domenica 17 marzo 2024

Ritorno anglosassone - 17 marzo 2024

Pur se dispiaciuto di avervi lasciati per qualche giorno, ritorno a voi ed alla scrittura con una sequenza di letture di scrittori di lingua inglese. Con due ottimi inizi, Kent Haruf da leggere per chi non lo conoscesse (ancora) e Abraham Verghese, un po’ sotto il primo, ma con una bella storia segnalatami dal mio amico Amos. Il finale è invece sottotono: deWitt, ma soprattutto Johnson e Roth non riescono ad arrivare a quella sufficienza piena che mi sarei aspettato.

Per completezza, anche le frasi-ricordo vengono da scritture inglesi, e, visto il ritorno dal viaggio, giustamente di viaggi trattano.

Kent Haruf “La strada di casa” Corriere Americana 4 euro 8,90

[A: 26/07/2023 – I: 22/09/2023 – T: 23/09/2023] - &&&& e ½

[tit. or.: Where you once belonged; ling. or.: inglese; pagine: 190; anno 1990]

Devo dire che erano diversi anni che non mi capitava di leggere un libro così: bello e intenso. Avevo sentito parlare di Haruf: nei consigli librari, nelle parole di Fabio Stassi emergeva come una possibile lettura proficua. Ma i casi dei libri non mi avevano ancora avvicinato all’autore. C’è voluta la collana del Corriere, pensata e curata da Sandro Veronesi, per farmi giungere un libro di Haruf, ed altre coincidenze per farmelo leggere in tempi bravi. Risultato: un libro da non dimenticare e da consigliare.

Un libro che, a parte la storia in sé, di sicuro interesse, ti fa capire l’America meglio di tanti possibili servizi filmati. L’America profonda, non quella delle due coste, che è l’America di facciata, un po’ spocchiosa, un po’ alternativa. Haruf costruisce tutta la sua opera su di una fittizia cittadina del Colorado, Holt. Lì ambienta le sue storie, in quel teatro unico della provincia americana, le lunghe distese di campi coltivati, le strade diritte che portano all’improvviso ad una casa, una chiesa, un benzinaio e una taverna. Dove la gente vive la propria vita, nelle proprie attività, poi si accendono i lampioni tra il pomeriggio e la sera, si va nei dinner, si beve caffè improbabile, si mangia, si condivide qualcosa. Soprattutto problemi, rancori, stati d’animo tristi e sconsolati. E pur tuttavia, anche momenti di piccola felicità.

Holt è un paradigma, da dove sbucano fuori anche personaggi epigoni, eredi di quei pionieri che si sono persi nell’Ottocento partendo del finto benessere newyorchese senza arrivare all’eldorado californiano. C’è lo sceriffo, scorbutico quanto basta; dato che si coltiva la terra, c’è la cooperativa agricola con il suo amministratore; c’è l’ingenua ragazza che sperava; c’è l’orgogliosa donna che non è di Holt ma che diventa più holtiana di tutti; c’è l’eroe locale che tanto eroe non è; c’è il giornale cittadino, ed il suo unico cronista. Insomma, c’è l’America che forse non sa neanche dove sia Piazza dei Miracoli, ma che sorregge quell’economia globale da cui molto del nostro mondo dipende.

In questo microcosmo, Haruf riesce a costruire uno stupendo meccanismo ad orologeria. Descritto con belle parole, visto che l’io narrante, nonché comprimario della storia, è Pat, il cronista di cui sopra. Vediamo così tornare lì “dove abitava una volta” (questo il titolo inglese sulla cui diversione italiana indico ma non torno), Jack. Una volta l’eroe locale, campione di football e di bravate, poi scomparso otto anni prima a fronte di qualcosa che ancora non sappiamo ma che fece incazzare tutta la città. Ed ora ritorna, invecchiato, imbolsito, ma arrogante come al solito, pieno di sé, pronto ad ergersi paladino dei suoi diritti, pur se palesemente in torto.

Pat ne registra l’arrivo, poi comincia un lungo flashback che ci riporta alla giovinezza sua e di Jack, e da lì riparte per svolgere il filo del tempo, ricongiungendolo nel finale.

