrova in ospedale, non può andare con Ranocchio contro il lombrico. Ma lo farà nel sonno (o nel sogno). L’infermiera che lo cura gli dice che ha avuto un malore e non una ferita da arma da fuoco, e che non c’è stato nessun terremoto. Ma Ranocchio lo viene a trovare, ringraziandolo dell’aiuto morale. Per poi soccombere, lui rana, alla metà del male del lombrico.

Lasciando Katagiri in ospedale, alle prese con una locomotiva di tolstojana memoria.

Il primo commento da fare è che il testo avrebbe bisogno di un po’ di esegesi della cultura nipponica. Intanto, lo stile del testo è molto mutuato dal mondo anime-manga giapponese, quelle lunghe a storie a fumetti, che personalmente non apprezzo particolarmente, ma che hanno un grande successo. Perché, nei manga, c’è spesso una rana che si allea con i buoni per sconfiggere i cattivi. Anzi, non una rana qualsiasi, ma una “Super Rana”, tanto che nelle versioni inglesi si traduce “Super-Froggy”, e credo che in giapponese sia proprio “Kaeru-kun”. Che per chi ha visto il Giappone capisce come possa invadere il mondo stesso dei nipponici (so ad esempio che ne esiste anche una birra). Questo perché, nella simbologia giapponese, la rana porta fortuna ed è simbolo di felice ritorno a casa. Uno dei motivi che spingono Haruki ad utilizzarla in un racconto commissionatogli a valle del disastroso terremoto di Kobe del 1995. Per il quale Haruki dice, soprattutto ai giovani, non abbiate paura. comportatevi correttamente, ed anche il più terribile terremoto potrà essere lasciato alle spalle.

La scrittura è senz’altro scorrevole, ma le troppe simbologie appesantiscono il pur brevissimo testo, rendendolo poco fruibile agli adulti, e poco interessante ai ragazzi. Tra l’alto degli elementi che ho più gradito, rispetto a questa eterna lotta tra bene e male, sono le citazioni di Ranocchio: Tolstoj, Hemingway, ed ovviamente Dostoevskij, quasi a volerci anche dire, che anche i più terrificanti mondi immaginari proposti dalla letteratura, non sono mai più terrificanti della realtà.

Haruki Murakami “La strana biblioteca” Corriere – Murakami 24 euro 9,90

[A: 20/10/2020 – I: 22/06/2022 – T: 23/06/2022] - && e ½     

[tit. or.: ふしぎな図書館 Fushigina toshokan; ling. or.: giapponese; pagine: 77; anno 2005]

Periodicamente, il grande scrittore giapponese, alterna romanzoni da un numero infinito di pagine, con racconti brevi e brevissimi. Dopo il Ranocchio, eccoci allora ad una diversa prova di esagerata brevità. Tra l’altro Haruki ne scrive una prima versione nel 1983, per poi riprenderla e rielaborarla in questa. Forse anche perché, almeno nella versione italiana, vengono aggiunti disegni a commento.

Anche qui, come nel precedente, i disegni sono di Ceccotti, che però ho trovato meno intriganti dei commenti a fumetti presenti nel Ranocchio.

Un dubbio iniziale sul titolo, che, a meno di errori del dizionario giapponese, sarebbe in originale “misteriosa” e non “strana” la biblioteca. Non sono esperto, ma il primo termine mi sembra più calzante, dopo la lettura del testo.

Un testo che, come molta letteratura giapponese (penso soprattutto a Banana di cui ho letto molto) è sempre sospeso tra realtà e sogno, laddove la dimensione onirica è un complemento e non una negazione della realtà.

Qui la storia comincia ad avere una sua parvenza di sviluppo organico, semplice all’apparenza, ma poi, se la osserviamo da vicino c’è forse qualcosa in più.

Tutto ruota intorno ad un ragazzo, forse un po’ solitario, lettore di libri, che, tornando da scuola, restituisce quanto letto e chiede nuovi libri. Poiché a scuola si era parlato di turchi, domanda di leggere un libro sulla riscossione delle tasse nell’Impero Ottomano. Ahi, libri delicati, che il bibliotecario lo porta in un labirinto sotterraneo, dove solo lì può leggere quei libri “pericolosi”. Dovrà leggere i tre tomi ed impararli a fondo in un mese di segregazione.

