domenica 10 settembre 2023

Quasi classici - 10 settembre 2023

Per la ripresa autunnale, una cinquina “quasi classica”, con tanti autori di grido ed un italiano di buon talento. Certo, i sudamericani staccano il gruppo, con il mio sempre caro Borges a tirare fili che mi portano ovunque, ed un Puig che andrebbe letto e riletto. Non fallisce un maturo Hemingway, mentre McEwan continua a non piacermi fino in fondo. Di Giordano dissi e più avanti dico, quindi leggetene.

Jorge Luis Borges “Il libro di sabbia” Repubblica Latino-americana 12 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 04/02/2023 – T: 06/02/2023] - &&& e ½     

[tit. or.: El libro de arena; ling. or.: spagnolo; pagine: 155; anno 1996]

In gioventù sono stato un patito, quasi fanatico di Borges. Mi piacevano i suoi giochi intellettuali, quel suo modo di porgere che poteva essere letto in vari modi, stratificandone le interpretazioni. Poi l’ho perso di vista (che brutta cosa parlare così di un ipovedente), laddove tuttavia rimanevano alcune stelle fisse di alcuni racconti che non scordo né scorderò mai. Uno su tutti, che spero vi sia presente in mente, è “Pierre Menard, autore del Quixote”.

Ora, veramente a distanze siderali dalle ultime letture, mi capita tra le mani questo che, in effetti, è l’ultimo libro da lui pubblicato. Anche se in realtà, questo è un condensato di più “cose” che hanno visto le stampe sette anni dopo la morte di Borges, per la cura della sua depositaria testamentale, Maria Kodama. Cioè è l’unione di un libro di racconti, “Il libro di sabbia”, pubblicato nel 1975, con un altro libro di racconti, “Venticinque agosto 1983 e altri racconti inediti” pubblicato direttamente nella traduzione italiana nel 1980 per i tipi di Franco Maria Ricci.

Borges è sempre Borges, può piacere o meno, anche se sempre sfida l’intelletto, mette paletti strani intorno alle parole, gira, va in fondo ad una parte che non ci si aspetta e poi ritorna. Come ho detto, a me generalmente piacque, ed anche in questi racconti ne ho gradite alcune parti. Non tutto, come se, giustamente, io sia anche cambiato nel tempo. Questo mi ricorda un commento di cui mi sfuggono i contorni, sulla rilettura dei libri, che sempre ci danno delle sensazioni, anche se a volte diverse dalle prime.

Una serie di temi sono presenze fisse anche in queste righe argentine. Ad esempio, la fascinazione verso le leggende germaniche o del nord Europa in generale. Laddove riemergono, ad esempio, Sigfrido e Brunilde (anche se Borges li chiama con i loro nomi norreni che mi scordo ancor prima di leggerli). O meglio ancora, i canti, le poesie impossibili, l’accostamento all’assoluto poetico. Come ne “Lo specchio e la maschera” dove le rime si assottigliano fino a diventare una sola parola, che in questo racconto non sappiamo. Ma che potremmo forse rivedere in “Undr”, nient’altro che una possibile pronuncia medioevale della parola “wonder”. Perché, come diceva Giambattista Marino nel Seicento “È del poeta il fin la meraviglia...”.

Altro elemento che colpisce i miei addormentati sensi è il rovescio che si presenta ne “Il libro di sabbia”. Nel bellissimo, celebratissimo, a volte citato anche fuori contesto, “La biblioteca di Babele” sono presenti tutti i libri possibili generati da stringhe casuali di lettere. Ce ne saranno infiniti senza senso, ma l’uomo troverà (se cercherà) quelli che poi diventeranno i libri che stiamo leggendo. In questo rovesciamento, il libro di sabbia contiene infiniti fogli infinitamente sottili (una predizione già presente nella biblioteca) che sono l’insieme di tutti i libri possibili. C’è una vertigine matematica in tutto ciò, ma anche un rimando mentale (ripreso in modo latente ne “La rosa di Paracelso”) tra la fede nelle scritture (o nelle Scritture) e l’incredulità.