Vediamo le bravate di Jack, l’amicizia con Pat, che poi, quando si passa all’Università, si raffredda e si spegne. Vediamo Jack che corteggia una ragazza del paese per anni, ovviamente la più bella, senza mai decidersi. Vediamo che viene cacciato dall’Università, che entra nella cooperativa, ne diventa amministratore. Vediamo come, inopinatamente, in una cittadina lontana, incontri Jessie, la sposi e torni con lei in paese. Capiamo come cominci a montare una fronda che sale a poco a poco, sulle sue attività. Un conto erano le follie giovanili, ora si tratta di soldi, e sui soldi l’americano non scherza.

Poi succede quel che leggerete, Jack scappa in California, lasciando Jessie ed i figli soli. Qui vediamo crescere la figura di Jessie, che, senza cedere di un passo, riprende in mano la sua vita dal basso. Convergendo poi con il narratore Pat, tutto narrato con delicata finezza. Un esempio: quando Pat accenna di essere stato sposato, indica l’esistenza dell’ex sposa Nora (non poteva farne a meno); ma Nora non fa parte di questa trama, così Haruf e Pat la lasciano da parte, con tatto e con fermezza.

Ma ora Jack è tornato, Jack che ha fatto i suoi calcoli e sa cosa vuole. E noi, con Pat, Jessie, Jack e tutta Holt ci avviamo al finale. Che non potrà che essere consono a tutta la scrittura dell’autore, a tutta la sua visione della vita. Uno di quei finali che a me, chiuso il libro, mi lasciano lì a pensare ed immaginare cosa faranno le persone che con tanta partecipazione ho seguito per quasi duecento pagine.

Haruf ci fa capire che tutti abbiamo una storia che merita di essere raccontata. Bisogna trovare le parole giuste, ed il giusto modo di presentare le persone, i luoghi, le situazioni. Scrittura in cui Haruf eccelle, con il suo stile asciutto, ma che va subito verso il centro dei problemi (ed il cuore del lettore). Un western senza pistole? Una country story della provincia profonda?  Non so, a me è piaciuto. Ho sentito l’eco di quando quarant’anni fa giravo solitario per i dinner in Arizona. Era tanto tempo che una scrittura non mi faceva questo effetto.

Vedremo di leggerne ancora.

Abraham Verghese “Il patto dell’acqua” Neri Pozza s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 12/09/2023 – I: 08/10/2023 – T: 11/10/2023] - &&& e ½  

[tit. or.: The Convenant of Water; ling. or.: inglese; pagine: 734; anno 2023]

Questo libro, regalo compleannico ritardato, nasce dalla segnalazione del mio amico Amos, anche se ne aveva sentito parlare ed ero in dubbio sul suo acquisto. Una spinta che ha portato ad una buona lettura. Certo, con qualche punto in minore su cui torneremo, ma anche corredato da alcuni punti di bella scrittura, alcuni rimandi a luoghi sempre a me cari, ed una trama nel complesso ben congeniata.

Verghese è comunque una personalità complessa, come il suo scritto (o forse i suoi scritti, che mi hanno parlato bene del suo precedente libro “La porta delle lacrime”). Nato in Etiopia da genitori indiani del Kerala di fede cristiana, laureatosi in medicina a Mumbai, poi trasferitosi negli Stati Uniti ed ancora lì residente. Questo patto nasce in fondo come una confluenza di tutte queste esperienze. Si parla di acqua, e nel Kerala le statistiche dicono che, per vari motivi, circa mille persone l’anno muoiono annegate. E si parla di medicina, laddove purtroppo queste parti sono forse le meno “sciolte” del testo, dove, essendo Abraham stesso medico, deve essere preciso nelle descrizioni, a scapito di una trattazione più facilmente fruibile da tutti i lettori.

Ma l’epopea che ci narra va al di là di questo e coinvolge anche altri sentimenti e sensazioni. Il tentativo, in alcuni punti ben riuscito, di dare un volto alle relazioni umane, coinvolge nello scritto di Verghese tutta una serie di sentimenti: l’amore, ovviamente, il senso di identità, lo scontro, sempre presente in India, tra tradizione e modernità, il valore del dovere, la fede.

La storia è narrata a più voci, ma comincia e finisce nello stato del Kerala, anche se all’inizio, nel 1900, siamo a Travancore, nella costa del Malabar, mentre finiremo nel 1977 nel lebbrosario di Saint Bridget, in quello che ormai è divento lo stato del Kerala.

