domenica 3 dicembre 2023

Italia al nero - 03 dicembre 2023

Non per problemi politici, ma per una settimana di trame di autori italiani. Autori di genere, come si dice, e con una buona riuscita, tanto che l’80% delle letture è più che sufficiente. Potendo quindi ribadire che il poliziesco è un buon ambito letterario delle scritture italiane. Che spaziano per il nostro stivale, cominciando dalle isole con la Sardegna di Abate e la Sicilia di Alajmo. Poi abbiamo il brumoso Nord di Carlotto, per finire con la Ferrara del pugliese Regina.

Francesco Abate “I delitti della salina” Repubblica Essenza Noir 28 euro 8,90

[A: 02/01/2023 – I: 04/05/2023 – T: 06/05/2023] &&&    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 293; anno: 2020]

Un libro ben congeniato, con alcuni spunti interessanti, anche se non compiutamente riuscito, lasciando un finale troppo in sospeso per le mie corde di lettore. Non che si debba sempre dire tutto, ma parentesi aperte lasciano intravedere possibili successivi scritti, cosa per cui, se capiterà se ne riprenderà il discorso.

Intanto veniamo ad Abate, alla sua scrittura che ho parzialmente incrociato in brevi prose magari a quattro mani. Una scrittura che ci porta, senza troppi compiacimenti ad una lingua difficile che non reggerebbe a scritture alla Camilleri, dentro una Sardegna che ci è sinceramente piaciuta. Una terra colta agli inizi del secolo scorso, con gli occhi puntati sul capoluogo, sul suo mondo diviso tra ricchezza e povertà, sull’economia basata sul sale e sul tabacco.

Per invogliarci a leggerne, niente di meglio che imbastire anche una trama con piccoli o grandi tocchi di giallo, anche se ad Abate, in fondo, interessa di più farci entrare in quel mondo, e nel modo in cui quel mondo si sta formando. Direi infatti che uno dei punti forti del romanzo è l’ambientazione. Siamo a Cagliari, nel 1905. Si sta formando lo strato culturale e borghese che prenderà le redini isolane, fondato sui due capisaldi economici (o forse tre). Il sale e i tabacchi di sicuro, e poi il mare, il porto, la pesca. Sono gli anni del secondo mandato di sindaco di Ottone Bacaredda che già pochi anni prima aveva represso duramente alcune rivolte contro il carovita. È il tempo in cui si dibatte se sia meglio la nuova spiaggia del Poetto o la classica spiaggia in località Giorgino. Certo, nel Poetto erano ancora presenti saline sfruttate utilizzando manodopera carceraria, e quindi poco sicura. Ma da lì a poco, il sale andrà cambiando e i sette chilometri di spiaggia bianca diverranno, e sono, il fulcro estivo della città.

Ancora più importante, all’epoca, la fabbricazione di sigari in quella che veniva chiamata “Sa Manifattura”, per due secoli fulcro dell’economia cagliaritana, sino alla sua chiusura nel 2001. E sempre, come manodopera a costo quasi zero, venivano usati bambini e bambine. Sia per trasportare un po’ di sale, sia per i sigari, sia per il pesce, ma soprattutto per recapitare la spesa dal mercato di Largo Carlo Felice verso le case padronali, da quelli che venivano chiamati “picciocus de crobu”, i ragazzini della corbula. Che, come tutti sanno, è il cesto di paglia intrecciato, tipico dell’artigianato sardo.

Il tutto condito dai primi anni della pubblicazione del giornale, al tempo liberale, “L’Unione Sarda”. E proprio dai giornalisti dell’Unione nasce e si sviluppa la vicenda. In particolare, dalla figura fittizia ma molto simpatica di Clara Maylin Simon, prima donna ad entrare in redazione, e subito emarginata in quanto troppo esposta a favore delle lotte operaie. Clara è anche figura atipica, figlia del tenente Simon, ufficiale dell’esercito scomparso (morto?) durante la rivolta dei boxer in Cina. La madre di Clara è un’immigrata cinese, motivo per cui Clara ha comunque vita difficile nell’ambiente sardo. Inciso: questa è una piccola licenza storica, che in realtà, l’immigrazione cinese avvenne intorno al 1915 per la costruzione delle strade ferrate.

