Qui abbiamo in ogni caso una rappresentanza
sfaccettata degli autori italiani. C’è l’ormai classico de Giovanni con
l’ultima puntata scritta dedicata a Sara Morozzi. Una scrittura iniziata
discretamente ma andata in calando, episodio dopo episodio. Ci sono poi due
scrittori, Alessandro Reali e Alberto Minnella, uscita dalla grande fucina
giallistica dei Fratelli Frilli, ma con dei risultati non proprio esaltanti.
Leggibili, al più. Fortuna che si sale di livello e gradimento con gli ultimi
due episodi di Giovanni Ricciardi che con il suo ispettore Ponzetti mi permette
utili divagazioni, personali e romane.
Maurizio de Giovanni “Sorelle” Rizzoli euro
19 (in realtà, scontato a 18 euro)
[A: 30/05/2023 – I: 30/06/2023 – T:
01/07/2023] &&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 255; anno:
2023]
Sara7
Purtroppo, si va peggiorando di Sara
in Sara. Cioè, la scrittura di de Giovanni è sempre di buon livello, ma ci sono
momenti in cui riesce ad imbastire storie che si tengono bene in piedi ed altri
in cui il romanzo fa acqua da tutte le parti. Qui, siamo a metà del guado.
Intanto, come avevo detto nel sesto
volume delle storie di Sara Morozzi, anche se tutti ne conoscono la storia, il
nostro mentore ci porta di nuovo in giro per raccogliere pezzi sbrindellati di
quello che succede prima dell’inizio delle storie. Per chi non avesse avuto né
voglia né tempo di leggerne a suo tempo, ricordo intanto che le avventure di
Sara cominciano che lei non solo è pensionata dal suo lavoro di intelligence,
ma è anche rimasta senza il suo grande amore Massimiliano, portatogli via da un
tumore.
Non ripercorro tutta la trafila che
porta al presente (questa volta, con una punta di cattiveria, vi rimando
all’appendice del libro, che elenca i personaggi e le storie, così forse sarà
servito a qualcosa), ma vi aggiorno sullo stato dell’arte.
Ritiratesi in buon ordine e con la
prospettiva di dedicarsi alle gioie familiari ed amicali abbiamo appunto Sara
Morozzi, detta la Mora, esperta in pensione dell’interpretazione delle posture
umane e dell’interpretazione dei labiali insonorizzati. Con lei la nuora Viola,
fotografa e maga della rete, con il nipotino Massi, l’innamorato non dichiarato
di Viola, Davide, con Boris, il suo fantastico cane Bernese del Bovaro.
Completa la squadra l’ipovedente Andrea, super campione dell’ascolto di nastri
e di rumori.
In mezzo al guado c’è Teresa
Pandolfi, detta la Bionda, un tempo sodale di Sara nell’Unità Speciale, di cui
ora ne capeggia una sezione. Anche se la segretezza piramidale non permette né
a lei né a noi di capire chi fa cosa in quelle strutture da Servizi Segreti.
Poi ci sono “quelli”, che si vorrebbero cattivi (e probabilmente lo sono) ma
che sicuramente sono dediti ad attività non sempre al di qua del lecito.
Come e più delle altre storie, questa
è ben legata alla precedente, con un’unica fondamentale divergenza. C’è sempre
un andar su e giù nel tempo, che, anche se lo sappiamo a memoria, il nostro
autore ci deve delucidare sulle avventure di Sara prima che diventi Sara. Ma
questa volta, tanto per mandare in confusione il lettore, queste parti non sono
in corsivo. Così, se ti distrai un attimo, non capisci più cosa stai leggendo,
o meglio, in quale parte del tempo si svolge l’azione descritta. Un rimedio forse
peggiore del male.
L’altro elemento è appunto il
concatenarsi delle vicende. Nel sesto episodio avevamo visto tutta una serie di
avventure legate ad un individuo, il Bombardiere, poi alla sua morte, al
ritrovamento di nastri compromettenti. Tutto questo agito da Sara ed i suoi.
Con un finale in cui, per togliersi da tutti gli impicci, sarà Teresa a dare
una piccola mano ai nostri. Piccola ma definitiva.
Un aiutino (come dicono i
televisionari da odio) che non è stato gradito dai Servizi deviati (ma poi
neanche tanto), che decidono di rapire Teresa, farla rinsavire, cercare di
capire se nasconde altri segreti ed eventualmente, una volta messa in grado di
non nuocere, eliminarla.