Il ragazzo è spaesato, in particolare quando viene periodicamente visitato da un guardiano ricoperto di pelli di pecora, che gli svela il bibliotecario essere interessato a mangiare il cervello del ragazzo per incamerarne la conoscenza. Sembra quasi di passare da un manga un po’ melenso ad un Tarantino in grande spolvero.

Il ragazzo comincia anche a spaventarsi, calmato solo dal periodico presentarsi di una bellissima e misteriosa ragazza senza voce. E quando si calma si immerge nella lettura della storia del collettore di tasse Ibn Armut Hasir. In particolare, quando viene alla ribalta il parrocchetto del turco, che rimanda al ragazzo il suo uccello che lo aspetta a casa, uno storno.

Dopo tre giorni, il ragazzo comincia ad essere insofferente, vuole tornare a casa, ingaggiando allora, con l’aiuto dell’uomo pecora e della ragazza, una lotta senza esclusione di colpi con il vecchio bibliotecario. Ma la lettura è sempre più forte della coercizione ed il ragazzo fugge, tornando a casa dove trova sua madre ed una calda colazione. E si domanda: “Ma è accaduto veramente? In tutta onestà, non posso esserne sicuro.”

Seppur pieno di molti elementi onirici e metafisici, il centro del breve racconto è sul potere della lettura. Quando leggiamo veramente, entriamo nel libro, nella trama, ci dimentichiamo, per un minuto, per un’ora, di qualunque realtà che ci circonda, proiettati in quella realtà altra, che poi siamo noi stessi a scegliere quando scegliamo il libro da leggere. Anzi, è proprio la lettura che ci sorregge anche nei momenti di difficoltà. Come al ragazzo, che, entrando nel mondo turco, si dimentica (anche se per poco) della madre in ansia, del vecchio che lo vuole mangiare, del cane che lo aggredì da piccoli. E viaggia con la mente (che chi legge è un viaggiatore, si sa), incontrando molti sé che vorrebbe incarnare (e forse…).

Con un ultimo elemento di transizione: la biblioteca, punto altro di convergenza letteraria, che è appunto piena di libri, quindi un luogo che il lettore ama incondizionatamente. Ma è anche altra rispetto al confortevole ambiente casalingo. Leggere lì ti pone in gioco, e Haruki, per soprammercato, ci si metta a caricare il testo di altri simboli. Come detto metafisici, come la ragazza che compare tutte le sere, ma che solo lui vede. Con personaggi che agiscono e poi misteriosamente scompaiono. E come ribadito, nella miglior tradizione orientali, onirici, che riprendono ed interpretano miti e leggende proprie del mondo giapponese e non solo. Come gi uccelli di cui si disse, che, come la Fenice, incarnano la giustizia. Aiutano i buoni e gli onesti, e così sarà nel prefinale, quando daranno una mano alla fuga del ragazzo. Come il cane nero, simbolo vivente della depressione che bisogna combattere e vincere. Che dire anche dell’anziano bibliotecario, che da placido letterato si trasforma in brutto e cattivo, laddove simboleggia il cattivo uso della conoscenza che si può fare. Mentre il suo contraltare è l’uomo pecora, il debole che si sottomette al potente, che si fa umiliare dal primo energumeno che mostra i muscoli.

Che dire, Haruki è riuscito a condensare in meno di ottanta pagine una marea di temi, delineandoli con una scrittura di estrema pulizia, senza fronzoli. Certo, io resto sempre legato al suo meraviglio “Tokyo blues”, ma qui c’è da riflettere. Tanto per chiudere, ad esempio, il ragazzo riporta alla biblioteca un libro che ha letto: “Memorie di un guardiano di pecore”. Poi avrà per tutta la prigionia un rapporto costante con il guardiano della cella che si presenta ricoperto di pelle di pecora. E se la pecora è da sempre simbolo di dolcezza, il suo guardiano si lega alla parabola del Buon Pastore, cristiano ma non solo.

