domenica 30 luglio 2023

Tra brividi ed emozioni - 30 luglio 2023

Mi fa piacere accogliere nuovi lettori con queste trame dal simpatico numero, lettori cui in separata sede ho spiegato i meccanismi di queste trame.

Questa settimana chiudiamo il mese di luglio (dopo avervi lasciati soli per un po’) con alcuni libri delle collane Noir di Repubblica. In particolare, Emozioni e Brividi Noir. Con pretto spirito maschilista (dove posso ironizzare, che è proprio lontano da me), il migliore del lotto risulta l’unico uomo. Le quattro donne stanno lì sulla soglia, pronte a scattare, in particolare la canadese Penny, che aspetto in altre sue pubblicazioni.

Jean Failler “Il respiro della marea” Repubblica Emozione Noir 40 euro 7,90

[A: 06/05/2020 – I: 18/12/2022 – T: 20/12/2022] - &&&

[tit. or.: Les bruines de Lanester; ling. or.: francese; pagine: 140; anno 1992]

Jean Failler è, ora, un ottantenne bretone dall’aria tranquilla (almeno in foto). Dopo una vita anche avventurosa, tornato nella Bretagna natia, lavora per l’azienda familiare nel settore della pesca, senza mai dimenticare di avere una passione, anche forte, per la scrittura. A 40 anni vince un concorso di scrittura creativa, che lo spinge a proseguire il cammino impervio delle belle lettere.

Ma la svolta avverrà solo nel 1992, quando scrive, pubblica ed ottiene un discreto successo con questo libro. L’eroina del romanzo, all’epoca ispettrice apprendista Mary Lester, è subito gradita dal pubblico. Tanto che Failler decide di scrivere a ruota altri libri. L’idea, che è risultata vincente nella scommessa letteraria, non è solo di seguire le indagini di Mary, ma di ambientare le vicende gialle in diverse cittadine della Bretagna, tendenzialmente sempre diverse, a parte una predilezione per Quimper (due o tre episodi) e Finisterre (cinque episodi).

Pur rimanendo di basso profilo, senza avere successi internazionali stravolgenti, in questi trent’anni, Failler ha comunque prodotto 60 romanzi intorno alla sua eroina. Praticamente al ritmo di due romanzi all’anno. In Italia, ha avuto un momento di piccola notorietà, quando Robin editore pubblicò una quindicina dei suoi romanzi. Poi la piccola casa editrice non avendo ritorni, abbandonò il progetto e Failler rimase lassù in Bretagna. Solo negli ultimi tre-quattro anni c’è stato un ritorno di fiamma, attraverso la meritoria opera delle edizioni TEA. Ma senza un piano di investimenti organico.

Intanto, mi preme sottolineare che entrambe le edizioni italiane di questo libro (questa è la terza, ma riprende in pieno il volume TEA) non è che avessero fatto un buon lavoro sul titolo, come spesso accade. L’originale si potrebbe tradurre “La pioggerellina di Lanester”, dove infatti il termine francese “bruine” indica quel tipo di precipitazione con gocce di piccole dimensioni, che sovente si verificano vicino al mare. Ora, Robin propose come titolo “Omicidi a Lorient”, stravolgendo anche geograficamente il testo, che, seppur vero Lanester è praticamente attaccata a Lorient, sono due cittadine ben distinte. TEA poi si avventura nel poetico respiro della marea, fenomeno, quest’ultimo, che dà una mano a Mary nella soluzione, ma anche qui cambiando il senso delle indicazioni dell’autore.

Il giallo in sé, invece, pur di breve durata (ma talvolta è anche un pregio), è ben confezionato, seguendo l’entrata in scena di Mery-Prunelle Lester, chiamata sempre Mary. Uscita dalla Scuola di Polizia, viene inviata di sede a Lorient, dove deve sottostare a Marc Amedéo, un corso che comanda la stazione di polizia, con un discreto acume poliziesco, ma di un’acidità enorme verso la malcapitata Mary.

