Jorge Luis Borges “Il libro di sabbia”
Repubblica Latino-americana 12 euro 9,90
[A: 06/05/2020
– I: 04/02/2023 – T: 06/02/2023] - &&&
e ½
[tit.
or.: El libro de arena; ling. or.: spagnolo; pagine: 155;
anno 1996]
In gioventù sono stato un patito, quasi
fanatico di Borges. Mi piacevano i suoi giochi intellettuali, quel suo modo di
porgere che poteva essere letto in vari modi, stratificandone le
interpretazioni. Poi l’ho perso di vista (che brutta cosa parlare così di un
ipovedente), laddove tuttavia rimanevano alcune stelle fisse di alcuni racconti
che non scordo né scorderò mai. Uno su tutti, che spero vi sia presente in
mente, è “Pierre Menard, autore del Quixote”.
Ora, veramente a distanze siderali dalle
ultime letture, mi capita tra le mani questo che, in effetti, è l’ultimo libro
da lui pubblicato. Anche se in realtà, questo è un condensato di più “cose” che
hanno visto le stampe sette anni dopo la morte di Borges, per la cura della sua
depositaria testamentale, Maria Kodama. Cioè è l’unione di un libro di
racconti, “Il libro di sabbia”, pubblicato nel 1975, con un altro libro di
racconti, “Venticinque agosto 1983 e altri racconti inediti” pubblicato
direttamente nella traduzione italiana nel 1980 per i tipi di Franco Maria
Ricci.
Borges è sempre Borges, può piacere o meno,
anche se sempre sfida l’intelletto, mette paletti strani intorno alle parole,
gira, va in fondo ad una parte che non ci si aspetta e poi ritorna. Come ho
detto, a me generalmente piacque, ed anche in questi racconti ne ho gradite
alcune parti. Non tutto, come se, giustamente, io sia anche cambiato nel tempo.
Questo mi ricorda un commento di cui mi sfuggono i contorni, sulla rilettura
dei libri, che sempre ci danno delle sensazioni, anche se a volte diverse dalle
prime.
Una serie di temi sono presenze fisse anche
in queste righe argentine. Ad esempio, la fascinazione verso le leggende
germaniche o del nord Europa in generale. Laddove riemergono, ad esempio,
Sigfrido e Brunilde (anche se Borges li chiama con i loro nomi norreni che mi
scordo ancor prima di leggerli). O meglio ancora, i canti, le poesie
impossibili, l’accostamento all’assoluto poetico. Come ne “Lo specchio e la
maschera” dove le rime si assottigliano fino a diventare una sola parola, che
in questo racconto non sappiamo. Ma che potremmo forse rivedere in “Undr”,
nient’altro che una possibile pronuncia medioevale della parola “wonder”.
Perché, come diceva Giambattista Marino nel Seicento “È del poeta il fin la
meraviglia...”.
Altro elemento che colpisce i miei addormentati
sensi è il rovescio che si presenta ne “Il libro di sabbia”. Nel bellissimo,
celebratissimo, a volte citato anche fuori contesto, “La biblioteca di Babele”
sono presenti tutti i libri possibili generati da stringhe casuali di lettere.
Ce ne saranno infiniti senza senso, ma l’uomo troverà (se cercherà) quelli che
poi diventeranno i libri che stiamo leggendo. In questo rovesciamento, il libro
di sabbia contiene infiniti fogli infinitamente sottili (una predizione già
presente nella biblioteca) che sono l’insieme di tutti i libri possibili. C’è
una vertigine matematica in tutto ciò, ma anche un rimando mentale (ripreso in
modo latente ne “La rosa di Paracelso”) tra la fede nelle scritture (o nelle
Scritture) e l’incredulità.
Non manca un rimando, anche qui frutto di
qualche salto mortale, a “Funes el memorioso”, quando il narratore ha in dono
tutti i ricordi dell’autore inglese (dono molto pesante) ne “La memoria di
Shakespeare”. Come non manca, e qui mi ha sorpreso come fosse un racconto
verista (e forse lo è) alcune pagine che tentano di spiegare il comportamento
di Avelino Arredondo, l’uruguayano reo dell’unico assassinio presidenziale in
quel paese. Nel 1897, Avelino uccide con tre colpi di pistola il presidente
delle Repubblica Juan Idiarte Borda, senza poi commentare mai il suo gesto.
Commenti che, appunto, Borges cerca di inventare (convincentemente).