Non manca un rimando, anche qui frutto di qualche salto mortale, a “Funes el memorioso”, quando il narratore ha in dono tutti i ricordi dell’autore inglese (dono molto pesante) ne “La memoria di Shakespeare”. Come non manca, e qui mi ha sorpreso come fosse un racconto verista (e forse lo è) alcune pagine che tentano di spiegare il comportamento di Avelino Arredondo, l’uruguayano reo dell’unico assassinio presidenziale in quel paese. Nel 1897, Avelino uccide con tre colpi di pistola il presidente delle Repubblica Juan Idiarte Borda, senza poi commentare mai il suo gesto. Commenti che, appunto, Borges cerca di inventare (convincentemente).

Io, al fine, preferisco i due incipit, de “Il libro…” e di “Venticinque…”. Sono tutti basati sulla presenza del doppio, del diverso sé, di quello che siamo e di quello che vorremmo essere. Ed andrebbero letti in sequenza. Uno è visto dalla parte dell’anziano Borges che incontra il sé giovane, cercando di dissuaderlo da intraprendere le difficile strade che lo porteranno all’incomprensione, alla vecchiaia, alla cecità. L’altro è visto specularmente dal Borges giovane che incontra l’anziano sé, deluso di tutto quello che ha fatto (o che non ha fatto) e che decide, il giorno successivo al suo compleanno (Borges era nato il 24 agosto 1899) di darsi la morte.

Se fossi un iperpatito di citazioni compulsive, adesso sciorinerei i titoli originali, le date di pubblicazione di ogni pezzo, i rimandi (spesso Borges oltre ad autocitarsi, utilizza nomi che provengono dal suo pantheon personale). Ma sarebbe una cattiva introduzione a questo Borges tardivo. Che va letto, è comunque di buon livello come quasi tutto l’autore, almeno per me, e degustato appunto come una vendemmia tardiva, che addolcisce il palato, lasciando in fondo alla gola il rimpianto di quello che potrebbe essere stato.

“Le piaceva uscire a camminare da sola … anche a me. Possiamo uscire insieme.” (14)

“Non esiste libro così cattivo da non racchiudere qualcosa di buono.” (30)

“La vita dà tutto a tutti, ma i più lo ignorano.” (61)

“Dare un prologo a racconti non ancora letti è un compito quasi impossibile, perché richiede l’analisi di trame che è meglio non anticipare. Preferisco quindi un epilogo.” (93)

Paolo Giordano “Tasmania” Einaudi s.p. (Regalo di Natale di Mario&Ines)

[A: 25/12/2022 – I: 16/02/2023 – T: 19/02/2023] && ---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 258; anno: 2022]

Di Giordano avevo, come molti, letto “La solitudine dei numeri primi” che mi era piaciuto il giusto, ma certo meno di quanto se ne parlasse in giro. Ho riprovato ora, dopo aver letto, ogni tanto, qualche articolo sui giornali, con questo, riuscendo a raggiungere lo stesso poco soddisfacente risultato. Infatti, pur risultando il miglior romanzo del 2022 secondo la classifica de “La lettura” del Corriere della Sera, a me è rimasto un po’ sul vorrei ma non posso.

Alcune buone idee, alcuni sviluppi che si fanno seguire, ma un complesso che risulta leggermente scollegato, quasi ad aver riunito le bozze di differenti testi per poi cercare di legarle insieme in una storia coerente.

Perché ha di certo la struttura di un romanzo, ma all’interno si sviluppano diverse linee di pensiero, sovente legate all’autore stesso, quasi fosse una bio-fiction. Il tutto, infatti, ruota intorno al personaggio principale un vero alter-ego di Paolo. Ne capiamo la storia personale, la storia lavorativa ed altre storie correlate. Con ovvi discostamenti da Paolo, anche se non essendo un cultore di notizie, non so, e forse neanche mi interessa tanto, della vita reale dell’autore. O almeno, so il giusto, quello pubblico a tutti. Giordano si è laureato in fisica, ha svolto ricerche e lavori a livello universitario, è sposato, ha cominciato a scrivere romanzi, e continua pubblicando anche articoli sui giornali.

Ma veniamo invece al personaggio centrale. Nella storia personale è sposato con Lorenza, anche se il rapporto sembra procedere su di un crinale pericoloso. Lei è più grande, ha un figlio da un precedente matrimonio, ma ne vorrebbero uno insieme che non viene, creando una frattura tra i due. O forse un momento di frizione più per lui, alla fine. Lorenza lo elabora, continua su di una sua linea di comportamento aspettando che lui, alla fine, capisca qualcosa.