Forse stiamo andando troppo oltre. Torniamo alle scarse pagine giapponesi, leggendone e rileggendone l’ultima prima di chiudere il libro.

Haruki Murakami “Gli assalti alle panetterie” Corriere – Murakami 22 euro 9,90

[A: 10/10/2020 – I: 01/07/2022 – T: 02/07/2022] - && e ½     

[tit. or.: パン屋襲撃 Pan'ya shūgeki + パン屋再襲撃 Pan'ya saishūgeki; ling. or.: giapponese; pagine: 59; anno 1986]

Continuiamo la lettura dei micro-romanzi di Murakami, quelli che escono in Italia corredati da disegni di “fumettari” nostrani. Ho usato volutamente uno spregiativo, in quanto, per me sono assolutamente all’opposto dello spregio. Riconosco ed ammiro questi grafici, sia nelle loro espressioni disegnate, sia (grazie Luana) nelle storie che raccontano. Era così per i primi due romanzetti. È così anche in questo, dove la mano dei disegni è passata a due racconti legati con disegni di Igort (all’anagrafe Igor Tuveri, un ottimo disegnatore, che personalmente però è legato all’allontanamento del mio purtroppo scomparso amico Ennio Peres dalla testata di Linus da lui diretta; un dolore che non supero).

Tuttavia, i disegni di Igort ben sottolineano l’atmosfera alla Tarantino anche di questi testi, seppur senza le efferatezze sanguinolente del regista. Ci si muove in una Tokyo di periferia, mal abitata, e spesso ci si muove di notte, tra luci opache e sentimenti stranianti.

I testi sono due, legati da un personaggio e dalle panetterie del titolo. Sono testi scritti intorno alla metà degli anni Ottanta, inseriti in antologie e poi solo dopo gli anni ’10 di questo secolo riuniti in un unico, veloce volume.

Nel primo incontriamo due diciottenni sbandati che, in una notte senza capo né coda, sono attanagliati da una fame incontenibile. Ovvio che siano anche squattrinati, così, invece di poter comperare qualcosa, decidono di assalire l’unica cosa aperta in quell’ora serotina: una panetteria. Sono affamati, ma non malavitosi, quindi, certo hanno coltelli per metter paura, ma non vogliono soldi, solo pane.

Impagabili alcuni momenti del racconto: l’entrata nella panetteria, con la vecchia signora indecisa sugli acquisti, che ha difficoltà a trovare i soldi ed i due che stanno lì, aggirandosi, fremendo, con il profumo del pane che acuisce la fame. Poi, il rapporto con il fornaio, le discussioni, e l’accordo di compromesso: pane a volontà ma prima devono star lì ad ascoltare insieme un brano di Wagner: “Tristano e Isotta”. I due amici escono sazi ma increduli. Quale sortilegio ha sciolto la fame nella musica?

In questo primo apologo, Murakami fa una sorta di “catena di sant’Antonio”. I ragazzi non sanno come trascorrere il tempo, e la mancanza di fantasia vitale li porta a concentrarsi sulla necessità del cibo. Quindi la fame li lega ad un reato: più hanno fame, più vogliono compiere un crimine. E mentre sale questa voglia, avvicinarsi ai profumi del forno, alimenta la necessità interiore della violenza, che però non scoppierà mai.

Il secondo racconto si svolge dieci anni dopo. Ritroviamo uno dei due ragazzi, l’altro si è perso per il mondo, sposato, che racconta alla giovane moglie l’avventura dell’assalto al fornaio. Siamo di notte, e la coppia si era svegliata improvvisamente per i crampi di fame. Sono sempre squattrinati, e la loro casa è vuota. Alla fine del racconto la moglie decide che la loro fame deriva dal sortilegio del fornaio di dieci anni prima, che ha privato il marito dello sfogo violento che la fame portava con sé.

Come spezzare la catena del sortilegio, se non portando a compimento quanto iniziato dieci anni prima? Qui, Murakami si supera nel calarci inizialmente in un’atmosfera completamente pulp, per poi risollevarci, e cullarci come la barca culla i protagonisti alla fine del racconto. Pulp, che la donna porta il marito in macchina dove ha due fucili (perché? Mistero), e lo porta nell’unico posto aperto in quell’ora notturna. Siamo sempre, come nel primo brano, in quella Tokyo che sembra deserta, ma che forse è solo disperata.