Sarà solo Sara che intuisce, da
alcuni piccoli segnali, che Teresa è in pericolo. Sarà Davide che in una non
autorizzata perquisizione trova un nome che stona con il contesto. Nome che
solo Sara sa collegare con la madre dell’unico amore di Teresa, morto anni ed
anni prima in un conflitto a fuoco. E sarà la nostra squadra che viene in
possesso di elementi interessanti per disinnescare la bomba che sta per
scoppiare sotto la sedia della Bionda.
Il tutto condito dalla presenza di
elementi deviati a tutti i livelli, dall’esercito alla politica, dalla
magistratura alla chiesa. Insomma, una summa del mondo italiano così come lo
conosciamo. Ma forse descritto in maniera tropo didascalica. Non prende il
lettore, né si sviluppa in una trama credibile. Rimane il motivo di fondo,
quello del titolo, dove la Bionda e la Mora, pur nella diversità delle scelte
di vita, grazie ad un sentimento reciproco di stima e di affetto, si scoprono a
scegliersi come sorelle. Che i parenti te li trovi, gli amici li scegli.
Resta anche un fondo di accenno ad
altro. C’è un cameo del dottor Nico (incontrato nell’episodio 6), che riempie
un paio di pagine all’apparenza inutili. Ed un accenno ad un trafficante
bulgaro di alto livello malavitoso, che appare e scompare dalle pagine. A prima
vista sembrano accenni inutili, a meno che non servano ad introdurre un qualche
intreccio in eventuali futuri episodi.
Dispiace un po’ che, preso dalla
ragnatela dei Servizi e dai ricordi del passato dei protagonisti, rimanga un
po’ in ombra il loro presente. Riuscirà il nostro esimio scrittore a
raddrizzare il tiro? Con Ricciardi c’è riuscito, con Pizzofalcone sta in
modalità dormiente e quindi non sappiamo. Qui, vedremo.
Alessandro
Reali “Fitte nebbie” Corriere Noir Italia 03 euro 7,99
[A:
22/06/2023 – I: 18/07/2023 – T: 20/07/2023] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 152; anno: 2012]
Alessandro
Reali inizia dopo i quarant’anni un’attività interessante di scrittore, in
generale di libri gialli, affiancando (ed a volte sostituendo) il suo lavoro
ufficiale presso l’ENI. In particolare, viene contattato dalla casa editrice
genovese dei Fratelli Frilli, che all’inizio del secolo ha un’idea vincente:
chiedere a svariati scrittori di ambientare le loro storie, in generale noir o
thriller, nei luoghi della loro vita, regione, città, provincia che siano.
Così
Reali ha buon gioco, a fronte di una buona, pur non eccelsa scrittura, di
sfornare negli anni ’10 una serie di romanzi ambientati a Pavia, intorno ad
un’agenzia investigativa gestita dai due personaggi fissi dei vari episodi.
Sono Gigi Sambuco, tranquillo avvocato di provincia, sposato, ma segnato dal
dramma della recente morte del figlio, e Anselmo, detto Selmo, Dell’Oro,
ex-teppista cresciuta nelle strade, di cui conosce segreti e misteri, ha una
morale rivedibile, e l’ossessionante bisogno di avere (sempre) una donna
accanto).
Non
nuova, anche se non frequentissima, l’idea di avere una coppia investigativa in
azione. Ovviamente non parlo delle coppie sbilanciate, come Holmes & Watson
o Wolfe & Goodwin, ma di quelle che si muovono in modo paritetico come Nick
& Nora Charles di Dashiell Hammett o Hap & Leonard di Joe Lansdale. In
questo in nostri Gigi & Selmo si muovono bene, uno braccio, l’altro mente,
ma complementari per arrivare alla soluzione del caso.
Seppur
il contesto ed il contorno ne farebbero un inizio interessante (ed in effetti,
il sottotitolo recita: “La prima inchiesta di Sambuco & Dell’Oro”) ci sono
alcune riserve che bloccano una partenza a tutto gas. La prima riguarda questa
collana, di cui questo è il primo titolo che leggo. Una collana edita dal
Corriere e pubblicata come allegato alla Gazzetta dello Sport. È una collana di
tutti testi provenienti dalle edizioni dei Fratelli Frilli, e questo è un bene.