Nella loro storia sono moderatamente benestanti, vanno in giro per il mondo (bello il cammeo sul Laos), ed in una vacanza per lasciarsi tutto alle spalle, soprattutto la procreazione mancata-mancante, fanno anche scambio di coppia con dei coniugi olandesi.

C’è il grande amico Giulio, quello che continua le ricerche a Parigi, che vive un divorzio doloroso ed una difficoltà a rapportarsi con il figlio. Nelle sue andate a Parigi da Giulio, il nostro conosce anche un professore che si occupa delle forme delle nuvole, un premio Nobel che fagocita tutti quelli che ha intorno, con il quale sembra ad un certo punto poter stabilire un contatto, ma l’egoismo (o l’egotismo) del professore manda tutto all’aria.

A Parigi conosce anche una reporter di guerra, Curzia, che occupa i suoi pensieri nei momenti di crisi con Lorenza. Un’amicizia intelletual-giornalistica che stimola entrambi nei rispettivi campi, e che lui pensa possa svilupparsi anche verso altre strade, che Curzia gli fa capire siano impraticabili.

Infine, c’è Karol, il prete amico e mentore, con il quale si confida e ne viene fatto confidente. Un prete decisamente umano, con tutti i problemi che ogni uomo, prete o meno, può avere. Con una crisi che sta attraversando e che condivide con il nostro. Una crisi che, allontanandolo da Dio, lo porta vicino a Gesù, ricostruendo un percorso di fede che sembrava dissolversi.

Poi, c’è il motivo letterario, la narrazione nella narrazione. Che il protagonista vuole scrivere un libro sulla bomba atomica, ed inserisce nel testo lunghi, documenti ed anche interessanti capitoli su Fermi, il progetto Manhattan, la bomba su Hiroshima ed altri momenti di distruzione di massa. Quasi a fare un ardito parallelo tra le possibili distruzioni esterne, comprese quelle che influiscono sul clima, alle visibili distruzioni interne del protagonista. Ma tutta questa parte, pur dotta, non appassiona. Un grande grido di dolore su tutte le storture che avvengono nel mondo degli uomini, ma come molti gridi di dolore, rimangono sulla carta e niente più.

Infine, ci sono le parole di Lorenza che entrano nel cuore del protagonista e forse faranno germogliare qualcosa. Abbiamo passato tante cose, le dice, ed io ci sono sempre, anche nei tuoi momenti più bui. Ed il protagonista sa di cosa stiano parlando.

Infine, c’è la Tasmania, citata come luogo rifugio da tutte gli inquinamenti del mondo, quell’isola laggiù che, proprio perché isola, può simboleggiare isolamento ma anche protezione.

Infine, c’è il tempo che scorre, e Giordano, in un certo senso brillantemente, salta gli anni pandemici, che noi e lui sappiamo esserci. Che lui ci parla del prima e del dopo. Il durante è duro ed è conseguenza del prima e innesco del dopo.

Infine, c’è la chiusura, in quel di Hiroshima che a marzo di quest’anno sono andato nuovamente a visitare, ed ogni volta è come la prima. Un grande ed impensabile pugno nello stomaco. Diverso dai campi nazisti, ma forte ed irrimediabile nella sua brutalità.

Tutto ciò ci dice l’autore, che tutto possiamo passare se finalmente riuscissimo a sapere chi siamo, se riuscissimo a vederci dentro, se riuscissimo a portare il nostro io verso gli altri e costruire quel futuro insieme che noi, io, te, i nostri amici e compagni, seguiamo come un sogno da cinquant’anni. Bella la speranza, ovvio. Meno riuscita, come detto, la forma.

Manuel Puig “Il bacio della donna ragno” Repubblica Latino-americana 8 euro 9,90

[A: 06/05/2020 – I: 27/05/2023 – T: 29/05/2023] - &&&     

[tit. or.: El beso de la mujer araña; ling. or.: spagnolo; pagine: 251; anno 1976]

Ho sempre avuto in una parte della mente un pensiero verso Manuel Puig Dellevedove, dopo aver letto poco o nulla di lui, ma dopo aver visto il bellissimo film del 1985, tratto proprio da questo libro, e con l’interpretazione che gli valse l’Oscar di William Hurt. E mi ripromettevo prima o poi di colmare questa lacuna.