Io, al fine, preferisco i due incipit, de “Il
libro…” e di “Venticinque…”. Sono tutti basati sulla presenza del doppio, del
diverso sé, di quello che siamo e di quello che vorremmo essere. Ed andrebbero
letti in sequenza. Uno è visto dalla parte dell’anziano Borges che incontra il
sé giovane, cercando di dissuaderlo da intraprendere le difficile strade che lo
porteranno all’incomprensione, alla vecchiaia, alla cecità. L’altro è visto
specularmente dal Borges giovane che incontra l’anziano sé, deluso di tutto
quello che ha fatto (o che non ha fatto) e che decide, il giorno successivo al
suo compleanno (Borges era nato il 24 agosto 1899) di darsi la morte.
Se fossi un iperpatito di citazioni compulsive,
adesso sciorinerei i titoli originali, le date di pubblicazione di ogni pezzo,
i rimandi (spesso Borges oltre ad autocitarsi, utilizza nomi che provengono dal
suo pantheon personale). Ma sarebbe una cattiva introduzione a questo Borges
tardivo. Che va letto, è comunque di buon livello come quasi tutto l’autore, almeno
per me, e degustato appunto come una vendemmia tardiva, che addolcisce il
palato, lasciando in fondo alla gola il rimpianto di quello che potrebbe essere
stato.
“Le piaceva uscire a camminare da sola …
anche a me. Possiamo uscire insieme.” (14)
“Non esiste libro così cattivo da non
racchiudere qualcosa di buono.” (30)
“La vita dà tutto a tutti, ma i più lo
ignorano.” (61)
“Dare un prologo a racconti non ancora
letti è un compito quasi impossibile, perché richiede l’analisi di trame che è
meglio non anticipare. Preferisco quindi un epilogo.” (93)
Paolo Giordano “Tasmania” Einaudi s.p. (Regalo
di Natale di Mario&Ines)
[A: 25/12/2022 – I: 16/02/2023 – T: 19/02/2023]
&&
---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 258; anno:
2022]
Di Giordano avevo, come molti, letto “La
solitudine dei numeri primi” che mi era piaciuto il giusto, ma certo meno di
quanto se ne parlasse in giro. Ho riprovato ora, dopo aver letto, ogni tanto,
qualche articolo sui giornali, con questo, riuscendo a raggiungere lo stesso
poco soddisfacente risultato. Infatti, pur risultando il miglior romanzo del
2022 secondo la classifica de “La lettura” del Corriere della Sera, a me è
rimasto un po’ sul vorrei ma non posso.
Alcune buone idee, alcuni sviluppi che si
fanno seguire, ma un complesso che risulta leggermente scollegato, quasi ad
aver riunito le bozze di differenti testi per poi cercare di legarle insieme in
una storia coerente.
Perché ha di certo la struttura di un
romanzo, ma all’interno si sviluppano diverse linee di pensiero, sovente legate
all’autore stesso, quasi fosse una bio-fiction. Il tutto, infatti, ruota
intorno al personaggio principale un vero alter-ego di Paolo. Ne capiamo la
storia personale, la storia lavorativa ed altre storie correlate. Con ovvi
discostamenti da Paolo, anche se non essendo un cultore di notizie, non so, e
forse neanche mi interessa tanto, della vita reale dell’autore. O almeno, so il
giusto, quello pubblico a tutti. Giordano si è laureato in fisica, ha svolto
ricerche e lavori a livello universitario, è sposato, ha cominciato a scrivere
romanzi, e continua pubblicando anche articoli sui giornali.
Ma veniamo invece al personaggio centrale.
Nella storia personale è sposato con Lorenza, anche se il rapporto sembra
procedere su di un crinale pericoloso. Lei è più grande, ha un figlio da un
precedente matrimonio, ma ne vorrebbero uno insieme che non viene, creando una
frattura tra i due. O forse un momento di frizione più per lui, alla fine.
Lorenza lo elabora, continua su di una sua linea di comportamento aspettando
che lui, alla fine, capisca qualcosa.
Nella loro storia sono moderatamente
benestanti, vanno in giro per il mondo (bello il cammeo sul Laos), ed in una
vacanza per lasciarsi tutto alle spalle, soprattutto la procreazione
mancata-mancante, fanno anche scambio di coppia con dei coniugi olandesi.
