domenica 24 dicembre 2023

Natale (e Capodanno) in giallo - 24 dicembre 2023

Ancora gialli italiani, ma soprattutto un saluto, come dice il titolo. Questa è l’ultima trama del 2023, che siamo a Natale ed io mi riposo (penso sia meritato) dalla scrittura fino all’Epifania.

Qui abbiamo in ogni caso una rappresentanza sfaccettata degli autori italiani. C’è l’ormai classico de Giovanni con l’ultima puntata scritta dedicata a Sara Morozzi. Una scrittura iniziata discretamente ma andata in calando, episodio dopo episodio. Ci sono poi due scrittori, Alessandro Reali e Alberto Minnella, uscita dalla grande fucina giallistica dei Fratelli Frilli, ma con dei risultati non proprio esaltanti. Leggibili, al più. Fortuna che si sale di livello e gradimento con gli ultimi due episodi di Giovanni Ricciardi che con il suo ispettore Ponzetti mi permette utili divagazioni, personali e romane.

Maurizio de Giovanni “Sorelle” Rizzoli euro 19 (in realtà, scontato a 18 euro)

[A: 30/05/2023 – I: 30/06/2023 – T: 01/07/2023] &&     

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 255; anno: 2023]

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Purtroppo, si va peggiorando di Sara in Sara. Cioè, la scrittura di de Giovanni è sempre di buon livello, ma ci sono momenti in cui riesce ad imbastire storie che si tengono bene in piedi ed altri in cui il romanzo fa acqua da tutte le parti. Qui, siamo a metà del guado.

Intanto, come avevo detto nel sesto volume delle storie di Sara Morozzi, anche se tutti ne conoscono la storia, il nostro mentore ci porta di nuovo in giro per raccogliere pezzi sbrindellati di quello che succede prima dell’inizio delle storie. Per chi non avesse avuto né voglia né tempo di leggerne a suo tempo, ricordo intanto che le avventure di Sara cominciano che lei non solo è pensionata dal suo lavoro di intelligence, ma è anche rimasta senza il suo grande amore Massimiliano, portatogli via da un tumore.

Non ripercorro tutta la trafila che porta al presente (questa volta, con una punta di cattiveria, vi rimando all’appendice del libro, che elenca i personaggi e le storie, così forse sarà servito a qualcosa), ma vi aggiorno sullo stato dell’arte.

Ritiratesi in buon ordine e con la prospettiva di dedicarsi alle gioie familiari ed amicali abbiamo appunto Sara Morozzi, detta la Mora, esperta in pensione dell’interpretazione delle posture umane e dell’interpretazione dei labiali insonorizzati. Con lei la nuora Viola, fotografa e maga della rete, con il nipotino Massi, l’innamorato non dichiarato di Viola, Davide, con Boris, il suo fantastico cane Bernese del Bovaro. Completa la squadra l’ipovedente Andrea, super campione dell’ascolto di nastri e di rumori.

In mezzo al guado c’è Teresa Pandolfi, detta la Bionda, un tempo sodale di Sara nell’Unità Speciale, di cui ora ne capeggia una sezione. Anche se la segretezza piramidale non permette né a lei né a noi di capire chi fa cosa in quelle strutture da Servizi Segreti. Poi ci sono “quelli”, che si vorrebbero cattivi (e probabilmente lo sono) ma che sicuramente sono dediti ad attività non sempre al di qua del lecito.

Come e più delle altre storie, questa è ben legata alla precedente, con un’unica fondamentale divergenza. C’è sempre un andar su e giù nel tempo, che, anche se lo sappiamo a memoria, il nostro autore ci deve delucidare sulle avventure di Sara prima che diventi Sara. Ma questa volta, tanto per mandare in confusione il lettore, queste parti non sono in corsivo. Così, se ti distrai un attimo, non capisci più cosa stai leggendo, o meglio, in quale parte del tempo si svolge l’azione descritta. Un rimedio forse peggiore del male.

L’altro elemento è appunto il concatenarsi delle vicende. Nel sesto episodio avevamo visto tutta una serie di avventure legate ad un individuo, il Bombardiere, poi alla sua morte, al ritrovamento di nastri compromettenti. Tutto questo agito da Sara ed i suoi. Con un finale in cui, per togliersi da tutti gli impicci, sarà Teresa a dare una piccola mano ai nostri. Piccola ma definitiva.

