Per completezza,
anche le frasi-ricordo vengono da scritture inglesi, e, visto il ritorno dal viaggio,
giustamente di viaggi trattano.
Kent
Haruf “La strada di casa” Corriere Americana 4 euro 8,90
[A: 26/07/2023 – I: 22/09/2023 – T: 23/09/2023]
- &&&& e ½
[tit. or.: Where you once belonged; ling. or.: inglese; pagine: 190; anno 1990]
Devo
dire che erano diversi anni che non mi capitava di leggere un libro così: bello
e intenso. Avevo sentito parlare di Haruf: nei consigli librari, nelle parole
di Fabio Stassi emergeva come una possibile lettura proficua. Ma i casi dei
libri non mi avevano ancora avvicinato all’autore. C’è voluta la collana del
Corriere, pensata e curata da Sandro Veronesi, per farmi giungere un libro di
Haruf, ed altre coincidenze per farmelo leggere in tempi bravi. Risultato: un
libro da non dimenticare e da consigliare.
Un
libro che, a parte la storia in sé, di sicuro interesse, ti fa capire l’America
meglio di tanti possibili servizi filmati. L’America profonda, non quella delle
due coste, che è l’America di facciata, un po’ spocchiosa, un po’ alternativa.
Haruf costruisce tutta la sua opera su di una fittizia cittadina del Colorado,
Holt. Lì ambienta le sue storie, in quel teatro unico della provincia
americana, le lunghe distese di campi coltivati, le strade diritte che portano
all’improvviso ad una casa, una chiesa, un benzinaio e una taverna. Dove la
gente vive la propria vita, nelle proprie attività, poi si accendono i lampioni
tra il pomeriggio e la sera, si va nei dinner, si beve caffè improbabile, si
mangia, si condivide qualcosa. Soprattutto problemi, rancori, stati d’animo
tristi e sconsolati. E pur tuttavia, anche momenti di piccola felicità.
Holt
è un paradigma, da dove sbucano fuori anche personaggi epigoni, eredi di quei
pionieri che si sono persi nell’Ottocento partendo del finto benessere
newyorchese senza arrivare all’eldorado californiano. C’è lo sceriffo,
scorbutico quanto basta; dato che si coltiva la terra, c’è la cooperativa
agricola con il suo amministratore; c’è l’ingenua ragazza che sperava; c’è
l’orgogliosa donna che non è di Holt ma che diventa più holtiana di tutti; c’è
l’eroe locale che tanto eroe non è; c’è il giornale cittadino, ed il suo unico
cronista. Insomma, c’è l’America che forse non sa neanche dove sia Piazza dei
Miracoli, ma che sorregge quell’economia globale da cui molto del nostro mondo
dipende.
In
questo microcosmo, Haruf riesce a costruire uno stupendo meccanismo ad
orologeria. Descritto con belle parole, visto che l’io narrante, nonché
comprimario della storia, è Pat, il cronista di cui sopra. Vediamo così tornare
lì “dove abitava una volta” (questo il titolo inglese sulla cui diversione
italiana indico ma non torno), Jack. Una volta l’eroe locale, campione di
football e di bravate, poi scomparso otto anni prima a fronte di qualcosa che
ancora non sappiamo ma che fece incazzare tutta la città. Ed ora ritorna,
invecchiato, imbolsito, ma arrogante come al solito, pieno di sé, pronto ad
ergersi paladino dei suoi diritti, pur se palesemente in torto.
Pat
ne registra l’arrivo, poi comincia un lungo flashback che ci riporta alla
giovinezza sua e di Jack, e da lì riparte per svolgere il filo del tempo,
ricongiungendolo nel finale.
Vediamo
le bravate di Jack, l’amicizia con Pat, che poi, quando si passa
all’Università, si raffredda e si spegne. Vediamo Jack che corteggia una
ragazza del paese per anni, ovviamente la più bella, senza mai decidersi.