Il secondo elemento è Ugo Fassberger, anche lui un figlio di immigrati, discendente da famiglia svizzera ed amico d’infanzia di Clara. Il terzo elemento è invece il tenente dei carabinieri Rodolfo Saporito, napoletano che spera di far veloce carriera in un posto di difficile gestione e che, fin da subito, vediamo attratto, anche molto, dalla bella Clara.

La vicenda si scatena per la scomparsa di alcuni “picciocus”, alcuni poi trovati morti. Qui si scatena il nostro trio, che non crede ad annegamenti casuali, ma propende per uccisioni ed altre nefandezze. Il tutto condito dalla presenza dei carcerati del Bagno Penale e dalle strane attività dell’Ospedale Psichiatrico. C’è ovviamente l’aristocratico proprietario delle miniere di sale che sicuramente ha qualcosa a che vedere. Nonché un altro maggiorente che sembra una longa manus oscura di molte vicende locali.

Dopo un inizio ben congeniato, dalla metà in poi, il libro si incarta un po’. Si svicola dall’ambiente, si toccano tasti politici (carovita, donne trattate male, bambini ancora peggio), quasi a fare un saggio romanzato sulle vicende dell’epoca. Fortuna che c’è la nostra Clara che non demorde, e che ci porta a disnodare tutti gli intricati nodi della vicenda. Come tutte le vicende tra il giallo ed il politico, ovvio che molto, pur detto, non avrà la giustizia che si merita. Ma, come accennato all’inizio, alcune aperture fanno intravedere la possibilità di una nuova puntata, che potrebbe chiarire gli ultimi punti oscuri.

Comunque, un romanzo gradevole, come gradevole è la figura di Clara, ed alcuni elementi di contorno. Non siamo nella Sardegna di Sergio Atzeni, purtroppo, ma neanche in quella di Gesuino Nemus, per fortuna. Una storia senza grandi colpi di scena, e con un finale forse chiuso troppo in fretta, ma a me Abate non dispiace.

Roberto Alajmo “Io non ci volevo venire” Repubblica Essenza Noir 33 euro 8,90

[A: 04/02/2023 – I: 05/08/2023 – T: 06/08/2023] && +   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 262; anno: 2021]

Ho sempre discretamente apprezzato Roberto Alajmo nei libri che finora ne ho letto. Questa è la sua prima prova verso il giallo, ed il risultato, pur mantenendo il tipo di scrittura che conosco, gradevole e scorrevole, non è all’altezza che so del “Repertorio dei pazzi della città di Palermo”. Anche se, i vari personaggi che popolano questo romanzo, sembrano essere presi a campione proprio da quelle scritture.

Di sicuro, la parte migliore e che ho maggiormente gradito, è la descrizione della Palermo vissuta, dall’autore e dai protagonisti. In particolare, la rappresentazione del mondo racchiuso nel quartiere denominato “Partanna Mondello”, che con il suo divenire storico, diventa emblema della Palermo stessa. Della divisione tra il mondo proletario di Partanna e quello dei nuovi ricchi di Mondello. Non mancando, fortunatamente, anche accenni alla “mia” Palermo, dalla Vucciria a Ballarò, dagli sfincioni alle panelle, nonché, purtroppo non agli arancini, ma di sicuro alle rosticcerie, ed in particolare (almeno così nella mia memoria) a quella di fronte all’Orto Botanico. Per finire con la Kalsa (pur non nominata) che a me rimanda alla Chiesa di Santa Maria della Catena, ed alla vicina Piazza Marina.

Tutto ciò, però, esula dal corpo centrale del racconto, che si impernia da un lato sulla caratterizzazione dei personaggi (quasi eponimi isolani) e dall’altro su di una trama che è assai esile ed in un certo senso, quasi sghemba rispetto agli interessi dell’autore.