Un aiutino (come dicono i televisionari da odio) che non è stato gradito dai Servizi deviati (ma poi neanche tanto), che decidono di rapire Teresa, farla rinsavire, cercare di capire se nasconde altri segreti ed eventualmente, una volta messa in grado di non nuocere, eliminarla.

Sarà solo Sara che intuisce, da alcuni piccoli segnali, che Teresa è in pericolo. Sarà Davide che in una non autorizzata perquisizione trova un nome che stona con il contesto. Nome che solo Sara sa collegare con la madre dell’unico amore di Teresa, morto anni ed anni prima in un conflitto a fuoco. E sarà la nostra squadra che viene in possesso di elementi interessanti per disinnescare la bomba che sta per scoppiare sotto la sedia della Bionda.

Il tutto condito dalla presenza di elementi deviati a tutti i livelli, dall’esercito alla politica, dalla magistratura alla chiesa. Insomma, una summa del mondo italiano così come lo conosciamo. Ma forse descritto in maniera tropo didascalica. Non prende il lettore, né si sviluppa in una trama credibile. Rimane il motivo di fondo, quello del titolo, dove la Bionda e la Mora, pur nella diversità delle scelte di vita, grazie ad un sentimento reciproco di stima e di affetto, si scoprono a scegliersi come sorelle. Che i parenti te li trovi, gli amici li scegli.

Resta anche un fondo di accenno ad altro. C’è un cameo del dottor Nico (incontrato nell’episodio 6), che riempie un paio di pagine all’apparenza inutili. Ed un accenno ad un trafficante bulgaro di alto livello malavitoso, che appare e scompare dalle pagine. A prima vista sembrano accenni inutili, a meno che non servano ad introdurre un qualche intreccio in eventuali futuri episodi.

Dispiace un po’ che, preso dalla ragnatela dei Servizi e dai ricordi del passato dei protagonisti, rimanga un po’ in ombra il loro presente. Riuscirà il nostro esimio scrittore a raddrizzare il tiro? Con Ricciardi c’è riuscito, con Pizzofalcone sta in modalità dormiente e quindi non sappiamo. Qui, vedremo.

Alessandro Reali “Fitte nebbie” Corriere Noir Italia 03 euro 7,99

[A: 22/06/2023 – I: 18/07/2023 – T: 20/07/2023] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 152; anno: 2012]

Alessandro Reali inizia dopo i quarant’anni un’attività interessante di scrittore, in generale di libri gialli, affiancando (ed a volte sostituendo) il suo lavoro ufficiale presso l’ENI. In particolare, viene contattato dalla casa editrice genovese dei Fratelli Frilli, che all’inizio del secolo ha un’idea vincente: chiedere a svariati scrittori di ambientare le loro storie, in generale noir o thriller, nei luoghi della loro vita, regione, città, provincia che siano.

Così Reali ha buon gioco, a fronte di una buona, pur non eccelsa scrittura, di sfornare negli anni ’10 una serie di romanzi ambientati a Pavia, intorno ad un’agenzia investigativa gestita dai due personaggi fissi dei vari episodi. Sono Gigi Sambuco, tranquillo avvocato di provincia, sposato, ma segnato dal dramma della recente morte del figlio, e Anselmo, detto Selmo, Dell’Oro, ex-teppista cresciuta nelle strade, di cui conosce segreti e misteri, ha una morale rivedibile, e l’ossessionante bisogno di avere (sempre) una donna accanto).

Non nuova, anche se non frequentissima, l’idea di avere una coppia investigativa in azione. Ovviamente non parlo delle coppie sbilanciate, come Holmes & Watson o Wolfe & Goodwin, ma di quelle che si muovono in modo paritetico come Nick & Nora Charles di Dashiell Hammett o Hap & Leonard di Joe Lansdale. In questo in nostri Gigi & Selmo si muovono bene, uno braccio, l’altro mente, ma complementari per arrivare alla soluzione del caso.