Vediamo che viene cacciato dall’Università, che entra nella cooperativa, ne
diventa amministratore. Vediamo come, inopinatamente, in una cittadina lontana,
incontri Jessie, la sposi e torni con lei in paese. Capiamo come cominci a
montare una fronda che sale a poco a poco, sulle sue attività. Un conto erano
le follie giovanili, ora si tratta di soldi, e sui soldi l’americano non
scherza.
Poi
succede quel che leggerete, Jack scappa in California, lasciando Jessie ed i
figli soli. Qui vediamo crescere la figura di Jessie, che, senza cedere di un
passo, riprende in mano la sua vita dal basso. Convergendo poi con il narratore
Pat, tutto narrato con delicata finezza. Un esempio: quando Pat accenna di
essere stato sposato, indica l’esistenza dell’ex sposa Nora (non poteva farne a
meno); ma Nora non fa parte di questa trama, così Haruf e Pat la lasciano da
parte, con tatto e con fermezza.
Ma
ora Jack è tornato, Jack che ha fatto i suoi calcoli e sa cosa vuole. E noi,
con Pat, Jessie, Jack e tutta Holt ci avviamo al finale. Che non potrà che
essere consono a tutta la scrittura dell’autore, a tutta la sua visione della
vita. Uno di quei finali che a me, chiuso il libro, mi lasciano lì a pensare ed
immaginare cosa faranno le persone che con tanta partecipazione ho seguito per
quasi duecento pagine.
Haruf
ci fa capire che tutti abbiamo una storia che merita di essere raccontata.
Bisogna trovare le parole giuste, ed il giusto modo di presentare le persone, i
luoghi, le situazioni. Scrittura in cui Haruf eccelle, con il suo stile
asciutto, ma che va subito verso il centro dei problemi (ed il cuore del
lettore). Un western senza pistole? Una country story della provincia profonda?
Non so, a me è piaciuto. Ho sentito
l’eco di quando quarant’anni fa giravo solitario per i dinner in Arizona. Era
tanto tempo che una scrittura non mi faceva questo effetto.
Vedremo
di leggerne ancora.
Abraham Verghese “Il patto dell’acqua” Neri Pozza s.p.
(Regalo di Emilio&Fako)
[A: 12/09/2023 – I: 08/10/2023 – T: 11/10/2023]
- &&& e ½
[tit. or.: The Convenant of Water; ling. or.: inglese; pagine: 734; anno 2023]
Questo libro, regalo compleannico
ritardato, nasce dalla segnalazione del mio amico Amos, anche se ne aveva
sentito parlare ed ero in dubbio sul suo acquisto. Una spinta che ha portato ad
una buona lettura. Certo, con qualche punto in minore su cui torneremo, ma
anche corredato da alcuni punti di bella scrittura, alcuni rimandi a luoghi
sempre a me cari, ed una trama nel complesso ben congeniata.
Verghese è comunque una personalità
complessa, come il suo scritto (o forse i suoi scritti, che mi hanno parlato
bene del suo precedente libro “La porta delle lacrime”). Nato in Etiopia da
genitori indiani del Kerala di fede cristiana, laureatosi in medicina a Mumbai,
poi trasferitosi negli Stati Uniti ed ancora lì residente. Questo patto nasce
in fondo come una confluenza di tutte queste esperienze. Si parla di acqua, e
nel Kerala le statistiche dicono che, per vari motivi, circa mille persone
l’anno muoiono annegate. E si parla di medicina, laddove purtroppo queste parti
sono forse le meno “sciolte” del testo, dove, essendo Abraham stesso medico,
deve essere preciso nelle descrizioni, a scapito di una trattazione più
facilmente fruibile da tutti i lettori.
Ma l’epopea che ci narra va al di là
di questo e coinvolge anche altri sentimenti e sensazioni. Il tentativo, in
alcuni punti ben riuscito, di dare un volto alle relazioni umane, coinvolge
nello scritto di Verghese tutta una serie di sentimenti: l’amore, ovviamente,
il senso di identità, lo scontro, sempre presente in India, tra tradizione e
modernità, il valore del dovere, la fede.