Ma di una confezione poco curata. Ad esempio, non viene indicato l’anno di
pubblicazione, come se fossero tutti titoli scritti a tale scopo. Mentre
questo, pubblicato a giugno 23, vede la luce undici anni prima.
La
seconda riguarda un po’ tutto l’impianto del giallo, laddove, scritto come
detto nel 2012, riporta l’azione ai primi anni ’90, e non ci si meraviglia che
ci si vada ad impantanare in discorsi molto vicini a tangentopoli, con un senno
di poi che non ne illumina o schiarisca il contesto.
L’azione
si svolge poco fuori Pavia, in contrada Borgo Ticino ed il punto centrale
sembra il giornalista d’assalto Felice detto per contrappasso Felicino, per la
sua stazza. Autore poco ascoltato di articoli che vanno alla ricerca dei
possibili scandali che porteranno alla tangentopoli vera e propria, viene
colpito dalla morte da Marisa sua appena ex compagna (lo lascia nelle prime
righe del romanzo), uccisa pare in una rapina ad un distributore di benzina.
Rapina che non convince Felicino, e che incarica i nostri investigatori di fare
chiarezza, di trovare i veri motivi della morte.
Indagando
nei vari ambienti frequentati da Marisa, dalle inchieste di Felicino su Tiziano
Ferri (comunque, l’autore poteva trovare un nome un po’ meno musicale), i
nostri investigatori ricostruiscono trame scontate. Inquinamento, carabinieri
deviati che aiutano dietro compenso, killer prezzolati. Anche Marisa diventa
una figura ambigua, laddove tutto è ambiguo.
La
vena politica di Reali si stempera in un discorso assai scontato dove certo la
morte di Marisa verrà chiarita, dove il corrotto avrà il suo fio, ma che, come
insegna tangentopoli, tutto cambia per rimanere uguale. Ci meravigliamo forse
che il deputato che stava dietro a tutto poco dopo i fatti cambi squadra passando
da Craxi a Berlusconi? Ci meravigliamo che Ferri, dopo un paio d’anni di
carcere, tornerà sulla cresta dell’onda?
Tutto
forse vero, ma tutto assai scontato e con poche novità. Fa piacere che i
fratelli Frilli pubblichino e che il Corriere presenti al grande pubblico
questi libri (che forse si avrà un buon riscontro per il giallo italiano).
Tuttavia, questa prima lettura non soddisfa gran che, anche perché, anche se
varia critica ne parla, non ho trovato né nuove idee né battute da ricordare.
Da
ricordare e da tenere a mente che il Borgo Ticino dell’azione, in quel di Pavia
poco oltre il fiume stesso, non è quella che conoscevo io, cioè Borgo Ticino
nel Piemonte novarese, che le due contrade distano un’ottantina di chilometri.
Alberto
Minnella “Il gioco delle sette pietre” Corriere Noir Italia 11 euro 7,99
[A:
28/08/2023 – I: 02/09/2023 – T: 04/09/2023] &&
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 117; anno: 2013]
Eccoci ad una nuova lettura dei noir italiani
uscite per i tipi di RCS Media che ripropongono una serie di pubblicazioni
edite dalla benemerita casa editrice Fratelli Frilli di Genova. Una casa che
promuove gli autori italiani, con un buon parco scrittori ed alcune punte di
rilievo, come Bruno Morchio. Il punto dolente è che in queste edizioni non
viene mai riportata la data delle edizioni originali, che ogni volta devo
ricercare nel catalogo dei libri editi in Italia.
Alberto Minnella è un giovane quasi
quarantino nativo di Agrigento, laureato in musica e cronista per alcuni
giornali siciliani. Dieci anni fa ha cominciato una saga noir imperniata sulle
indagini del commissario Paolo Portanova, ed ambientate (almeno quelle a me
note) nella bellissima città di Siracusa. Città che qui fa la sua prima
comparsa, diventando comunque un protagonista silente del romanzo.
Andando in fatti per le due parti storiche
aretusee si svolge la vicenda, che a me ha fatto tornare in mente le mie belle,
e non solitarie, passeggiate per Ortigia, con visita alla fonte e giri sul
lungomare. Per non scordare l’interno con il bellissimo teatro greco, che
ospitò una meravigliosa rappresentazione della “Conversazione su Tiresia” con
Andrea Camilleri.