C’è il grande amico Giulio, quello che
continua le ricerche a Parigi, che vive un divorzio doloroso ed una difficoltà
a rapportarsi con il figlio. Nelle sue andate a Parigi da Giulio, il nostro
conosce anche un professore che si occupa delle forme delle nuvole, un premio
Nobel che fagocita tutti quelli che ha intorno, con il quale sembra ad un certo
punto poter stabilire un contatto, ma l’egoismo (o l’egotismo) del professore
manda tutto all’aria.
A Parigi conosce anche una reporter di guerra,
Curzia, che occupa i suoi pensieri nei momenti di crisi con Lorenza.
Un’amicizia intelletual-giornalistica che stimola entrambi nei rispettivi
campi, e che lui pensa possa svilupparsi anche verso altre strade, che Curzia
gli fa capire siano impraticabili.
Infine, c’è Karol, il prete amico e mentore,
con il quale si confida e ne viene fatto confidente. Un prete decisamente
umano, con tutti i problemi che ogni uomo, prete o meno, può avere. Con una
crisi che sta attraversando e che condivide con il nostro. Una crisi che,
allontanandolo da Dio, lo porta vicino a Gesù, ricostruendo un percorso di fede
che sembrava dissolversi.
Poi, c’è il motivo letterario, la narrazione
nella narrazione. Che il protagonista vuole scrivere un libro sulla bomba
atomica, ed inserisce nel testo lunghi, documenti ed anche interessanti
capitoli su Fermi, il progetto Manhattan, la bomba su Hiroshima ed altri
momenti di distruzione di massa. Quasi a fare un ardito parallelo tra le
possibili distruzioni esterne, comprese quelle che influiscono sul clima, alle
visibili distruzioni interne del protagonista. Ma tutta questa parte, pur
dotta, non appassiona. Un grande grido di dolore su tutte le storture che
avvengono nel mondo degli uomini, ma come molti gridi di dolore, rimangono
sulla carta e niente più.
Infine, ci sono le parole di Lorenza che
entrano nel cuore del protagonista e forse faranno germogliare qualcosa.
Abbiamo passato tante cose, le dice, ed io ci sono sempre, anche nei tuoi
momenti più bui. Ed il protagonista sa di cosa stiano parlando.
Infine, c’è la Tasmania, citata come luogo
rifugio da tutte gli inquinamenti del mondo, quell’isola laggiù che, proprio
perché isola, può simboleggiare isolamento ma anche protezione.
Infine, c’è il tempo che scorre, e Giordano,
in un certo senso brillantemente, salta gli anni pandemici, che noi e lui
sappiamo esserci. Che lui ci parla del prima e del dopo. Il durante è duro ed è
conseguenza del prima e innesco del dopo.
Infine, c’è la chiusura, in quel di Hiroshima
che a marzo di quest’anno sono andato nuovamente a visitare, ed ogni volta è
come la prima. Un grande ed impensabile pugno nello stomaco. Diverso dai campi
nazisti, ma forte ed irrimediabile nella sua brutalità.
Tutto ciò ci dice l’autore, che tutto
possiamo passare se finalmente riuscissimo a sapere chi siamo, se riuscissimo a
vederci dentro, se riuscissimo a portare il nostro io verso gli altri e
costruire quel futuro insieme che noi, io, te, i nostri amici e compagni,
seguiamo come un sogno da cinquant’anni. Bella la speranza, ovvio. Meno
riuscita, come detto, la forma.
Manuel Puig “Il bacio della donna ragno”
Repubblica Latino-americana 8 euro 9,90
[A: 06/05/2020 – I: 27/05/2023 – T: 29/05/2023]
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[tit. or.: El beso de la mujer araña;
ling. or.: spagnolo; pagine: 251; anno 1976]
Ho sempre avuto in una parte della mente un
pensiero verso Manuel Puig Dellevedove, dopo aver letto poco o nulla di lui, ma
dopo aver visto il bellissimo film del 1985, tratto proprio da questo libro, e
con l’interpretazione che gli valse l’Oscar di William Hurt. E mi ripromettevo
prima o poi di colmare questa lacuna.
Puig è stato una lunga meteora nella
letteratura argentina, prima di tutto distanziandosi nella modalità di
scrittura dai due pilastri estremi di quella letteratura: Julio Cortazar e
Jorge Luis Borges. Inoltre, ebbe una vita ben movimentata, quando, in seguito
ai suoi scritti poco ortodossi per il potere fu costretto a lasciare il paese
nel 1973. E sarà in esilio che, poco più che quarantenne, scrive questo testo,
per anni censurato dalla dittatura, prima peronista poi militare. Sia per i
contenuti politici che per quelli sessuali del suo testo.