La storia è narrata a più voci, ma comincia
e finisce nello stato del Kerala, anche se all’inizio, nel 1900, siamo a
Travancore, nella costa del
Malabar, mentre finiremo nel 1977 nel lebbrosario di Saint Bridget, in quello
che ormai è divento lo stato del Kerala.
La prima voce narrante è quella di
Ammachi (che poi diventerà la “Grande Mamma” della saga). Ed inizia con lei
dodicenne che va sposa ad un agricoltore vedovo di 40 anni con JoJo un figlio
di poche settimane. Qui già si vedono le tradizioni dell’India ancestrale: i
matrimoni combinati, le spose bambine, il trasferimento della sposa nei
possedimenti del marito. Ammachi era nata vicino all’acqua, di cui sentirà
sempre il bisogno. La famiglia del marito è invece lontano da ogni rivolo che
scorre, dove Ammachi si accorgerà che l’acqua è una grande componente oscura di
quella famiglia. In ogni generazione, anche tenendosene lontani, c’è qualcuno
che a causa dell’acqua muore. Una strana “malattia”, che Ammachi battezza “il
Morbo”.
Annegato muore JoJo, ma sarà solo uno dei
tanti dolori che attraversano il testo. Ammachi si conquisterà un posto nella
nuova casa e nel cuore del marito. Nascerà una prima figlia, Baby Mol, cui
verrà diagnosticata la malattia di Darwin, ma che vivrà nella sua innocente
giovinezza per decine e decine di anni. Poi verrà il maschio, Philippose,
apparentemente in salute, anche se, pure lui, con una strana idiosincrasia per
l’acqua.
Dopo aver seguito a lungo Ammachi, la penna
di Verghese si sposta su altri due personaggi. Prima il medico svedese Rune
Orqvist, grande chirurgo, che ad un certo punto abbandona onori ed ospedali,
per fondare il lebbrosario di Saint Bridget. La storia di Rune si intreccerà
con quella di un altro dottore, lo scozzese Digby Kilgour. Venuto in India, non
avendo trovato sbocchi in patria per l’ostracismo degli inglesi, si dimostra un
grande chirurgo. Ha però la sventura di innamorarsi di Celeste, e durante una loro
notte clandestina, una candela cade, incendia la stanza, Celeste muore e lui ha
le mani irrimediabilmente rovinate. Sarà Rune a curarlo, con l’aiuto della
piccola Elsie, figlia di amici e fin dalla gioventù valente disegnatrice. E
sarà Digby che, non potendo comunque operare, alla morte di Rune deciderà di
dedicarsi al lebbrosario.
Nel corso del tempo, Philippose ed Elsie,
per casualità, si incontrano, si sposano, fanno un figlio, che tuttavia,
durante una tempesta tropicale si arrampica su di un albero, cade e muore
(sempre l’acqua di mezzo). Grande crisi tra i due che neanche Ammachi e Baby
Mol riescono a placare. Elsie si allontana, ma torna per la morte di Baby Mol.
Dopo un'unica notte di amore, e dopo alcuni mesi, nasce Mariamma, ma Elsie
scompare, forse suicida.
Seguiamo quindi la quarta voce, quella di
Mariamma, la sua crescita, l’intrecciarsi della sua vita con il piccolo Lenin,
che, una volta cresciuto, si rivela un acceso rivoluzionario, collegandosi ai
rivoltosi detti “naxaliti” (uno dei tanti inserti della storia grande
dell’India nella storia delle piccole persone del libro). Non vorrei entrare in
questi contesti, ma Mariamma sarà l’unica della grande famiglia finalmente ad
intraprendere la professione medica. Che le sarà utile, una volta morte anche
il padre per annegamento, al fine di scoprire l’origine del Morbo, ed una
possibile via di soluzione al problema.
In questo aiutato dal dottor Digby, che
salverà Lenin dalla morte. Motivo per cui Mariamma passa molto tempo nel
lebbrosario stesso, dove riuscirà ad annodare tutti i fili sparsi nelle 700
pagine del libro.