La prima voce narrante è quella di Ammachi (che poi diventerà la “Grande Mamma” della saga). Ed inizia con lei dodicenne che va sposa ad un agricoltore vedovo di 40 anni con JoJo un figlio di poche settimane. Qui già si vedono le tradizioni dell’India ancestrale: i matrimoni combinati, le spose bambine, il trasferimento della sposa nei possedimenti del marito. Ammachi era nata vicino all’acqua, di cui sentirà sempre il bisogno. La famiglia del marito è invece lontano da ogni rivolo che scorre, dove Ammachi si accorgerà che l’acqua è una grande componente oscura di quella famiglia. In ogni generazione, anche tenendosene lontani, c’è qualcuno che a causa dell’acqua muore. Una strana “malattia”, che Ammachi battezza “il Morbo”.

Annegato muore JoJo, ma sarà solo uno dei tanti dolori che attraversano il testo. Ammachi si conquisterà un posto nella nuova casa e nel cuore del marito. Nascerà una prima figlia, Baby Mol, cui verrà diagnosticata la malattia di Darwin, ma che vivrà nella sua innocente giovinezza per decine e decine di anni. Poi verrà il maschio, Philippose, apparentemente in salute, anche se, pure lui, con una strana idiosincrasia per l’acqua.

Dopo aver seguito a lungo Ammachi, la penna di Verghese si sposta su altri due personaggi. Prima il medico svedese Rune Orqvist, grande chirurgo, che ad un certo punto abbandona onori ed ospedali, per fondare il lebbrosario di Saint Bridget. La storia di Rune si intreccerà con quella di un altro dottore, lo scozzese Digby Kilgour. Venuto in India, non avendo trovato sbocchi in patria per l’ostracismo degli inglesi, si dimostra un grande chirurgo. Ha però la sventura di innamorarsi di Celeste, e durante una loro notte clandestina, una candela cade, incendia la stanza, Celeste muore e lui ha le mani irrimediabilmente rovinate. Sarà Rune a curarlo, con l’aiuto della piccola Elsie, figlia di amici e fin dalla gioventù valente disegnatrice. E sarà Digby che, non potendo comunque operare, alla morte di Rune deciderà di dedicarsi al lebbrosario.

Nel corso del tempo, Philippose ed Elsie, per casualità, si incontrano, si sposano, fanno un figlio, che tuttavia, durante una tempesta tropicale si arrampica su di un albero, cade e muore (sempre l’acqua di mezzo). Grande crisi tra i due che neanche Ammachi e Baby Mol riescono a placare. Elsie si allontana, ma torna per la morte di Baby Mol. Dopo un'unica notte di amore, e dopo alcuni mesi, nasce Mariamma, ma Elsie scompare, forse suicida.

Seguiamo quindi la quarta voce, quella di Mariamma, la sua crescita, l’intrecciarsi della sua vita con il piccolo Lenin, che, una volta cresciuto, si rivela un acceso rivoluzionario, collegandosi ai rivoltosi detti “naxaliti” (uno dei tanti inserti della storia grande dell’India nella storia delle piccole persone del libro). Non vorrei entrare in questi contesti, ma Mariamma sarà l’unica della grande famiglia finalmente ad intraprendere la professione medica. Che le sarà utile, una volta morte anche il padre per annegamento, al fine di scoprire l’origine del Morbo, ed una possibile via di soluzione al problema.

In questo aiutato dal dottor Digby, che salverà Lenin dalla morte. Motivo per cui Mariamma passa molto tempo nel lebbrosario stesso, dove riuscirà ad annodare tutti i fili sparsi nelle 700 pagine del libro.

Verghese affonda la sua penna in tutti questi problemi: la politica (dal giogo britannico all’Indipendenza, dalla spartizione dell’India in due stati alle lotte dei naxaliti, fino alla vittoria del partito comunista ufficiale nelle elezioni del Kerala), l’economia (con la progressiva spoliazione dei latifondi agricoli), la religione (il Kerala ha una forte componente cristiana, discesa dalla conversione che portò in loco intorno al 60 d.C. San Tommaso, quello che dubitava; tutta la grande famiglia di Ammachi è cristiana così come Verghese stesso).

Quello che però conta di più è la solidarietà che si esprime tra tutti i personaggi positivi del romanzo, che, anche dopo grandi dolori, alzano la testa e continuano la loro vita. Una grande prova di umiltà e di rispetto reciproco.

Anche se poi l’acqua serve a far comprendere il problema della stirpe locale, il patto del titolo è poi qualcosa di più ampio. Verghese scrive che è il forte legame, sincretico, che, attraverso tutti gli atti (commessi od omessi) unisce le persone. Grazie a questo patto, che si incarna nella Grande Mamma Ammachi, nessuno è solo.

