Guillaume Musso “L’istante presente” La nave
di Teseo euro 18
[A: 22/08/2021 – I: 14/02/2023 – T: 16/02/2023] - &&
[tit. or.: L’instant
présent; ling. or.: francese; pagine: 332; anno 2015]
È il tredicesimo libro scritto da Musso,
venendo, in ordine cronologico, dopo la bella scrittura ed il successo di
critica e di pubblico di “Central Park”. Come spesso accade, tuttavia, dopo un
boom, si può incappare in un libro solo parzialmente riuscito. Come questo, che
mantiene una buona scrittura, alcune invenzioni discretamente riuscite, ma che,
nell’impianto generale e nel finale, risulta un po’ deludente e sicuramente
poco convincente.
Dopo i primi libri, di buon livello, anche
se alcuni di nicchia (come il primo di cui ho parlato recentemente), Musso si
era un po’ affrancato da quelle inserzioni favolistiche al limite del
soprannaturale inspiegabile, venendo a temi certo complicati ma razionalmente
interpretabili. Qui, fa un passo indietro. Incentra tutta la trama su di un
presupposto che è altamente inspiegabile, e chiude il libro certo con una
soluzione che cerca di sciogliere qualche nodo ma che, a me, rimane ostica e
lontana.
La storia è incentrata su Arthur Costello.
Un brillante medico di Boston, segnato dalla sparizione, lui piccolo, del nonno
Sullivan e da un rapporto totalmente anaffettivo con il padre Frank. Che
stranamente, e senza apparente motivo, gli dona il faro di famiglia (che si
chiama “24 Wind Lighthouse”) con l’ingiunzione di non aprire mai la porta della
cantina, murata. Mi sembra ovvio che Arthur, la prima cosa che fa, è di aprire
la porta ed entrare nella cantina.
Qui comincia l’avventura. Arthur sviene e si
risveglia, senza motivi apparenti, nudo nella chiesa di St. Patrick a New York
(il faro si trovava sulla costa a Cape Cod). Dopo una serie di vicissitudini
che animano la prima parte (forse quella che tiene un po’ sulle corde della
suspence), veniamo a conoscenza di una serie di fatti “strani”.
Nonno Sullivan non è morto, ma, preso per
pazzo, rinchiuso in una clinica da dove Arthur lo libera. Sullivan spiega ad
Arthur che chi entra nella cantina subisce un “mutamento”, per cui viene
sbalzato di anno in anno, ogni volta per un giorno, per 24 volte (come il nome
del faro). In uno dei primi ritorni, Arthur conosce Lisa, e, com’è come non è,
i due si innamorano, si accapigliano, si pigliano e si lasciano (con le loro
microstorie che durano un giorno).
Fortuna che Liza è più giovane di Arthur,
così che non si hanno problemi di invecchiamento tra i due. Ci sono invece
problemi di rapporti, ovvio. Che dalle loro focose unioni nascono due figli, un
maschio ed una femmina. Cresciuti da Lisa, dato che Arthur (l’uomo che
scompare, come lo chiama lei) ogni volta sparisce, anche se verso la fine i
salti temporali sono più ravvicinati.
Fino a che, nel 2015, Arthur finisce di
saltellare nel tempo, si ricongiunge con i tempi umani del mondo, e Musso deve
trovare il modo di concludere in qualche maniera la storia.
Purtroppo, e qui il romanzo cade molto di
tono, non c’è una spiegazione coerente, ma un girare intorno al problema,
magari cercando di buttarla sullo psicologico (in fondo, Sullivan poteva essere
pazzo, e forse anche Arthur). Ma non convince, non è questa la strada, come non
sembra plausibile l’ulteriore svolta che Musso cerca di propinarci.
L’idea, all’inizio, poteva essere divertente
e stimolante. Anche perché Arthur ogni volta ricompare in un momento topico
della storia dell’umanità. Durante i problemi “sessuali” del presidente
Clinton, il giorno delle “Torri Gemelle”, ed altri piccoli o grandi
avvenimenti. E poteva Musso divertirsi andando ad approfondire lo spaesamento
di una persona che, appunto, si trova all’improvviso con notizie ed avvenimenti
che non avrebbe mai pensato potessero accadere.
