Filippo Iannarone “Il complotto Toscanini”
Repubblica Passione Noir 32 euro 7,90
[A: 21/01/2019 – I: 15/04/2023 – T: 16/03/2023]
&& e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 382; anno:
2018]
Sono sempre favorevolmente colpito da chi,
partendo da piccoli frammenti di storia, tra il vero e l’ipotetico, riesce ad
imbastire pagine che, in fin dei conti, si fanno leggere. Come queste di
Filippo Iannarone, che non saranno eccelse, ma scivolano gradevolmente, facendo
sì che qualche neurone si muova.
L’autore (quasi mio coetaneo, ed è un punto
in più) ha fatto lunghi percorsi, partendo da Roma, laureandosi in
Giurisprudenza, diventando manager all’ENI, poi aprendo uno studio di avvocati,
ed ora (anche se non so da quanti anni, ma spero che siano tanti e felici),
vive in Germania, sposato e lavorando nel settore alberghiero.
In questo suo primo, e per ora unico, libro
riesce a condire realtà e finzione in un mix che tuttavia non stride, facendo
in modo di imbastire questa trama a cavallo di circa quindici anni, tra il ’35
ed il ’49, coinvolgendo personaggi reali, e cucendo loro addosso un’ipotesi di
filo “noir” che se non è vera, è comunque ben trovata.
Ho detto primo che alcuni accenni nel finale
del romanzo fanno supporre che il colonnello Luigi Mari ed il tenente Barbetti
potranno essere coinvolti in una nuova indagine, magari legata, come si evince
dai trafiletti giornalistici riportati, alle vicende svoltesi in una fabbrica
di Omegna nel giugno del ’49.
I personaggi storici sommamente coinvolti
sono in realtà due, benché compaiano in modo diverso nel corso del testo:
Arturo Toscanini e Alberto Rinaldi. Il primo è il filo che congiunge le pagine,
ma non compare mai in prima persona se non in un telegramma dal ben noto testo,
inviato da Toscanini al presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Il secondo,
medico e studioso, compare solo nelle vesti del morto da cui prendono le mosse
le indagini.
L’antefatto, che i soliti flashback poi ci
fanno parzialmente rivivere, avviene appunto nel ’35. Il dottor Rinaldi è uno
stimato medico, operante in quel di Cetona in Toscana, che ha trovato una cura
interessante ed efficace per problemi artritici, cura che utilizza anche
Toscanini. I due diventano amici, sia per le cure somministrate, sia per un
comune senso antifascista. Amici tanto che Toscanini presenzia al battesimo di
una parente del Rinaldi.
Il fattaccio è che, poco prima dell’inizio
della Guerra d’Etiopia (ricordo, era l’ottobre del ’35), Rinaldi viene ucciso a
bastonate. Indagini poco accurate, depistaggi e menzogne portano alla condanna
di alcuni compaesani, con prove circostanziali e risibili. Come se qualcuno
volesse insabbiare il tutto (ma davvero? E questo durante il Ventennio?).
La storia sarebbe rimasta uno dei tanti
misteri italici, se non che, nel ’49, il presidente della Repubblica, come gli
consente la Costituzione, vuole nominare alcuni senatori a vita, tra cui, per
l’appunto, Toscanini. Si mobilitano allora polizie, eserciti e servizi segreti
per setacciare la vita di Toscanini, affinché nessuna macchia possa
comprometterne la nomina (certo che se fosse così anche adesso, avremmo il
Parlamento italiano pressoché vuoto).
Da qui cominciano le indagini di Mari e
Barbetti, che troviamo anche gustosamente immerse nell’epoca narrata (in
particolare quella fine primavera del ’49). Leggono i resoconti giudiziari, i
giornali dell’epoca del delitto, vanno in trasferta a Cetona, parlano con
parenti e compaesani. Che Toscanini era in Cetona nei giorni del delitto, ma
poi non vi torna più, trasferendosi stabilmente in America fino alla fine della
Guerra.
Alla fine, Mari riesce ad imbastire una
soluzione della grande avventura/imbroglio intorno alla vicenda di quello che
le cronache descrissero come “l’uccisione del medico di Toscanini”. Non è dato
sapere se sia la verità, ma di certo è plausibile. Come è certo che non vene
parlo, per non svelare troppo.