E i disperati sono i nostri, che trovano aperto solo un McDonald, dove, armi alla mano, rapinano trenta Big Mac. Ma le due Coca-Cola di accompagnamento le pagano, che non sono ladri, ma esorcizzatori di un maleficio che inquinava la loro vita. Haruki riesce a mostrarci lo stupore del personale del Mac, unito al nostro, per questa rapina di solo cibo. Poi, come detto, ci saziamo e veniamo cullati da una barca in mezzo ad un lago.

Nella ripresa del testo, le motivazioni dello scritto portano a vedere solo un radicale attacco al consumismo, ed all’invasione straniera in Giappone. Quindi, non si assale un ristorante locale di sushi, ma un McDonald’s che invade il suolo nipponico. Si nota anche un’involuzione tra i due testi. Il secondo, infatti, prende una piega onirica che sarà pure tipica, ma io preferisco rimanere con i piedi per terra, magari anche ad ascoltare Wagner, pur non piacendomi.

Unico punto che porta un senso a tutto il libro, unione dei due testi, è l’esclamazione che riporto tra le citazioni da ricordare. Un piccolo Murakami, qui, con alcuni spunti, ma troppo breve per riuscire ad avere una valutazione più organica.

“Al mondo ci sono decisioni sbagliate che portano a risultati giusti, e viceversa.” (19)

Haruki Murakami “Sonno” Corriere – Murakami 25 euro 9,90

[A: 01/11/2020 – I: 18/09/2022 – T: 19/09/2022] - &&      

[tit. or.: 眠り Nemuri; ling. or.: giapponese; pagine: 77; anno 1989]

Ecco un altro dei brevi – brevissimi testi di Murakami, scritto alla fine degli anni ’80, e recentemente ripreso da Einaudi nella pubblicazione di antologia dello scrittore (questo è inserito in “L’elefante scomparso e altri racconti”), impreziosito (almeno nelle intenzioni) dai disegni della disegnatrice Kat Menschik nell’edizione del 2009, che è quella ripresa dal Corriere per la quasi Opera Omnia dell’autore.

Tra l’altro, l’artista tedesca aveva anche illustrato il precedente libro letto (“Assalti alle panetterie”) che in Italia ha invece visto l’uscita con i disegni di Igort.

Una prima domanda, capziosa data la mia ignoranza del giapponese, sarebbe capire se, come dice Google e come l’edizione tedesca, il titolo sia più correttamente da riportare come “Dormire”, piuttosto che con “Sonno”. Certo che indicano situazioni assimilabili, ma con piccole sfumature di interpretazione.

In ogni caso, il nucleo centrale della breve storia è l’impossibilità di dormire che affligge improvvisamente la protagonista. Non ci sono nomi nel testo, solo “funzioni”. La protagonista è donna, ma anche, fino a che non rinuncia, moglie e madre. C’è un marito con una presente assenza. C’è un figlio, di cui ci si può occupare, amare, fino a che non assomiglia troppo ad altro da noi. C’è un vecchio inquietante, ma forse è solo un sogno.

Appunto dal sogno comincia l’Odissea della donna. Un vecchio le bagna i piedi mentre lei è nel letto paralizzata. Bagnati fino a marcire, come ogni oggetto troppo a lungo in acqua. Acqua che ovunque ha sempre un significato purificatorio (ricordiamo la tradizione cristiana del lavacro dei piedi prepasquale, o le tradizioni islamiche e mediorientali delle abluzioni ante-preghiera, fino alle cerimonie orientali, come il “Misogi” shintoista, dove l’abluzione è totale, simile al battesimo per immersione, come avvenne per Gesù nelle acque del Giordano), ma se poi porta al decadimento del corpo, bisogna tirarsene fuori.