Puig è stato una lunga meteora nella letteratura argentina, prima di tutto distanziandosi nella modalità di scrittura dai due pilastri estremi di quella letteratura: Julio Cortazar e Jorge Luis Borges. Inoltre, ebbe una vita ben movimentata, quando, in seguito ai suoi scritti poco ortodossi per il potere fu costretto a lasciare il paese nel 1973. E sarà in esilio che, poco più che quarantenne, scrive questo testo, per anni censurato dalla dittatura, prima peronista poi militare. Sia per i contenuti politici che per quelli sessuali del suo testo.

Tra l’altro Puig, sui venticinque anni, seguì a Roma un corso di sceneggiatura, visto che è sempre stato un amante del cinema e nel cinema aveva posto la speranza di un suo modo di vivere. Certo, i film ed il suo lavoro per i copioni cinematografici rimane molto impresso nella sua scrittura, ed in questo libro raggiunge un’espressività estrema.

Come in molte delle sue poche opere (Puig muore non ancora sessantenne per un attacco cardiaco, alcuni dicono di AIDS ma non fu mai provato, avendo al suo attivo solo otto romanzi), c’è sempre un po’ di realtà nella sua finzione. Qui, in particolare, i due personaggi sono in effetti le due metà di uno letterato e politico argentino, Luis González de Alba, attivista omosessuale e personaggio di spicco del movimento studentesco messicano. Non è senza motivo, quindi, che la maggior parte del testo, Puig la scrive durante il suo primo esilio a Città del Messico.

La particolarità del testo, che si basa su due soli personaggi, è il fatto di essere tutto un dialogo. Non c’è narrazione esterna, non ci sono descrizioni. Si va avanti con i due che parlano, dialogano, si confrontano. Ed è dalle loro parole che emerge tutta la storia (oltre alle note di cui parlo in finale).

I protagonisti rinchiusi in una claustrofobica cella dal settembre all’ottobre 1975, sono Luis Molina e Valentin Arregui. Il primo, omosessuale dichiarato, è in carcere per “corruzione di minore”. Il secondo, perché appartenente ad un’organizzazione di estrema sinistra che vuole rovesciare il governo argentino.

I due parlano, si confrontano, mettono in mezzo le loro convinzioni, personali di Molina e politiche di Valentin, partendo da posizioni distanti, quasi antagonistiche. Tra l’altro, sappiamo che Molina è messo lì, ricattato dal direttore del carcere, al fine di trovare connessioni di Valentin con altri estremisti. La maggior parte del tempo, è Molina che parla e racconta una serie di film a Valentin (ovvio tributo alle passioni di Puig). Sono in fondo i film una facile allegoria della loro condizione. Si parla di situazioni amorose difficili, di donne pronte a sacrificarsi, di situazioni oppressive e claustrofobiche (comunque sui fil torneremo).

Molina, pur nella sua complicata situazione sessuale, alla fine è più forte nella sofferenza, più capace nell’affrontarla. Sofferenza che invece intacca Valentin. Ed è sempre Molina che, empaticamente, riesce a sostenere Valentin, riesce, insieme a Valentin, a trovare un terreno comune, una dolcezza che allevia le sofferenze di Valentin. Un Valentin che verso la fine dirà la chiave del testo: “Tu sei la donna ragno, catturi gli uomini nella tua tela”. Una vicinanza che porterà Molina a gesti estremi da cui sarà difficile tornare indietro.

Le mie amiche libropeute lo avevano inserito nei consigli di lettura dopo aver avuto un incubo, insieme a “La peste” di Camus, a “La polvere dei sogni” di Brink ed altri. Consiglio che personalmente ritengo mal posto. È un libro, che seppur non interamente riuscito, va letto per quello che è, anche con tutto il corredo di sovra testo che Puig vi pone. Non a caso è anche riempito di note, spesso fittizie, che tentano di dare spiegazioni di diversa natura sull’omosessualità. Così che il lettore viene inserito in un circuito di pensiero che lo deve portare al di là dello scritto.