La scomparsa della bella Angelica, ritrovata poi sfracellata nella sua macchina in un dirupo montano, i suoi amori con Giampaolo, il figlio poco rampante del boss locale, nonché il doppio rapporto tra lei ed il geometra Piscitello, nonché di questi con Silvana, l’altra figlia del boss, servono ad innestare il giallo, ma non a coinvolgerci in una trama noir come potrebbe essere il caso, date queste premesse.

Perché quello che esce dalle righe di Alajmo è appunto la descrizione dei personaggi.

Abbiamo le quattro donne che gravitano intorno alla casa Di Dio (che è il cognome del protagonista). Angelica, la madre, quella che sa cosa deve fare per mantenere in piedi il suo mondo: comanda la spesa, cerca una moglie al figlio, cucina quando serve (ma poco, in realtà) e che si mette a capo delle indagini, tra uno spulciamento dei giornali, un ascolto del radiogiornale e un riannodare le fila dei discorsi paesani. C’è Mariella, la figlia, cinquantenne nubile con fidanzato al nord, che fa da caporalmaggiore alla madre. C’è zia Mariola, che entra nelle trame perché abita nello stesso palazzo, e serve da collante, in particolare per la quarta donna, la parrucchiera Mariangela, che, appunto per il suo mestiere, ha ben aperte le orecchie a quanto si dice in giro.

Il secondo punto fermo, quella che al cinema sarebbe l’attore non protagonista, è il boss locale. Non ne sappiamo il nome, ma è noto come Zzu, che sarebbe un dialettale per zio, nome che indica una persona con le mani in pasta negli affari che contano. Zzu che dalla sua poltrona nel suo bar tira le fila di tutto il paese, sia per gli affari puliti, che, soprattutto, per quelli al limite ed al di là della legge (sapremo ad un certo punto che è anche il boss locale dei traffici di stupefacenti). Zzu che coinvolge il nostro in un’indagine pericolosa. Vuole sapere se nella sparizione e nella morte di Angelica è coinvolto suo figlio Giampaolo, mettendo il nostro (e la famiglia Di Dio in toto) in una pericolosa situazione. Se non trova niente, Zzu è capace di ritorcere tutto sui nostri. Se scoprono qualcosa, allora dovranno anche essere messi a tacere.

Ma chi è il nostro? Si chiama Giovanni Di Dio detto Giovà, anche lui sulla cinquantina, celibe, ed assai su di peso. Non ha mai fatto nulla nella vita, come esemplifica Alajmo narrandoci la giovinezza di Giovà, ed in particolare le partite di pallone dei ragazzi. Giovà era sempre l’ultimo ad essere scelto, e, poiché non sapeva far nulla, veniva messo in porta. Magari non era portiere, ma la sua massa poteva coprire parte della porta. Sarà Zzu che darà un lavoro a Giovà nell’agenzia di vigilanza gestita da Piscitello. E per trent’anni non ci sarà nulla da fare. Fino all’indagine su Angelica & compagnia. Dove vediamo apparire i tratti significativi di Giovà: non solo non sa fare nulla, ma non ha un briciolo di spina dorsale, aderendo alla sua filosofia di vita: di fronte ad un problema, se c’è soluzione perché preoccuparsi e se non c’è soluzione perché preoccuparsi. Questo induismo di fondo, porta Giovà al centro degli avvenimenti, dove, non facendo nulla lui, facendo agire gli altri, alla fine verrà a capo del mistero.

Ma non è un giallo. Cioè è un racconto che scioglie i nodi, senza che nessuno, apparentemente abbia fatto nulla. Il modo però in cui si risolvono i nodi farà sì che Giovà ed i suoi non subiranno conseguenze palesi come si poteva temere.

Un discreto racconto che fotografa un certo mondo, con alcuni momenti di analisi critica apprezzabile, ma nel complesso un romanzo non particolarmente riuscito. Anche se di certo con qualche riscontro, visto che Alajmo ha già pubblicato altri due libri con al centro Giovà. Ma chissà se ne leggeremo.

Io vorrei però tornare sulla metafora del portiere, strettamente legata alla mia saga familiare. Io, anche per questioni nominali, ero simile al Giovà, scelto come portiere per le mie alte incapacità atletiche. Poi c’era il mio amato fratello, che invece sceglieva di fare il portiere perché gli piaceva, e su quella scelta ha costruito le sue fortune atletiche.