Tra l’altro Puig, sui venticinque anni, seguì
a Roma un corso di sceneggiatura, visto che è sempre stato un amante del cinema
e nel cinema aveva posto la speranza di un suo modo di vivere. Certo, i film ed
il suo lavoro per i copioni cinematografici rimane molto impresso nella sua
scrittura, ed in questo libro raggiunge un’espressività estrema.
Come in molte delle sue poche opere (Puig
muore non ancora sessantenne per un attacco cardiaco, alcuni dicono di AIDS ma
non fu mai provato, avendo al suo attivo solo otto romanzi), c’è sempre un po’
di realtà nella sua finzione. Qui, in particolare, i due personaggi sono in
effetti le due metà di uno letterato e politico argentino, Luis González de
Alba, attivista omosessuale e personaggio di spicco del movimento studentesco
messicano. Non è senza motivo, quindi, che la maggior parte del testo, Puig la
scrive durante il suo primo esilio a Città del Messico.
La particolarità del testo, che si basa su
due soli personaggi, è il fatto di essere tutto un dialogo. Non c’è narrazione
esterna, non ci sono descrizioni. Si va avanti con i due che parlano,
dialogano, si confrontano. Ed è dalle loro parole che emerge tutta la storia (oltre
alle note di cui parlo in finale).
I protagonisti rinchiusi in una
claustrofobica cella dal settembre all’ottobre 1975, sono Luis Molina e
Valentin Arregui. Il primo, omosessuale dichiarato, è in carcere per
“corruzione di minore”. Il secondo, perché appartenente ad un’organizzazione di
estrema sinistra che vuole rovesciare il governo argentino.
I due parlano, si confrontano, mettono in
mezzo le loro convinzioni, personali di Molina e politiche di Valentin,
partendo da posizioni distanti, quasi antagonistiche. Tra l’altro, sappiamo che
Molina è messo lì, ricattato dal direttore del carcere, al fine di trovare
connessioni di Valentin con altri estremisti. La maggior parte del tempo, è
Molina che parla e racconta una serie di film a Valentin (ovvio tributo alle
passioni di Puig). Sono in fondo i film una facile allegoria della loro
condizione. Si parla di situazioni amorose difficili, di donne pronte a
sacrificarsi, di situazioni oppressive e claustrofobiche (comunque sui fil
torneremo).
Molina, pur nella sua complicata situazione
sessuale, alla fine è più forte nella sofferenza, più capace nell’affrontarla.
Sofferenza che invece intacca Valentin. Ed è sempre Molina che, empaticamente,
riesce a sostenere Valentin, riesce, insieme a Valentin, a trovare un terreno
comune, una dolcezza che allevia le sofferenze di Valentin. Un Valentin che
verso la fine dirà la chiave del testo: “Tu sei la donna ragno, catturi gli
uomini nella tua tela”. Una vicinanza che porterà Molina a gesti estremi da cui
sarà difficile tornare indietro.
Le mie amiche libropeute lo avevano inserito
nei consigli di lettura dopo aver avuto un incubo, insieme a “La peste” di
Camus, a “La polvere dei sogni” di Brink ed altri. Consiglio che personalmente
ritengo mal posto. È un libro, che seppur non interamente riuscito, va letto
per quello che è, anche con tutto il corredo di sovra testo che Puig vi pone.
Non a caso è anche riempito di note, spesso fittizie, che tentano di dare
spiegazioni di diversa natura sull’omosessualità. Così che il lettore viene
inserito in un circuito di pensiero che lo deve portare al di là dello scritto.
Ma io vorrei finire con le sei pellicole che attraversano
il libro. La prima, di una bellissima descrizione che ne fa Molina, è “Il bacio
della pantera” bellissimo film horror del ’42 di Val Lewton. Il secondo è un
film probabilmente inventato, basato su di una mescola di film propagandistici
di stampo nazista e del film premio Oscar del ’46 “A Parigi nell’ombra”. Il
terzo lo seguiamo solo nella testa di Molina, si tratta de “Il villino
incantato” una tenera storia d’amore post-bellica interpretata da Robert Young.