Ma io vorrei finire con le sei pellicole che attraversano il libro. La prima, di una bellissima descrizione che ne fa Molina, è “Il bacio della pantera” bellissimo film horror del ’42 di Val Lewton. Il secondo è un film probabilmente inventato, basato su di una mescola di film propagandistici di stampo nazista e del film premio Oscar del ’46 “A Parigi nell’ombra”. Il terzo lo seguiamo solo nella testa di Molina, si tratta de “Il villino incantato” una tenera storia d’amore post-bellica interpretata da Robert Young. Del quarto film non sappiamo il titolo, è solo una storia della presa di coscienza di un giovane che alla fine si unisce alla guerriglia contro il potere. Con il quinto torniamo ai film horror della fucina di Lewton, dal titolo auto esplicativo “Ho camminato con uno zombi”. Anche dell’ultimo film non abbiamo il titolo, ma parla di due che si innamorano, ma, senza soldi, la donna deve prostituirsi per vivere.

Il bello dei film è che fanno da contrappunto alla storia che si sviluppa nella piccola cella (e nelle sue propaggini fuori dal carcere). Per questo, non dico altro delle trame, né degli addendi che le trame stesse hanno con il libro.

Pur avendo delle piccole cadute di tono (per me nei periodici flussi di coscienza in corsivo) è senza dubbio un libro di interessanti letture e spunti.

Ian McEwan “Lezioni” Einaudi s.p. (Regalo di Anto&Paolo)

[A: 07/05/2023 – I: 29/05/2023 – T: 01/06/2023] - &&   

[tit. or.: Lessons; ling. or.: inglese; pagine: 561; anno 2022]

Un bel libro che non mi è piaciuto. È scritto ovviamente molto bene, dato che McEwan è uno scrittore che sa usare il linguaggio in modo egregio. Ed è altrettanto ben tradotto da Susanna Basso, visto che il testo italiano scorre senza intoppi, restituendo al lettore la sensazione di leggere direttamente dall’autore.

È una cavalcata di settanta anni tra la Storia e la storia, ma che, alla fine, mi ha dato l’impressione di essere una rivisitazione in salsa inglese dello Stoner di John Edward Williams. Seguiamo per un numero esorbitante di pagine la vita di Roland, con tutti i suoi alti e bassi (poi ci si torna), senza che né lui né altri personaggi facciano un salto di qualità nel nostro immaginario di lettori. Belle descrizioni, personaggi che risaltano agli occhi, ma nessuno di cui innamorarsi. Forse McEwan riprende, addolcendolo, la sua figura di Dottor Macabre, mostrando che nessuno è degno di essere esaltato: tutti hanno difetti e lati oscuri. Beh, questo lo si poteva sapere anche senza leggere una riga.

Per quel poco che so della vita di McEwan, di certo ci sono punte autobiografiche. La nascita ad Aldershot nel 1948, ad esempio. O la scoperta, in tarda età, sia di Ian che di Ronald di avere un fratello dato in adozione prima della sua (loro) nascita. Ma non solo nell’altre ego naturale Ronald, dato che una parte di Ian si ritrova nella scrittrice Alissa, come lui sempre sulla soglia di un grande premio. D’altra parte, la frase che riporto in finale, pronunciata da Alissa, è illuminante per questi aspetti, e forse anche altri. Per cui, non ho interesse a separare il grano dalla pula, ma di entrare con tutte le scarpe nella trama e nei suoi risvolti.

Trama che, pur seguendo la vita di Roland dai trent’anni circa fino ai giorni nostri, è scritta quasi in affabulazione. Si parla, si entra in una situazione e poi a questa se ne collegano altre, avvenute prima o anche dopo il flusso narrante. L’idea è di costruire una rappresentazione a tutto tondo di una vita. A me, alla mia idiosincrasia per i salti temporali, a volte fa perdere il ritmo del testo che sto leggendo.

Quindi, venendo al testo, la scrittura ci porta subito al centro dei problemi. Iniziando da quelli privati. Roland è stato appena lasciato dalla moglie Alissa, ad accudire il piccolo Lawrence. Ovvio che questo porta modifiche a tutto il percorso di vita di Roland, come spesso accade ed accadrà. Così veniamo a sapere della sua gioventù, quando promettente pianista, viene concupito dalla sua insegnante. Certo questo gli apre le strade del sesso, ma rimarrà sempre un grosso segno nella sua vita. Per liberarsene, fugge. Dalla scuola, dal piano, dall’amante.