Insediata da poco, si vede piombare addosso i primi problemi. Un barbone viene trovato morto affogato, alla base di un ponte, sotto le cui arcate aveva costruito un suo piccolo rifugio. Una bella signora viene a denunciare la scomparsa del marito. Una banda di teppistelli viene sorpresa a rubare utilizzando il pulmino dello scomparso.

Anche se il capo, ogni volta ridicolizza le sue iniziative, Mary continua ad indagare. Scopre che lo scomparso aveva affittato una casetta nei boschi, l’aveva sistemata perbene, e vi trascorreva pomeriggi piacevoli con qualcuno che non era sua moglie, ma la moglie di qualcun’altro. Poi nota del cemento fresco sul pianale del pulmino. Indagando per una scomparsa di una barchetta (portata via forse dalla marea del secondo titolo) si accorge dell’esistenza di bidoni sul fondale delle insenature usati come corpo morto per piccole imbarcazioni. Inciso: sull’uso del corpo morto direi che potete chiedere al mio amico Renato, super esperto di cose marinaresche.

Ripescato il bidone, Mary vi trova, ed è ovvio, il corpo dello scomparso. Così tutto si lega, basta trovare il colpevole. Il cornuto? La moglie del fedifrago? L’amante dell’amante dello scomparso (che ben presto sappiamo la moglie del cornuto essere una discreta ricercatrice di piacere fuori dal matrimonio)?

Mary ci porta alla soluzione, poi, ma non è uno sforzo vano, Failler imbastisce una quarantina di pagine che servono di spiegone delle varie posizioni ed azioni di tutti i personaggi coinvolti, avendo sempre al centro la nostra Mary Lester.

Devo dire che il testo scorre bene, i personaggi hanno una loro discreta caratterizzazione, e l’intreccio, pur abbastanza semplice, non è banalissimo.

Inciso finale. Mi incuriosiva il nome della cittadina dove ha sede il comando di polizia, Lorient, cittadina marinaresca sulla foce del fiume Blavet. Cercando un po’ ho scoperto che lo strano nome fu dato al luogo nel 1670. Era infatti un posto sperduto, che venne affittato come cantiere navale alla Compagnia Francese delle Indie, che lo usò per costruire l’ammiraglia della sua flotta, battezzata “Soleil d’Orient”. Nome che gli operai diedero al luogo, che divenne rapidamente, per brevità, “L’Orient”, finendo poi per perdere l’apostrofo ed unirsi nel termine attuale con il quale è conosciuta.

M. C. Beaton “La quiche letale” Repubblica Brivido Noir 39 euro 8,90

[A: 25/02/2021 – I: 02/01/2023 – T: 04/01/2023] - &&  

[tit. or.: Agatha Raisin and the Quiche of Death; ling. or.: inglese; pagine: 249; anno 1992]

Erano svariati lustri che mi arrovellavo sulla necessità o meno di leggere una serie di libri, che quando cominciavo a chiedermelo erano editi da Astoria, ed avevano nel titolo questo nome femminile “Agatha Raisin”. Dalle immagini di copertina, e da immaginari personali che a volte nascono senza un perché, ne avevo pensato come libri dedicati ad una qualche giovinetta in vena di investigazioni, quasi a confonderla con la più tarda (di pubblicazione) e questa sì giovinetta, Flavia De Luce.

Spinto ora dalle collane relative ai gialli pubblicate negli anni da Repubblica, ne ho letto questo, che è il primo libro della serie, trovandomi di fronte ad una sorpresa e ad una conferma. La prima che la signora del titolo è per l’appunto una signora, e quindi ci si immerge in un giallo in piena regola. La seconda ribadisce, pur nel tentativo di infilarsi nel genere giallo-umoristico, che la resa generale è un filo sotto le aspettative. Così che al fine ci troviamo di fronte ad una Miss Marple, più giovane, meno signora, ma sempre pronta a dedicarsi alla risoluzione dei misteri. Tant’è che mi domanda se il nome di miss Raisin non rende volutamente omaggio alla grande scrittrice.