Ho detto anche che è gradevole la descrizione
ambientale. Sia degli avvenimenti durante gli anni Trenta, ma soprattutto in
quel ’49. Dalla visita della principessa Margaret ricevuta dal presidente
Einaudi il 13 maggio alle radiocronache del Giro d’Italia del ’49, quello della
famosa tappa di montagna Cuneo – Pinerolo, stravinta da Fausto Coppi con 11’ di
vantaggio su Gino Bartali.
Un romanzo alla fine gradevole, anche se la
trama, il complotto del titolo risulta un po’ leggerino e forse con la
necessità di qualche pagina in più. Mentre di sicuro andavano eliminate (o
ridotte) le pagine dedicate a troppi dialoghi tra i protagonisti.
Una chicca finale, nella frase sotto
riportata, generalmente attribuita a Giulio Andreotti, ma che risulterebbe
parto del giornalista americano Henry Louis Mencken. Frase che riporto come
risulta dagli archivi storici (la prima) e poi come viene riportata
dall’autore.
“È un peccato credere nel male degli
altri, ma è raramente un errore.”
“H. L. Mencken: Si fa peccato a pensare
male degli altri, ma raramente è un errore.” (348)
Fulvio Ervas “C’era il mare” Repubblica
Emozione Noir 17 euro 7,90
[A: 07/10/2019 – I: 06/07/2023 – T: 07/07/2023]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 332; anno:
2018]
Secondo quanto è scritto sui suoi siti,
l’ottimo Ervas, natio nei dintorni del Piave, ha pubblicato nove libri dedicati
a problemi “noir” nelle zone che vanno dalle marche trevigiane al mare, tra
Venezia e le sue lagune, e questo ne è il penultimo, che dal ’18 al ’22, tra
altri impegni e pandemie varie, l’ispettore Stucky e compagnia è stato messe un
po’ da parte.
Un giorno o l’altro, riuscirò a reperire
anche i primi volumi di questa serie, di cui ho libri sparsi, e magari
ricostruire le vicende di tutti i personaggi, che, purtroppo, la scrittura di
Ervas non ci restituisce a pieno. Mi rendo anche conto che uno scrittore voglia
sganciare un libro dall’altro, creando una scrittura che possa stare in piedi
da solo. Tuttavia, questo non è il caso di Ervas, e quindi, pur in un libro che
risale la china rispetto ad altri dell’autore, siamo sempre sull’orlo.
Come in tutti i romanzi seriali, il racconto
si svolge su diversi piani: le vicende personali, le indagini sui morti, ma
soprattutto, come personaggi che vengono a galla pian pianino, le città ed il
loro territorio.
In primo piano abbiamo ovviamente i due
ispettori. Che, se all’inizio c’era solo lui, l’italo-persiano Stucky, ora
compare sempre più in parallelo anche l’ispettrice Luana Bertelli. Stucky è
sempre più uguale a sé stesso, riflessivo, discendente pieno delle sue due
culture originarie. Negli episodi precedenti, qua e là aveva avuto delle
storie, qui lo ritroviamo solo, con i suoi pensieri, con l’assenza dei giudizi
verso i fatti che incontra (e non è poco), con le sedute verso l’aeroporto a
veder le stelle e gli aerei che atterranno, assieme ad un simpatico vecchio
soprannominato Bisat. Inciso: divertente è l’origine dei nomi. Bisat deriva dal
nome locale delle anguille (da cui abbiamo per derivazione, le piccole
anguille, i Bissattini…); mentre Stucky è il nome di una grande costruzione, il
primo grande mulino costruito alla Giudecca di Venezia dall’imprenditore
svizzero Giovanni Stucky. Una storia che meriterebbe un suo discorso puntuale
che però non è di queste righe.