Seppur il contesto ed il contorno ne farebbero un inizio interessante (ed in effetti, il sottotitolo recita: “La prima inchiesta di Sambuco & Dell’Oro”) ci sono alcune riserve che bloccano una partenza a tutto gas. La prima riguarda questa collana, di cui questo è il primo titolo che leggo. Una collana edita dal Corriere e pubblicata come allegato alla Gazzetta dello Sport. È una collana di tutti testi provenienti dalle edizioni dei Fratelli Frilli, e questo è un bene. Ma di una confezione poco curata. Ad esempio, non viene indicato l’anno di pubblicazione, come se fossero tutti titoli scritti a tale scopo. Mentre questo, pubblicato a giugno 23, vede la luce undici anni prima.

La seconda riguarda un po’ tutto l’impianto del giallo, laddove, scritto come detto nel 2012, riporta l’azione ai primi anni ’90, e non ci si meraviglia che ci si vada ad impantanare in discorsi molto vicini a tangentopoli, con un senno di poi che non ne illumina o schiarisca il contesto.

L’azione si svolge poco fuori Pavia, in contrada Borgo Ticino ed il punto centrale sembra il giornalista d’assalto Felice detto per contrappasso Felicino, per la sua stazza. Autore poco ascoltato di articoli che vanno alla ricerca dei possibili scandali che porteranno alla tangentopoli vera e propria, viene colpito dalla morte da Marisa sua appena ex compagna (lo lascia nelle prime righe del romanzo), uccisa pare in una rapina ad un distributore di benzina. Rapina che non convince Felicino, e che incarica i nostri investigatori di fare chiarezza, di trovare i veri motivi della morte.

Indagando nei vari ambienti frequentati da Marisa, dalle inchieste di Felicino su Tiziano Ferri (comunque, l’autore poteva trovare un nome un po’ meno musicale), i nostri investigatori ricostruiscono trame scontate. Inquinamento, carabinieri deviati che aiutano dietro compenso, killer prezzolati. Anche Marisa diventa una figura ambigua, laddove tutto è ambiguo.

La vena politica di Reali si stempera in un discorso assai scontato dove certo la morte di Marisa verrà chiarita, dove il corrotto avrà il suo fio, ma che, come insegna tangentopoli, tutto cambia per rimanere uguale. Ci meravigliamo forse che il deputato che stava dietro a tutto poco dopo i fatti cambi squadra passando da Craxi a Berlusconi? Ci meravigliamo che Ferri, dopo un paio d’anni di carcere, tornerà sulla cresta dell’onda?

Tutto forse vero, ma tutto assai scontato e con poche novità. Fa piacere che i fratelli Frilli pubblichino e che il Corriere presenti al grande pubblico questi libri (che forse si avrà un buon riscontro per il giallo italiano). Tuttavia, questa prima lettura non soddisfa gran che, anche perché, anche se varia critica ne parla, non ho trovato né nuove idee né battute da ricordare.

Da ricordare e da tenere a mente che il Borgo Ticino dell’azione, in quel di Pavia poco oltre il fiume stesso, non è quella che conoscevo io, cioè Borgo Ticino nel Piemonte novarese, che le due contrade distano un’ottantina di chilometri.

Alberto Minnella “Il gioco delle sette pietre” Corriere Noir Italia 11 euro 7,99

[A: 28/08/2023 – I: 02/09/2023 – T: 04/09/2023] && 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 117; anno: 2013]

Eccoci ad una nuova lettura dei noir italiani uscite per i tipi di RCS Media che ripropongono una serie di pubblicazioni edite dalla benemerita casa editrice Fratelli Frilli di Genova. Una casa che promuove gli autori italiani, con un buon parco scrittori ed alcune punte di rilievo, come Bruno Morchio. Il punto dolente è che in queste edizioni non viene mai riportata la data delle edizioni originali, che ogni volta devo ricercare nel catalogo dei libri editi in Italia.

Alberto Minnella è un giovane quasi quarantino nativo di Agrigento, laureato in musica e cronista per alcuni giornali siciliani. Dieci anni fa ha cominciato una saga noir imperniata sulle indagini del commissario Paolo Portanova, ed ambientate (almeno quelle a me note) nella bellissima città di Siracusa. Città che qui fa la sua prima comparsa, diventando comunque un protagonista silente del romanzo.

Andando in fatti per le due parti storiche aretusee si svolge la vicenda, che a me ha fatto tornare in mente le mie belle, e non solitarie, passeggiate per Ortigia, con visita alla fonte e giri sul lungomare. Per non scordare l’interno con il bellissimo teatro greco, che ospitò una meravigliosa rappresentazione della “Conversazione su Tiresia” con Andrea Camilleri.