Tutto ciò, però, poteva essere una
riscrittura de “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” di Audrey
Niffenegger, con qualche puntata sul versante “non fiction” interessante. Ma
anche questo spunto viene lisciato da Musso.
Alcune recensioni puntano sull’apprezzamento
della scelta effettuata da Musso per il finale, leggendo tutta la storia come
una sfida dell’uomo verso la conoscenza. Altri, ed io con loro, lo trovano un
espediente per chiudere una storia che non si sapeva più come portare avanti.
Una storia un po’ rabberciata come scrivevo all’inizio, scritta più sull’onda
del successo che per una vera necessità espressiva.
Con anche molti svarioni disseminati nel
testo e di cui ne rilevo a mente due.
Il faro ha il nome sopra riportato perché ha
murata nella sua struttura una rosa con 24 venti. Ora, seppur vero che si può
fare come si vuole, i venti presenti nelle varie rose sono potenze di due (4,
8, 16 e 32). Pare che in Vitruvio esista uno schema a 24, ma non viene
considerata una rappresentazione efficace. Certo, 16 anni sembravano pochi e 32
troppi, per cui di sicuro Musso ha fatto una piccola forzatura.
Infine, ad uno scrittore, di cui non vi dirò
le generalità, a pagina 307 vengono attributi prima il premio Stoker e poi il
premio Hugo per un’opera dedicata ai giovani lettori. Forse anche qui Musso
gioca con noi lettori, laddove, per chi non ne fosse a conoscenza, il Premio
Bram Stoker è un premio letterario statunitense per opere di narrativa
dell'orrore ed il premio Hugo è un premio per lavori di fantascienza e fantasy.
Quindi, errore o voluto inganno?
“Non devi restare solo … se si è soli, si è morti.”
(288)
Guillaume Musso “La ragazza e la notte” Repubblica
Emozione Noir 4 euro 7,90
[A: 07/07/2019 – I: 30/03/2023 – T: 31/03/2023] - &&&
[tit. or.: La
Jeune fille et la nuit; ling. or.: francese; pagine: 345; anno 2018]
Questo è invece il sedicesimo dei venti libri
scritti da Musso, di cui ben sedici sono presenti nella mia libreria.
Testimonianza di un discreto amore che ho verso la scrittura di questo autore
francese, dalle chiare ascendenze italiane (e che attualmente risulta l’autore più
venduto in patria). Amore non sempre corrisposto, che alcuni suoi testi mi
hanno relativamente deluso. Altri, ed anche questo, hanno invece raggiunto un
buon livello di gradimento, pur non raggiungendo quello che per me, ad ora, è
il suo più interessante (“La ragazza di Brooklyn”).
Intanto qui si verifica un’inversione di
tendenza rispetto a (quasi) tutti i precedenti. Musso non ha mai nascosto il
suo amore per l’America, ed ha sempre ambientato lì in tutto o in parte i suoi
romanzi. Qui, invece, si rivolge ad un altro ambiente che ben conosce. Che si
torna a Cap d’Antibes, che è anche la sua città natale. Tutto il romanzo, poi, pur
nei flashback che continuano a caratterizzarne la scrittura, tiene banco
intorno al liceo Saint Exupery della cittadina nizzarda, quasi a voler
mescolare finzione e qualche ricordo di gioventù.
Tuttavia, è ovvio che la finzione sia quella
che ci interessa, che nel presente del romanzo, ambientato nel 2017, si
ritrovano nel liceo vecchi compagni di scuola (vecchi come compagni, che
all’anagrafe dovrebbero essere splendidi quarantenni). In particolare, si
ritrovano Thomas, ora diventato un acclamato scrittore, Maxime, politico in
carriera e Fanny, diventata una valente cardiologa. I tre sono poi legati in
quanti tutti e tre amici di una studentessa brillante e scapestrata, Vinca, che
nell’inverno del ’92 misteriosamente scompare.