Sarà uno dei tanti percorsi mancati. Non diventa pianista di concerti, ma passerà molto tempo come pianista di piano bar. Sarà una promettente promessa tennistica, ma poi si risolverà a fare il maestro. Tenterà per tutta la vita di diventare poeta (“bello e maledetto” come i suoi modelli) fallendo anche lì. Insomma, un mediocre. Che troverà i suoi momenti di felicità negli sprazzi della vita, quasi involontariamente. Con la seconda moglie, presto portatagli via da un tumore. Con la nipotina Stephanie, con la quale chiuderà il libro, consegnandole un mondo che non è riuscito a salvare.

Perché in parallelo, vediamo la Storia che attraversa la vita di Roland. La crisi di Cuba del ’63, che lui esorcizza scopando per la prima volta. Il disastro di Chernobyl affrontato con Lawrence appena lasciati da Alissa. Le speranze della caduta del muro di Berlino naufragate nelle guerre balcaniche. Le torri gemelle, che si tocca di sfuggita, per arrivare ai tempi nostri, con invettive contro la Brexit e le dolenti note tra pandemia e post-pandemia.

Tra questi due binari si svolge la vita senza qualità di Roland, con tutte le sue aspettative tradite, spesso, nella mia ottica, perché non ha un briciolo di spina dorsale per prendere un problema, almeno uno, di petto, in prima persona.

Discorso a parte merita la lunga storia del breve amore con Alissa, moglie anglo-tedesca che lo lascia con il piccolo Lawrence, che solo così può dare una svolta alla sua vita. Alissa non tronerà mai indietro, ma produrrà una buona messe di romanzi, che le daranno successo. E McEwan si arrovella sul dramma crudele di una madre che decide questa scelta estrema. Quasi rigirandosi in mente la frase di Doris Lessing, quando le fu chiesto perché avesse abbandonato i figli al marito per dedicarsi alla scrittura. E Doris rispose: "Per molto tempo ho sentito di aver fatto una cosa molto coraggiosa. Non c'è niente di più noioso per una donna intelligente che passare infinite quantità di tempo con bambini piccoli. non ero la persona migliore per allevarli. Avrei finito con l'essere … un intellettuale frustrato come mia madre". E leggendo il libro capirete il senso della frase.

Certo, Roland è un po’ una parte di ognuno di noi. E la sua vita ci porta ad interrogarci su cosa significa essere uomini (o donne, non vorrei entrare nel politically correct). Non dico che ci debba esser ottimismo, per il mondo in cui viviamo, e per come lo abbiamo ridotto. Ovvio che non molto possa fare singolarmente ognuno di noi (il meglio di Roland si ha quando porta di contrabbando dei vinili nella Germania Est), e tutta la Storia del Novecento non può essere cambiata né da Roland né da Alissa. Quello che manca, quello che mi è mancato è quel piccolo slancio che avrebbe potuto avere Roland nel godere, nell’essere felice di quello che si ha. Di quello che ha avuto.

Alla fine, io me lo sono chiesto, che come tutti i Roland di questo mondo, anch’io sento di aver mancato molti obiettivi potenziali. Ma il mio mentore Luisa mi ha insegnato a fare un bagno di realtà. E se io, se noi, siamo quello che siamo, dobbiamo conviverci ed esserne felici.

Io lo sono.

“Chissà se un genio può trovare la felicità. … Meglio essere un idiota, una mediocrità?” (118)

“Devo proprio darti una lezione su come si legge un libro? Prendo a prestito. Invento. Saccheggio la mia vita. Prendo un po’ dove capita, modifico, faccio tornare le cose come mi pare. … Tutto quello che è mio, mescolato con quello che invento.” (537)

Ernest Hemingway “Di là dal fiume e tra gli alberi” Mondadori s.p. (Prestito di Francesco)

[A: 22/03/2023 – I: 26/06/2023 – T: 28/06/2023] - &&&   

[tit. or.: Across the River and into the Trees; ling. or.: inglese; pagine: 245; anno 2023]

Non credo che sarei tornato ancora ad Hemingway se Francesco non fosse un patito di Matilda De Angelis e se Matilda non fosse stata interprete del film tratto da questo libro e se non avessi scelto di regalare il libro a Francesco per fargli vedere le differenze tra film e libro. Fatte queste premesse, alla fine è lo stesso Francesco che mi chiede di leggerlo e quindi eccoci di nuovo a Hemingway ed alla sua scrittura.