Il filo rosso di Minnella, nascosto assai
bene all’inizio e palese alla fine, è l’arroganza del potere, o dei poteri che,
economicamente e politicamente, hanno governato (e governano) la Regione
Siciliana. Per non fare quindi un discorso troppo modernamente oscuro, l’autore
colloca la vicenda una sessantina di anni fa. Per la precisione tra il 31
dicembre 1963 ed il 4 gennaio 1964. Una precisione che ha portato una piccola
chicca che riprenderò in finale.
In quel Capodanno, la squadra al comando di
Portanova sta tranquillamente cercando di passare una serata senza troppe
scosse, quando viene interrotta dall’insistenza di una zitella, la signorina
Russo, che è convinta di aver visto un rapimento davanti al ristorante “La
Spada Blu”. Recatisi sul posto, i nostri trovano tracce di colluttazione,
sangue, ma nessun corpo, né ferito né cadavere. Risulta solo, ma sarà
verificato solo in mattinata, la scomparsa del proprietario del ristorante, il
signor Passanisi.
Come avviare un indagine con un possibile
morto ma senza cadavere? Portanova, testa pensante, sigaro accesso nella mano
destra, comincia ad indagare, con un piglio che ricorda le ronde parigine di
Maigret. Chi era Passanisi? Come se la passava il locale? Aveva nemici?
Con molta difficoltà si scoprono alcuni
piccoli filamenti. Passanisi era probabilmente sotto schiaffo dal boss mafioso
locale. Per la gestione giornaliera del locale era coadiuvato dalla bella
Rosaria. Il locale poi era frequentato, spesso e con agio, da Giampiero
Fortuna, giovane rampante in via di fidanzamento con la figlia del boss.
Scoperte varie si susseguono in breve tempo.
Foto compromettenti di Giampiero e Rosaria, scagnozzi mafiosi che si aggirano
per la città, uno stagnaro misteriosamente scomparso. Portanova, con il suo
fare un po’ distratto (sono giorni in cui piove sempre ed al nostro la pioggia
porta brutti ricordi), unisce a poco a poco i punti sparsi sulla tela del noir,
per arrivare ad una resa dei conti che un improvvido prologo aveva già
preannunciato.
Un bagno di sangue che al nostro porta la
soluzione e molte ferite. Ma c’è sempre qualcuno più in alto che i puntini li
unisce in modo coerente ma diverso. Un sottofinale sciasciano che vi lascio
scoprire a vostro piacimento. Disegni sgradevoli ma realisti.
Purtroppo, ed è questo il punto “minus” del
romanzo, è tutto già prevedibile. Anche se la scrittura sorregge bene il testo,
vedrò in futuro se altre vicende siracusane porteranno acqua fresca alla
fontana di Ortigia.
C’è un punto, inoltre, che mi lascia
perplesso. Il gioco del titolo è un gioco “d’infanzia”: si mettono sette pietre
a formare una piramide. Una squadra (ma anche un solo ragazzo) con una piccola
palla prova a buttar giù le pietre, e con la stessa palla cerca di colpire la
squadra avversaria che, contemporaneamente, devo ricostruire la priamide
distrutta. Come Portanova che distrugge la trama, ma qualcuno la ricostruisce
da un’altra parte. Peccato che il gioco, secondo uno scritto di Nicola Saliani,
esperto di tradizioni locali, fosse inventato alla fine degli anni ’60, mentre
qui ne siamo all’inizio.
Riprendendo il punto lasciato in sospeso, ad
un certo punto un procuratore viene descritto in un atteggiamento che ricordava
il portiere russo Lev Yashin. In particolare quando, pochi mesi prima della
vicenda, nel novembre del ’63, parò un rigore a Sandro Mazzola. Una partita che
poi finì in parità, portando all’eliminazione dell’Italia dai Campionati
Europei. Me lo ricordavo, pur nell’infanzia poco rimembrante.
Giovanni Ricciardi “L’undicesima ora” Fazi
editore 16 (in realtà, scontato a 12,80 euro)
[A: 04/10/2020 – I: 30/08/2023 – T: 31/08/2023]
&&& ---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 252; anno:
2017]
Dopo quasi quattro anni eccoci a riprendere
in mano le storie oneste e pulite del commissario Ottavio Ponzetti, contornato
dalla sua “famiglia allargata” (cioè moglie, figlie, genero potenziale nonché
dall’aiutante ispettore e dall’ex-avvocato, che qui tuttavia compare meno). La
scrittura di Riccardi continua ad essere lineare, con pochi fronzoli come si
addice ad un professore di liceo. Con qualche spunto d’interesse, forse pochi
questa volta, ma qualcosa c’è.