Del quarto film non sappiamo il titolo, è solo una storia della presa di
coscienza di un giovane che alla fine si unisce alla guerriglia contro il
potere. Con il quinto torniamo ai film horror della fucina di Lewton, dal
titolo auto esplicativo “Ho camminato con uno zombi”. Anche dell’ultimo film
non abbiamo il titolo, ma parla di due che si innamorano, ma, senza soldi, la
donna deve prostituirsi per vivere.
Il bello dei film è che fanno da contrappunto
alla storia che si sviluppa nella piccola cella (e nelle sue propaggini fuori
dal carcere). Per questo, non dico altro delle trame, né degli addendi che le
trame stesse hanno con il libro.
Pur avendo delle piccole cadute di tono (per
me nei periodici flussi di coscienza in corsivo) è senza dubbio un libro di
interessanti letture e spunti.
Ian
McEwan “Lezioni” Einaudi s.p. (Regalo di Anto&Paolo)
[A:
07/05/2023 – I: 29/05/2023 – T: 01/06/2023] - &&
[tit.
or.: Lessons; ling. or.: inglese; pagine: 561; anno 2022]
Un bel libro che non mi è piaciuto. È
scritto ovviamente molto bene, dato che McEwan è uno scrittore che sa usare il
linguaggio in modo egregio. Ed è altrettanto ben tradotto da Susanna Basso,
visto che il testo italiano scorre senza intoppi, restituendo al lettore la
sensazione di leggere direttamente dall’autore.
È una cavalcata di settanta anni tra
la Storia e la storia, ma che, alla fine, mi ha dato l’impressione di essere
una rivisitazione in salsa inglese dello Stoner di John Edward Williams.
Seguiamo per un numero esorbitante di pagine la vita di Roland, con tutti i
suoi alti e bassi (poi ci si torna), senza che né lui né altri personaggi
facciano un salto di qualità nel nostro immaginario di lettori. Belle
descrizioni, personaggi che risaltano agli occhi, ma nessuno di cui
innamorarsi. Forse McEwan riprende, addolcendolo, la sua figura di Dottor
Macabre, mostrando che nessuno è degno di essere esaltato: tutti hanno difetti
e lati oscuri. Beh, questo lo si poteva sapere anche senza leggere una riga.
Per quel poco che so della vita di
McEwan, di certo ci sono punte autobiografiche. La nascita ad Aldershot nel
1948, ad esempio. O la scoperta, in tarda età, sia di Ian che di Ronald di
avere un fratello dato in adozione prima della sua (loro) nascita. Ma non solo
nell’altre ego naturale Ronald, dato che una parte di Ian si ritrova nella
scrittrice Alissa, come lui sempre sulla soglia di un grande premio. D’altra
parte, la frase che riporto in finale, pronunciata da Alissa, è illuminante per
questi aspetti, e forse anche altri. Per cui, non ho interesse a separare il
grano dalla pula, ma di entrare con tutte le scarpe nella trama e nei suoi
risvolti.
Trama che, pur seguendo la vita di
Roland dai trent’anni circa fino ai giorni nostri, è scritta quasi in
affabulazione. Si parla, si entra in una situazione e poi a questa se ne
collegano altre, avvenute prima o anche dopo il flusso narrante. L’idea è di
costruire una rappresentazione a tutto tondo di una vita. A me, alla mia
idiosincrasia per i salti temporali, a volte fa perdere il ritmo del testo che
sto leggendo.
Quindi, venendo al testo, la
scrittura ci porta subito al centro dei problemi. Iniziando da quelli privati.
Roland è stato appena lasciato dalla moglie Alissa, ad accudire il piccolo
Lawrence. Ovvio che questo porta modifiche a tutto il percorso di vita di
Roland, come spesso accade ed accadrà. Così veniamo a sapere della sua
gioventù, quando promettente pianista, viene concupito dalla sua insegnante.
Certo questo gli apre le strade del sesso, ma rimarrà sempre un grosso segno
nella sua vita. Per liberarsene, fugge. Dalla scuola, dal piano, dall’amante.
Sarà uno dei tanti percorsi mancati.
Non diventa pianista di concerti, ma passerà molto tempo come pianista di piano
bar. Sarà una promettente promessa tennistica, ma poi si risolverà a fare il
maestro. Tenterà per tutta la vita di diventare poeta (“bello e maledetto” come
i suoi modelli) fallendo anche lì. Insomma, un mediocre. Che troverà i suoi
momenti di felicità negli sprazzi della vita, quasi involontariamente. Con la
seconda moglie, presto portatagli via da un tumore. Con la nipotina Stephanie,
con la quale chiuderà il libro, consegnandole un mondo che non è riuscito a
salvare.