Non solo, ma contemporaneamente scompare
anche il giovane professore di filosofia, Alexis, verso cui tutte le ragazze
avevano un debole. Facile fare 2 + 2 per ipotizzare una fuga d’amore. A maggior
ragione se si legge il diario di Vinca, con continui riferimenti d’amore verso
una persona di nome “Alexis”.
Le vicende sono complicate dal fatto che
Fanny e Vinca condividevano la stanza come da liceali stanziali, Thomas era
innamorato e geloso di Vinca, Maxime era amico stretto di Thomas (forse al
tempo anche innamorato, visto che poi fa outing, e trentenne, contrae
matrimonio con tale Oliver) e Fanny era invece innamorata di Thomas. Ma sono
anche complicate dal fatto che i genitori di Thomas erano i rettori del liceo,
che nel liceo, oltre al professore, c’erano anche una professoressa di nome
Alexis (che, come Andrea, è un nome unisex) ed uno studente di origine greca,
anch’esso chiamato Alexis.
Tra l’altro entriamo subito nella confusione
che Thomas ci confessa da subito che è stato lui ad uccidere il professore,
dopo una furibonda scenata di gelosia, ed aiutato da Maxime. Inoltre, per
nascondere il cadavere, i due hanno chiesto di murare il corpo nella palestra al
tempo in costruzione. Dev’essere un liceo poco solido, che gli spogliatoi sono
da poco crollati, ed in un armadietto (guarda caso quello di Thomas) viene
trovata una borsa con un pacco di soldi.
Inutile dire che i nostri tre sono
bersagliati da minacciose lettere anonime.
Thomas si mette di buzzi buono a cercare di
risolvere il caso, o comunque di ricostruire le vicende dell’epoca. Anche
perché: a) la borsa con soldi è del padre di Thomas; b) compaiono foto
misteriose da cui si evince che il padre di Thomas aveva avuto una storia con
Vinca.
Con la solita abilità, il nostro Musso avanza
per rivelazioni e piccoli passi, facendoci scoprire verità, contro verità,
falsità, ed altre stramberie che servono a mescolare le acque.
Per arrivare al momento cruciale, quando,
ognuno per la sua parte ricostruisce la sera e la notte del ’92. Laddove, al
fine, veniamo a sapere innanzi tutto che, come si sospettava dalle prime
pagine, anche Vinca è morta. Non solo, ma sulla scena dei delitti ci sono
tutti, oltre ai nostri tre, ci sono i genitori di Thomas, che forse sanno più
di quello che sembra, ed il padre di Maxime (che poco prima dell’inizio della
storia del ’17 è morto in un orribile omicidio).
La fine è un po’ sorprendente, e non ce ne
dispiace. Anche se la storia non ha tutti i crismi delle buone storie di Musso.
È un po’ zoppicante, quasi si trattasse di trovare nuovi modi di esprimersi
dopo aver trovato pochi anni prima, la chiave di un buon successo.
Comunque, un finale da leggere (per cui non
ve ne parlo).
Per completezza, volevo segnalare un
passaggio che secondo me è indice del momento di ricerca di nuovi mezzi
espressivi dell’autore. Tutte le prime venti pagine si concentrano su di
un’agente di Polizia, Manon, tra l’altro anche lei liceale coeva dei nostri
tre. Viene descritta, approfondito il personaggio, quasi potesse diventare un
motore dell’azione. Poi scompare, fa una capatina durante un ballo, e niente
più. Ecco, sembra proprio che ad un certo punto l’autore si renda conto che
forse non serve Manon e Manon sparisce. Insomma, una specie di scrittura di
ricerca, con qualche buco. Noi siamo abituati a vedere personaggi che quando
entrano sono funzionali alla trama. Qui, riempie solo alcune pagine.