Intanto, ho anche scoperto questa, pur non molto nota in Italia, scrittrice scozzese. Marion Chesney, nata nel ’36, di mille ed uno mestieri, ma sempre legati alla penna (giornalista teatrale, libraia poi anche editor in una casa editrice). A 33 anni sposa il fotoreporter Harry Scott Gibbons, con lui si trasferisce stabilmente a Moreton-in-Marsh nelle Cotswolds (citazione che ha un suo senso). Vivono a lungo in America, per poi tornare stabilmente in patria, dove muore a 83 anni, l’ultimo dell’anno del 2019.

Leggendo in giro poi ho scoperto che la suddetta signora nonché scrittrice, comincia la sua carriera nel 1979, usa un numero imprecisato di pseudonimi, pubblica, in 40 anni di carriera più di cento libri. Scrive anche altre serie, ma qui noi ci concentriamo su quella per cui è maggiormente nota in Italia, e di cui questa quiche è il primo volume uscito, nel 1992. Nei successivi 28 anni, pubblica trenta romanzi con la nostra eroina. Anche se poi ne sono usciti altri tre postumi, dove probabilmente gli eredi di Marion hanno ingaggiato un ghostwriter per continuare.

Qui, come spesso accade nello start di una (possibile) serie (la scrittrice, sette anni prima aveva già iniziato una serie di successo poco nota in Italia con protagonista un poliziotto, Hamish Macbeth, di cui sono usciti 35 volumi), ci sono momenti difficili, che non tutto è ancora al suo giusto posto, non tutti i caratteri sono definiti, non è detto che la strada intrapresa sia buona, ed altri momenti di difficoltà.

Comunque, qui cominciamo a conoscere Agatha, 53 anni, da sempre nel campo delle “public relations” con una sua agenzia di pubblicità che vende nelle prime pagine del libro, per ritirarsi in campagna, nelle Cotswolds (come la scrittrice, vedi sopra) e dedicarsi alla sua vita privata. È sempre stata un’abile manipolatrice di eventi, ma non ha mai cucinato (adora scaldare i pasti al microonde) e non ha mai gestito una casa.

Cerca subito di farsi benvolere, di diventare un membro della comunità di Carsely (località fittizia), intraprendendo una serie di inutili e controproducenti attività. Sentendosi respinta, pensa bene di partecipare ad un concorso di cucina, ma, incapace come cuoca, compra una quiche da un suo amico londinese. Peccato che il giudice del concorso muoia avvelenato proprio dalla sua quiche. La polizia sembra voglia archiviare il caso come morte accidentale, ma la nostra eroina è poco convinta.

Anche senza voler investigare realmente la sua curiosità la porta a cercare frammenti vari degli scheletri campagnoli. In particolare, che il giudice era un impenitente donnaiolo, che la moglie accettava la situazione ma non ne era contenta, che le varie donne sempre più assillavano il poveretto, cominciando anche (ma non apertamente) a minacciare azioni estreme.

Agatha, anche a rischio della propria incolumità, riuscirà a risolvere il caso, cominciando quindi, nel finale del libro, a convincersi che, forse, potrebbe non essere stata una brutta idea quella di vivere in campagna.

Nel corso del libro conosciamo anche alcuni che diventeranno punti fissi della narrazione (mie ricerche in rete): Roy, suo ex-agente che diventa suo amico dopo la vendita dell’agenzia, Bill Wong, un poliziotto anglo-cinese che sarà la prima persona a diventare suo amico, la signora Bloxby, moglie del vicario e prima ammiratrice di Agatha, nonché Doris, domestica tuttofare nonché amica di Agatha. Altri personaggi nasceranno nel corso delle successive narrazioni, dove, piccola anticipazione, nel quindicesimo romanzo (dopo che nei precedenti ha sempre risolto i gialli che vi compaiono) decide di fondare una sua agenzia investigativa, che diverrà la protagonista dei successivi diciassette romanzi.

Non so se e quali ne leggerò, intanto ne ho tracciato un quadro d’insieme.

Per concludere, la scrittura è discretamente leggera, con alcuni tocchi umoristici prettamente inglesi, che non sempre muovono al riso anche noi. La trama poliziesca è anche sufficientemente elaborata, anche se priva realmente dei misteri che ci si aspetta, con una resa complessiva leggermente inferiore alle aspettative, e conseguentemente anche un po’ sotto la piena sufficienza di lettura e gradimento.