Il filo rosso di Minnella, nascosto assai bene all’inizio e palese alla fine, è l’arroganza del potere, o dei poteri che, economicamente e politicamente, hanno governato (e governano) la Regione Siciliana. Per non fare quindi un discorso troppo modernamente oscuro, l’autore colloca la vicenda una sessantina di anni fa. Per la precisione tra il 31 dicembre 1963 ed il 4 gennaio 1964. Una precisione che ha portato una piccola chicca che riprenderò in finale.

In quel Capodanno, la squadra al comando di Portanova sta tranquillamente cercando di passare una serata senza troppe scosse, quando viene interrotta dall’insistenza di una zitella, la signorina Russo, che è convinta di aver visto un rapimento davanti al ristorante “La Spada Blu”. Recatisi sul posto, i nostri trovano tracce di colluttazione, sangue, ma nessun corpo, né ferito né cadavere. Risulta solo, ma sarà verificato solo in mattinata, la scomparsa del proprietario del ristorante, il signor Passanisi.

Come avviare un indagine con un possibile morto ma senza cadavere? Portanova, testa pensante, sigaro accesso nella mano destra, comincia ad indagare, con un piglio che ricorda le ronde parigine di Maigret. Chi era Passanisi? Come se la passava il locale? Aveva nemici?

Con molta difficoltà si scoprono alcuni piccoli filamenti. Passanisi era probabilmente sotto schiaffo dal boss mafioso locale. Per la gestione giornaliera del locale era coadiuvato dalla bella Rosaria. Il locale poi era frequentato, spesso e con agio, da Giampiero Fortuna, giovane rampante in via di fidanzamento con la figlia del boss.

Scoperte varie si susseguono in breve tempo. Foto compromettenti di Giampiero e Rosaria, scagnozzi mafiosi che si aggirano per la città, uno stagnaro misteriosamente scomparso. Portanova, con il suo fare un po’ distratto (sono giorni in cui piove sempre ed al nostro la pioggia porta brutti ricordi), unisce a poco a poco i punti sparsi sulla tela del noir, per arrivare ad una resa dei conti che un improvvido prologo aveva già preannunciato.

Un bagno di sangue che al nostro porta la soluzione e molte ferite. Ma c’è sempre qualcuno più in alto che i puntini li unisce in modo coerente ma diverso. Un sottofinale sciasciano che vi lascio scoprire a vostro piacimento. Disegni sgradevoli ma realisti.

Purtroppo, ed è questo il punto “minus” del romanzo, è tutto già prevedibile. Anche se la scrittura sorregge bene il testo, vedrò in futuro se altre vicende siracusane porteranno acqua fresca alla fontana di Ortigia.

C’è un punto, inoltre, che mi lascia perplesso. Il gioco del titolo è un gioco “d’infanzia”: si mettono sette pietre a formare una piramide. Una squadra (ma anche un solo ragazzo) con una piccola palla prova a buttar giù le pietre, e con la stessa palla cerca di colpire la squadra avversaria che, contemporaneamente, devo ricostruire la priamide distrutta. Come Portanova che distrugge la trama, ma qualcuno la ricostruisce da un’altra parte. Peccato che il gioco, secondo uno scritto di Nicola Saliani, esperto di tradizioni locali, fosse inventato alla fine degli anni ’60, mentre qui ne siamo all’inizio.

Riprendendo il punto lasciato in sospeso, ad un certo punto un procuratore viene descritto in un atteggiamento che ricordava il portiere russo Lev Yashin. In particolare quando, pochi mesi prima della vicenda, nel novembre del ’63, parò un rigore a Sandro Mazzola. Una partita che poi finì in parità, portando all’eliminazione dell’Italia dai Campionati Europei. Me lo ricordavo, pur nell’infanzia poco rimembrante.

Giovanni Ricciardi “L’undicesima ora” Fazi editore 16 (in realtà, scontato a 12,80 euro)

[A: 04/10/2020 – I: 30/08/2023 – T: 31/08/2023] &&& ---

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 252; anno: 2017]

Dopo quasi quattro anni eccoci a riprendere in mano le storie oneste e pulite del commissario Ottavio Ponzetti, contornato dalla sua “famiglia allargata” (cioè moglie, figlie, genero potenziale nonché dall’aiutante ispettore e dall’ex-avvocato, che qui tuttavia compare meno). La scrittura di Riccardi continua ad essere lineare, con pochi fronzoli come si addice ad un professore di liceo. Con qualche spunto d’interesse, forse pochi questa volta, ma qualcosa c’è.