Ma qui stavamo parlando di libri, non della nostra vita, anche se, sempre, quando si legge, qualcosa di sé compare tra le righe. Per ora, tuttavia, lasciamo Giovà e la sua famiglia e dedichiamoci ad altre letture.

“Vecchia se mi considero, giovane se mi confronto.” (143)

Massimo Carlotto “E verrà un altro inverno” Repubblica Essenza Noir 12 euro 8,90

[A: 10/09/2022 – I: 15/08/2023 – T: 16/08/2023] &&& +    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 201; anno: 2021]

Seppur è vero che Carlotto è uno che scrive assai, ed in ciò penso che lo si debba ringraziare, mi ha leggermente sorpreso constatare, nell’accingermi a scrivere questa trama, di avere nella mia biblioteca ben 26 libri dello scrittore padovano. Non male.

Carlotto, poi, variando temi e tonalità (e purtroppo lasciandoci tra troppo tempo a bocca asciutta di nuove avventure dell’Alligatore, suo grande personaggio da me molto amato), ha sempre il pallino di sondare gli abissi dell’animo umano. Ed in particolare, collocandoli in ambienti spesso paesani, magari lontano dalle grandi città. Retaggio del suo passato? Forse, ma trattato con molta abilità, magari non sempre con livelli strabilianti, ma di certo interessanti.

Come succede in questo racconto ambientato appunto in un ambiente provinciale, ovviamente chiuso ed impermeabili a chi viene da fuori. Ambiente che ammette i suoi errori, ma solo per gestirli in maniera autonoma, sganciata dalle regole ufficiali. Ed altrettanto ovviamente una gestione che, alla fine, deve essere affidata ai maggiorenti locali, quelli che portano “i dané”.

Qui abbiamo una trama che si ingarbuglia pagina dopo pagina, tirando fuori personaggi che mutano nel corso degli avvenimenti. Alla fine, Carlotto non salva nessuno, lasciando tutti con l’amaro in bocca della realtà. Sembra dire, così va il mondo, e tutt’al più si può pareggiare, ma di certo nessuno esce vincitore.

Cominciamo con incontrare Bruno e Francesca, sposi lui per amore lei per denaro, ma dove andava tutto quasi bene in città. Ora, nella provincia gretta e rancorosa, dove aleggia lo spirito protettivo della casata di Francesca, lei cerca l’evasione. Sembra trovarla con Stefano, con una storiella di molto sesso e poco ingegno. Stefano è consulente bancario di Bruno, figlio di operai, e vede in tutto ciò un possibile riscatto. Quindi vuole di più, quindi inizia una serie di avvenimenti che rotolando dal monte travolgono tutti.

Vuole che Bruno torni in città, ed ingaggia due cugini balordi per spaventarlo. Piccoli incendi, ruote bucate, poi l’errore di minacce alla pistola, dove partono due colpi che feriscono Bruno. Pistola presa in affitto dal Riga, altro balordo locale. In convalescenza, Bruno concepisce un piano per stanare Francesca, cosa che succede, ma che non porta i risultati sperati. Anche con l’aiuto della guardia giurata Manlio, Bruno non rintraccia i colpevoli, e lascia il campo.

Qui entra in gioco Manlio, che spaventa sia i cugini che Stefano, ma che, avendo dato elementi di possibili ricatto a Bruno verso Francesca, concepisce un piano per essere lui ad averne vantaggio. Lui, che la comunità aveva emarginato dopo la morte per bulimia del figlio Adamo.

Così, con la pistola del Riga uccide Bruno, facendo ricadere la colpa sul Riga. Poi suborna i cugini, convincendoli a far fuori il Riga e far sparire il cadavere. Tutto sembra andare a posto, solo che Manlio a questo punto diventa lui il ricattatore, il burattinaio che tira le fila della danza.