Così la donna, esce dal sogno, e da quel momento, per i diciassette giorni del narrato non riprenderà più a dormire. Continua la sua vita, le sue attività giornaliere (spesa, figlio, scuola, cibo) cui aggiunge la lettura. Qui siamo nella prima grande metafora di Murakami. Leggere è una valida alternativa al dormire, quasi che leggere possa ricaricare lo spirito, come il sonno il corpo. E non letture qualsiasi.

La donna riprende un libro della sua gioventù, “Anna Karenina”, e lo legge e rilegge, come dice lei, scoprendo ogni volta cose nuove. Perché la lettura è scoperta e riscoperta, ed ogni libro, noi lo sappiamo bene, ci manda sempre dei messaggi personali. Che poi noi li capiamo o meno è materia di altre discussioni.

In questo modo star svegli diventa il momento della vita in cui la donna ha uno spazio tutto suo, un momento in cui si può dedicare a sé stessa. Se poi, come detto, tutto rimane inalterato, tutto prosegue la sua routine giornaliera, Haruki cin invita a riflettere: chi è che dorme? Chi è che è realmente sveglio?

La donna, nella sua solitaria ribellione, comincia anche ad essere irrequieta. Legge compulsivamente, comincia a bere, poco ma superalcolici. Esce di notte, poi ritorna. Si maschera quale fosse un uomo, interrogandosi, muta, sulla sua identità.

Il libro non ha un finale “costruito” da Murakami. La donna una notte prende la sua auto, gira per la città, si ferma. Sente dei passi, prova a mettere di nuovo in moto l’auto che non parte. I passi si avvicinano. Poi … ad un certo punto Murakami ci lascia. E noi ci fabbrichiamo il nostro finale ad uso e consumo.

Per qualcuno i passi sono malintenzionati che faranno del male alla donna. Per altri saranno passi salvifici che la porteranno altrove. Alcuni ne vedono la necessità di svegliarsi che, per l’appunto, tutto era sogno e non realtà.

Una domanda, ad un certo punto Murakami e la donna ci fanno e si fanno. Non vi dico a che punto, non vi dico perché, non vi dico altro se non la domanda stessa: "E se fosse questa la morte? Cosa devo fare, se morire significa restare eternamente sveglia a guardare il buio?"

Intanto, per riprendere la metafora di cui sopra sul leggere, il finale vuoto sembra volerci indicare anche che la lettura è il modo in cui la realtà prende forma, e quindi come non guardare con occhio diverso i continui rimandi ad Anna Karenina, lei che scelse di morire piuttosto che vivere un vita non vera.

Pur continuando a voler bene a Murakami, queste pagine non mi hanno travolto, non mi hanno preso sino in fondo. Certo. È un cantico sulla ricerca della propria libertà. Un cantico che prende l’immortalità dei libri, di Tolstoj ad esempio, per farci domandare cosa ne sia di noi, della nostra ricerca dell’immortalità personale. Come vinceremo la morte? Quali sono le scelte che, durante la nostra vita abbiamo fatto per sfidare, come la donna, destini avversi e costringenti?

Abbiamo, come lei, abbandonato le nostre passioni? E si sa che le passioni non coltivate appassiscono, cadono nell’oblio, e modificano il corso della nostra vita.

Tuttavia, mi aspetto sempre qualcosa di più dal nostro amico giapponese, qualcosa che mi riporti ancora una volta alle atmosfere di “Tokyo blues”.

Haruki Murakami “Vento & Flipper” Corriere – Murakami 9 euro 9,90

[A: 08/07/2020 – I: 15/10/2022 – T: 17/10/2022] - &&&     

[tit. or.: 風の歌を聴け Kaze no uta o kike + 1973年のピンボール 1973-nen no pinbōru; ling. or.: giapponese; pagine: 229; anno 1979-1980]

Non so per quali sue personali motivazioni, ma solo dopo quasi 40 anni dalla scrittura, Murakami ha autorizzato la traduzione dal giapponese dei suoi due primi romanzi. Che in effetti, sono forse più racconti lunghi, ma che illustrano in maniera egregia il percorso iniziale dello scrittore giapponese.