Purtroppo non uno spunto “noir” o “giallo”, tuttavia. Che la vicenda narrata sembra avere poco del poliziesco classico, anche se poi, dopo una prima metà che non decolla, qualcosa da trovare, un mistero forse da decifrare c’è.

Intanto c’è la morte di Paolo Rossi (non del calciatore, che è sì morto, ma in diverso contesto, né dell’attore che, solo di un mese più giovane, è ancora fortunatamente vivo), architetto e, quasi contemporaneamente, un incendio che ne devasta la casa padronale (non quella in cui muore). La morte sembra (è) naturale, l’incendio no. E dentro il computer di Rossi, compare una mail d’amore non spedita. Tutti elementi che implicano coincidenze, possibilità, e che non possono non mettere il nostro buon Ottavio sul chi va là.

Chi era l’architetto? Chi è la donna misteriosa? Cosa li lega e cosa li collega alla Spagna? Tutto complotta affinché Ponzetti decida di recarsi a Barcellona, dove non solo conoscerà i futuri suoceri, ma comincerà a fare collegamenti. Che Rossi era stato spesso in Spagna, ed era un appassionato del grande architetto catalano, Antoni Gaudí. Tanto che la casa incendiata riprende alcune tematiche architettoniche di Gaudì stesso.

Il fido Iannotta gli rivela anche che Rossi era stato coinvolto, senza mai prove, in possibili furti d’arte. Come confermano amici spagnoli. Inoltre, in una delle residenze disegnate da Gaudì sembra domiciliarsi la donna misteriosa. Si accumulano indizi, ma non si va avanti di molto. Sarà solo quando si scopre l’identità della donna, se ne scoprono i legami con Rossi, e con altre situazioni legate a disegni attribuiti a Gaudì stesso, e di alto valore, che le indagini cominciano ad avere una svolta. Ed il romanzo ad essere un po’ più coinvolgente.

Ci saranno tante altre coincidenze che verranno alla luce. Architetti riveli che cercano gli stessi disegni, la malattia terminale di Rossi, uno sgabuzzino di un pittore romano, una finestra a Trastevere. Confermando che la morte di Rossi era naturale, Ponzetti riesce invece a risolvere i misteri di contorno. Forse non proprio esaltanti dal punto di vista poliziesco, ma coinvolgenti dal punto di vista umano.

Ed è l’elemento umano che a noi ed a Ricciardi interessa di più. La storia della figlia grande di Ponzetti con il suo compagno catalano che non si decide a sposarla, nonostante i figli presenti e futuri. La figlia piccola, in via di laurea, ma senza un vero centro. La moglie sempre presente, attenta (che in un certo senso ricorda in modo romanesco la moglie del commissario Charistos di Markaris). La presenza, costante e molto romana, del fido Iannotta. Che aiuta Ottavio con la speranza che il suo grande capo nonché amico nonché commissario riesca a trovare i biglietti per una partita.

Questo ci dà anche l’orizzonte temporale della vicenda, che la partita non è altro che l’addio al calcio di Totti, avvenuto il 28 maggio 2017 (all’Olimpico, con il Genoa, finita 3 a 2, ma immortalata dallo striscione della curva Sud “Speravo de morì prima”).

C’è il ricordo di tanti piccoli angoli della mia città, custodi di momenti indimenticabili. Come il bar Foroni a via Britannia (anzi la Torrefazione Drogheria Foroni) foriera di tante prelibatezze gastronomiche.

Ed infine c’è l’omaggio ad Antonietta Meo detta Nennolina. Una bambina romana di una devozione profonda fin dai quattro anni, dedita alla Chiesa ed a pensieri spirituali, che muore a sette anni, nel 1937, per un tumore osseo, e che, inseguito alle sue vicende personali ed alle lettere scritte a Gesù ed alla Madonna, nel dicembre del 2007 è stata proclamata “venerabile” da Papa Benedetto XVI. Cosa c’entri con la vicenda di Rossi e Ponzetti ve lo lascio scoprire.