Perché in parallelo, vediamo la
Storia che attraversa la vita di Roland. La crisi di Cuba del ’63, che lui
esorcizza scopando per la prima volta. Il disastro di Chernobyl affrontato con
Lawrence appena lasciati da Alissa. Le speranze della caduta del muro di
Berlino naufragate nelle guerre balcaniche. Le torri gemelle, che si tocca di
sfuggita, per arrivare ai tempi nostri, con invettive contro la Brexit e le
dolenti note tra pandemia e post-pandemia.
Tra questi due binari si svolge la
vita senza qualità di Roland, con tutte le sue aspettative tradite, spesso,
nella mia ottica, perché non ha un briciolo di spina dorsale per prendere un
problema, almeno uno, di petto, in prima persona.
Discorso a parte merita la lunga
storia del breve amore con Alissa, moglie anglo-tedesca che lo lascia con il
piccolo Lawrence, che solo così può dare una svolta alla sua vita. Alissa non
tronerà mai indietro, ma produrrà una buona messe di romanzi, che le daranno
successo. E McEwan si arrovella sul dramma crudele di una madre che decide
questa scelta estrema. Quasi rigirandosi in mente la frase di Doris Lessing,
quando le fu chiesto perché avesse abbandonato i figli al marito per dedicarsi
alla scrittura. E Doris rispose: "Per molto tempo ho sentito di aver fatto
una cosa molto coraggiosa. Non c'è niente di più noioso per una donna intelligente
che passare infinite quantità di tempo con bambini piccoli. non ero la persona
migliore per allevarli. Avrei finito con l'essere … un intellettuale frustrato
come mia madre". E leggendo il libro capirete il senso della frase.
Certo, Roland è un po’ una parte di
ognuno di noi. E la sua vita ci porta ad interrogarci su cosa significa essere
uomini (o donne, non vorrei entrare nel politically correct). Non dico che ci
debba esser ottimismo, per il mondo in cui viviamo, e per come lo abbiamo
ridotto. Ovvio che non molto possa fare singolarmente ognuno di noi (il meglio
di Roland si ha quando porta di contrabbando dei vinili nella Germania Est), e
tutta la Storia del Novecento non può essere cambiata né da Roland né da
Alissa. Quello che manca, quello che mi è mancato è quel piccolo slancio che
avrebbe potuto avere Roland nel godere, nell’essere felice di quello che si ha.
Di quello che ha avuto.
Alla fine, io me lo sono chiesto, che
come tutti i Roland di questo mondo, anch’io sento di aver mancato molti obiettivi
potenziali. Ma il mio mentore Luisa mi ha insegnato a fare un bagno di realtà.
E se io, se noi, siamo quello che siamo, dobbiamo conviverci ed esserne felici.
Io lo sono.
“Chissà se un genio può trovare la
felicità. … Meglio essere un idiota, una mediocrità?” (118)
“Devo proprio darti una lezione su
come si legge un libro? Prendo a prestito. Invento. Saccheggio la mia vita.
Prendo un po’ dove capita, modifico, faccio tornare le cose come mi pare. …
Tutto quello che è mio, mescolato con quello che invento.” (537)
Ernest
Hemingway “Di là dal fiume e tra gli alberi” Mondadori s.p. (Prestito di
Francesco)
[A: 22/03/2023 – I: 26/06/2023 – T: 28/06/2023]
- &&&
[tit. or.: Across the River and into the Trees; ling. or.: inglese; pagine: 245; anno 2023]
Non credo che sarei tornato ancora ad
Hemingway se Francesco non fosse un patito di Matilda De Angelis e se Matilda
non fosse stata interprete del film tratto da questo libro e se non avessi
scelto di regalare il libro a Francesco per fargli vedere le differenze tra
film e libro. Fatte queste premesse, alla fine è lo stesso Francesco che mi
chiede di leggerlo e quindi eccoci di nuovo a Hemingway ed alla sua scrittura.
Come spesso mi accade leggendo gli scritti di
Hemingway redatti dopo la Seconda Guerra mondiale, sembra uno scritto fatto di
nulla. Non ci sono più le azioni dirette come in “Per chi suona la campana” né
ci sono i movimenti tra feste e bar come in “Fiesta (Il sole sorge ancora)”. È
tutto un moto del pensiero, e si regge, magistralmente, su duecento pagine di
dialoghi. Certo, ci sono alcune descrizioni, che completano l’opera, ma il
parlato ha qui una sua presenza assolutamente decisiva.