Inoltre, Murakami ha anche corredato il volume con una breve introduzione che ripercorrere i momenti del trentenne Haruki, sospeso tra mille attività di certo a lui care, ma non ancora indirizzatosi verso la scrittura. Aveva aperto un bar, e lo aveva corredato di musica dal vivo. E da sempre sappiamo il suo amore per la musica in generale, e per il jazz in particolare, tanto che spesso le sue opere hanno rimandi sonori (vogliamo forse ricordare anche qui “Norwegian Wood – Tokyo Blues”?).

Noi che si è girato molto, sappiamo anche che, forse inopinatamente, i giapponesi sono patiti di baseball. E proprio durante una partita di baseball, Haruki dice di aver avuto la netta sensazione che la scrittura dovesse essere il suo futuro. Così, ritagliando tempo al locale, alla musica, alla moglie, su “tavoli da cucina” butta giù questi due scritti. Che, anche se non ne ripercorriamo il percorso, gli apriranno le porte del mondo letterario.

Tra l’altro, sono due scritti collegati, con i due personaggi principali che agiscono in entrambi. Un “io” narrante che non facciamo fatica a sovrapporre ad Haruki stesso, ed il suo amico (forse alter ego) soprannominato “Il Sorcio”. Che bisogna tenere a mente, in quanto, da questo inizio, proprio il Sorcio sarà il protagonista di altri due successivi romanzi: “Nel segno della pecora” (che chiude la “Trilogia del Sorcio”) e “Dance Dance Dance”, successivo ma con personaggi che continuano a ripresentarsi.

Personaggi-icone, tristi o intristiti, quasi incapaci di relazionarsi con gli altri, pensando alla vita passata, quasi incapaci di crescere. Murakami, anticipando di decenni quello che sta succedendo, già intravede i guasti che la tecnologia potrebbe portare (ed ha portato), narrando le sue storie con piccoli flash che squarciano la realtà quotidiana. L’autore, trentenne, si chiede e ci chiede: cosa significa diventare adulti?

Seppur con alcune zone d’ombra nella scrittura, a me ha già dato il senso del Murakami che verrà, in particolare del Murakami che amo (dato che non tutto quello che scrive mi piace allo stesso livello).

Ascolta la canzone del vento (風の歌を聴けKaze no uta o kike ) [pag. 13 – 105]

“Così nascose il viso nel cuscino, si coprì le orecchie con le mani e pensò: non pensare a niente, pensa al vento”. Questa è la frase finale del racconto “Chiudi un’ultima porta” di Truman Capote, scritto nel ’47. Da qui, e dalla sua conoscenza della letteratura (e della musica) anglosassone parte questo primo romanzo di Murakami, incorporandone il titolo.

Anche se, nella prima stesura, Murakami lo aveva intitolato “Buon compleanno e Buon Natale”, che aveva anche un suo senso, come vedremo.

La storia si svolge in 19 giorni, dall’8 al 21 agosto del ’70. Il narratore, studente a Tokyo, torna nella natia Kobe per l’estate, che passa per la maggior parte del tempo bevendo e pensando. Bevendo al bar di un cinese, Jay, spesso insieme al suo amico, il Sorcio. Lui viene da un profondo dolore, che una sua precedente fiamma si è suicidata in primavera, dolore che annega bevendo compulsivamente.

Nel bar incontra una donna ubriaca, cui manca il dito mignolo. La cura, poi si perdono di vista. Per poi ritrovarla, giorni dopo, nel negozio di dischi dove fa la commessa. E dove era andato alla ricerca di un disco, “California Girls” dei Beach Boys, ricordo anch’esso di un suo vecchio amore liceale. Si frequentano per qualche giorno, lei gli confessa di aver appena avuto un aborto, e che pensa spesso alla sua gemella lontana. Poi si perdono di vista al suo ritorno a Tokyo.

In parallelo, c’è il rapporto con il Sorcio, anche lui sbandato, ma benestante al contrario del narratore. Durante le giornate alcoliche i due parlano dei loro sogni, della vita che passa senza che riescano a trovare spunti positivi. Il Sorcio è anche ossessionato da una donna, ma non ne rivela i motivi. Mentre il narratore è anche preso dal numero 3. Tre zii che hanno avuto un peso nella sua vita. Ma anche le tre ragazze con cui è andato a letto: una sua compagna di scuola, una ragazzina di 16 anni incontrata in treno ed una studentessa universitaria, quella che poi si è suicidata.

