domenica 17 settembre 2023

Musseide - 17 settembre 2023

Come nei grandi classici greci e latini, qui si parla di un uomo, di uno scrittore, emerso qualche anno fa ed ancora con una buona produzione di genere misto. Parafrasando Ligabue, “tra giallo e realtà”. Parlo dell’italo-francese Guillaume Musso, per me legato ad un bel libro pieno di sorprese (“Central Park”). Qui abbiamo suoi scritti dal 2015 al 2021, che, nella media, si posizionano poco sotto il buon gradimento. Non ha alcuni slanci di un tempo, ma alcune trame sono d’interesse.

Guillaume Musso “L’istante presente” La nave di Teseo euro 18

[A: 22/08/2021 – I: 14/02/2023 – T: 16/02/2023] - && 

[tit. or.: L’instant présent; ling. or.: francese; pagine: 332; anno 2015]

È il tredicesimo libro scritto da Musso, venendo, in ordine cronologico, dopo la bella scrittura ed il successo di critica e di pubblico di “Central Park”. Come spesso accade, tuttavia, dopo un boom, si può incappare in un libro solo parzialmente riuscito. Come questo, che mantiene una buona scrittura, alcune invenzioni discretamente riuscite, ma che, nell’impianto generale e nel finale, risulta un po’ deludente e sicuramente poco convincente.

Dopo i primi libri, di buon livello, anche se alcuni di nicchia (come il primo di cui ho parlato recentemente), Musso si era un po’ affrancato da quelle inserzioni favolistiche al limite del soprannaturale inspiegabile, venendo a temi certo complicati ma razionalmente interpretabili. Qui, fa un passo indietro. Incentra tutta la trama su di un presupposto che è altamente inspiegabile, e chiude il libro certo con una soluzione che cerca di sciogliere qualche nodo ma che, a me, rimane ostica e lontana.

La storia è incentrata su Arthur Costello. Un brillante medico di Boston, segnato dalla sparizione, lui piccolo, del nonno Sullivan e da un rapporto totalmente anaffettivo con il padre Frank. Che stranamente, e senza apparente motivo, gli dona il faro di famiglia (che si chiama “24 Wind Lighthouse”) con l’ingiunzione di non aprire mai la porta della cantina, murata. Mi sembra ovvio che Arthur, la prima cosa che fa, è di aprire la porta ed entrare nella cantina.

Qui comincia l’avventura. Arthur sviene e si risveglia, senza motivi apparenti, nudo nella chiesa di St. Patrick a New York (il faro si trovava sulla costa a Cape Cod). Dopo una serie di vicissitudini che animano la prima parte (forse quella che tiene un po’ sulle corde della suspence), veniamo a conoscenza di una serie di fatti “strani”.

Nonno Sullivan non è morto, ma, preso per pazzo, rinchiuso in una clinica da dove Arthur lo libera. Sullivan spiega ad Arthur che chi entra nella cantina subisce un “mutamento”, per cui viene sbalzato di anno in anno, ogni volta per un giorno, per 24 volte (come il nome del faro). In uno dei primi ritorni, Arthur conosce Lisa, e, com’è come non è, i due si innamorano, si accapigliano, si pigliano e si lasciano (con le loro microstorie che durano un giorno).

Fortuna che Liza è più giovane di Arthur, così che non si hanno problemi di invecchiamento tra i due. Ci sono invece problemi di rapporti, ovvio. Che dalle loro focose unioni nascono due figli, un maschio ed una femmina. Cresciuti da Lisa, dato che Arthur (l’uomo che scompare, come lo chiama lei) ogni volta sparisce, anche se verso la fine i salti temporali sono più ravvicinati.

Fino a che, nel 2015, Arthur finisce di saltellare nel tempo, si ricongiunge con i tempi umani del mondo, e Musso deve trovare il modo di concludere in qualche maniera la storia.