Intorno a lui, i suoi sottoposti, le solite
“macchiette” anche se poco pronunciate, una dedita allo studio dello spagnolo
per venire incontro alla sua fidanzata brasiliana (con Stucky che gli domanda
perché non il portoghese, allora?), l’altro all’hata yoga. Poi le due sorelle
del vicino vicolo, Veronica e Sandra, sempre sull’orlo di qualcosa di più di
un’amicizia. Ed ovviamente lo zio Cyrus, che lo aveva allevato, e che finisce
sempre le storie (o quasi alla fine) con dei manicaretti persiani.
Sull’altro versante, Luana Bertelli, un po’
fluida, amante delle armi (si trova spesso al poligono, dove farà incontri
decisivi), ma soprattutto presa delle sue nipotine forse troppo prese dalle
fashion blogger. Anche lei ha i suoi aiutanti, uno palestrato (e di poco
cervello), l’altro dedito ad infarcire discorsi ed interrogatori con le massime
di Spinoza (e ricordiamone una, quando riporto come il grande Baruch, che le
azioni umane non vanno derise, compiante o detestate: vanno comprese).
Le inchieste (vedremo presto perché) si
sviluppano in parallelo. A Treviso, da Stucky, viene ucciso Remo Canton, un
cronista di nera, ormai anziano, ma all’epoca sempre pronto a dare battaglia
anche sui processi politici. A Marghera, il morte è Leone Forti, un anziano
sindacalista, che, ormai in pensione, aiutava tutti, in particolari gli
immigrati sottopagati e iper-utilizzati di cantieri di Marghera. E lo sviluppo
duale è anche sottolineato dai capitoli, dedicati alternativamente alle due
città.
Che si riuniscono quando appare un terzo
morto, l’avvocato Casagrande, a metà strada tra le due città, dove quindi nono
solo per ragioni logistiche ma anche per i problemi connessi alle varie storie,
i nostri due ispettori devono indagare insieme. Perché i tre assassini sono
collegati in diversa maniera, e le indagini porteranno i nostri a dover
indagare in un mondo di rancori che viene da lontano. Dalle inchieste
sull’inquinamento a Marghera, dai processi, dagli scioperi e da chi, nonostante
il passare degli anni, non si è rassegnato alla realtà dei fatti.
Ed è quindi sempre al territorio, il mitico
nordest, come spesso accade nei suoi scritti, che Ervas lega le sue storie. Un
territorio complesso, soprattutto per Marghera, per le sue storie, per i
disastri del petrolchimico. Dove si incrociano, quindi, molte storie e molti
risentimenti. Certo, Marghera è proletaria e popolare, mentre Treviso è nobile,
borghese, ed anche con un filo di ipocrisia. Ervas, tuttavia, riesce ad
imbastirvi una storia sensata, anche se, ed è qui che cala un po’, a volte
macchinosa, e non sempre completamente disvelata nel pur abbastanza chiaro
finale. Anche se con Ervas e Stucky ci piace sottolineare i momenti, storici,
ma anche di cronaca recente, di cui, qua e là si infarciscono le storie. Come
la sottolineatura della proliferazione delle telecamere di sorveglianza nel
centro delle città, che Stucky rileva con amarezza.
Finisco con quello che dove essere l’inizio.
Cioè, il titolo, che si rifà ad uno degli etimi della città, anche se non tra i
più accreditati. Perché a Marghera, prima delle fabbriche, c’era solo il mare.
Cioè, il Mar ghe gera, da cui si capisce come derivi negli anni l’attuale nome.
E come omaggio il nostro scrittore professore non poteva che metterlo in testa
a tutto.
Francesco Guccini & Loriano
Macchiavelli “Tempo da Elfi” Repubblica Emozione Noir 12 euro 7,90
[A: 12/09/2019 – I: 24/07/2023 – T: 26/07/2023]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 280; anno:
2017]
Torniamo dopo tanto, troppo tempo, alla
lettura della coppia bolognese, ormai diventata la coppia veterana del noir
all’italiana (e co-autrice di 9 romanzi). Dato che, all’epoca della scrittura,
Guccini aveva 77 anni e Macchiavelli già 83. Una lettura dedicata alla credo
ultima puntata delle avventure del forestale Marco Gherardini detto Poiana, che
avevamo lasciato dieci anni fa in “Malastagione”, e che ritroveremo nella
seconda puntata dove (forse) scopriremo perché non funzionò tra Poiana e
Francesca. Questo per sottolineare una mia (rara) imprecisione: leggere
avventure seriali non in ordine cronologico. Sarà una sfida anche per me se
capire in che modo, a volte, possano funzionare questa tipologia di libri.