Melba Escobar “La casa della bellezza” Repubblica Emozione Noir 31 euro 7,90

[A: 22/01/2020 – I: 11/01/2023 – T: 13/01/2023] - &&     

[tit. or.: La Casa de la Belleza; ling. or.: spagnolo; pagine: 236; anno 2015]

La letteratura colombiana non ha una grande presenza nella mia biblioteca, a parte alcuni autori interessanti ma non notissimi, come Santiago Gamboa o Laura Restrepo. Ovviamente non cito autori colombiani ben presto fuggiti dalla Colombia e presto naturalizzati messicani come Álvaro Mutis o il Nobel Gabriel García Márquez. Di sicuro, praticamente assente il lato “noir”, di cui questo libro credo sia il primo.

Scritto dalla meglio nota come giornalista Melba Escobar (per l’anagrafe Melba Escobar de Nogales), un ariete del ’76, che mi si dice, cercando nelle pieghe della rete, molto attenta al sociale, al mondo in cui vive, alle problematiche dure della Colombia. Un’immagine che, in mancanza d’altre notizie, è ben facile ritrovare in questo scritto.

Uno scritto molto considerato in patria, foriero di premi e notorietà, ma che, letto nella nostra (quasi) calma Europa non ha sul lettore lo stesso impatto. Si parla di corruzione, a molti livelli, ma soprattutto nei piani alti della vita sociale. Si parla del gigantesco divario tra ricchi e normali cittadini, laddove, come in altre situazioni in giro per il mondo, non sembra esistere una classe intermedia, una borghesia che equilibri la situazione sociale. Andando in giro per il mondo, e per molte e svariate letture, questo mi sembra un dato interessante da analizzare: dove non c’è una borghesia-cuscinetto le contraddizioni sono molto forti e spesso sfociano in rivolte e sanguinosi momenti sociopolitici.

Ma torniamo a Melba (che ogni volta che ne leggo il nome, più che alla pesca penso alla parente acquisita dell’ex-regina del Belgio, Melba Ruffo di Calabria) ed alla sua scrittura. Infatti, più che della trama, su cui se ne parlerà più avanti, è la scrittura il punto debole del libro. Sembra strano per una giornalista, ma la narrazione è spezzettata da diversi punti di vista, tutti di donne appartenenti alla trama. Ogni volta, tuttavia, si salta dall’una all’altra, avendo bisogno di qualche passo di lettura prima di capire chi sta parlando.

Difficoltà acuita dall’elevato numero di personaggi, certo ognuno identificato da un nome e spesso anche da un cognome, laddove però, come sopra detto, non si capisce subito che stia parlando, è altrettanto difficile seguire le sorti di Claire, di Karen, di Lucía, di Rosario, di Susana e via elencando.

L’altro punto debole è l’assunto generale. Ora, da tutte le parti conosciute si sa che la Colombia non è un posto tranquillo, secondo l’Economist, Bogotà si colloca al ventesimo posto tra le città più pericolose al mondo (classifica guidata dalla capitale della Birmania), ed è, secondo Il Sole-24 Ore, la città più congestionata, in cui si perdono 190 ore all’anno nel traffico. Quindi è abbastanza facile imbastire un racconto in cui si intrecciano corruzione, traffici vari, politici corrotti e violenti, situazione femminile deprecabile. Insomma, un impianto in cui, messo in questi termini, sembra ci sia poco di nuovo da dire. Ed è così, poco di nuovo, solo un tentativo di ingarbugliare un racconto, mettendo diversa carne al fuoco, ma nessun piatto originale.

Dalle varie voci femminili narranti esce quindi il seguente quadro. C’è la donna bene un po’ alternativa, Claire, psicologa rientrata in patria dopo anni francesi, che entra nella casa del titolo ed entra in confidenza con l’estetista, a cui tirerà fuori la storia che stiamo seguendo. C’è la donna borghese, Lucía, ghost-writer del marito Edoardo i cui libri sono diventati cult alla Coelho, che si accorge della pochezza di Edoardo, lo lascia, frequenta l’amica Claire e sarà la mano scrivente della storia.