Purtroppo, e qui il romanzo cade molto di tono, non c’è una spiegazione coerente, ma un girare intorno al problema, magari cercando di buttarla sullo psicologico (in fondo, Sullivan poteva essere pazzo, e forse anche Arthur). Ma non convince, non è questa la strada, come non sembra plausibile l’ulteriore svolta che Musso cerca di propinarci.

L’idea, all’inizio, poteva essere divertente e stimolante. Anche perché Arthur ogni volta ricompare in un momento topico della storia dell’umanità. Durante i problemi “sessuali” del presidente Clinton, il giorno delle “Torri Gemelle”, ed altri piccoli o grandi avvenimenti. E poteva Musso divertirsi andando ad approfondire lo spaesamento di una persona che, appunto, si trova all’improvviso con notizie ed avvenimenti che non avrebbe mai pensato potessero accadere.

Tutto ciò, però, poteva essere una riscrittura de “La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo” di Audrey Niffenegger, con qualche puntata sul versante “non fiction” interessante. Ma anche questo spunto viene lisciato da Musso.

Alcune recensioni puntano sull’apprezzamento della scelta effettuata da Musso per il finale, leggendo tutta la storia come una sfida dell’uomo verso la conoscenza. Altri, ed io con loro, lo trovano un espediente per chiudere una storia che non si sapeva più come portare avanti. Una storia un po’ rabberciata come scrivevo all’inizio, scritta più sull’onda del successo che per una vera necessità espressiva.

Con anche molti svarioni disseminati nel testo e di cui ne rilevo a mente due.

Il faro ha il nome sopra riportato perché ha murata nella sua struttura una rosa con 24 venti. Ora, seppur vero che si può fare come si vuole, i venti presenti nelle varie rose sono potenze di due (4, 8, 16 e 32). Pare che in Vitruvio esista uno schema a 24, ma non viene considerata una rappresentazione efficace. Certo, 16 anni sembravano pochi e 32 troppi, per cui di sicuro Musso ha fatto una piccola forzatura.

Infine, ad uno scrittore, di cui non vi dirò le generalità, a pagina 307 vengono attributi prima il premio Stoker e poi il premio Hugo per un’opera dedicata ai giovani lettori. Forse anche qui Musso gioca con noi lettori, laddove, per chi non ne fosse a conoscenza, il Premio Bram Stoker è un premio letterario statunitense per opere di narrativa dell'orrore ed il premio Hugo è un premio per lavori di fantascienza e fantasy. Quindi, errore o voluto inganno?

“Non devi restare solo … se si è soli, si è morti.” (288)

Guillaume Musso “La ragazza e la notte” Repubblica Emozione Noir 4 euro 7,90

[A: 07/07/2019 – I: 30/03/2023 – T: 31/03/2023] - &&& 

[tit. or.: La Jeune fille et la nuit; ling. or.: francese; pagine: 345; anno 2018]

Questo è invece il sedicesimo dei venti libri scritti da Musso, di cui ben sedici sono presenti nella mia libreria. Testimonianza di un discreto amore che ho verso la scrittura di questo autore francese, dalle chiare ascendenze italiane (e che attualmente risulta l’autore più venduto in patria). Amore non sempre corrisposto, che alcuni suoi testi mi hanno relativamente deluso. Altri, ed anche questo, hanno invece raggiunto un buon livello di gradimento, pur non raggiungendo quello che per me, ad ora, è il suo più interessante (“La ragazza di Brooklyn”).

Intanto qui si verifica un’inversione di tendenza rispetto a (quasi) tutti i precedenti. Musso non ha mai nascosto il suo amore per l’America, ed ha sempre ambientato lì in tutto o in parte i suoi romanzi. Qui, invece, si rivolge ad un altro ambiente che ben conosce. Che si torna a Cap d’Antibes, che è anche la sua città natale. Tutto il romanzo, poi, pur nei flashback che continuano a caratterizzarne la scrittura, tiene banco intorno al liceo Saint Exupery della cittadina nizzarda, quasi a voler mescolare finzione e qualche ricordo di gioventù.