Intanto, ci godiamo anche il sottotitolo,
forse esplicativo, o forse no, “Romanzo di boschi, lupi e altri misteri”.
Legato anche al titolo, che si collega alla gente che vive ai margini della
comunità montana di cui si tratta in questi libri. Se fossimo negli anni ’60,
parleremo di hippie. Ora, quelli che non accettano tutta la società
consumistica, vengono etichettati con il termine di “elfi”, un po’ sulla
falsariga delle creazioni epigone di Tolkien. Ma questo sarebbe un filone di
indagini che esula dal libro e dalla mia competenza.
Quello che ci rientra è invece l’approccio
mio personale di gran favore verso la coppia bolognese (per nascita e
tradizione) che di sicuro porta qualche punto in più ad una storia che, in sé,
non ha molto da dire. Ci sono troppi personaggi, non sempre caratterizzati. C’è
una trama gialla che vaga per le pagine, non riuscendo mai a coinvolgere il
lettore in qualche momento di suspense. C’è infine una confezione che provoca
un anticlimax nella parte “noir”, laddove titoli ad effetto dei capitoli
sminuiscono sia il contenuto sia la suspense che dovrebbero provocare. Certo,
l’affetto con cui la nostra coppia parla delle comunità dell’appennino
tosco-emiliano è senza dubbio privo di secondi fini, e la descrizione del mondo
di Casedisopra e della gente che vi gravita è forse l’altro punto forte del
romanzo.
Che lì, in quel punto imprecisato
dell’appennino, convivono la comunità montana, con i suoi riti e le sue
cadenze, incluse le forze dell’ordine, che, appunto, in montagna guardano più
alla Forestale che ai Carabinieri, con gli hippie-elfi di cui sopra che fondano
il loro stile di vita sull’uso dei prodotti della natura, sul baratto e sul non
utilizzo della tecnologia.
In questo mondo dal difficile equilibrio, si
innesta il ritrovamento di un giovane ucciso. Un ramingo, cioè un elfo che non
è parte integrante della comunità, e che si ferma un po’ qua ed un po’ là. Il
protagonista del romanzo, il forestale Marco Gherardini detto Poiana, in
assenza dei Carabinieri, si vede costretto ad indagare ed a cercare di stanare
le due comunità nei loro punti deboli. Così da un lato si trova ad affrontare i
montanari, come Benito o Paolino, rudi, chiusi, che forse sanno, che di sicuro
tacciono. Dall’altra, a frequentare gli elfi, come Elena, Joseph o Nicola,
anche loro impenetrabili e con più di un segreto alle spalle.
La parte noir, sotto l’esperta guida di
Loriano, andrà a poco a poco ad incasellarsi, magari allargando l’orizzonte a
problematiche non solo locali, ma presenti ovunque, legate al malo modo di
trattare le donne in tutto il mondo. Non mancano alcune puntate linguistiche
verso il tedesco che, per la mia nota carenza verso i teutonici, ho faticato a
seguire.
La parte libertaria, qui in mano a Francesco,
si segue magari più a cuor leggero. Non verremo a sapere perché Marco è detto
Poiana, ma lo vedremo accompagnarsi con Elena, questa volta sperando che il
rapporto a due abbia un esito migliore. Vedremo anche i forestali interrogarsi
sul loro futuro, e probabilmente, come in modo discutibile viene detto nella
presentazione dei personaggi, per ora forestali, poi chissà.
Ma tutto il libro denota un profondo amore
per le terre appenniniche, dove i boschi e le montagne dominano il paesaggio, e
rendono il libro più leggero. Che, appunto, per il resto, non mi ha soddisfatto
gran che. Troppi personaggi, solo alcuni approfonditi, altri quasi di
passaggio. Una trama gialla che non prende, una trama romanzesca che non riesce
a farsi largo tra le parole leggere che ci si aspetta. Forse dovrò leggere il
secondo libro per riannodare il fili. Per ora, come suol dirsi, soddisfatto a
metà.