Ripeto, la bellezza della pulizia degli scritti di Ricciardi, sta proprio in questi piccoli tocchi, e nella figura di Ottavio Ponzetti. Un commissario senza grandi difetti, che non è permaloso, intrattabile o altro. E che soprattutto, come me, ama passeggiare per la nostra città, con gli occhi aperti sulle sue meraviglie. Una lettura non eccelsa, ma sempre gradevole.

Giovanni Ricciardi “La vendetta di Oreste” Fazi editore 16 (in realtà, scontato a 12,80 euro)

[A: 04/10/2020 – I: 23/09/2023 – T: 24/09/2023] &&& 

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 221; anno: 2019]

Passiamo quindi al nono e credo, per ora, ultimo romanzo uscito dalla penna del professor Giovanni Ricciardi. Un libro che realmente segue il crinale del precedente, andando oltre, verso un giallo che non è più giallo. Verso una ricerca di verità nascoste, intessute da una trama interessante, e purtroppo poco nota. Tanto che, a sorpresa, nel 2020, fu anche inserito nei cinquanta libri che costituirono la base per la scelta del romanzo premiato poi con il Premio Strega (non andò molto avanti, e quell’anno il premio fu vinto da un libro che per altre ragioni, spiegate in altre trame, a noi si caro viene, “Il colibrì” di Veronesi).

Il non-giallo si concretizza nella ricerca che Marco Zarotti, figlio di Oreste, chiede ad Ottavio (non al commissario, ma all’uomo). Ottavio aveva conosciuto Oreste, un geometra pacato, onesto. Amicizia rimasta nell’aria del tempo, che ognuno ha il proprio tempo da vivere. Oreste muore senza riuscire a parlare con Ottavio, come avrebbe voluto. Dieci anni dopo muore anche la moglie. Mettendo a posto le carte, Marco trova due “cose” strane: una lettera che inizia con “Caro Ulisse…”, ed una pistola a nove colpi ma con solo sette proiettili nel tamburo. E chiede a Ottavio di indagare su questo mistero.

Comincia così la “Chanson de Gest” dei nostri. In primo piano, oltre ad Ottavio, il sempre fido Iannotta, ma anche Maria, la seconda figlia, l’irrequieta, che nell’aiuto al padre trova uno scopo e forse qualcos’altro. Si scava allora sulla figura del geometra, che geometra non era, o non era stato per molto tempo, avendo passato gli esami professionali solo poco prima di andare in pensione. Ma produceva progetti, firmati da un amico architetto. Con il quale faceva anche viaggi di lavoro. Viaggi che, negli anni Novanta, con le crisi economiche finiscono. Non per Oreste, che continua ad assentarsi (primo mistero) senza svelarne i motivi.

Come detto, poi a passare gli esami, fornito di un attestato di un Istituto Tecnico, una prova superata negli anni Cinquanta a Trieste. Così Maria si sposta al nord, per seguire questa traccia, e trovandone riscontri tra il Veneto, la Venezia Giulia e poi anche l’Istria. Mentre Ottavio segue le tracce rimanendo a Roma, parlando con tutti, con Marco, con la sorella di Marco, con una lontana zia (lontana di discendenza, non di età). L’unione di tutti gli sforzi porterà a scoprire la natura delle prove sopra citate. Porterà a scoprire l’intera storia di Oreste, dei suoi amori, della sua vita, dei suoi odi, dei suoi perdoni, anche di un quadro che ad un certo punto compare per mescolare le già ingarbugliate carte.

Come vedete un non-giallo che è una ricerca sull’identità, ed è permeato da tutta una storia che è altra, ma che è strettamente legata ai personaggi. Che gli Zarotti vivevano in un particolare quartiere di Roma, verso l’Eur, chiamato “villaggio giuliano-dalmata”. Ed Oreste era di Pola, mentre Nina, la moglie, di Fiume. Così che Ricciardi ha modo, parlando di loro, di parlare della vicenda dei profughi istriani. Nina parte per Roma già nel ’47, anno in cui Istria viene consegnata alla Jugoslavia. Oreste solo nel ’54. Entrambi poi per ritrovarsi vicino l’Eur, e costruire la loro vita insieme. Ma Ricciardi ci parla anche dei drammi degli esuli, delle zone triestine dilaniate, delle foibe. Insomma, di tutta una parte di storia per lungo tempo rimossa, e che solo da pochi anni si riesce a ripercorrere, a farne vedere appunto il doloroso percorso.