Come spesso mi accade leggendo gli scritti di Hemingway redatti dopo la Seconda Guerra mondiale, sembra uno scritto fatto di nulla. Non ci sono più le azioni dirette come in “Per chi suona la campana” né ci sono i movimenti tra feste e bar come in “Fiesta (Il sole sorge ancora)”. È tutto un moto del pensiero, e si regge, magistralmente, su duecento pagine di dialoghi. Certo, ci sono alcune descrizioni, che completano l’opera, ma il parlato ha qui una sua presenza assolutamente decisiva.

Un parlato che coinvolge due persone, al centro di tutte le pagine: il colonnello di fanteria Richard Cantwell e la nobildonna veneziana, la ventenne Renata. Dalle loro parole, dalle loro schermaglie, ricostruiamo, sfogliandola nel tempo tutta la storia.

Richard ha ora cinquant’anni (l’età stessa di Hemingway alla stesura del romanzo, ed in fatti, come vedremo poi, non pochi sono i rimandi autobiografici), viene comandato dal suo esercito essere di stanza a Trieste (all’epoca contesa e zona franca). Motivo per cui, avendo un cuore malandato cui non fa affidamento, decide di tornare nelle zone che lo hanno visto giovane.

Tra un presente dialogato ed un passato ricordato, Richard ci narra delle ferite che subì, diciannovenne, nella campagna d’Italia a Fossalto di Piave, della piccola convalescenza, e poi, con un salto di venti anni, a cosa fece durante la Seconda Guerra Mondiale. In particolare, narrando il modo in cui lui e le truppe americane entrano a Parigi per liberarla dall’occupazione tedesca. Non solo, ma nelle more ricorda anche uno dei suoi sport preferiti, che ancora pratica: la caccia alle anatre in laguna.

Richard, tra incontri all’Hotel Gritti e puntate all’Harry’s Bar di Cipriani, conosce e si innamora della giovane Renata. Insoddisfatta e ricca, Renata è una ventata di freschezza nel crepuscolo di Richard. Lo porta a ragionare, lo porta spesso a dire “Ti amo”. Hemingway intercala anche scene non di sesso, ma in cui se ne intuisce l’esistenza. Ma il tramonto di Hemingway si riversa tutto in quello di Richard, che sa di aver poco da vivere con il suo corpo malandato.

Sembra alla ricerca di un modo per allontanare Renata, ma la giovane ha un attaccamento verso questo maturo soldato quasi al di là della comprensione (nostra). Richard beve, prende svogliatamente le pasticche, prende freddo a caccia di anatre, ed al ritorno da Caorle verso Venezia, muore in macchina, ricordando le parole del generale Thomas Jonathan “Stonewall” Jackson: “lasciatemi attraversare il fiume e riposare all'ombra degli alberi”.

Le parole che Hemingway prende per dare un titolo che gli piacesse al testo.

Oltre l’età, ricordiamo che Hemingway stesso fu ferito sul Piave durante la Prima Guerra mondiale. Inoltre, in quegli anni, intorno al ’48, si trasferì per un periodo a Cortina d’Ampezzo (e di sicuro incontrò mia zia e i suoi parenti, vero Adriano?), dove fece amicizia con il variopinto mondo che passava le vacanze nelle alture ampezzane. Tra cui la giovane Adriana Ivancich, di cui Hemingway si innamorò (ovvio che divenne Renata). Proseguendo poi tra soggiorni a Venezia all’Hotel Gritti, bevute infinite da Cipriani e pomeriggi a caccia di anatre. Lì gli viene l’idea del romanzo. Lì lo comincia, anche se poi lo termina l’anno dopo a Cuba. Inoltre, una volta finito, date le forti connotazioni con gli ambienti italiani e con persone viventi, ottenne che ne fosse bloccata la pubblicazione. Che infatti avvenne per la prima volta solo nel 1965, grazie all’opera meritoria della grandissima Fernanda Pivano, la cui postfazione è tutta da leggere.