Fino a che Francesca, scoperto anche il ruolo di Stefano, non decide di mettere in campo il pezzo da novanta, cioè il padre. Che a questo punto ordisce un contropiano per mettere tutti in riga. Tacita Manlio con una ristrutturazione del casale, che affida ai due cugini che così trovano lavoro, e poi, con la complicità di Francesca, incastra Stefano in un matrimonio di più basso livello, con la proprietaria del negozio di moda del luogo, costringendo Francesca stessa a promettergli un nipotino (a patto di trovare un marito adeguato).

Tutto bene? Non tanto, che Manlio ancora non si quieta, che le mogli dei cugini sono in ansia, che Francesca scalpita. Ci sarà un ulteriore giro di giostra, dove gli ultimi buoni (o almeno, i meno cattivi) si palesano per quello che sono. Piccoli colpi di coda, affinché tutto cambi per tornare come prima, poiché poi arriverà ancora un altro inverno. E la giostra andrà avanti.

Carlotto è maestro in questo gioco al massacro, scardinando le regole auliche del giallo. Non seguiamo gli avvenimenti per scoprire chi fa cosa, come e perché lo fa. La vicenda è narrata con crudezza, mettendo in luce la ferocia di ognuno, inconfessabile ma presente in tutti. Ho apprezzato comunque che, alla fine, quelle che riescono ad avere un minimo di vantaggio su tutti sono le donne del racconto. Mentre il protagonista assoluto è “la valle”, con le sue relazioni sociali, con i maggiorenti cui tutto sembra dovuto, con i piccoli che, ribellandosi, non potranno che essere sconfitti.

Un ruolo interessante, per finire, assumono i marron glacé (non vi dico quale), ma quelli affogati nel liquore, cosa che io detesto. A me piacciono, ma quelli duri e puri, dove, per noi romani, si apre l’annosa questione di quale siano i migliori: via Paolo Emilio o via di Santa Maria Goretti? Io sempre i primi, Alessandra i secondi. E voi? Ma solo dopo aver letto il libro.

“Il primo compito di una buona memoria è di saper dimenticare.” (166)

Paolo Regina “Morte di un antiquario” Repubblica Anima Noir 37 euro 8,90

[A: 04/03/2021 – I: 01/06/2023 – T: 02/06/2023] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 267; anno: 2018]

Brillante esordio di lettura dalla mia biblioteca. Non un libro indimenticabile, ma un garbato omaggio alla letteratura di genere, con risvolti “cozy misteries” come direbbero i colti inglesi. Per chi è un po’ fuori dalle definizioni, quello accennato e traducibile come “mistero ospitale” o “giallo accogliente” è un sottogenere della narrativa poliziesca, in cui il sesso e la violenza sono ridotti al minimo, e spesso accadano fuori scena. Il tutto condito da un tono leggero, quasi comico, sicuramente confortante.

L’autore, più che sessantino, è di forte impronta pugliese, pur avendo poi girato l’Italia in diversi momenti di vita. Per poi, all’alba dei sessanta ed avvicinandosi agli anni ’20 di questo secolo, dar vita ad un interessante personaggio di detective atipico, di cui questa è la prima uscita (seguita poi, se non erro, da altri tre libri).

Il protagonista è il capitano della Guardia di Finanza Gaetano de Nittis, che, come dice il cognome, è di chiare ascendenze pugliesi, confessando lui stesso di essere, alla lontana, parente del grande pittore italiano, divenuto un esponente di punta dell’impressionismo degli anni ’70 dell’Ottocento. Gaetano, Nino per i parenti, è dedito alla difesa del patrimonio, sia attraverso gli accertamenti fiscali sia, com’è dovere del corpo, al recupero del patrimonio artistico italiano. È un po’ “fuori linea”, insofferente alle gerarchie ed alle imposizioni, e pur nel mezzo dei trent’anni, credo infatti che ne abbia sui trentacinque, è amante del blues d’annata, patito di B. B. King (altro punto decisamente a favore) e suonatore semiprofessionale di chitarra (cosa che lo accomuna all’autore). Non essendo ossequioso alle strutture militari, dopo qualche sballottamento, che non conosciamo, lo troviamo qui, insediato nella bellissima Ferrara.