Un parlato che coinvolge due persone, al
centro di tutte le pagine: il colonnello di fanteria Richard Cantwell e la nobildonna
veneziana, la ventenne Renata. Dalle loro parole, dalle loro schermaglie,
ricostruiamo, sfogliandola nel tempo tutta la storia.
Richard ha ora cinquant’anni (l’età stessa di
Hemingway alla stesura del romanzo, ed in fatti, come vedremo poi, non pochi
sono i rimandi autobiografici), viene comandato dal suo esercito essere di
stanza a Trieste (all’epoca contesa e zona franca). Motivo per cui, avendo un
cuore malandato cui non fa affidamento, decide di tornare nelle zone che lo
hanno visto giovane.
Tra un presente dialogato ed un passato
ricordato, Richard ci narra delle ferite che subì, diciannovenne, nella
campagna d’Italia a Fossalto di Piave, della piccola convalescenza, e poi, con
un salto di venti anni, a cosa fece durante la Seconda Guerra Mondiale. In
particolare, narrando il modo in cui lui e le truppe americane entrano a Parigi
per liberarla dall’occupazione tedesca. Non solo, ma nelle more ricorda anche
uno dei suoi sport preferiti, che ancora pratica: la caccia alle anatre in
laguna.
Richard, tra incontri all’Hotel Gritti e
puntate all’Harry’s Bar di Cipriani, conosce e si innamora della giovane
Renata. Insoddisfatta e ricca, Renata è una ventata di freschezza nel
crepuscolo di Richard. Lo porta a ragionare, lo porta spesso a dire “Ti amo”. Hemingway
intercala anche scene non di sesso, ma in cui se ne intuisce l’esistenza. Ma il
tramonto di Hemingway si riversa tutto in quello di Richard, che sa di aver
poco da vivere con il suo corpo malandato.
Sembra alla ricerca di un modo per
allontanare Renata, ma la giovane ha un attaccamento verso questo maturo
soldato quasi al di là della comprensione (nostra). Richard beve, prende
svogliatamente le pasticche, prende freddo a caccia di anatre, ed al ritorno da
Caorle verso Venezia, muore in macchina, ricordando le parole del generale Thomas
Jonathan “Stonewall” Jackson: “lasciatemi attraversare il fiume e riposare
all'ombra degli alberi”.
Le parole che Hemingway prende per dare un
titolo che gli piacesse al testo.
Oltre l’età, ricordiamo che Hemingway stesso
fu ferito sul Piave durante la Prima Guerra mondiale. Inoltre, in quegli anni,
intorno al ’48, si trasferì per un periodo a Cortina d’Ampezzo (e di sicuro
incontrò mia zia e i suoi parenti, vero Adriano?), dove fece amicizia con il
variopinto mondo che passava le vacanze nelle alture ampezzane. Tra cui la
giovane Adriana Ivancich, di cui Hemingway si innamorò (ovvio che divenne
Renata). Proseguendo poi tra soggiorni a Venezia all’Hotel Gritti, bevute
infinite da Cipriani e pomeriggi a caccia di anatre. Lì gli viene l’idea del
romanzo. Lì lo comincia, anche se poi lo termina l’anno dopo a Cuba. Inoltre,
una volta finito, date le forti connotazioni con gli ambienti italiani e con
persone viventi, ottenne che ne fosse bloccata la pubblicazione. Che infatti
avvenne per la prima volta solo nel 1965, grazie all’opera meritoria della
grandissima Fernanda Pivano, la cui postfazione è tutta da leggere.
I suoi appunti ci fanno ripercorrere il tuffo
nei ricordi di Hemingway-Richard, avendo accanto una giovane, Renata, che
l’inglese colonello chiama in americano, cioè “Rinata”. Poiché Ernest ben
conosce anche l’italiano (e pieno di parole italiane è il testo), non sugge la
metafora che Richard vorrebbe nella sua amante adolescente. Rinascere, o,
meglio, far nascere lei in un mondo diverso, migliore, non quello triste suo.
Che volge alla fine. Cupamente, come saranno cupi gli ultimi dieci anni per
Hemingway fino al mortale colpo di fucile che si infliggerà il 2 luglio 1961.