Guillaume Musso “La vita segreta degli
scrittori” Repubblica Brivio Noir 1 euro 8,90
[A: 09/06/2020 – I: 10/04/2023 – T: 11/04/2023] - &&
[tit. or.: La
vie secrète des écrivains; ling. or.: francese; pagine: 249; anno 2019]
Prima di entrare nelle tematiche del libro e
della scrittura di Musso, spezzo una piccola lancia contro la sciatta edizione
del libro nelle edizioni di Repubblica. Senza nessun segnale di cattiva
impaginazione, leggendo il libro, scopro che è saltata una parte del libro, da
pagina 145 a pagina 160. Niente di tremendo, che il libro si legge e si
comprende ugualmente. Solo che non ci si aspetta che un editore possa
“lisciare” in questo modo la pubblicazione.
Transeamus.
Continuo, allora, tornando al fatto della
prosecuzione delle letture delle opere di Musso, arrivando alla diciassettesima
uscita in cui da un lato ribadisce il ritorno “francese” che ha già
caratterizzato il precedente romanzo, dall’altro costruisce un’opera dai
diversi piani di lettura e di scrittura, con uno sforzo interessante di
poliedricità, anche se non sempre sorretto da una buona resa.
Altra costante dell’universo “mussiano” è
anche qui l’up and down temporale, dal ’98 al ’18, con qualche salto ancora più
indietro e qualche passaggio intermedio. Anche se il nocciolo duro dell’opera
si svolge nel 2018 nell’isola di Beaumont, anche se è un nome fittizio.
Seguendo le indicazioni per arrivarci, e confrontando le cartine geografiche,
si riesce facilmente a comprendere che in realtà è l’isola di Hyères, la
maggiore dell’arcipelago di Porquerolles. Già qui cominciano i rimandi
letterari, che questa è stata una delle isole rifugio di Georges Simenon.
In quest’isola si è rifugiato lo scrittore
franco-americano Nathan Fawles, che, dopo aver scritto tre folgoranti libri, nel
’98 annuncia di abbandonare la scrittura e si ritira sull’isola. Qui, nel ’18,
converge un aspirante scrittore Raphaël Bataille, ambizioso ma non ancora mai
pubblicato, che vuole scrivere di Nathan e, soprattutto, farsi dare consigli da
lui. Poco dopo, arriva sull’isola anche Mathilde Monney, giovane giornalista
svizzera, anche lei decisa a svelare il “mistero Nathan” (e forse qualche cosa
in più).
Visto che non manca mai un po’ di noir, ed è
il motivo per cui il libro esce in questa collana di Repubblica, capita subito
la presenza di una morta, che, costringendo la polizia a chiudere l’isola in
entrata ed uscita, costringe i nostri personaggi ad una sorta di “vicenda da
stanza chiusa”. Con la solita abilità, Musso comincia a far uscire le matrioske
una dopo l’altra. Si cerca di capire chi sia la morta, perché sia collegata ad
un viaggio in Polinesia, la presenza di una macchina da presa, un eccidio
perpetrato in una casa con tanti morti (morti? ma sarà poi vero?). Poi, ecco
altri piccoli pupazzi, che servono a capire se ci siano collegamenti tra
Mathilde ed i morti. Ma sarà collegata a quei morti lontani o a questa morte
vicina? Entra anche a gamba tesa il librario che dà lavoro a Raphaël.
Ma il tutto è condito dalla domanda principe:
che c’entra Nathan in tutto ciò? E se c’entra, ha un senso la sua presenza
nell’edifico dei morti di venti anni prima? E da dove vengono le lettere
d’amore scritte da Nathan ed indirizzate ad una non meglio identificata “S.”, e
perché sono in possesso di Mathilde?
Musso, con la solita abilità, riesce a
svolgere tutti i nodi del mistero, a fornirci la soluzione di tutti i problemi
e di tutte le vicende. Rimane solo la difficoltà di entrare in sintonia con i
personaggi, così come si riesce a fare nelle sue opere migliori (per ora, per
me, sempre “La ragazza di Brooklyn”). Una difficoltà che abbassa notevolmente
l’empatia verso il libro.