Tuttavia, è ovvio che la finzione sia quella che ci interessa, che nel presente del romanzo, ambientato nel 2017, si ritrovano nel liceo vecchi compagni di scuola (vecchi come compagni, che all’anagrafe dovrebbero essere splendidi quarantenni). In particolare, si ritrovano Thomas, ora diventato un acclamato scrittore, Maxime, politico in carriera e Fanny, diventata una valente cardiologa. I tre sono poi legati in quanti tutti e tre amici di una studentessa brillante e scapestrata, Vinca, che nell’inverno del ’92 misteriosamente scompare.

Non solo, ma contemporaneamente scompare anche il giovane professore di filosofia, Alexis, verso cui tutte le ragazze avevano un debole. Facile fare 2 + 2 per ipotizzare una fuga d’amore. A maggior ragione se si legge il diario di Vinca, con continui riferimenti d’amore verso una persona di nome “Alexis”.

Le vicende sono complicate dal fatto che Fanny e Vinca condividevano la stanza come da liceali stanziali, Thomas era innamorato e geloso di Vinca, Maxime era amico stretto di Thomas (forse al tempo anche innamorato, visto che poi fa outing, e trentenne, contrae matrimonio con tale Oliver) e Fanny era invece innamorata di Thomas. Ma sono anche complicate dal fatto che i genitori di Thomas erano i rettori del liceo, che nel liceo, oltre al professore, c’erano anche una professoressa di nome Alexis (che, come Andrea, è un nome unisex) ed uno studente di origine greca, anch’esso chiamato Alexis.

Tra l’altro entriamo subito nella confusione che Thomas ci confessa da subito che è stato lui ad uccidere il professore, dopo una furibonda scenata di gelosia, ed aiutato da Maxime. Inoltre, per nascondere il cadavere, i due hanno chiesto di murare il corpo nella palestra al tempo in costruzione. Dev’essere un liceo poco solido, che gli spogliatoi sono da poco crollati, ed in un armadietto (guarda caso quello di Thomas) viene trovata una borsa con un pacco di soldi.

Inutile dire che i nostri tre sono bersagliati da minacciose lettere anonime.

Thomas si mette di buzzi buono a cercare di risolvere il caso, o comunque di ricostruire le vicende dell’epoca. Anche perché: a) la borsa con soldi è del padre di Thomas; b) compaiono foto misteriose da cui si evince che il padre di Thomas aveva avuto una storia con Vinca.

Con la solita abilità, il nostro Musso avanza per rivelazioni e piccoli passi, facendoci scoprire verità, contro verità, falsità, ed altre stramberie che servono a mescolare le acque.

Per arrivare al momento cruciale, quando, ognuno per la sua parte ricostruisce la sera e la notte del ’92. Laddove, al fine, veniamo a sapere innanzi tutto che, come si sospettava dalle prime pagine, anche Vinca è morta. Non solo, ma sulla scena dei delitti ci sono tutti, oltre ai nostri tre, ci sono i genitori di Thomas, che forse sanno più di quello che sembra, ed il padre di Maxime (che poco prima dell’inizio della storia del ’17 è morto in un orribile omicidio).

La fine è un po’ sorprendente, e non ce ne dispiace. Anche se la storia non ha tutti i crismi delle buone storie di Musso. È un po’ zoppicante, quasi si trattasse di trovare nuovi modi di esprimersi dopo aver trovato pochi anni prima, la chiave di un buon successo.

Comunque, un finale da leggere (per cui non ve ne parlo).

Per completezza, volevo segnalare un passaggio che secondo me è indice del momento di ricerca di nuovi mezzi espressivi dell’autore. Tutte le prime venti pagine si concentrano su di un’agente di Polizia, Manon, tra l’altro anche lei liceale coeva dei nostri tre. Viene descritta, approfondito il personaggio, quasi potesse diventare un motore dell’azione. Poi scompare, fa una capatina durante un ballo, e niente più. Ecco, sembra proprio che ad un certo punto l’autore si renda conto che forse non serve Manon e Manon sparisce. Insomma, una specie di scrittura di ricerca, con qualche buco. Noi siamo abituati a vedere personaggi che quando entrano sono funzionali alla trama. Qui, riempie solo alcune pagine.