È comunque il Sorcio che si allontana da Kobe, che scrive racconti strampalati inviandoli al narratore per Natale, visto che l’Io narrante dice di essere nato il 24 dicembre 1948. Capite allora il titolo iniziale.

Il tutto condito dai ricordi e dalle citazioni dei libri di un fittizio autore inglese, Derek Hartfield, i cui libri erano pieni di alieni, di mostri, e di frasi strampalate. Non mancano, ovvio, la musica (oltre ai Beach Boys, ci sono Elvis Presley, i Creedence Clearwater Revival, Bob Dylan ed altri), i libri (in particolare “L’educazione sentimentale” di Flaubert) ed anche il cinema (tra cui l’indimenticabile “Madre Giovanna degli Angeli” o “Il ponte sul fiume Kway”). Ed altrettanto ovviamente, alcuni elementi che tornano nei successivi scritti, come la fame (come quella delle “panetterie”).

Finendo con il pensare al vento, ascoltarne la canzone, lasciarsi fluire nella vita, sperando che il futuro sveli i misteri del proprio passato (o viceversa?).

“Ogni tanto mento … se dicessimo sempre e solo la verità, forse il valore della verità si perderebbe.” (89)

Flipper, 1973 (1973年のピンボール) [pag. 107 – 229]

L’anno dopo, visto anche il buon riscontro del precedente, decide di scrivere il secondo atto della trilogia del Sorcio. Sono passati quattro anni dal precedente, ed il narratore ora lavora in un’agenzia di traduzioni. Vive a Tokyo, quindi non frequenta più né il J’s Bar, né il suo amico il Sorcio, che invece è tornato a Kobe e lì rimane.

La storia si sviluppa in alternanza, dove seguiamo il narratore a Tokyo ed il Sorcio al bar. Il primo convive con due gemelle (ricordate la donna senza mignolo? Ma queste sono altre, solo rimandi). Non si sa da dove vengono, sono identiche, tanto che lui le distingue per il numero della T-shirt, sono apparse all’improvviso ed alla fine, senza motivi apparenti, andranno via.

Ma il vero co-protagonista è un flipper, lo “Spaceship 1973”, un flipper unico, distribuito in pochi esemplari, che il protagonista usa a lungo in quell’anno, per poi perderlo di vista, e passare buona parte del romanzo a cercarne le tracce. Lui che aveva fatto un record stratosferico con quel flipper a tre palette (io sono sempre stato negato al flipper, ma ne ricordo alcuni, a due palette, con grandi sfide a Tortoreto Lido). Riuscirà a ritrovarlo, ma non avrà il coraggio di giocarci ancora. È un ritrovo del suo passato, che gli serve, come altri elementi di affrontare il proprio presente.

Un presente dove Murakami infarcisce di tante cose. Ricordi dei movimenti studenteschi di quegli anni (e noi ricordiamo le manifestazione studentesche nostre al grido di “zengakuren”). Ricordi della musica di quegli anni, come il ricordo che pongo in finale (Gene Pitney partecipò a molti festival di Sanremo, cantando “E se domani”, “Nessuno mi può giudicare”, rese famose da altri, e, per me, sempre legato a “Un soldino”, che spero qualcuno ricorderà).

Seppur il Sorcio compare a tratti, nelle sue bevute al bar del cinese, e nel rapporto, irrisolto, con la donna del faro, è sempre l’io narrante che torna in primo piano. Con le gemelle, ma anche nel ricordo di Naoko, la sua ragazza che si uccise anni prima (e di cui si accenna, senza farne il nome anche nel “Vento”) e con la segretaria dell’agenzia con cui instaura un be rapporto di mutua assistenza morale durante uno strano pranzo.