Infine, centrale, c’è l’estetista Karen, donna-madre, con evidenti problemi di rapporti. Dalla natia Cartagena viene a Bogotà per fare fortuna, e dopo un periodo nella Casa, diventa, sotto la spinta di Susana, una escort di buon livello. Tanto da fare coppia quasi fissa con l’Edoardo di cui sopra. Il problema è che una giovane, Sabrina, si fa fare una ceretta, le comunica cose che non dovrebbe sapere, e poi viene stuprata ed uccisa.

I cattivi sono ovviamente gli uomini. Edoardo che diventa l’uomo di paglia in una truffa sanitaria per conto del potente Aníbal, il cui figlio, Luis Armando, è il responsabile della morte di Sabrina. Tuttavia, quando i buoni si avvicinano alla verità e viene fuori lo scandalo sanitario, anche Edoardo muore. E tutto complotta per incastrare Karen.

Riusciranno le nostre eroine a salvare la povera Karen? O saranno travolte da un potere maschile sempre più forte e cinico? Questo è l’unico interrogativo che rimane alla fine.

Ripeto, una scrittura che da giornalista non poteva esprimersi meno bene, ma una storia in cui le voci narranti non riescono ad amalgamarsi per dar vita ad un racconto corale sostenibile. Tutto è prevedibile, tutto non è nuovo. Aspettiamo solo di sapere se il finale sarà dolce, agro o amaro.

Louise Penny “La via di casa” Repubblica Emozione Noir 11 euro 7,90

[A: 19/09/2019 – I: 27/01/2023 – T: 29/01/2023] - && ---  

[tit. or.: The Long Way Home; ling. or.: inglese; pagine: 459; anno 2014]

Dopo quasi un anno torno a frequentare le pagine della scrittrice canadese e del suo ispettore francofono Armand Gamache, inserito, come avevo detto nel primo libro letto, in un ambiente anglofono.

Prima di entrare nel merito dello scritto e della storia, è bene rilevare la poca accuratezza delle scelte editoriali italiane. Il primo libro di Louise Penny pubblicato in Italia (ed il primo da me letto) era il settimo volume della serie. Con questo, seconda pubblicazione, si salta al volume 11. Poi verranno pubblicati, a scadenza annuale, i volumi 14, 15 e 16. Dopo di che, lo scorso anno, esce in Italia il primo volume. Ora, è vero che gli affezionati del genere hanno grosse capacità di sopportazione, ma questo apodittico stampare mi sembra di difficile gestione.

Intanto, per l’appunto, passando dal settimo all’undicesimo romanzo, si salta tutta una parte della vita di Gamache, che in qualche modo si ricostruisce da cenni vari durante il testo, ma che rimane a volte oscura nelle more dello svolgimento dell’avventura.

Per rendere più agevole seguire queta nota, facciamo allora un piccolo sunto del plot principale. Il personaggio centrale è Armand Gamache, ispettore capo della “Sûreté du Québec”, tra i cinquanta ed i sessanta anno d’età, con un forte senso dell’etica e del dovere. Sposato con Reine-Marie ha due figli, Daniel e Annie. Suo braccio destro è Jean-Guy Beauvoir. Sebbene le indagini a volte si spostino per tutto il Canada, il centro dell’azione è la località di “Three Pines”, posta quasi al confine con il Vermont. Dove vive la comunità di riferimento di Gamache, i cui elementi principali sono Clara e Peter Morrow, due pittori, Oliver e Gabri, due omosessuali che gestiscono il locale bistrot, Myrna, una psichiatra in pensione, e Ruth, un’anziana poetessa con forti accenni di demenza sensile accompagnati da lucidi interventi verbali e poetici.