Guillaume Musso “La vita segreta degli scrittori” Repubblica Brivio Noir 1 euro 8,90

[A: 09/06/2020 – I: 10/04/2023 – T: 11/04/2023] - && 

[tit. or.: La vie secrète des écrivains; ling. or.: francese; pagine: 249; anno 2019]

Prima di entrare nelle tematiche del libro e della scrittura di Musso, spezzo una piccola lancia contro la sciatta edizione del libro nelle edizioni di Repubblica. Senza nessun segnale di cattiva impaginazione, leggendo il libro, scopro che è saltata una parte del libro, da pagina 145 a pagina 160. Niente di tremendo, che il libro si legge e si comprende ugualmente. Solo che non ci si aspetta che un editore possa “lisciare” in questo modo la pubblicazione.

Transeamus.

Continuo, allora, tornando al fatto della prosecuzione delle letture delle opere di Musso, arrivando alla diciassettesima uscita in cui da un lato ribadisce il ritorno “francese” che ha già caratterizzato il precedente romanzo, dall’altro costruisce un’opera dai diversi piani di lettura e di scrittura, con uno sforzo interessante di poliedricità, anche se non sempre sorretto da una buona resa.

Altra costante dell’universo “mussiano” è anche qui l’up and down temporale, dal ’98 al ’18, con qualche salto ancora più indietro e qualche passaggio intermedio. Anche se il nocciolo duro dell’opera si svolge nel 2018 nell’isola di Beaumont, anche se è un nome fittizio. Seguendo le indicazioni per arrivarci, e confrontando le cartine geografiche, si riesce facilmente a comprendere che in realtà è l’isola di Hyères, la maggiore dell’arcipelago di Porquerolles. Già qui cominciano i rimandi letterari, che questa è stata una delle isole rifugio di Georges Simenon.

In quest’isola si è rifugiato lo scrittore franco-americano Nathan Fawles, che, dopo aver scritto tre folgoranti libri, nel ’98 annuncia di abbandonare la scrittura e si ritira sull’isola. Qui, nel ’18, converge un aspirante scrittore Raphaël Bataille, ambizioso ma non ancora mai pubblicato, che vuole scrivere di Nathan e, soprattutto, farsi dare consigli da lui. Poco dopo, arriva sull’isola anche Mathilde Monney, giovane giornalista svizzera, anche lei decisa a svelare il “mistero Nathan” (e forse qualche cosa in più).

Visto che non manca mai un po’ di noir, ed è il motivo per cui il libro esce in questa collana di Repubblica, capita subito la presenza di una morta, che, costringendo la polizia a chiudere l’isola in entrata ed uscita, costringe i nostri personaggi ad una sorta di “vicenda da stanza chiusa”. Con la solita abilità, Musso comincia a far uscire le matrioske una dopo l’altra. Si cerca di capire chi sia la morta, perché sia collegata ad un viaggio in Polinesia, la presenza di una macchina da presa, un eccidio perpetrato in una casa con tanti morti (morti? ma sarà poi vero?). Poi, ecco altri piccoli pupazzi, che servono a capire se ci siano collegamenti tra Mathilde ed i morti. Ma sarà collegata a quei morti lontani o a questa morte vicina? Entra anche a gamba tesa il librario che dà lavoro a Raphaël.

Ma il tutto è condito dalla domanda principe: che c’entra Nathan in tutto ciò? E se c’entra, ha un senso la sua presenza nell’edifico dei morti di venti anni prima? E da dove vengono le lettere d’amore scritte da Nathan ed indirizzate ad una non meglio identificata “S.”, e perché sono in possesso di Mathilde?