Verghese affonda la sua penna in tutti
questi problemi: la politica (dal giogo britannico all’Indipendenza, dalla
spartizione dell’India in due stati alle lotte dei naxaliti, fino alla vittoria
del partito comunista ufficiale nelle elezioni del Kerala), l’economia (con la
progressiva spoliazione dei latifondi agricoli), la religione (il Kerala ha una
forte componente cristiana, discesa dalla conversione che portò in loco intorno
al 60 d.C. San Tommaso, quello che dubitava; tutta la grande famiglia di Ammachi
è cristiana così come Verghese stesso).
Quello che però conta di più è la
solidarietà che si esprime tra tutti i personaggi positivi del romanzo, che,
anche dopo grandi dolori, alzano la testa e continuano la loro vita. Una grande
prova di umiltà e di rispetto reciproco.
Anche se poi l’acqua serve a far comprendere
il problema della stirpe locale, il patto del titolo è poi qualcosa di più
ampio. Verghese scrive che è il forte legame, sincretico, che, attraverso tutti
gli atti (commessi od omessi) unisce le persone. Grazie a questo patto, che si
incarna nella Grande Mamma Ammachi, nessuno è solo.
Un finale di speranza, che di questi tempi
non fa mai male.
“Sono
felice di essere vecchia, perché mi verrà risparmiato ciò che prepara il
futuro.” (380)
“Si
rende conto che è solo quando entrambi i genitori sono morti che si smette di
essere bambini, di essere figli. Da poco lei è diventata adulta.” (606)
Patrick deWitt “L’uomo che amava i libri”
Neri Pozza s.p. (Regalo di Cristina)
[A:
25/12/2023 – I: 29/12/2023 – T: 31/12/2023] - &&
[tit.
or.: The Librarianist; ling.
or.: inglese; pagine: 316; anno 2023]
Ultimo libro letto nel 2023, regalo natalizio
della cognata. Un buon inizio, che procede per quasi metà libro. Il resto,
purtroppo, scade molto di tono e di intensità. Anche se l’autore ha un suo
interesse. Canadese nato sull’isola davanti Vancouver (visitata qualche anno fa
alla ricerca, positiva, di megattere), mille lavori per il Nord America, per
poi sistemarsi come scrittore a Portland nell’Oregon (che a me fa sempre venire
in mente la stupida canzone di Pippo Franco, che vediamo chi la ricorda).
Non è che scriva molto, invero, ma ha
prodotto un divertente libro (“The Sisters Brothers”) da cui venne tratto un
discreto film. Ed anche un racconto, da lui poi sceneggiato per il cinema dove
è uscito nel 2020 con il titolo “Fuga a Parigi” ed interpretato da Michelle
Pfeiffer.
Questo è il suo quinto libro in quindici
anni di scrittura, dove torna ad ambientare la storia proprio a Portland dove
vive. Il protagonista è Bob Comet, settantuno anni, bibliotecario in pensione e
divorziato da quarantacinque anni.
La struttura del testo riprende un vezzo
assai comune negli scrittori attuali. Si comincia con una storia più o meno
coeva alla lettura (anche se qui, in realtà la prima parte si svolge nel 2006),
per poi saltare indietro al fine di farci meglio conoscere il protagonista,
prima verso la metà degli anni Cinquanta, poi negli anni Quaranta subito dopo
la fine della Guerra, per finire tornando al presente, ancora più attuale
dell’inizio.
Ribadisco quanto detto sopra, la prima metà,
sia del settantenne che del ventenne Bob sono gradevoli. La parte su Bob
ragazzo mi è sembrata inutile e lunghetta (ed anche a volte noiosetta), laddove
il finale ci può stare ma non aggiunge molto a quanto si poteva intuire nella
prima parte. Certo è che, alla fine, abbiamo un quadro di Bob abbastanza
completo.
Bob è stato sempre uno che si è guardato
vivere, che si pensa come una persona anziana ordinaria, né buona, né cattiva,
né felice, né infelice. Basta che possa stare con i suoi libri, che hanno
sempre fatto parte della sua vita. Ed ora anche alle sue passeggiate per le
strade di Portland. Dove proprio una di queste gite senza meta gli cambierà la
vita.