Purtroppo non uno spunto “noir” o “giallo”,
tuttavia. Che la vicenda narrata sembra avere poco del poliziesco classico,
anche se poi, dopo una prima metà che non decolla, qualcosa da trovare, un
mistero forse da decifrare c’è.
Intanto c’è la morte di Paolo Rossi (non del
calciatore, che è sì morto, ma in diverso contesto, né dell’attore che, solo di
un mese più giovane, è ancora fortunatamente vivo), architetto e, quasi
contemporaneamente, un incendio che ne devasta la casa padronale (non quella in
cui muore). La morte sembra (è) naturale, l’incendio no. E dentro il computer
di Rossi, compare una mail d’amore non spedita. Tutti elementi che implicano
coincidenze, possibilità, e che non possono non mettere il nostro buon Ottavio
sul chi va là.
Chi era l’architetto? Chi è la donna
misteriosa? Cosa li lega e cosa li collega alla Spagna? Tutto complotta
affinché Ponzetti decida di recarsi a Barcellona, dove non solo conoscerà i
futuri suoceri, ma comincerà a fare collegamenti. Che Rossi era stato spesso in
Spagna, ed era un appassionato del grande architetto catalano, Antoni Gaudí.
Tanto che la casa incendiata riprende alcune tematiche architettoniche di Gaudì
stesso.
Il fido Iannotta gli rivela anche che Rossi
era stato coinvolto, senza mai prove, in possibili furti d’arte. Come
confermano amici spagnoli. Inoltre, in una delle residenze disegnate da Gaudì
sembra domiciliarsi la donna misteriosa. Si accumulano indizi, ma non si va
avanti di molto. Sarà solo quando si scopre l’identità della donna, se ne
scoprono i legami con Rossi, e con altre situazioni legate a disegni attribuiti
a Gaudì stesso, e di alto valore, che le indagini cominciano ad avere una
svolta. Ed il romanzo ad essere un po’ più coinvolgente.
Ci saranno tante altre coincidenze che
verranno alla luce. Architetti riveli che cercano gli stessi disegni, la
malattia terminale di Rossi, uno sgabuzzino di un pittore romano, una finestra
a Trastevere. Confermando che la morte di Rossi era naturale, Ponzetti riesce
invece a risolvere i misteri di contorno. Forse non proprio esaltanti dal punto
di vista poliziesco, ma coinvolgenti dal punto di vista umano.
Ed è l’elemento umano che a noi ed a
Ricciardi interessa di più. La storia della figlia grande di Ponzetti con il
suo compagno catalano che non si decide a sposarla, nonostante i figli presenti
e futuri. La figlia piccola, in via di laurea, ma senza un vero centro. La
moglie sempre presente, attenta (che in un certo senso ricorda in modo
romanesco la moglie del commissario Charistos di Markaris). La presenza,
costante e molto romana, del fido Iannotta. Che aiuta Ottavio con la speranza
che il suo grande capo nonché amico nonché commissario riesca a trovare i
biglietti per una partita.
Questo ci dà anche l’orizzonte temporale
della vicenda, che la partita non è altro che l’addio al calcio di Totti,
avvenuto il 28 maggio 2017 (all’Olimpico, con il Genoa, finita 3 a 2, ma
immortalata dallo striscione della curva Sud “Speravo de morì prima”).
C’è il ricordo di tanti piccoli angoli della
mia città, custodi di momenti indimenticabili. Come il bar Foroni a via
Britannia (anzi la Torrefazione Drogheria Foroni) foriera di tante prelibatezze
gastronomiche.
Ed infine c’è l’omaggio ad Antonietta Meo
detta Nennolina. Una bambina romana di una devozione profonda fin dai quattro
anni, dedita alla Chiesa ed a pensieri spirituali, che muore a sette anni, nel
1937, per un tumore osseo, e che, inseguito alle sue vicende personali ed alle
lettere scritte a Gesù ed alla Madonna, nel dicembre del 2007 è stata
proclamata “venerabile” da Papa Benedetto XVI. Cosa c’entri con la vicenda di
Rossi e Ponzetti ve lo lascio scoprire.