Lo incontriamo in corso d’opera, trasferitosi da non molto, intento a conoscere le “delizie” del mondo ferrarese, che l’autore ci propino soprattutto in termini culinari. Inciso: ricordo una mangiata da urlo di una salama da sugo annaffiata da gran vino rosso all’enoteca “Al Brindisi”, la più antica conosciuta, insediatasi lì dove ancora si trova nel 1435.

Ma torniamo al romanzo. Altro elemento di Gaetano è un rapporto non tanto “piano” con l’altro sesso. Certo è attratto dalle belle donne, ma sembra aver paura di impegnarsi troppo. Ne vediamo delle tracce, anche se qui c’è un inizio di storia con la simpatica Rosa, professoressa siciliana di lettere del locale liceo, con la quale, per ora, sta instaurando un solido rapporto amicale, che forse … Lasciamo i puntini di sospensione, che Rosa dice alcune cose del suo passato, anche lei poco incline all’impegno totale. Vedremo in future letture se la strada procede.

La storia gialla è imperniata sulla morte di Uber Montanari, cupa figura di antiquario, che De Nittis stava indagando in veste di finanziere, ma che trova stranamente impiccato. Le indagini, in cui viene aiutato dall’amico giornalista Bonfatti, non sono semplici che il morto aveva grosse frequentazioni con i potenti della città. Con alcuni, inoltre, aveva anche rapporti d’affari procurando loro opere d’arte magari sottratte a beni ecclesiastici non sempre in maniera limpida.

La trama dà modo a Regina di buttare pennellate sul mondo dei maggiorenti della città, impermeabili al mondo esterno, e spesso inattaccabili in un mondo di corruzioni incrociate. C’è un po’ di tutto, da qualche ecclesiastico compiacente ad aristocratici decaduti, da signore che si sono rifatte una verginità dopo un giovanile trascorso in qualità, come si direbbe ora, di escort ad imprenditori rampanti, dediti alla corruzione ed al ricatto per costruire il proprio impero.

Non manca anche il tratteggio del misantropo Montanari, innamorato dei pezzi unici (con una piccola forzatura, l’autore ci fa ritrovare il dipinto originale di “Leda e il cigno” di Michelangelo) e di esoterismo (nella vicenda legata ad Armanno Pungilupo, predicatore ferrarese, prima fatto santo e poi scomunicato come eretico seguace dei “catari”; ma qui si apre un’altra storia). Nonché legato al suo ex-segretario, giovane bolognese in gioventù legato all’estremismo rosso e desideroso anche di vendetta verso i neofascisti colpevoli della morte del padre.

Fatto sta che, come ci si aspetta, De Nittis, pur contro i poteri locali, porta a compimento l’indagine. E l’autore ci dona un colpo da maestro con un sottofinale (o forse un finale) quello sì inaspettato.

Una buona costruzione quindi, con personaggi abbastanza solidi, ed una sicura trattazione del mondo ferrarese. Piccolo inciso finale: in un concerto serale, Gaetano va a sentire una band che si chiama “Nick and the Backstreets”. Leggendo le note in rete, si scopre che negli anni ’80 Regina suonava in una band battezzatasi “The Backstreets”.

Per ora chiudiamo ed aspettiamo altre letture dell’autore.

Paolo Regina “Promemoria per il diavolo” Repubblica Essenza Noir 44 euro 8,90

[A: 26/04/2013 – I: 16/09/2023 – T: 18/09/2023] &&& -- 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 249; anno: 2022]

Avevo parlato di un buon esordio ed avevo chiuso auspicandone altre letture, che si sono puntualmente verificate. Anche se, per colpa di acquisti non sempre ordinati, ho lisciato la sequenza cronologica degli scritti dedicati al capitano De Nittis, trovandomi qui tra le mani il quarto episodio, avendo così saltato i due precedenti.

Probabilmente si rimedierà (e vedremo come accogliere episodi dove già sappiamo il procedere di alcune trame). Intanto dobbiamo aggiornare quanto accennato nel primo episodio, che qui troviamo gli schieramenti già più smarcati. Il capitano (diventato Gae per gli amici più che Nino) ha ormai una abbastanza solida storia con l’insegnante Rosa, anche se c’è una piccola deriva verso le sorelle Pederiali, che gestiscono quella locanda di cui accennavo nel primo episodio. In particolare, Nives è decisamente presa dal bel finanziere, anche se, bel punto a favore dell’autore, lui si barcamena senza approfittarne e rimanendo fedele a Rosa e con un bel rapporto di amicizia con Nives.