Roberto Centazzo “Operazione sale e pepe”
Repubblica Emozione Noir 22 euro 7,90
[A: 08/11/2019 – I: 25/08/2023 – T: 26/08/2023]
&& e ½
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 296; anno:
2018]
Anche senza indulgere in ricerche compulsive,
c’è l’ottimo staff di Repubblica che, periodicamente, mi fornisce una nuova
edizione delle avventure della “Squadra Speciale Minestrina in Brodo”, così
com’è chiamato il trio di pensionati ex-poliziotti che, in quel di Genova,
aggirandosi annoiati, aiutano (o meglio indagano per) le forze di Polizia.
Spesso in sana competizione, come in questo terzo episodio, con i “cugini”
Carabinieri.
Uno scenario non complesso, ma reale, che
Centazzo ben conosce essendo egli stesso un Ispettore di Polizia, ed in quanto
tale, l’unico ad avere la concezione di poter prendere in giro sia alcuni
aspetti della Polizia sia molti aspetti dei “Caramba”.
Per chi, e spero siano in molti, ha lisciato
i primi episodi, ricordo che la squadra pensionistica è composta da Ferruccio
Pammattone, ex vice dirigente della Squadra Mobile di Genova detto Semolino,
perché se mangia pesante si riempie di macchie rosse ed è poi costretto dalla
sua compagna Jasmina ad una dieta durissima, Luc Santoro, ex addetto
all’Immigrazione soprannominato Maalox, per la sua dipendenza dal solo antidoto
in grado di aver ragione dei suoi lancinanti bruciori di stomaco, che cerca
nello jogging un’alternativa alla pigrizia post-lavorativa) e Eugenio Mignogna,
ex addetto alla Scientifica, ribattezzato Kukident, per essersi regalato una
bella dentiera con la buonuscita del pensionamento e che sogna di andar per
fiere con un camper e vendere panini con la salsiccia.
In questo episodio c’è un po’ più di mix tra
pubblico e privato, con un conseguente miglioramento dell’andamento generale.
Le indagini della nostra Squadra partono dall’alto, che il grande capo chiede
aiuto ai nostri visto che Lugaro, il successore di Semolino sembra un pesce
lesso. Così questa volta escono fuori diverse indagini da seguire: appartamenti
di persone anziane svaligiati, piccoli furti sui mezzi di trasporto, truffe ai
danni di vecchie signore e financo un feticista che ruba gli zatteroni di signorine
più o meno trentenni.
Tra l’altro i nostri hanno pure problemi
personali da affrontare: Jasmina è stata derubata degli zatteroni, una vecchia
signora si rivolge a Maalox per una possibile truffa, e Kukident deve decidersi
se accettare la corte di una distinta signora che però vive in Francia. Non
ultimo poi il problema dei Carabinieri che sembrano sempre un passo avanti,
tanto che risolvono ben presto due dei quattro casi.
Ai nostri rimangono quelli cui sono più
legati: gli zatteroni e le truffe.
I primi, legati come detto anche alle
problematiche familiari di Semolino, procedono in via parallela, per arrivare
ad una conclusione poco coinvolgente, anche se serve a riscattare
(parzialmente) il povero Lugaro. A noi interessano le truffe che coinvolgono
maggiormente e che danno agio a giustificare il titolo. Che ben presto si
individua una signora con i capelli grigi con piccole mèche bianche come
l’artefice del tutto. Motivo per cui i nostri la battezzano Salepepe (per quale
motivo poi il nome venga diviso in due nel titolo ce lo spiegheranno gli
editor).
I motivi del coinvolgimento dei nostri è che
Luc, da giovane, spesso stava a casa di Amelia, ora anziana, sia per giocare
con il suo coetaneo Stefano sia per guardare e sognare la di lui sorella
Patrizia. La cattiva Salepepe avvicina le truffande ai cimiteri, si finge anche
lei vedova sconsolata, entra nelle loro grazie, e, pian pianino, le fa cadere
nella rete. Che, preventivamente (si vede che ha qualche aggancio) si informa
sulla situazione patrimoniale e personale delle future vittime. Così Amelia, che,
come tutti i pensionati fatica ad arrivare a fine mese, prima viene blandita
con piccole somme. Poi le viene prospettato un affare “lucroso” per cui
consegna a Salepepe tutti i suoi risparmi. Ovvio che la truffatrice a questo
punto si dilegua.