Credo che l’idea di pubblicare questo come secondo volume italiano sia in parte dovuta al filo che unisce il precedente “L’inganno della luce” con questo. Infatti, in entrambi un ruolo importante svolgono i coniugi Morrow. Rimandando a quanto già detto nel precedente, il filo centrale del libro è la scomparsa di Peter. Lui era il pittore di punta, ma con la genialità in forte calo, mentre Clara era rimasta sempre nell’ombra, ma che sta emergendo con le sue nuove realizzazioni. Fatto sta che Clara, pur amandolo, chiede a Peter di allontanarsi per un anno, al fine di dare ad entrambi lo spazio creativo che hanno bisogno. Purtroppo, allo scadere dell’anno, Peter non torna. E Clara confessa i suoi timori a Gamache.

Il nostro ispettore si è trasferito in convalescenza a Three Pines in seguito ad avvenimenti che lo hanno portato quasi alla morte (nei libri precedenti non usciti in Italia). Inoltre, Jean-Guy è anche diventato suo genero, avendo sposato sua figlia Annie.

Da questo incipit nasce la lunga storia narrata, alla ricerca delle tracce di Peter. I nostri, tra tracce con i pagamenti e agnizioni varie, riescono a seguire le tracce di Peter attraverso il vecchio continente (Parigi, Firenze, Venezia) sino alla strana sosta in Scozia a Dumfries, dove comincia a dipingere in maniera non tradizionale, come scopriranno i nostri in varie tele disseminate in Canada. Poi torna in patria, visita la sua vecchia scuola d’arte a Toronto, per poi eclissarsi, probabilmente, secondo la teoria di Gamache, in un posto indicato come Baie-Saint-Paul.

In tutta la ricerca vediamo emergere i vari personaggi centrali: Peter e Clara, ovvio, ma anche i due professori di arte, il professor Massey, ottuagenario ancora alla docenza, ed il professor Norman, licenziato a suo tempo per le sue idee eretiche sull’esistenza di una Musa della pittura. Norman che si era rifugiato a Baie-Saint-Paul fondando una comune a sostegno delle sue tesi, ma poi anche da lì scomparso.

Il lento scritto della Penny ci avvicina al punto cruciale, dove tutti gli attori del dramma convergono. È un noir, ma di omicidi si parla e si risolve nelle ultime cinquanta pagine, con qualche colpo di scena che ci sta bene come ciliegina in una torta che stava diventando un po’ poco saporita.

A parte alcuni rivoli pur interessanti, il punto centrale del libro si concentra sulla gelosia ed il risentimento verso il talento altrui, un sentimento forte, che agita gli animi dei principali protagonisti della storia. I due professori, i due pittori, nonché i pittori verso i professori.  Se ne capiscono i motivi e le storie relative, anche se rimane monca una descrizione della pittura attraverso le parole. Si capiscono le varie diversità, ma non vedendo i quadri, la comprensione è solo nella testa e non negli occhi.

Veniamo agli altri rivoli che mi hanno intrigato. Il primo riguarda il libro che porta sempre con sé Gamache. Che sapremo alla fine essere “Il balsamo di Gilead” un libricino evangelico che riprende una citazione della Genesi, ma che, più propriamente per la storia di Gamache potrebbe riferirsi al libro “Gilead” di Marilynne Robinson. Una lunga lettera di un padre morente al figlio di sette anni con ampi consigli per guidarlo quando lui non ci sarà più. Un accenno al fatto che Gamache perse i genitori in un incidente automobilistico quando lui aveva sette anni.

Il secondo riguarda proprio Baie-Saint-Paul che non solo è nota come rifugio di pittori, dove infatti produsse le sue migliori opere il pittore canadese Clarence Gagnon, il più famoso pittore paesaggista québécois. Ma è anche il luogo natale della compagnia di danza e circo “Le Cirque du Soleil”.

L’ultimo intrigante spunto è poi legato ad una storia citata nel testo. La storia è ben nota, potremmo riassumerla così: “Un uomo vede la Morte che lo osserva con occhi cattivi e chiede un cavallo veloce per sfuggirle. Cavalca tutta la notte per arrivare in un’altra città, solo per scoprire che la Nera Signora era proprio lì che lo aspettava.” La storia originale deriva dal Talmud babilonese, e viene ripresa per la prima volta da Jean Cocteau nel 1923, nel suo “La spaccata” indicando come città d’arrivo della morte l’irachena Samarra. Dieci anni dopo, sarà Somerset W. Maugham a citarla nel suo lavoro teatrale “Sheppey”, e sarà presa l’anno dopo dall’americano John O’Hara nel suo libro “Appuntamento a Samarra”.