Ricciardi inserisce anche un personaggio storico, Maria Pasquinelli, una convinta fascista, all’epoca, che il 10 febbraio 1947 uccide con un colpo di pistola il brigadiere generale Robert de Winton, comandante della guarnigione britannica di Pola, nel giorno in cui, con la firma a Parigi del trattato di pace, Pola e la Dalmazia venivano ceduti alla Jugoslavia.

Cosa c’entra tutto questo con Oreste Zarotti è la materia che riempie il libro, e che solo per questo assurge ad una sua dignità di lettura, ai miei occhi. Che però si completa con altre due coincidenze: mia suocera Laura viene proprio da Trieste, anche se andò via prima dei fatti narrati, ma che a Trieste è sempre rimasta legata. L’altro è un curioso caso di sovrapposizione di date. Oreste muore, dopo una frattura femorale, nel 2008. La moglie Nina muore di vecchiaia nel 2018. Esattamente le stesse date della morte dei miei genitori.

Spero che Ricciardi continui ancora a tessere le sue trame romane di gialli poco gialli, che mi mancano le passeggiate di Oreste per la città e la scoperta dei suoi (di Roma) angoli segreti (anche se qui fanno capolino la biblioteca di San Marco Evangelista al Giuliano-Dalmata, l’ospedale Sant’Eugenio, il Museo di Palazzo Merulana e l’Esquilino, dove tornerei volentieri a chiacchierare a casa del mio amico Ciccio).

Allora, come detto, dovendo con dispiacere lasciarvi per un po’ di tempo, vi riempio le pagine e la mente di una serie di frasi che sono rimaste nel retino della mia memoria a valle della lettura di “Rossovermiglio” scritto da Benedetta Cibrario.

Una frase d’amore: “Allora ebbi solo l’indubitabile certezza di essere bella, ai suoi occhi, come mai più sarei stata agli occhi di qualcuno” (28), ed una sui sentimenti: “Se sono stata pigra, forse lo sono stata di sentimenti: ho faticato a esprimere un’emozione o un turbamento. Sono stata semmai una lunediante del cuore” (81) (lunediante = operaio che non si presenta al lavoro il lunedì mattina per smaltire l’ubriacatura della domenica, per esteso sinonimo di pigro).

Alcune frasi sullo scorrere degli anni e sui rapporti tra la gente: “Se osserva la propria vita a ritroso, ognuno di noi è in grado di valutare il peso di alcuni momenti, che, per lo più, si sono annunciati in sordina – mattine annoiate, o serate che avrebbero dovuto essere uguali a tante altre e che invece, inopinatamente, sono state dei punti di svolta” (65); “Penso che non conosciamo mai veramente le persone. O forse, dobbiamo ammettere che gli individui cambiano, che le loro qualità nascoste emergono in superficie o s’inabissano definitivamente quando la vita entra in rotta di collisione con loro” (94); “Curioso come alla volte, per conquistare ciò che si desidera fortemente, ci vogliono in pari misura coraggio e sventatezza.” (105)

Una frase che mi ha riportato al mio nomadismo: “I veri nomadi, lo so, hanno uno sguardo fermo e sereno, quando osservano il mutare dei paesaggi e delle consuetudini; uno sguardo che guarda fisso, avanti; è la prossima tappa ciò che conta, non quello che si lascia dietro; non li turba il cambiamento, né quella forma più sottile e incurabile di mutazione che è la sparizione.” (202).

Finendo con una considerazione, amara forse, ma sempre più reale: “sono invecchiata rapidamente, un secolo mi è sgusciato tra le dita in un soffio. Quando mi guardo indietro, mi pare di aver avuto vent’anni fino a ieri l’altro. Ne ho invece più di ottanta, anche se tutti si fa finta di non pensarci. Come si dice nel calcio, siamo giocatori in panchina …; in attesa di uscire, però, non di giocare” (142)

Quindi, finiamo con i soliti auguri di fine anno per poter affrontare serenamente un anno che pur bisestile ha una scomposizione intrigante (2024 = 23x23x11). 

Tanti auguri!!!

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