Musso, con la solita abilità, riesce a svolgere tutti i nodi del mistero, a fornirci la soluzione di tutti i problemi e di tutte le vicende. Rimane solo la difficoltà di entrare in sintonia con i personaggi, così come si riesce a fare nelle sue opere migliori (per ora, per me, sempre “La ragazza di Brooklyn”). Una difficoltà che abbassa notevolmente l’empatia verso il libro.

Che tuttavia avrebbe molte altre interessanti frecce al suo arco. Perché è una sorta di “romanzi” nel romanzo. Utilizzando molteplici forme di scrittura, veniamo coinvolti nell’idea del best-seller non scritto (o forse scritto ma non reso pubblicato), nel manoscritto rifiutato, nel nuovo libro (ma forse è quello che stiamo leggendo?), negli appunti, nelle trasmissioni televisive, nelle interviste sui giornali. Insomma, un inno alla letteratura ed al mestiere dello scrittore, costellando il testo sia di citazioni (dove c’è finalmente, un esauriente riferimento in epilogo) sia di frasi che forniscono quasi un quadro di suggerimenti per l’aspirante scrittore.

Saltabeccando nel testo, troviamo le seguenti affermazioni: “Nessuno può insegnarti a scrivere. È qualcosa che devi imparare da solo”; “Cercare di piacere al lettore è il miglior modo per far sì che non ti legga”; “Un romanzo è emozione, non è intelletto”; “Se sei romanziere, lo sei ventiquattro ore su ventiquattro”; “Scrittore una volta, scrittore per sempre.”

La sintesi finale di Musso è che se non sei disposto a rischiare (ed a rischiare senza la certezza del successo) è meglio che ti dedichi ad altro.

Personalmente, farei due ultime segnalazioni. A pagina 53, c’è un’altra citazione a Simenon ed alla sua opera (e quando si cita “L’uomo che guardava passare i treni” o “La camera azzurra” come si fa a non emozionarsi). Infine, a pagina 98 viene citato Emanuel Lévinas, per menzionare Bobby, un cane randagio che si aggirava amichevole tra i prigionieri del lager tedesco dove era rinchiuso il filosofo. Un cane che salutava i prigionieri. Che per lui erano uomini, mentre non lo erano per i carcerieri nazisti. E qui mi fermo.

“L’unico rapporto valido con lo scrittore consiste nel leggerlo.” (37)

Guillaume Musso “La vita è un romanzo” Repubblica Anima Noir 5 euro 8,90

[A: 20/07/2021 – I: 20/06/2023 – T: 21/06/2023] - &&& ----

[tit. or.: La vie est un roman; ling. or.: francese; pagine: 235; anno 2020]

Beh, qui invece della sciatta edizione di Repubblica me la prenderei con gli editor della prima edizione italiana (“La Nave di Teseo”) e con il traduttore (Sergio Arecco) per le improvvide note inserite nel testo. Cosa che ha fatto meritare un numero forse infinito di meno alla valutazione. Ora, se ci fosse stato bisogno dei chiarimenti inseriti in quelle note, io avrei fatto una bella “Nota del traduttore” in fondo al volume, riprendendo quelle citazioni, quei rimandi e spiegandoli. Che è un romanzo, non eccelso, ma tutto giocato sullo scrivere, sulla scrittura, sul ruolo dell’autore e sul suo rapporto con i personaggi.

Svelarne in corso d’opera qualcosa toglie due felicità al lettore: la scoperta di sapere a cosa stia giocando Musso e la sorpresa di non averla capita prima. Capisco che non tutti i lettori di Musso leggano tutte le opere di Musso, ma forse è questo che vuole l’autore. Decifrarne in finale (cioè anche dopo il finale, che quelle note non sono vitali per la nervatura della trama) e, magari, decidere di scoprire altro sarebbe forse stato un regalo ai lettori più attenti.