Ma facciamo un salto, così che possiamo
vedere il ragazzo Comet, sempre in lite muta con la madre, decidere di scappare
di casa. E trovarsi, anche se non sono molti i ragazzi di undici anni che se ne
vanno in giro senza parenti, in un Hotel sulle rive del Pacifico, invischiato
in uno strano rapporto con il padrone dell’albergo e con due attempate signore,
Ida e June, organizzatrici di spettacoli per villeggianti. Bob sente la libertà
fluire nelle sue azioni, ma il fluire viene bloccato dalla polizia che vuole
riportarlo a casa. E lui china la testa.
Si porterà sempre appresso questa mancanza
di iniziativa, come si porterà nel cuore questa parentesi di vita. Il suo sogno
di libertà che non troverà più.
Che il mondo va avanti, e lui torna sui suoi
libri, tanto che troverà la sua realizzazione come bibliotecario. E nella
biblioteca, o intorno ad essa, farà i due incontri fondamentali dei suoi vent’anni:
Connie, l’unica donna che ha amato nella sua vita, ed Ethan, l’unico vero
amico. Due persone sopra le righe, che lo coinvolgono, che lo fanno sentire
vivo. Soprattutto Ethan con le sue follie. Tanto che riesce a sposare Connie.
Ma non a tenerla con sé, che dopo qualche anno, come avrete capito, Connie lo
lascia per Ethan. E se ne vanno, lasciandolo ai suoi libri. Magari
lanciandogli, muti, una forte domanda: “Perché non vivi invece di leggere?”.
Ma leggere, per Bob, è la vita. Nei libri
trova il mondo che non lo delude. Fino a che, appunto, in una passeggiata
incontra una donna, Chip, sulla via della demenza senile, fuggita senza
rendersene conto dalla residenza per anziani Gambell-Reed. Dove Bob la riporta,
e dove inizia a capire che potrebbe esserci altro nella vita.
Convinto dalla simpatica Marta che gestisce
il centro, prima prova a imbastire letture per gli anziani (senza successo), poi
soltanto a stare con gli anziani del centro. Dove, e noi con lui, conosciamo il
simpatico e sboccato Linus, dongiovanni non pentito costretto dall’obesità alla
sedia a rotelle, o la depressa Jill, ossessionata dai puzzle, o la stessa
“proto-Alzheimer” Chip.
Incontri che porteranno a sorprese che non
vi dico, alla decisione di Bob, ad un certo punto della sua vita, di entrare
anche lui nel centro. Dove finalmente, pur non liberandosi dai libri (anche
perché non lo vuole) troverà uno spazio fisico e mentale “tutto per sé”.
Forse, allora, riuscirà a rispondere
positivamente al direttore dell’albergo della sua infanzia che lo esortava ad “accettare
la felicità quando ti passa davanti”.
Ripeto, non è un brutto libro, e mi ha
coinvolto nella lettura nella sua prima parte, in quanto anziano ed in quanto
lettore. Non trovo però corretta la separazione tra vita e libri. Bisogna avere
la testa, ma si può fare. Che chi legge è un viaggiatore, mentre che si lascia
leggere dai libri è solo un turista.
Una sola domanda finale: perché modificare
il titolo da bibliotecario ad amante dei libri? Vero è che “librarianist” è un
po’ più di “librarian”, ma il titolo italiano mi convince solo fino ad un certo punto.
“Era
… in pensione, aveva settantun anni, e non era infelice. Stava bene in salute e
passava le sue giornate a leggere, cucinare, mangiare, riordinare la casa e
fare passeggiate.” (9)
Denis Johnson “Jesus’ Son” Corriere Americana 26 euro 8,90
[A:
22/12/2023 – I: 01/01/2024 – T: 02/01/2024] - &&
[tit.
or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 98; anno 1992]
Devo comunque riconoscere a Sandro Veronese
la capacità di proporre in questa collana del Corriere testi interessanti. Non
sempre eccelsi, non sempre nelle mie corde, ma sempre con particolarità e
spunti. Quindi, almeno per ora, un ottimo voto al curatore.