Che tuttavia avrebbe molte altre interessanti
frecce al suo arco. Perché è una sorta di “romanzi” nel romanzo. Utilizzando
molteplici forme di scrittura, veniamo coinvolti nell’idea del best-seller non
scritto (o forse scritto ma non reso pubblicato), nel manoscritto rifiutato,
nel nuovo libro (ma forse è quello che stiamo leggendo?), negli appunti, nelle
trasmissioni televisive, nelle interviste sui giornali. Insomma, un inno alla
letteratura ed al mestiere dello scrittore, costellando il testo sia di
citazioni (dove c’è finalmente, un esauriente riferimento in epilogo) sia di
frasi che forniscono quasi un quadro di suggerimenti per l’aspirante scrittore.
Saltabeccando
nel testo, troviamo le seguenti affermazioni: “Nessuno può insegnarti a
scrivere. È qualcosa che devi imparare da solo”; “Cercare di piacere al lettore
è il miglior modo per far sì che non ti legga”; “Un romanzo è emozione, non è
intelletto”; “Se sei romanziere, lo sei ventiquattro ore su ventiquattro”;
“Scrittore una volta, scrittore per sempre.”
La
sintesi finale di Musso è che se non sei disposto a rischiare (ed a rischiare
senza la certezza del successo) è meglio che ti dedichi ad altro.
Personalmente,
farei due ultime segnalazioni. A pagina 53, c’è un’altra citazione a Simenon ed
alla sua opera (e quando si cita “L’uomo che guardava passare i treni” o “La
camera azzurra” come si fa a non emozionarsi). Infine, a pagina 98 viene citato
Emanuel Lévinas, per menzionare Bobby, un cane randagio che si aggirava
amichevole tra i prigionieri del lager tedesco dove era rinchiuso il filosofo.
Un cane che salutava i prigionieri. Che per lui erano uomini, mentre non lo
erano per i carcerieri nazisti. E qui mi fermo.
“L’unico
rapporto valido con lo scrittore consiste nel leggerlo.” (37)
Guillaume Musso “La vita è un romanzo” Repubblica
Anima Noir 5 euro 8,90
[A: 20/07/2021 – I: 20/06/2023 – T: 21/06/2023] - &&& ----
[tit. or.: La
vie est un roman; ling. or.: francese; pagine: 235; anno 2020]
Beh, qui invece della sciatta edizione di
Repubblica me la prenderei con gli editor della prima edizione italiana (“La
Nave di Teseo”) e con il traduttore (Sergio Arecco) per le improvvide note
inserite nel testo. Cosa che ha fatto meritare un numero forse infinito di meno
alla valutazione. Ora, se ci fosse stato bisogno dei chiarimenti inseriti in
quelle note, io avrei fatto una bella “Nota del traduttore” in fondo al volume,
riprendendo quelle citazioni, quei rimandi e spiegandoli. Che è un romanzo, non
eccelso, ma tutto giocato sullo scrivere, sulla scrittura, sul ruolo
dell’autore e sul suo rapporto con i personaggi.
Svelarne in corso d’opera qualcosa toglie due
felicità al lettore: la scoperta di sapere a cosa stia giocando Musso e la
sorpresa di non averla capita prima. Capisco che non tutti i lettori di Musso
leggano tutte le opere di Musso, ma forse è questo che vuole l’autore.
Decifrarne in finale (cioè anche dopo il finale, che quelle note non sono
vitali per la nervatura della trama) e, magari, decidere di scoprire altro
sarebbe forse stato un regalo ai lettori più attenti.
Come si capisce già da queste righe, il testo
è un metaromanzo, o un romanzo nel romanzo, o anche un esercizio letterario per
lettori – detective, che devono (/vogliono) ritrovare i riferimenti che
l’autore, in modo palese o nascosto, ha disseminato lungo le pagine.