Amelia chiede aiuto a Luc, ma, per il
dispiacere della sua ingenuità, si toglie la vita. Luc ed i suoi a questo punto
non possono che ingaggiare una lotta all’ultimo appostamento per trovare
Salepepe. In questo aiutati dal loro tecnico informatico che, saputo di una
costosa borsa con cui gira Salepepe, rivela loro l’esistenza di microchip
collegati e rilevabili se la borsa si avvicina ad un rilevatore. Per farla
breve, alla fine, troveranno il modo di incastrare Salepepe, anche se non vi
dico di più, che la nostra squadra ha una bella trovata.
Nelle more finali, assistiamo anche ad un
revival dei sentimenti di Luc verso la ritornante Patrizia (che si era
trasferita al Sud, ma che ora sta divorziando e torna nella Genova natia). Di
certo se ne potranno vedere le evoluzioni, visto che nel tempo Centazzo ha
scritto altri due episodi. Forse se ne leggerà. Intanto rilevo che la sua
scrittura migliora di libro in libro, lasciandoci un prodotto questa volta non
eccelso ma godibile, e con la solita ambientazione genovese che a me di certo
non dispiace.
Ultima chicca: nelle fasi finali un aiuto
fondamentale ai nostri viene dato da un poliziotto delle Volanti, Cosimo
Patané, che di cognome rimanda al commissario Biagio Patané delle avventure
siciliane del vicequestore Vanina Guarrasi (penso tutti sappiate chi sia,
oramai).
Marilù Oliva “Le spose sepolte” Repubblica
Emozione Noir 32 euro 7,90
[A: 20/01/2020 – I: 13/09/2023 – T: 14/09/2023]
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[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 368; anno:
2019]
Non conoscevo, se non di nome ma non di
scrittura, Marilù Oliva, ma devo dire che questo noir mi ha discretamente
convinto. Una buona scrittura, un dosaggio sapiente dei personaggi, un’ottica
femminile ma non sciovinista. Certo, rimane ancora, come spesso ho rilevato,
quell’andare su e giù nel tempo per narrarci fatti avvenuti nel passato che in
qualche modo sono preliminari a quanto avviene nel presente.
Un giorno mi piacerebbe assistere ad un
esperimento, come prendere tutte le parti in corsivo di questo libro,
collocarle all’inizio e poi seguire quel che avviene nel presente. Capisco che
a volte questo espediente serve a spezzare dei ritmi e ad introdurne altri, ma
io sono e resto curioso, per cui continuo a leggerne ed a domandarmi.
Tornano alla scrittrice, da sempre è
impegnata sul fronte delle donne, ne ha scritto di saggi e di interviste. Qui
si cimenta con una complicazione. Narrare femminicidi dalla parte delle donne.
O meglio, più che narrare femminicidi, trattare una materia complicata: c’è un
killer che va uccidendo persone (in genere uomini) accusati ma mai condannati
per aver (forse) ucciso le loro compagne.
Le indagini, a parte il capo, il commissario Elio
Maccagnini, e il secondo (a pari, ma uomo) Antonio Iacobacci, sono
principalmente condotte dall’ispettore Micol Medici, un personaggio da subito
simpatico, sia perché sa gestire le sue imperfezioni fisiche sia perché non sa
gestire la sua vita extra-lavorativa (dove siamo subito con lei quando lascia
un fidanzato che definire assente è dargli già un titolo di iniziativa, quando
l’unica cosa che fa, realmente, è sminuire Micol su tutti i fronti).
E le indagini portano Micol e gli altri ad
indagare nel piccolo comune di Monterocca, incastonato nell’Appennino
bolognese, e nei cuori di chi ha passione per il ruolo della donna. Monterocca
è infatti gestito da donne, tanto da essere soprannominato “Città delle Donne”.