Come si capisce già da queste righe, il testo è un metaromanzo, o un romanzo nel romanzo, o anche un esercizio letterario per lettori – detective, che devono (/vogliono) ritrovare i riferimenti che l’autore, in modo palese o nascosto, ha disseminato lungo le pagine.

C’è la storia di Flora Conway, scrittrice americana, autrice di tre libri, che ha un atteggiamento (quasi) alla Ferrante verso l’esterno. Ha una figlia di tre anni, Carrie, e ne seguiamo le angosce quando Carrie scompare dalla casa al sesto piano, dove tutte le uscite sono sbarrate (una sorta di delitto della camera chiusa).

C’è la storia di Romain Ozorski, prolifico autore francese, sempre ai vertici della classifica dei best-seller. Che seguiamo nella (lunga) battaglia privata con la moglie (o forse meglio, la ex-moglie), per la tutela e l’affido del figlio Theo. E conseguenti ripensamenti sull’arte di scrivere, ed altre considerazioni sulla letteratura (e sul rapporto autore – personaggi).

C’è la storia di Fantine de Villette, che da oscura lettrice di manoscritti, per una serie di fortuite circostanze, mette in piedi la sua casa editrice. Di nicchia, se vogliamo, ma densa di autori di livello da buono a ottimo.

Musso, da buon costruttore di trame strampalate, cerca (a volte riuscendoci) di portare il lettore a spasso per le trame, facendolo appassionare ad una traccia, per poi rivelargli che sta seguendo un metodo di lettura sbagliato.

Come in questo caso, dove, nella meta-trama, porta Romain a scrivere un romanzo con protagonista Flora, per poi abbandonarlo a seguito di un fioretto sulla custodia di Theo. Custodia che otterrà, anche se non vi dico in che modo divertente. Ma quando, dopo anni e anni, Theo scopre dei manoscritti segreti, esce fuori un altro pezzo di verità.

Fantine e Romain ben si conoscevano, e fu Romain a troncare la relazione. Ma anche a dare una spinta, anche se di nascosto, alla nascita del mondo imprenditoriale di Fantine.

Così, dopo 200 pagine, sembra che tutti ritorni all’interno di una modalità spiegabile. Con solo l’accortezza di credere che ci sono parti del romanzo che parlano della vita e parti del romanzo che parlano di altri romanzi, e ne scrivono come fossero vita. Ma forse non lo sono. Oppure lo sono nella maniera distorta in cui i romanzi si nutrono della vita, per poi, dopo averla masticata e digerita, riproporla in altra forma.

Nel mezzo, oltre a quelle note di cui accennavo all’inizio, c’è un’altra meta-invenzione. Dove Fantine vive in un faro riadattato, che si chiama “24 Wind Lighthouse”, come il faro al centro delle vicende del libro di Musso “L’istante presente”. E sempre nella meta-realtà, il buon Romain risulterebbe autore di un libro, “L’uomo che scompare”, che non è altro che la terza parte de “L’istante presente”. Poi si intreccia il tutto con la citazione di un altro scrittore, Nathan Fawles, che, ne “La vita segreta degli scrittori”, dopo aver scritto tre libri (come Flora), si ritira su di un’isola e non scrive più (come Romain qui, quando si rifugia in Corsica). Compare anche un quadro di Sean Lorenz, pittore presente nel libro “Un appartamento a Parigi”, dove, come Flora, subisce il rapimento di un figlio.

Ovvio però che la scomparsa di Carrie è diversa, che la vita di Romain è diversa, che Fantine serve a Musso (anche) per una sua tiritera, un po’ bonaria un po’ cattivella, sul mondo dell’editoria. Quello che in fondo interessa a Musso è instillare nel lettore il dubbio borgesiano su quale sia la realtà e quale sia la finzione, e quale il rapporto tra le due entità.

Se poi fermandoci un attimo, ragioniamo che, in francese, c’è una “i” che porta dal romanzo al protagonista del libro, forse stiamo leggendo la vita di uno “scrittiore” (non è un refuso, ho proprio voluto scriverlo così). Se fosse un autore italiano, Musso avrebbe virato sulla fine alfabetica per passare dal protagonista al romanzo.