C’è la storia di Flora Conway, scrittrice
americana, autrice di tre libri, che ha un atteggiamento (quasi) alla Ferrante
verso l’esterno. Ha una figlia di tre anni, Carrie, e ne seguiamo le angosce
quando Carrie scompare dalla casa al sesto piano, dove tutte le uscite sono
sbarrate (una sorta di delitto della camera chiusa).
C’è la storia di Romain Ozorski, prolifico
autore francese, sempre ai vertici della classifica dei best-seller. Che
seguiamo nella (lunga) battaglia privata con la moglie (o forse meglio, la
ex-moglie), per la tutela e l’affido del figlio Theo. E conseguenti
ripensamenti sull’arte di scrivere, ed altre considerazioni sulla letteratura
(e sul rapporto autore – personaggi).
C’è la storia di Fantine de Villette, che da
oscura lettrice di manoscritti, per una serie di fortuite circostanze, mette in
piedi la sua casa editrice. Di nicchia, se vogliamo, ma densa di autori di
livello da buono a ottimo.
Musso, da buon costruttore di trame
strampalate, cerca (a volte riuscendoci) di portare il lettore a spasso per le
trame, facendolo appassionare ad una traccia, per poi rivelargli che sta
seguendo un metodo di lettura sbagliato.
Come in questo caso, dove, nella meta-trama,
porta Romain a scrivere un romanzo con protagonista Flora, per poi abbandonarlo
a seguito di un fioretto sulla custodia di Theo. Custodia che otterrà, anche se
non vi dico in che modo divertente. Ma quando, dopo anni e anni, Theo scopre
dei manoscritti segreti, esce fuori un altro pezzo di verità.
Fantine e Romain ben si conoscevano, e fu
Romain a troncare la relazione. Ma anche a dare una spinta, anche se di
nascosto, alla nascita del mondo imprenditoriale di Fantine.
Così, dopo 200 pagine, sembra che tutti
ritorni all’interno di una modalità spiegabile. Con solo l’accortezza di
credere che ci sono parti del romanzo che parlano della vita e parti del
romanzo che parlano di altri romanzi, e ne scrivono come fossero vita. Ma forse
non lo sono. Oppure lo sono nella maniera distorta in cui i romanzi si nutrono
della vita, per poi, dopo averla masticata e digerita, riproporla in altra
forma.
Nel mezzo, oltre a quelle note di cui
accennavo all’inizio, c’è un’altra meta-invenzione. Dove Fantine vive in un
faro riadattato, che si chiama “24 Wind Lighthouse”,
come il faro al centro delle vicende del libro di Musso “L’istante presente”. E
sempre nella meta-realtà, il buon Romain risulterebbe autore di un libro,
“L’uomo che scompare”, che non è altro che la terza parte de “L’istante
presente”. Poi si intreccia il tutto con la citazione di un altro scrittore,
Nathan Fawles, che, ne “La vita segreta degli scrittori”, dopo aver scritto tre
libri (come Flora), si ritira su di un’isola e non scrive più (come Romain qui,
quando si rifugia in Corsica). Compare anche un quadro di Sean Lorenz, pittore
presente nel libro “Un appartamento a Parigi”, dove, come Flora, subisce il
rapimento di un figlio.
Ovvio
però che la scomparsa di Carrie è diversa, che la vita di Romain è diversa, che
Fantine serve a Musso (anche) per una sua tiritera, un po’ bonaria un po’
cattivella, sul mondo dell’editoria. Quello che in fondo interessa a Musso è
instillare nel lettore il dubbio borgesiano su quale sia la realtà e quale sia
la finzione, e quale il rapporto tra le due entità.
Se poi fermandoci un attimo, ragioniamo che,
in francese, c’è una “i” che porta dal romanzo al protagonista del libro, forse
stiamo leggendo la vita di uno “scrittiore” (non è un refuso, ho proprio voluto
scriverlo così). Se fosse un autore italiano, Musso avrebbe virato sulla fine
alfabetica per passare dal protagonista al romanzo.