Continua anche il lavoro solidale e sodale con il giornalista Bonfatti, che fornisce sempre notizie a tutto tondo sul mondo ferrarese, visto che Gae è di fuori e non conosce, né sa come entrare, nelle dinamiche cittadine. Un motivo che ricorre dal precedente episodio. Il mondo della città è chiuso e impermeabile ad influenze esterne, così che i panni si lavano tra noi maggiorenti (o presunti tali) ed il resto rimane fuori.

C’è un tentativo di inserire un nuovo personaggio, la questora Uta Keller, donna dura, discretamente capace, ma con due grossi difetti: una totale mancanza di empatia con il mondo ed una passione insana per un caffè lungo e filtrato che tutti (io e De Nittis in primis) troviamo particolarmente imbevibile.

La trama gialla principale (c’è qualche rivolo laterale abbastanza divertente ma non funzionale al corpo centrale degli avvenimenti) si dipana seguendo il progressivo assassinio di personaggi locali ben in vista. Quello che sappiamo subito, che Regina ce lo dice nelle prime pagine, è che si tratta di una vendetta. Qualcuno, nel passato, ha subito un sopruso (anzi, come dice il personaggio, il Sopruso), ha fatto un patto con la vita: se in venticinque anni i cattivi non hanno pagato le loro colpe, ci penserà lui.

Abbastanza facilmente ricostruiamo che c’è stato un magheggio tra presunti sodali, e quando si è trattato di trovare un capro espiatorio, si è costruito un castello di carte contro l’unico non di Ferrara. Quello che ora si sta vendicando. Che magheggio ci sia stato, come sia stato portato alla luce, nonché sbandierato sui media (o meglio sull’unico giornale locale) lo apprendiamo capitolo dopo capitolo. A voi tirarne le fila.

Intanto muore un commercialista con un colpo di rivoltella, muore un maturo playboy con un colpo di pugnale, muore un latifondista (anche un po’ lento di testa) con una sprangata in fronte, muore il direttore della locale banca anche lui con un colpo di rivoltella.

La Keller cerca di unire i puntini, prima rifiutando ipotesi di serialità, poi convincendosene e chiedendo, per una serie di ragioni che non vi sto a narrare, l’aiuto a De Nittis. Qui si innescano alcuni passaggi di scrittura, non funzionali completamente alla parte centrale della trama, ma che sono di interesse per chi è curioso delle penne altrui. C’è il triangolo lavorativo Keller – De Nittis – Bonfanti, ognuno con le sue tipologie. Uta sempre un po’ misterioso e senza mai rilassarsi, Gae che pare non fare mai nulla ma tira sempre le giuste somme, ed il giornalista bistrattato tra i due. Bonfatti trattato male anche dalla simpatica barista (che continua a chiamarlo “papà di Gaetano”). C’è, come detto sopra, il triangolo amoroso Nives – Gaetano – Rosa, e su cui non torno.

Funzionale alla trama, invece, ci sono le elucubrazioni del killer, che si sente più giustiziere che assassino. Legate alle analisi (che aggiornano quelle del primo libro) sul piccolo mondo della provincia, e sulla reale difficoltà di entrare in circoli ormai sclerotizzati non negli anni ma nei decenni. Alla fine, a parte la perplessità di aspettare anni ed anni per una vendetta, ci godiamo la gara a capire prima che sia il killer, dove c’è un pari merito morale tra questura e finanza.