Ripeto, la bellezza della pulizia degli
scritti di Ricciardi, sta proprio in questi piccoli tocchi, e nella figura di
Ottavio Ponzetti. Un commissario senza grandi difetti, che non è permaloso,
intrattabile o altro. E che soprattutto, come me, ama passeggiare per la nostra
città, con gli occhi aperti sulle sue meraviglie. Una lettura non eccelsa, ma
sempre gradevole.
Giovanni Ricciardi “La vendetta di Oreste”
Fazi editore 16 (in realtà, scontato a 12,80 euro)
[A: 04/10/2020 – I: 23/09/2023 – T: 24/09/2023]
&&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 221; anno:
2019]
Passiamo quindi al nono e credo, per ora,
ultimo romanzo uscito dalla penna del professor Giovanni Ricciardi. Un libro
che realmente segue il crinale del precedente, andando oltre, verso un giallo
che non è più giallo. Verso una ricerca di verità nascoste, intessute da una
trama interessante, e purtroppo poco nota. Tanto che, a sorpresa, nel 2020, fu
anche inserito nei cinquanta libri che costituirono la base per la scelta del
romanzo premiato poi con il Premio Strega (non andò molto avanti, e quell’anno
il premio fu vinto da un libro che per altre ragioni, spiegate in altre trame,
a noi si caro viene, “Il colibrì” di Veronesi).
Il non-giallo si concretizza nella ricerca
che Marco Zarotti, figlio di Oreste, chiede ad Ottavio (non al commissario, ma
all’uomo). Ottavio aveva conosciuto Oreste, un geometra pacato, onesto.
Amicizia rimasta nell’aria del tempo, che ognuno ha il proprio tempo da vivere.
Oreste muore senza riuscire a parlare con Ottavio, come avrebbe voluto. Dieci
anni dopo muore anche la moglie. Mettendo a posto le carte, Marco trova due
“cose” strane: una lettera che inizia con “Caro Ulisse…”, ed una pistola a nove
colpi ma con solo sette proiettili nel tamburo. E chiede a Ottavio di indagare
su questo mistero.
Comincia così la “Chanson de Gest” dei nostri.
In primo piano, oltre ad Ottavio, il sempre fido Iannotta, ma anche Maria, la
seconda figlia, l’irrequieta, che nell’aiuto al padre trova uno scopo e forse
qualcos’altro. Si scava allora sulla figura del geometra, che geometra non era,
o non era stato per molto tempo, avendo passato gli esami professionali solo
poco prima di andare in pensione. Ma produceva progetti, firmati da un amico
architetto. Con il quale faceva anche viaggi di lavoro. Viaggi che, negli anni
Novanta, con le crisi economiche finiscono. Non per Oreste, che continua ad
assentarsi (primo mistero) senza svelarne i motivi.
Come detto, poi a passare gli esami, fornito
di un attestato di un Istituto Tecnico, una prova superata negli anni Cinquanta
a Trieste. Così Maria si sposta al nord, per seguire questa traccia, e
trovandone riscontri tra il Veneto, la Venezia Giulia e poi anche l’Istria.
Mentre Ottavio segue le tracce rimanendo a Roma, parlando con tutti, con Marco,
con la sorella di Marco, con una lontana zia (lontana di discendenza, non di
età). L’unione di tutti gli sforzi porterà a scoprire la natura delle prove
sopra citate. Porterà a scoprire l’intera storia di Oreste, dei suoi amori,
della sua vita, dei suoi odi, dei suoi perdoni, anche di un quadro che ad un
certo punto compare per mescolare le già ingarbugliate carte.
Come vedete un non-giallo che è una ricerca
sull’identità, ed è permeato da tutta una storia che è altra, ma che è
strettamente legata ai personaggi. Che gli Zarotti vivevano in un particolare
quartiere di Roma, verso l’Eur, chiamato “villaggio giuliano-dalmata”. Ed
Oreste era di Pola, mentre Nina, la moglie, di Fiume. Così che Ricciardi ha
modo, parlando di loro, di parlare della vicenda dei profughi istriani. Nina
parte per Roma già nel ’47, anno in cui Istria viene consegnata alla
Jugoslavia. Oreste solo nel ’54. Entrambi poi per ritrovarsi vicino l’Eur, e
costruire la loro vita insieme. Ma Ricciardi ci parla anche dei drammi degli
esuli, delle zone triestine dilaniate, delle foibe. Insomma, di tutta una parte
di storia per lungo tempo rimossa, e che solo da pochi anni si riesce a
ripercorrere, a farne vedere appunto il doloroso percorso.