E pur essendo cupo, ci sono sprazzi di luce, che
l’amore e l’amicizia sono un orizzonte cui Richard tende, senza mai
raggiungerlo. E poi c’è Venezia, la città nobile e bella, dei salotti degli
Hotel, ma soprattutto della locanda di Cipriani. Non mancando (ormai una
costante per Hemingway) un tasso alcolico che inebria anche chi legge. Ogni due
pagine, c’è un Martini molto secco che ci aspetta. Ed in tutte le cene non
possono mancare bottiglie di Valpolicella e fiumi di champagne.
Non tutto mi è piaciuto del libro, ma credo
che leggerlo nella nostra maturità ce ne dia una visione più ampia. I critici,
all’epoca, lo stroncarono. Io, come molti dopo, ne vedo il canto del cigno che
va verso la sua fine, cercando di trovare il suo posto, tra gli alberi che lo
videro giovane.
Prima trama settembrina, quindi eccoci alle corpose
letture di giugno, illuminate da tre bei libri: il gradito regalo che mi ha
fatto percorrere Francesca Melandri, ed i ricordi di due scrittori scomparsi a
me cari, Colin Dexter e Amos Oz. In fondo al gruppo, al solito, esempi eponimi
di due collane poco riuscite, i Neri del Corriere e le Spie di Repubblica.
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Einaudi |
s.p. |
2 |
2 |
Paolo
Regina |
Morte
di un antiquario |
Repubblica
Anima Noir |
8,90 |
3 |
3 |
Ben
Pastor |
Il
ladro d’acqua |
Mondadori |
s.p. |
2 |
4 |
Giuseppe
Catozzella |
E
tu splendi |
Repubblica
Montagna |
9,90 |
2 |
5 |
Francesca
Melandri |
Sangue
giusto |
Bompiani |
s.p. |
4 |
6 |
Tom
Clancy |
Il
cardinale del Cremlino |
Repubblica
Spy |
7,90 |
1,5 |
7 |
Colin
Dexter |
Il
giorno del rimorso |
Sellerio |
s.p. |
4 |
8 |
Simonetta
Agnello Hornby |
La
cucina del buon gusto |
Corriere
Oggi |
8,90 |
2 |
9 |
Mariolina
Venezia |
Rione
Serra Venerdì |
Einaudi |
17,50 |
2,5 |
10 |
Alicia
Gimenez Bartlett |
La presidente |
Sellerio |
16 |
2 |
11 |
Georges
Simenon |
Il
gatto |
Repubblica |
9,90 |
3 |
12 |
Guillaume
Musso |
La
vita è un romanzo |
Repubblica
Anima Noir |
8,90 |
3 |
13 |
C.
J. Tudor |
L’uomo
di gesso |
Corriere
Profondo Nero |
7,90 |
1 |
14 |
Amos
Oz |
Resta
ancora tanto da dire |
Feltrinelli |
9 |
4 |
15 |
Anne
Perry |
Marea
oscura |
Mondadori |
5,90 |
2,5 |
16 |
Mai
Jia |
Il
fatale talento del signor Rong |
Repubblica
Spy |
7,90 |
1 |
17 |
Ernest
Hemingway |
Di
là dal fiume e tra gli alberi |
Mondadori |
s.p. |
3 |
18 |
Mariolina
Venezia |
Via
del Riscatto |
Repubblica
Brivido Noir |
8,90 |
3 |
Direi
inoltre che un senso compiuto ad una trama quasi classica può fornircelo un
premio Nobel. Che, anche se la sua scrittura non mi ha convinto, Herta Müller nel suo breve “Lo sguardo
estraneo” ci ammonisce così: “Per
me estraneo non è il contrario di noto, è il contrario di familiare. Ciò che è
ignoto non dev’esserci necessariamente estraneo, ma può diventarlo ciò che è
noto.” (32) e “Dovevo guardare con attenzione, il che non significa
necessariamente vedere. Soltanto dare contemporaneamente un senso a ciò che si
è guardato significa vedere.” (38)
In effetti, pur un po’ rintronato dagli orari aerei, vi ho lasciato solo per una settimana. Ed ora, contento dei fasti nabatei, riprendo spero il ritmo solito delle mie scritture. Quindi, tiriamo le positive somme di un’estate mediorientale, con una buona Turchia ed una superlativa Giordania, in attesa di programmare gli eventi dei mesi invernali. Per ora, solo altri calorosi abbracci.
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