Spero che abbiate capito il messaggio. E
spero che le prossime letture di Musso evitino di virare troppo verso elementi
sovrannaturali (o inspiegabili), a vantaggio di trame (e di personaggi) che
siano sempre più naturali (e interpretabili).
“I
lettori leggono il libro che vogliono leggere, non il libro che hai scritto.”
(28)
Guillaume Musso “La sconosciuta della Senna” La
Nave di Teseo euro 20 (in realtà, scontato a 19 euro)
[A: 19/10/2021 – I: 04/07/2023 – T: 06/07/2023] - &&&
[tit. or.: L’inconnue
de la Seine; ling. or.: francese; pagine: 326; anno 2021]
Penultimo
volume delle storie giallo-esistenziali di Musso, che continua sulla falsariga
della sua consolidata scrittura. Testo gradevole, alcuni buoni spunti, poi le
trame si complicano con involuzioni che non lasciano capire la “realtà” del
plot (spesso qualche personaggio non viene portato fino al suo completo
sviluppo, a volte personaggi ricompaiono in opere successive). Comunque, il
tutto su di uno standard di buon livello, che risolleva il tono generale
dell’opera omnia dello scrittore.
Come
spesso accade nelle opere di Musso, la prima parte si preannuncia ben
orchestrata e foriera di possibili misteri. Il tutto scatenato da una
sconosciuta che si getta nella Senna nuda (o quasi), viene salvata dalla
polizia, ma scappa dalla gendarmeria prima di essere identificata.
Non
è un gran mistero, ma di certo non è un avvenimento normale. Motivo per cui
viene incaricato delle indagini uno strano dipartimento poliziesco, denominato
BANC (Bureau des Affaires Non Conventionnel, ovvero ufficio degli affari non
convenzionali), dove è appena subentrata come unico elemento ufficiale una
poliziotta scorbutica e poco attenta alle regole, Roxane Montchrestien, quasi
fosse una punizione per qualche sua colpa non meglio identificata.
Fino
a poco prima il posto era occupato da Marc Batailley, poliziotto vicino alla
pensione, che, per circostanze misteriose, cade dalle scale dell’edificio ed
entra in coma. Rimane, come solo elemento unificante, la studentessa Valentine,
che sta scrivendo una tesi sulle inchieste del BANC, unica a delucidare Roxane
su cosa sia l’Ufficio e chi siano alcuni attori che stanno per entrare in
scena.
Perché
la sconosciuta ha lasciato un braccialetto con dei capelli il cui DNA riporta
ad una famosa pianista, Milena Bergman. Peccato che Milena sia morta un anno
prima in un incidente aereo. Non solo, tanto per complicare il drammone,
Valentine rivela che Milena era fidanzata con lo scrittore Raphaël, per inciso
figlio del Marc di cui sopra.
Fino
a qui ci sono tutti gli ingredienti del drammone. Roxane indaga, cerca di
stanare lo scrittore, si immerge nelle problematiche della famiglia Batailley.
E noi aspettiamo che qualche colpo di scena riesca a mettere a posto i tasselli
sconclusionati che si stanno accumulando.
Tasselli
che includono la presenza (o l’assenza) intermittente di un certa Garance de
Karadec, figlia di una casata decaduta, in possesso di un’isola di fronte alla
cittadina di Brest. Chi è Garance, perché non si riesce a tenerla in un posto e
capire se e come entra nell’indagine? E tralasciamo altri personaggi, forse non
minori, ma che servono a rendere confusa tutta la seconda parte del romanzo.
Dove
finalmente compaiono dei morti, e quindi c’è bisogno di indagini più
“poliziesche”. Ma compare anche un possibile collegamento con altre morti di
strano effetto, che non sono localizzate solo in Francia, e che, invece di
chiarire i già notevoli misteri, servono a rendere più complessa e meno
leggibile la trama.