Ricciardi inserisce anche un personaggio
storico, Maria Pasquinelli, una convinta fascista, all’epoca, che il 10
febbraio 1947 uccide con un colpo di pistola il brigadiere generale Robert de
Winton, comandante della guarnigione britannica di Pola, nel giorno in cui, con
la firma a Parigi del trattato di pace, Pola e la Dalmazia venivano ceduti alla
Jugoslavia.
Cosa c’entra tutto questo con Oreste Zarotti
è la materia che riempie il libro, e che solo per questo assurge ad una sua
dignità di lettura, ai miei occhi. Che però si completa con altre due
coincidenze: mia suocera Laura viene proprio da Trieste, anche se andò via
prima dei fatti narrati, ma che a Trieste è sempre rimasta legata. L’altro è un
curioso caso di sovrapposizione di date. Oreste muore, dopo una frattura
femorale, nel 2008. La moglie Nina muore di vecchiaia nel 2018. Esattamente le
stesse date della morte dei miei genitori.
Spero che Ricciardi continui ancora a tessere
le sue trame romane di gialli poco gialli, che mi mancano le passeggiate di
Oreste per la città e la scoperta dei suoi (di Roma) angoli segreti (anche se
qui fanno capolino la biblioteca di San Marco Evangelista al Giuliano-Dalmata,
l’ospedale Sant’Eugenio, il Museo di Palazzo Merulana e l’Esquilino, dove
tornerei volentieri a chiacchierare a casa del mio amico Ciccio).
Allora, come detto, dovendo con dispiacere
lasciarvi per un po’ di tempo, vi riempio le pagine e la mente di una serie di
frasi che sono rimaste nel retino della mia memoria a valle della lettura di “Rossovermiglio” scritto da Benedetta Cibrario.
Una
frase d’amore: “Allora ebbi solo l’indubitabile certezza di essere bella, ai
suoi occhi, come mai più sarei stata agli occhi di qualcuno” (28), ed una sui
sentimenti: “Se sono stata pigra, forse lo sono stata di sentimenti: ho
faticato a esprimere un’emozione o un turbamento. Sono stata semmai una
lunediante del cuore” (81) (lunediante = operaio che non si presenta al lavoro
il lunedì mattina per smaltire l’ubriacatura della domenica, per esteso
sinonimo di pigro).
Alcune
frasi sullo scorrere degli anni e sui rapporti tra la gente: “Se osserva la
propria vita a ritroso, ognuno di noi è in grado di valutare il peso di alcuni
momenti, che, per lo più, si sono annunciati in sordina – mattine annoiate, o
serate che avrebbero dovuto essere uguali a tante altre e che invece,
inopinatamente, sono state dei punti di svolta” (65); “Penso che non conosciamo
mai veramente le persone. O forse, dobbiamo ammettere che gli individui
cambiano, che le loro qualità nascoste emergono in superficie o s’inabissano
definitivamente quando la vita entra in rotta di collisione con loro” (94); “Curioso
come alla volte, per conquistare ciò che si desidera fortemente, ci vogliono in
pari misura coraggio e sventatezza.” (105)
Una
frase che mi ha riportato al mio nomadismo: “I veri nomadi, lo so, hanno uno
sguardo fermo e sereno, quando osservano il mutare dei paesaggi e delle
consuetudini; uno sguardo che guarda fisso, avanti; è la prossima tappa ciò che
conta, non quello che si lascia dietro; non li turba il cambiamento, né quella
forma più sottile e incurabile di mutazione che è la sparizione.” (202).
Finendo
con una considerazione, amara forse, ma sempre più reale: “sono invecchiata
rapidamente, un secolo mi è sgusciato tra le dita in un soffio. Quando mi
guardo indietro, mi pare di aver avuto vent’anni fino a ieri l’altro. Ne ho
invece più di ottanta, anche se tutti si fa finta di non pensarci. Come si dice
nel calcio, siamo giocatori in panchina …; in attesa di uscire, però, non di
giocare” (142)
Quindi, finiamo con i soliti auguri di fine anno per poter affrontare serenamente un anno che pur bisestile ha una scomposizione intrigante (2024 = 23x23x11).
Tanti auguri!!!
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