Ma noi la conosciamo bene come testo della canzone “Samarcanda” di Vecchioni, dove appunto viene cambiato il luogo finale, sia per una difficile musicalità di Samarra, sia perché pochi anni prima, confondendo Samarra con Samarcanda viene ripresa e citata da Oriana Fallaci nel libro “Se il sole muore”. Una bella storia nella storia, ma che è anche funzionale al libro stesso.

Per tirare le fila, quindi, un testo forse troppo lungo e lento, dove per la maggior parte del tempo il filo noir si perde mentre seguiamo amori e gelosie, che viene per me riscattato da un facile oblio proprio perché la bravura della scrittrice ci riempie di altri rimandi che danno modo di sviluppare curiosità e rimando colti.

Vedremo altro della canadese Penny, e ne tireremo ulteriori somme.

Brigitte Glaser “Assassinio à la carte” Repubblica Emozione Noir 16 euro 7,90

[A: 30/09/2019 – I: 25/03/2023 – T: 27/03/2023] - &&

[tit. or.: Mordstafel; ling. or.: tedesco; pagine: 364; anno 2005]

Questa volta, nella lentezza delle letture seriali, sono passati solo nove mesi dalla lettura del secondo episodio delle avventure della cuoca Katharina Schweitzer. Eccoci, quindi, al terzo libro della serie, che se non vado errato, in patria è arrivato all’episodio numero 8.

Brigitte Glaser, avviata verso la settantina, scrittrice di medio successo, ha avuto un buon interesse internazionale con questi romanzi che mescolano giallo, vita locale ed un po’ di cucina. Che credo sia una passione dell’autrice, tanto che il libro si chiude con un piccolo ricettario che presenta tre menù completi: uno per principianti, uno per esperti ed uno per veri chef, firmato Susanne Vössing, chef pluristellato che all’epoca del libro aveva aperto un suo ristorante a Düsseldorf. Ovvio che gli editor avrebbero dovuto fare una nota dicendo che, all’epoca della pubblicazione, Susanne si era principalmente dedicata alla divulgazione culinaria ed ai libri. Solo l’anno scorso risulta essere tornata ai fornelli inaugurando in Renania un nuovo ristorante, il Weisses Rößl (più o meno, “La Locanda del Cavallo Bianco”).

Ma torniamo al libro ed alla discretamente gradevole scrittura di Brigitte. Cominciando ancora una volta con una ramanzina agli editor italiani ed alla loro voglia di “catturare” i lettori con piccoli trucchi. Intanto, il titolo originale suonerebbe, alla meno peggio, come “La tavola degli omicidi”. Con poco a che vedere con “à la carte”, visto che nel ristorante di Katharina il menù è fisso e, per l’appunto, non “à la carte”. Come se non bastasse, ci viene anche propinato un sottotitolo, così che il lettore sia invogliato all’acquista, quando si parla dei conflitti tra la nostra eroina e la mafia turca. Che volendo è uno degli elementi della trama. Non certo l’unico, e per molti tratti, non il più rilevante.

Volendo fare un piccolo passo indietro riassuntivo, abbiamo seguito la nostra Katharina nei primi due episodi, cominciare come pasticcera nella cucina dello stellato “Bue d’Oro”, andato in rovina con la morte dello chef principale. Poi si è presa un periodo “sabbatico”, tornando nella natia Foresta Nera, in un continuo conflitto con i genitori, anche loro nel ramo dell’offerta di ristorazione (con aggiunte locandieristiche). Il tutto complicato dalla delusione amorosa verso l’altro cuoco, Ecki, sul quale aveva puntato, che però ha deciso di approfondire la sua cultura culinaria in oriente, anche se, periodicamente, torna mettendo in crisi la nostra.