Il sindaco ed i maggiori esponenti della vita cittadina sono donne. Non che gli
uomini siano negati, ma (utopisticamente) ognuno ha un suo ruolo. E donna è il
direttore del Centro Studi Rita (tutte le istituzioni e le vie hanno nomi afferenti
a donne illustri) è una donna. Ed è anche da quel Centro che si produce un
nuovo anestetico, che non ha gli effetti secondari pesanti del Pentothal, ma
che, inoltre, prese in giuste dosi, induce a dire la verità, tutta la verità.
Dato che nel corpo della vittima si trova il
farmaco, e dato che il farmaco è prodotto solo a Monterocca, non stupisce che
lì si devono indirizzare le indagini.
Soprattutto è con Micol ed attraverso Micol
che conosciamo le varie figure simbolo di Monterocca, dove, a parte il sindaco,
quella che più rimane alla mente è la farmacista-erborista quasi maga. Cura
tutto con le erbe, ma non disdegna di scrutare le persone e di indovinarne (o
meglio divinarne) atteggiamenti e sentimenti e relazioni.
Anche con Micol in loco, le morti in alta
Italia continuano. E continua il progredire del corsivo, dove seguiamo il
terrificante percorso di una bambina bullizzata dalla baby-sitter, che diventa
l’amante del padre, e con lui uccide la madre, “produce” un fratellastro, prima
di schiantarsi in auto, lasciando i due alla deriva. Ma la bambina, nonostante
l’infelice avvio, rimane sempre legata (e reciprocamente) al piccolo fratello,
che ha cercato e cercherà sempre di proteggere.
È un trucco abbastanza banale che le due
storie siano destinate a convergere, anche se non vi dico né come né perché
(anche se questo è intuibile). Marilù, mentre porta avanti la tram principale e
combatte i femminicidi, trova il modo, con la città delle donne, di mirare
anche ad altri bersaglio: la dignità del ruolo femminile, il perbenismo che
maschera ambiguità (e malvagità), l’utopia di una città che funziona, ma dove
tutti (o quasi) hanno qualche scheletro da gestire. La risposta di Marilù è di
affrontare e mostrare i propri scheletri, che solo l’onestà permette di portare
avanti una vita giusta, malgrado errori possibilmente fatti.
Lettura interessante, quindi, forse anch’essa
un po’ utopistica, e dove ci si aspetta che Marilù non abbandoni tento presto
Micol, come sembrerebbe da notizie colte in giro. Intanto ci accompagnano le
figure femminili di Monterocca (e non dimenticherei Jolanda, anche se non vi
dico chi è). Forse un po’ più di incisività nel finale non avrebbe guastato il
tutto, ma può anche andare abbastanza bene così.
Cercando sempre i bilanciamenti tra trame e
citazioni, rimango sul versante noir con Giancarlo
De Cataldo ed il suo “Nero come il cuore”, anche se poi le citazioni possono debordare
dal contesto. Che la prima fotografa un atteggiamento da Peter Pan che ho
riscontrato spesso nella vita: “la vita avrebbe deciso per me e non
sarebbe stato un gran danno. Avevo sentito dire, una volta, che gli indecisi
sopravvivono grazie ai capricci del caso” (41). Mentre la seconda si rivolge a
tutti color che non sono attenti all’altro: “ricorda che … non esiste al mondo
la donna che fa per te. Tu sei un Attila dei sentimenti” (60).
Come dicevo, ho saltato una settimana, dovendo,
e con piacere, festeggiare in ritardo il mio compleanno, praticando un week-end
di regalo in una città che non conoscevo. Eravamo a Bordeaux, tra luci di
Natale, vini e, purtroppo, anche molta acqua (dal cielo…). Ho gradito molto la
scoperta di nuovi luoghi e di immagini che ritornano (la città ha alcuni tratti
parigini inconfondibili). E poi, quando si viaggia è sempre un bel momento. Perché
“chi legge è un viaggiatore” e viceversa (per me).
Ormai siamo anche vicini al Natale che ingloberà l’ultima trama di quest’anno di alti e bassi. Poi ci sarà un altro viaggio ed un nuovo anno da affrontare, insieme, con tanti abbracci.
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