Il modo di esporre le vicende è sempre lo stesso, sprazzi di immagini, salti, presenze che non si spiegano. Tutto perché i nostri provano a crescere, purtroppo, come ci insegna la società giapponese, spesso autonomamente, avendo difficoltà di rapportarsi all’altro. Quindi, anche un viaggio dentro la solitudine dei protagonisti. Seguendo le loro gesta quotidiane, cerchiamo anche noi, con loro, di capire l’indirizzo della propria vita, di affrontare i cambiamenti che la vita stessa ci propone. Certo, l’io narrante è libero, di scegliere, di parlare, di far fronte ad uno dei temi cari in quel periodo a Murakami: guardare il passato per affrontare il futuro.

Si sente ancora che Murakami non ha tutte le frecce ben indirizzate. Ma il suo arco è pieno, e questi testi ci mostrano in embrione molti dei temi che affronterà nei successivi scritti.

Alla fine, una buona lettura, nonostante tutto.

“Viste da lontano … quasi tutte le cose sembrano belle.” (180)

“Un giorno qualcosa cattura il nostro spirito … un vecchio disco di Gene Pitney.” (182)

Essendo comunque la prima trama di novembre, non poteva mancare l’analisi delle letture di agosto. Una delle punte dell’anno, 19 letture favorite dagli ozi sorianesi. Su cui spiccano, ovviamente, due ottimi Simenon nonché il libro del mio giovane amico Paolo Zani, relegando nel fondo una non felice uscita del solitamente migliore John Grisham.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Georges Simenon

La finestra dei Rouet

Repubblica

9,90

4

2

Amos Oz

Finché morte non sopraggiunga

Corriere

8,90

2,5

3

Rosa Teruzzi

Non si uccide per amore

Feltrinelli

8,50

3

4

Valentina Cebeni

Un mondo libero

Sperling & Kupfer

s.p.

2

5

Rosa Teruzzi

Ultimo tango all’Ortica

Feltrinelli

8,50

3

6

Christoph Ransmayr

Atlante di un uomo irrequieto

Feltrinelli

s.p.

2,5

7

Rosa Teruzzi

La memoria del lago

Feltrinelli

8,50

3

8

Amos Oz

Tocca l’acqua, tocca il vento

Corriere Storie

8,90

2

9

Gianrico Carofiglio

La disciplina di Penelope

Repubblica Anima Noir

8,90

3

10

Marco Martinelli

Nel nome di Dante

Ponte alle Grazie

s.p.

2,5

11

Carlo Lucarelli

Intrigo italiano

Einaudi

12

3

12

Auđur Ava Ólafsdóttir

Hotel Silence

Einaudi

12

3,5

13

Nadia Fusini

Possiedi la mia anima

Feltrinelli

s.p.

2

14

John Grisham

Gli avversari

Mondadori

s.p.

1,5

15

Georges Simenon

La fuga del signor Monde

Repubblica

9,90

4

16

Alessia Gazzola

Il ladro gentiluomo

Longanesi

18,60

2

17

Paolo Zani

Il corpo e lo spettro

Donizelli

s.p.

4

18

Michel Bussi

Un aereo senza di lei

Repubblica Noir

7,90

3,5

19

Clive Cussler & Justin Scott

Il contrabbandiere

TEA

9,90

2

Visto che anche questo viaggio novembrino è terminato, mi piace ricordare uno dei miei primi viaggi, il mio primo Egitto, con le scritture che ne fece molti anni fa Elizabeth Peters, che nel suo “La sfida della mummia” prima ci lascia un pensiero interessante: “Un atto malvagio contiene già in sé la degna punizione! Mi merito questo sciagurato destino; sono io che l’ho costruito…” (23). Ma poi mi sorprende con una poesia egizia dal potente afflato amoroso: “L’amore della mia amata è sull’altra sponda / un’ampia distesa d’acqua ci separa / e il coccodrillo attende sulla riva. // Mi immergo nell’acqua e cammino sui flutti / il mio cuore è più forte degli abissi / ed è il suo amore che mi dà la forza” (188).

Che dire? La Scozia porta sempre belle immagini, anche se in novembre non la consiglio ai più. Molti sono i problemi da affrontare, e non solo per il clima. Ora ci si avvia per un periodo di calma e transizione, che fino a Natale di sicuro ci si dedicherà di più a fatiche familiari ed amicali. Ma non dimentico mai i miei lettori, a cui come ogni settimana invio un lungo abbraccio.

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