Forse alla fine un po’ meno intrigante del primo, anche perché le sparate sul malaffare, pur doverose, non sono granché incisive. Ma di sicuro una lettura gradevole, con una buona scelta di personaggi (anche se nel finale, Regina ci comunica la richiesta di cambio di sede da parte di … Si e mo’ vi dico tutto, così dite che spoilero troppo) ed un intreccio, soprattutto nella parte non gialla, gradevole. Peccato De Nittis non si esibisca alla chitarra, ma le sue playlist sono sempre di un ottimo livello, dove a parte i vari B. B. King, John Mayall e compagnia, emergono due nuove entrate assolutamente gradite: Michael Burks e Joe Bonamassa. Ascoltateli, please.

Prima trama dell’ultimo mese dell’anno, e quindi ricapitoliamo le letture di settembre. Capeggiate da una bella riscoperta, l’americano Knut Haruf, seguito a ruota da Enzo Bianchi che leggo sempre con piacere. In fondo al gruppo, due gialli poco utili, uno recente, di Matteo Guerrini, ed uno d’annata, ma poco convincente, di Matthew Pearl.

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Francesca Giannone

La portalettere

Nord

s.p.

3,5

2

Alberto Minnella

Il gioco delle sette pietre

Corriere Gazzetta

7,99

2

3

Silvia Petroni

Il vuoto tra gli atomi

Repubblica Montagna

9,90

2

4

Giuseppina Torregrossa

Il sanguinaccio dell’immacolata

Mondadori

12

2,5

5

Matteo Guerrini

Zōo – La rabbia

Mondadori

6,50

1

6

Francesco Recami

Colpo grosso ai Frigoriferi Milanesi

Sellerio

s.p.

2

7

Andrea Molesini

Non si uccide di martedì

Sellerio

14

3

8

Marilù Oliva

Le spose sepolte

Repubblica Emozione Noir

7,90

3

9

Enzo Bianchi

Cosa c’è di là

Il Mulino

s.p.

4

10

Paolo Regina

Promemoria per il diavolo

Repubblica Essenza Noir

8,90

3

11

Carlos Fuentes

Il gringo vecchio

Repubblica Latino-americana

9,90

3

12

Jo Nesbø

Il cacciatore di teste

Repubblica

8,90

3

13

Kent Haruf

La strada di casa

Corriere Americana

8,90

4,5

14

Giovanni Ricciardi

La vendetta di Oreste

Fazi editore

16

3

15

Pier Vittorio Buffa

La casa dell’uva fragola

Piemme

s.p.

3,5

16

Matthew Pearl

Il circolo Dante

Corriere Profondo Nero

7,90

1

Avendo spaziato per l’Italia nera, in modo atipico mi vengono da ricordare alcune frasi tratte da un romanzo poliziesco “L’ultima primavera” di un autore che in genere si dedica ad altro, cioè Corrado Augias.

C’è una riflessione sulla storia: “La Storia, pensò Giovanni, non è mai, per chi la vive, quella totalità armoniosa che si legge sui libri. Si presenta invece come dispersione e discontinuità, una maglia squarciata da strappi e vuoti incolmabili. Bisogna essere giovani e molto spregiudicati per cercare di dominarla.” (33)

Ce ne è una che condivido in toto sul passare del tempo: “Erano passati quasi cinquant’anni di una vita di cui … non era particolarmente orgoglioso. A volte considerava la circostanza con stupore perché in fondo mezzo secolo, quando lo si legge sui libri, sembra un periodo lunghissimo gremito di giorni significativi, durante i quali accadono un’infinità di cose e intere civiltà fanno in tempo a scomparire o ad affacciarsi alla periferia della storia. Come avevano fatto tutti quegli anni a trascorrere così in fretta?” (93)

Ed una, finale, sullo stupore di esistere: “È strano: quando uno trova qualcosa che ha sempre cercato, non se ne rende mai conto, lì per lì” (213)

Non può mancare in un giorno di inizio mese un ricordo alla mia cara zia che sarebbe oggi a 95 ma che ci ha lasciato da un po’. E con lui un ricordo agli altri zii che sono andati ed alle mie due ziette ultranovantenni che resistono. Come noi si resiste al freddo e all’intemperie per organizzare fin de semaine, rihlat e nordlys. Incrociamo le dita, che si avvicina anche il Natale, le feste, le visite, i compleanni. Non ci si può scordare di stare vicini, di abbracciarci ed io che sempre vi penso.

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