Spero che abbiate capito il messaggio. E spero che le prossime letture di Musso evitino di virare troppo verso elementi sovrannaturali (o inspiegabili), a vantaggio di trame (e di personaggi) che siano sempre più naturali (e interpretabili).

“I lettori leggono il libro che vogliono leggere, non il libro che hai scritto.” (28)

Guillaume Musso “La sconosciuta della Senna” La Nave di Teseo euro 20 (in realtà, scontato a 19 euro)

[A: 19/10/2021 – I: 04/07/2023 – T: 06/07/2023] - &&& 

[tit. or.: L’inconnue de la Seine; ling. or.: francese; pagine: 326; anno 2021]

Penultimo volume delle storie giallo-esistenziali di Musso, che continua sulla falsariga della sua consolidata scrittura. Testo gradevole, alcuni buoni spunti, poi le trame si complicano con involuzioni che non lasciano capire la “realtà” del plot (spesso qualche personaggio non viene portato fino al suo completo sviluppo, a volte personaggi ricompaiono in opere successive). Comunque, il tutto su di uno standard di buon livello, che risolleva il tono generale dell’opera omnia dello scrittore.

Come spesso accade nelle opere di Musso, la prima parte si preannuncia ben orchestrata e foriera di possibili misteri. Il tutto scatenato da una sconosciuta che si getta nella Senna nuda (o quasi), viene salvata dalla polizia, ma scappa dalla gendarmeria prima di essere identificata.

Non è un gran mistero, ma di certo non è un avvenimento normale. Motivo per cui viene incaricato delle indagini uno strano dipartimento poliziesco, denominato BANC (Bureau des Affaires Non Conventionnel, ovvero ufficio degli affari non convenzionali), dove è appena subentrata come unico elemento ufficiale una poliziotta scorbutica e poco attenta alle regole, Roxane Montchrestien, quasi fosse una punizione per qualche sua colpa non meglio identificata.

Fino a poco prima il posto era occupato da Marc Batailley, poliziotto vicino alla pensione, che, per circostanze misteriose, cade dalle scale dell’edificio ed entra in coma. Rimane, come solo elemento unificante, la studentessa Valentine, che sta scrivendo una tesi sulle inchieste del BANC, unica a delucidare Roxane su cosa sia l’Ufficio e chi siano alcuni attori che stanno per entrare in scena.

Perché la sconosciuta ha lasciato un braccialetto con dei capelli il cui DNA riporta ad una famosa pianista, Milena Bergman. Peccato che Milena sia morta un anno prima in un incidente aereo. Non solo, tanto per complicare il drammone, Valentine rivela che Milena era fidanzata con lo scrittore Raphaël, per inciso figlio del Marc di cui sopra.

Fino a qui ci sono tutti gli ingredienti del drammone. Roxane indaga, cerca di stanare lo scrittore, si immerge nelle problematiche della famiglia Batailley. E noi aspettiamo che qualche colpo di scena riesca a mettere a posto i tasselli sconclusionati che si stanno accumulando.

Tasselli che includono la presenza (o l’assenza) intermittente di un certa Garance de Karadec, figlia di una casata decaduta, in possesso di un’isola di fronte alla cittadina di Brest. Chi è Garance, perché non si riesce a tenerla in un posto e capire se e come entra nell’indagine? E tralasciamo altri personaggi, forse non minori, ma che servono a rendere confusa tutta la seconda parte del romanzo.

Dove finalmente compaiono dei morti, e quindi c’è bisogno di indagini più “poliziesche”. Ma compare anche un possibile collegamento con altre morti di strano effetto, che non sono localizzate solo in Francia, e che, invece di chiarire i già notevoli misteri, servono a rendere più complessa e meno leggibile la trama.