Purtroppo, questa lettura, pur facendomi
conoscere un autore che non era nelle tracce delle mie ricerche librarie, è un
libro di racconti che, interessanti per sé ed anche curiosamente
cross-referenziabili, nel complesso mi hanno fatto mancare quella spinta alla
partecipazione che opere più compatte mi consentono di esplorare.
Certo è anche che, pur racconti, hanno un
che di “unitario”, tant’è che sono stati oggetto di un film di culto nei tardi
anni ’90, dove i vari episodi, i vari momenti, venivano uniti dalla presenza di
uno stesso personaggio, rendendone possibile una lettura romanzesca non
episodica.
Altro merito del romanzo è avermi fatto
conoscere Denis Johnson un autore non certo di gran notorietà all’estero, pur
ben noto in patria. Con una fama di scrittore di nicchia, non prolifico, con
alcune buone riuscite (tra cui un National Book Award per il suo “Albero di
fumo”). Ma noto soprattutto per questa raccolta di schizzi pubblicati
originariamente sul “The New Yorker” uno dei più noti periodici americani). Uno
scrittore che, come molti outsider, fece molti lavori e passò una giovinezza di
alcool e droga, per poi uscirne verso i trent’anni e cominciare a scrivere. O
meglio a scriverne, visto che, come in questi racconti, molto viene da quelle
esperienze.
Johnson è poi morto di cancro al fegato
sette anni fa all’età di 67 anni.
Ma veniamo ai testi, che sono uniti dall’io
narrante, partecipe in molte azioni, e di cui scopriremo ad un certo punto non
il nome, ma il soprannome “Fuckhead” (“Testadicazzo”) dato che “ogni cosa che
tocca si trasforma in merda”. Sono storie di uomini e donne, perduti nella
droga e nell’alcool, che sopravvivono in una provincia inquietante (i racconti
sono ambientati nell’Iowa e spesso in un bar chiamato “Vine”). La bravura di
Johnson sta da un lato di scriverne e raccontarne come se anche noi fossimo in
qualche stato allucinatorio, nel capovolgimento di fronte cui spesso ci fa
assistere (per un po’ empatizziamo con un protagonista, fino a che questi,
improvvisamente e senza ragione alcuna, prende una pistola ed ammazza qualcuno.
Altro dato, forse collegato a quanto sopra,
è l’apparente casualità di quanto accade, con una slegatura tra le scene, per
cui in un racconto c’è una scena di sesso tra il narratore ed una donna, dopo
di che lui va al bar, incontra l’amico Wayne, succedono altre cose, il racconto
finisce e di quella donna non sappiamo più nulla.
Non è certo un caso che il libro si apre con
una citazione di un verso della canzone “Heroin” cantata da Lou Reed quando era
con i “Velvet Underground”: “When I’m rushing on my run / And I feel like
Jesus’ son”, da dove Johnson prende anche il titolo della raccolta.
Seguiamo allora Testadicazzo nelle sue
avventure/disavventure. Ha un incidente d’auto ("Incidente durante
l'autostop") mentre fa l’autostop completamente fatto, ma ce ne
parla anni dopo in un periodo di disintossicazione. Cerca di portare a casa un
uomo apparentemente muto ("Due uomini"), ma forse solo
stordito dalle droghe per poi cercare il venditore delle suddette. Narra di
quando falsificava assegni ("Fuori su cauzione") per
procurarsi la droga con Jack, che alla fine muore di overdose e lui esclama:
“Sono ancora vivo!”. O di quando va a cercare un pusher (“Dundun”) e
scopre che questi ha appena sparato ad un tizio. Poi riprende una narrazione
dei due uomini di qualche storia prima ("L'altro uomo"),
dicendo di voler parlare del secondo, per poi narrarci la storia di finto
polacco di Cleveland. Di quando cerca una ballerina per tutta la notte ("Happy
Hour") o quando, con l’amico Bill cerca l’aloperidolo (un
disintossicante) in un ospedale di Seattle ("Mani ferme al Seattle
General").