Non
abbiamo dubbi che Roxane sarà l’unica a vedere tutte le connessioni possibili e
(forse) a risolvere il caso. Perché il finale, dove Musso al solito cerca anche
di usare elementi non solo di scrittura per aumentare l’entropia del caso (in
genere articoli di giornale, ma anche lettere minatorie, SMS, rimandi a strane
rappresentazioni teatrali nonché l’apparizione intermittente di Vera, la
sorella di Raphaël morta all’età di dieci anni in un tragico incidente che non
vi svelo), è appunto confuso da un lato e aperto dall’altro.
Il
fatto è che Musso continua ad interrogarsi su cosa sia la realtà e quale sia la
differenza tra reale e mentale. Però non riuscendo a coinvolgere il lettore in
queste sue turbe, che di sicuro hanno origine in tutta la sua storia personale.
Vi ricordo infatti, che inizia a scrivere con successo mentre è convalescente
da un grave incidente automobilistico, dove si salva per miracolo. Così che
molti (o tutti?) dei suoi romanzi ad un certo punto virano verso quel punto di
confine della realtà indagando, nelle sue intenzioni, sul rapporto tra la
realtà che ci circonda e ciò che si pone al di là della realtà stessa, che sia
finzione narrativa, rappresentazione teatrale, realtà virtuale.
Quello
che poi a me dà un piccolo punto in più nella sua scrittura è l’abbondanza di
citazioni e di rimandi, che (e questo è il plus), vengono ben spiegati nelle
note finali.
Mi
rimangono solo alcuni punti interrogativi. Come mai lo scrittore si chiama Raphaël
Batailley ed in precedente romanzo c’era un altro scrittore di nome Raphaël Bataille?
Come mai l’editrice di entrambi si chiama Fantine de la Villette? Perché usare
“Karadec” come patronimico, rimandando ad un simpatico poliziotto di una serie
televisiva francese, partner di una collaboratrice della polizia che indaga su
misteri irrisolti? Un’allusione?
E
perché, infine, a pagina 179 il capo di Roxane sorseggia un ceviche? A mia
memoria è un piatto di pesce marinato peruviano. A meno che non beva il succo
di limone mi sembra un punto veramente strambo.
A
parte ciò, vedremo a breve anche l’ultima prova del geniale scrittore.
Visto che siamo in una trama da mono-autore,
mi pregio di ricordare qualche frase di uno scrittore che per un po’ ho amato,
ma che non ha proseguito la strada del riccio, perdendosi in altri meandri. Nel
suo primo libro, la scrittrice (perché, pur non amando i generi, nel mondo ci
sono uomini, donne, ed altre fluide espressioni) Muriel Barbery fece un
esordio con un libro incentrato sulla cucina. In quella “Estasi culinarie” ho trovato due frasi che mi hanno risuonato:
“Il calvario non è lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli che non
ti amano.” (40) e “Tutti pensano che i bambini non sappiano niente. Viene da
chiedersi se i grandi siano mai stati bambini” (79).
E poi un ricordo, dell’autrice sulla sua
infanzia marocchina e mia, per un viaggio in Marocco ed uno scorcio di panorama
che vedo come fossi accanto a lei: “Mi ricordo la magnificenza floreale della
sala da tè degli Oudaïa dalla quale contemplavamo Salé e il mare in lontananza,
alla foce del fiume che scorre sotto i bastioni; le stradine variopinte della
Medina; le cascate di gelsomino sui muri dei cortiletti, ricchezza dei poveri
distante mille miglia dal lusso dei profumieri occidentali; mi ricordo, infine,
la vita sotto il sole, che è diversa da tutte le altre perché chi vive
all’aperto concepisce lo spazio in modo differente … e il pane marocchino,
preludio folgorante alle unioni carnali.” (75)
Per il resto si continua a sperare che quest’anno mantenga le promesse del suo nome, anche se di segnali ce ne sono pochi. Tanto che nel prossimo futuro si vedono pochi viaggi (e tutti privati al momento) e concentrazione sulle ottime vicende private. Che essendo private non se ne parla, anche se non vi faccio di certo mancare i miei abbracci.
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