I suoi appunti ci fanno ripercorrere il tuffo nei ricordi di Hemingway-Richard, avendo accanto una giovane, Renata, che l’inglese colonello chiama in americano, cioè “Rinata”. Poiché Ernest ben conosce anche l’italiano (e pieno di parole italiane è il testo), non sugge la metafora che Richard vorrebbe nella sua amante adolescente. Rinascere, o, meglio, far nascere lei in un mondo diverso, migliore, non quello triste suo. Che volge alla fine. Cupamente, come saranno cupi gli ultimi dieci anni per Hemingway fino al mortale colpo di fucile che si infliggerà il 2 luglio 1961.

E pur essendo cupo, ci sono sprazzi di luce, che l’amore e l’amicizia sono un orizzonte cui Richard tende, senza mai raggiungerlo. E poi c’è Venezia, la città nobile e bella, dei salotti degli Hotel, ma soprattutto della locanda di Cipriani. Non mancando (ormai una costante per Hemingway) un tasso alcolico che inebria anche chi legge. Ogni due pagine, c’è un Martini molto secco che ci aspetta. Ed in tutte le cene non possono mancare bottiglie di Valpolicella e fiumi di champagne.

Non tutto mi è piaciuto del libro, ma credo che leggerlo nella nostra maturità ce ne dia una visione più ampia. I critici, all’epoca, lo stroncarono. Io, come molti dopo, ne vedo il canto del cigno che va verso la sua fine, cercando di trovare il suo posto, tra gli alberi che lo videro giovane.

Prima trama settembrina, quindi eccoci alle corpose letture di giugno, illuminate da tre bei libri: il gradito regalo che mi ha fatto percorrere Francesca Melandri, ed i ricordi di due scrittori scomparsi a me cari, Colin Dexter e Amos Oz. In fondo al gruppo, al solito, esempi eponimi di due collane poco riuscite, i Neri del Corriere e le Spie di Repubblica.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Ian McEwan

Lezioni

Einaudi

s.p.

2

2

Paolo Regina

Morte di un antiquario

Repubblica Anima Noir

8,90

3

3

Ben Pastor

Il ladro d’acqua

Mondadori

s.p.

2

4

Giuseppe Catozzella

E tu splendi

Repubblica Montagna

9,90

2

5

Francesca Melandri

Sangue giusto

Bompiani

s.p.

4

6

Tom Clancy

Il cardinale del Cremlino

Repubblica Spy

7,90

1,5

7

Colin Dexter

Il giorno del rimorso

Sellerio

s.p.

4

8

Simonetta Agnello Hornby

La cucina del buon gusto

Corriere Oggi

8,90

2

9

Mariolina Venezia

Rione Serra Venerdì

Einaudi

17,50

2,5

10

Alicia Gimenez Bartlett

La presidente

Sellerio

16

2

11

Georges Simenon

Il gatto

Repubblica

9,90

3

12

Guillaume Musso

La vita è un romanzo

Repubblica Anima Noir

8,90

3

13

C. J. Tudor

L’uomo di gesso

Corriere Profondo Nero

7,90

1

14

Amos Oz

Resta ancora tanto da dire

Feltrinelli

9

4

15

Anne Perry

Marea oscura

Mondadori

5,90

2,5

16

Mai Jia

Il fatale talento del signor Rong

Repubblica Spy

7,90

1

17

Ernest Hemingway

Di là dal fiume e tra gli alberi

Mondadori

s.p.

3

18

Mariolina Venezia

Via del Riscatto

Repubblica Brivido Noir

8,90

3

 

Direi inoltre che un senso compiuto ad una trama quasi classica può fornircelo un premio Nobel. Che, anche se la sua scrittura non mi ha convinto, Herta Müller nel suo breve “Lo sguardo estraneo” ci ammonisce così: “Per me estraneo non è il contrario di noto, è il contrario di familiare. Ciò che è ignoto non dev’esserci necessariamente estraneo, ma può diventarlo ciò che è noto.” (32) e “Dovevo guardare con attenzione, il che non significa necessariamente vedere. Soltanto dare contemporaneamente un senso a ciò che si è guardato significa vedere.” (38)

In effetti, pur un po’ rintronato dagli orari aerei, vi ho lasciato solo per una settimana. Ed ora, contento dei fasti nabatei, riprendo spero il ritmo solito delle mie scritture. Quindi, tiriamo le positive somme di un’estate mediorientale, con una buona Turchia ed una superlativa Giordania, in attesa di programmare gli eventi dei mesi invernali. Per ora, solo altri calorosi abbracci.

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