Ma i tre racconti eponimi sono “Lavoro”,
quello che comincia con la scena sopra descritta, prosegue con l’incontro con
Wayne, con il furto di rame in una casa, e con una solenne bevuta pagata dalla
vendita del rame. Sono “Matrimonio sporco” dove narra il suo rapporto
con Michelle, lei che rimane incinta, lei che abortisce, lei che lo lascia e va
a vivere con John, un altro spostato. Lei che va in overdose, ma John,
completamente fatto, non se ne accorge e la lascia morire. Sono “Emergency”
dove narra il suo lavoro come addetto alle pulizie in un ospedale, le
vicissitudine del Pronto Soccorso, la morte dei coniglietti che voleva
allevare. Solo qui c’è una punta di speranza, che il nostro finisce in un
programma di recupero e inizia a mantenere un lavoro stabile scrivendo una
newsletter per i residenti di una casa di cura.
Lavoro che riprende nella storia conclusiva,
parlando del suo recupero come aiutante nella casa di cura “Beverly Home”,
perché si accorge di star migliorando un po' ogni giorno in mezzo a persone che
chiama "strambi", che poi qualifica “strambi come me”.
È di sicuro un libro che esce dai canoni,
che mostra uno scrittore ed una scrittura fuori dall’ordinario, ma che non mi
ha fatto scattare moti dell’anima.
Ottima, infine, la traduzione dei testi da
parte di Silvia Pareschi.
Philip Roth “L’animale morente” Corriere Americana 11 euro
8,90
[A: 12/09/2023 – I: 03/01/2024 – T: 04/01/2024]
- &&
[tit. or.: The Dying Animal; ling. or.: inglese; pagine: 113; anno 2001]
Tra
l’altro, secondo la critica (ma io non ne ho letto), questo dovrebbe essere il
terzo elemento di una trilogia dedicata allo stesso personaggio, l’erudito
David Kepesh. Il primo libro è del ’70, si intitola “Il seno”, ed è una
rilettura erotica di Kafka, laddove David si trasforma in una enorme mammella.
Il secondo, del ’77, è “Il professore di desiderio”, dove David narra della sua
vita da studente ed i suoi inizi di professore, sempre alle prese con i propri
desideri erotici, altalenanti tra repressione interna e sfogo socialmente poco
accettato.
Dopo
quasi 25 anni, ecco che il professor Kepesh ritorna. Ormai è affermato, anzi
avviato quasi alla pensione. Eppure continua a tenere corsi universitari, anzi
un corso, sempre con lo stesso titolo “Critica pratica”, ma che adatta ogni
anno alla sua sensibilità, ed alla platea studentesca che lo ascolta. Laddove
il solo scopo reale di David nel tenere il corso è individuare una preda tra le
sue studentesse, e, dopo la fine del corso, abbordarla e portarsela a letto.
Rimane
così, anche qui, il punto cruciale di tutta la produzione di Roth, l’ossessione
per il sesso. Anche se in questo romanzo, visto che l’autore si avviava alla
settantina, a quella si aggiunge l’ossessione – paura – interrogazione intorno
alla morte. Ovvio, la sua in prima istanza, ma anche delle cose e delle persone
intorno a lui.
L’elemento
diversificante dell’anno di cui David ci narra in prima persona è la comparsa,
tra le sue studentesse, di un’esule cubana di famiglia benestante, Consuela
Castillo. Un’apparizione per David, che ne ammira l’eleganza, il portamento,
anche alcuni tratti di intelligenza, ma che per lui tutto si concentra
sull’elemento cruciale: Consuela ha dei seni bellissimi. E su questi si
concentra tutta l’attenzione e l’erotismo di David.
C’è
una bella differenza di età tra i due (lui affermato più che sessantenne, lei
sui venticinque pieni), ed anche di vita sociale. David, oltre alle lezioni,
tiene un momento di critica letteraria in televisione, cosa che lo ha fatto
conoscere al gran pubblico, aumentando le presenze ai suoi corsi universitari.
Consuela è una normale studentessa, con i normali giri di amicizia e di studio
propri della sua età.