In questo episodio, grazie ai soldi avuti in prestito da un altro capo cuoco, ha finalmente aperto un suo ristorante, a Colonia, nel quartiere turco di Mülheim, il Giglio Bianco. Caratteristica del locale il lungo tavolo dove tutti i commensali mangiano assieme, così che nascono colloqui ed eventuali amicizie.

Il problema sorge quando un uomo, in costume carnevalizio visto che siamo al Giovedì Grasso, viene trovato morto davanti al locale. Da qui parte l’intreccio delle trame. Sparisce Scarlett, una delle cameriere del locale. Katharina trova una busta con un’enorme somma di euro in contanti. Il locale viene bersagliato da attentati vari, piccoli e meno piccoli. Tanto che, sia per sostituire Scarlett che per piccole riparazioni, la nostra si rivolge a Özal, un turco che sembra avere il polso del quartiere. Ma Katharina si trova invischiata con Tayfun, un bel giovane turco che ben presto le fa dimenticare Ecki (che puntualmente si ripresenta mettendola in crisi).

Ma ad aiutare la nostra cuoca sono soprattutto Kuno, il polizotto in pensione divenuto compagno fisso di Adela, l’amica del cuore di Katharina. Nonché altri due ex, Adalbert Von Stumpf detto il “conte” e Walter Neuroth detto il “cowboy”. E vi lascio scoprire il perché.

La trama prosegue con alti e bassi, complicati dalla richiesta di avere indietro i soldi prestati di cui sopra, accompagnata da intimidazioni che non si capisce da dove provengano. Inoltre, Özal viene visto in compagnie poco rassicuranti, Tayfun è misterioso. Ma alla fine Katharina ha alcuni colpi, di fortuna e di genio, sia per trovare responsabili vari, sia per tenersi senza sensi di colpa il malloppone. Una parte, questa, forse la sola degna di sorrisi.

Per il resto, certo, la presenza del locale in una zona turca solleva qualche problematica sui rapporti etnici. La misteriosa Scarlett solleva altri dubbi sui giovani, sulle loro libertà e sugli animali domestici (lei si tiene stretta un topo, cosa che io interdirei per legge). Gli ex-poliziotti potrebbero dar vita ad un dibattito sulla vita dei pensionati. Infine, il triangolo Katharina-Ecki-Tayfun non può non lasciarci pensare ai guasti delle cose non dette in amore.

Vedremo di certo altre puntate, per cui ad ora vi lascio gustare questa, dall’andamento di un giallo inglese alla Christie, scritto da una tedesca che cerca di trasportarne le leggerezze nelle pesanti strutture teutoniche.

Alla fine, tuttavia, una lettura di non alto profilo, da consigliare sempre ai patiti del giallo sotto l’ombrellone, nonché ai patiti della cucina, cui consiglio i dolcetti lievitati alla marmellata, uno dei punti forti della nostra cuoca, insieme ad una mousse al cioccolato bianco e nero che, a mio parere, è una delle cose più disgustose che si possa abbinare al cioccolato.

“A colazione ho preso solo un tè verde … disgustoso!” (99) [vogliamo aprire un dibattito?]

Parliamo soprattutto di donne che scrivono, quindi ci sta bene una citazione di noir femminile, che viene dalla Scandinavia. Cioè da “Non deve accadere” di Anne Holt, che si interroga sul suo ruolo di madre e di figlia: “Perché le madri sono così? … Diventerò uguale a lei? Diventerò impossibile, testarda e provocatoria e capace di leggere sul volto delle mie figlie? … [Mia madre] Mi trasforma nuovamente in bambina. E io, almeno di tanto in tanto, sento l’esigenza di non avere responsabilità, né domande. Non voglio diventare come lei. Ho bisogno di lei.”

Ebbene sì, abbiamo fatto (anche) un bel giro turco, in particolare nei siti archeologici di Pergamo ed Efeso (con una bella compagnia, ed anche con un sole ed un caldo che non avevano nulla da invidiare all’Italia cui siamo tornati).

Ora ci aspetta il meritato fresco campagnolo, anche se continuerò a tempestarvi di scritti e di notizie, nonché di abbracci.

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