Non abbiamo dubbi che Roxane sarà l’unica a vedere tutte le connessioni possibili e (forse) a risolvere il caso. Perché il finale, dove Musso al solito cerca anche di usare elementi non solo di scrittura per aumentare l’entropia del caso (in genere articoli di giornale, ma anche lettere minatorie, SMS, rimandi a strane rappresentazioni teatrali nonché l’apparizione intermittente di Vera, la sorella di Raphaël morta all’età di dieci anni in un tragico incidente che non vi svelo), è appunto confuso da un lato e aperto dall’altro.

Il fatto è che Musso continua ad interrogarsi su cosa sia la realtà e quale sia la differenza tra reale e mentale. Però non riuscendo a coinvolgere il lettore in queste sue turbe, che di sicuro hanno origine in tutta la sua storia personale. Vi ricordo infatti, che inizia a scrivere con successo mentre è convalescente da un grave incidente automobilistico, dove si salva per miracolo. Così che molti (o tutti?) dei suoi romanzi ad un certo punto virano verso quel punto di confine della realtà indagando, nelle sue intenzioni, sul rapporto tra la realtà che ci circonda e ciò che si pone al di là della realtà stessa, che sia finzione narrativa, rappresentazione teatrale, realtà virtuale.

Quello che poi a me dà un piccolo punto in più nella sua scrittura è l’abbondanza di citazioni e di rimandi, che (e questo è il plus), vengono ben spiegati nelle note finali.

Mi rimangono solo alcuni punti interrogativi. Come mai lo scrittore si chiama Raphaël Batailley ed in precedente romanzo c’era un altro scrittore di nome Raphaël Bataille? Come mai l’editrice di entrambi si chiama Fantine de la Villette? Perché usare “Karadec” come patronimico, rimandando ad un simpatico poliziotto di una serie televisiva francese, partner di una collaboratrice della polizia che indaga su misteri irrisolti? Un’allusione?

E perché, infine, a pagina 179 il capo di Roxane sorseggia un ceviche? A mia memoria è un piatto di pesce marinato peruviano. A meno che non beva il succo di limone mi sembra un punto veramente strambo.

A parte ciò, vedremo a breve anche l’ultima prova del geniale scrittore.

Visto che siamo in una trama da mono-autore, mi pregio di ricordare qualche frase di uno scrittore che per un po’ ho amato, ma che non ha proseguito la strada del riccio, perdendosi in altri meandri. Nel suo primo libro, la scrittrice (perché, pur non amando i generi, nel mondo ci sono uomini, donne, ed altre fluide espressioni) Muriel Barbery fece un esordio con un libro incentrato sulla cucina. In quella “Estasi culinarie” ho trovato due frasi che mi hanno risuonato: “Il calvario non è lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli che non ti amano.” (40) e “Tutti pensano che i bambini non sappiano niente. Viene da chiedersi se i grandi siano mai stati bambini” (79).

E poi un ricordo, dell’autrice sulla sua infanzia marocchina e mia, per un viaggio in Marocco ed uno scorcio di panorama che vedo come fossi accanto a lei: “Mi ricordo la magnificenza floreale della sala da tè degli Oudaïa dalla quale contemplavamo Salé e il mare in lontananza, alla foce del fiume che scorre sotto i bastioni; le stradine variopinte della Medina; le cascate di gelsomino sui muri dei cortiletti, ricchezza dei poveri distante mille miglia dal lusso dei profumieri occidentali; mi ricordo, infine, la vita sotto il sole, che è diversa da tutte le altre perché chi vive all’aperto concepisce lo spazio in modo differente … e il pane marocchino, preludio folgorante alle unioni carnali.” (75)

Per il resto si continua a sperare che quest’anno mantenga le promesse del suo nome, anche se di segnali ce ne sono pochi. Tanto che nel prossimo futuro si vedono pochi viaggi (e tutti privati al momento) e concentrazione sulle ottime vicende private. Che essendo private non se ne parla, anche se non vi faccio di certo mancare i miei abbracci.

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