Anche
per questa discrasia, i due, dopo che David l’ha efficacemente sedotta, tendono
a fare sesso, ma non a frequentarsi in pubblico. David paventa di non saper
cosa dire in una riunione con i coetanei di Consuela, e lei ha paura di essere
paparazzata nei momenti pubblici di David.
Va
così avanti una relazione sbilanciata, in cui Roth ha tutto l’agio di mostrarci
le profondità erotica del suo personaggio, con punto che, personalmente, non mi
hanno convinto sino in fondo, ma d’altro canto è lui che scopa in quel modo, ed
io chi sono per giudicarlo? Inoltre, David non si accontenta, che porta avanti
anche altre relazioni, in particolare con la più matura Helen, anche se, pure
in questo caso, si parla di sesso e mai di amore.
Quando
però David buca la festa di compleanno di Consuela, anche perché in quella
erano presenti anche i genitori della ragazza, la bella cubana lo manda a quel
paese. Il sesso si tronca, anche se David continua ancora ed ancora a ripensare
a lei ed al suo seno.
Alcuni
anni dopo (due?) Consuela si palesa improvvisamente. E qui si ricongiunge il
senso della morte che era presente inizialmente nel solipsismo di David. Ha un
tumore al seno, deve subire una mastectomia, e desidera celebrare la fine di
parte del suo corpo con colui che solo era riuscito ad esaltarlo. Non sappiamo,
né ci interessa, come sia la prosecuzione, l’operazione, cosa ci sarà. Qui, è
bene fermarsi, come si ferma Roth. Ha cominciato con un seno gigante, ed ora
finisce con la privazione del seno. Un cerchio che si chiude.
Dicevo
anche dell’altra ossessione di Roth sulla fine, intorno a cui si interroga, e
che riporto, ovviamente alla mia maniera, nella citazione finale. C’è anche un
timido accenno al rapporto tra Kepesh e suo figlio, ma a me è scivolato via
senza lasciare traccia. Come scivola via la figura di David. Non mi è
simpatico, anzi, leggendone, mi diventa sempre più ostico ed ostile. Capisco
che si possa amare il sesso, ma non si può vivere senza amare. Anche la pur
cruda ed in parte condivisa riflessione sulla vecchiaia, al fine è sterile,
come quasi tutta la produzione letteraria di Roth che ho letto. Per cui
mantengo le mie posizioni critiche nei suoi confronti ed una voluta distanza
con i suoi scritti.
Come
detto, in questa trama ritornante, non possono non parlare, anche, di viaggi. Ed
allora come non pensare a Evelyn Waugh ed al suo “Quando viaggiare era un piacere”!
Una serie di frasi con un finale che credo
Waugh abbia scritto appositamente per me:
“Io non ho mai aspirato a essere un grande
viaggiatore. Sono stato, più semplicemente, un giovane tipico del mio tempo: si
viaggiava perché ci veniva naturale farlo” (15)
“Mi rendo conto che, qualunque cosa possa
accadermi, e per quanto io possa dispiacermene, … non riuscirò mai a diventare,
nella realtà, un uomo di mondo, di quel tipo che si legge nei romanzi”
(199)
“Mi
trovavo di nuovo… [a Londra] in un posto dove andavano tutti … [ma] dove il
caldo era più insopportabile di quello di Zanzibar, il fracasso più assordante
di quello del mercato di Harar, e le regole della decenza e dell’ospitalità più
disattese che nelle taverne di Kabalo” (271)
“Quando si viaggia (e anche quando ci si
innamora) non lo si fa certo per collezionare materiale. Lo si fa semplicemente
perché fa parte della vita” (273)
Ebbene sì, siamo tornati e l’abbiamo vista,
la mitica “aurora boreale”. Uno spettacolo che, concordo con i più, non si
riesce a descrivere, non si riesce a farne partecipi gli altri. O forse, si
riesce a comunicarla solo a chi l’ha vista anche lui. Un viaggio in ogni caso
forte e che necessita forte sostegno del gruppo viaggiante, così come è stato.
Ora, ci vuole del riposo, anche non tanto che l’età avanza e se ne tiene conto. Per cui, canonici abbracci del lettore viaggiatore a tutti.
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