Un finale di speranza, che di questi tempi non fa mai male.

“Passo metà della mia vita in treno. Stranieri di tutte le religioni e di tutte le caste vanno tranquillamente d’accordo in uno scompartimento. Perché non succede lo stesso fuori da un treno? Perché non si riesce a convincere in pace?” (336)

“Sono felice di essere vecchia, perché mi verrà risparmiato ciò che prepara il futuro.” (380)

“Si rende conto che è solo quando entrambi i genitori sono morti che si smette di essere bambini, di essere figli. Da poco lei è diventata adulta.” (606)

Patrick deWitt “L’uomo che amava i libri” Neri Pozza s.p. (Regalo di Cristina)

[A: 25/12/2023 – I: 29/12/2023 – T: 31/12/2023] - &&  

[tit. or.: The Librarianist; ling. or.: inglese; pagine: 316; anno 2023]

Ultimo libro letto nel 2023, regalo natalizio della cognata. Un buon inizio, che procede per quasi metà libro. Il resto, purtroppo, scade molto di tono e di intensità. Anche se l’autore ha un suo interesse. Canadese nato sull’isola davanti Vancouver (visitata qualche anno fa alla ricerca, positiva, di megattere), mille lavori per il Nord America, per poi sistemarsi come scrittore a Portland nell’Oregon (che a me fa sempre venire in mente la stupida canzone di Pippo Franco, che vediamo chi la ricorda).

Non è che scriva molto, invero, ma ha prodotto un divertente libro (“The Sisters Brothers”) da cui venne tratto un discreto film. Ed anche un racconto, da lui poi sceneggiato per il cinema dove è uscito nel 2020 con il titolo “Fuga a Parigi” ed interpretato da Michelle Pfeiffer.

Questo è il suo quinto libro in quindici anni di scrittura, dove torna ad ambientare la storia proprio a Portland dove vive. Il protagonista è Bob Comet, settantuno anni, bibliotecario in pensione e divorziato da quarantacinque anni.

La struttura del testo riprende un vezzo assai comune negli scrittori attuali. Si comincia con una storia più o meno coeva alla lettura (anche se qui, in realtà la prima parte si svolge nel 2006), per poi saltare indietro al fine di farci meglio conoscere il protagonista, prima verso la metà degli anni Cinquanta, poi negli anni Quaranta subito dopo la fine della Guerra, per finire tornando al presente, ancora più attuale dell’inizio.

Ribadisco quanto detto sopra, la prima metà, sia del settantenne che del ventenne Bob sono gradevoli. La parte su Bob ragazzo mi è sembrata inutile e lunghetta (ed anche a volte noiosetta), laddove il finale ci può stare ma non aggiunge molto a quanto si poteva intuire nella prima parte. Certo è che, alla fine, abbiamo un quadro di Bob abbastanza completo.

Bob è stato sempre uno che si è guardato vivere, che si pensa come una persona anziana ordinaria, né buona, né cattiva, né felice, né infelice. Basta che possa stare con i suoi libri, che hanno sempre fatto parte della sua vita. Ed ora anche alle sue passeggiate per le strade di Portland. Dove proprio una di queste gite senza meta gli cambierà la vita.

Ma facciamo un salto, così che possiamo vedere il ragazzo Comet, sempre in lite muta con la madre, decidere di scappare di casa. E trovarsi, anche se non sono molti i ragazzi di undici anni che se ne vanno in giro senza parenti, in un Hotel sulle rive del Pacifico, invischiato in uno strano rapporto con il padrone dell’albergo e con due attempate signore, Ida e June, organizzatrici di spettacoli per villeggianti. Bob sente la libertà fluire nelle sue azioni, ma il fluire viene bloccato dalla polizia che vuole riportarlo a casa. E lui china la testa.

Si porterà sempre appresso questa mancanza di iniziativa, come si porterà nel cuore questa parentesi di vita. Il suo sogno di libertà che non troverà più.

Che il mondo va avanti, e lui torna sui suoi libri, tanto che troverà la sua realizzazione come bibliotecario. E nella biblioteca, o intorno ad essa, farà i due incontri fondamentali dei suoi vent’anni: Connie, l’unica donna che ha amato nella sua vita, ed Ethan, l’unico vero amico. Due persone sopra le righe, che lo coinvolgono, che lo fanno sentire vivo. Soprattutto Ethan con le sue follie. Tanto che riesce a sposare Connie. Ma non a tenerla con sé, che dopo qualche anno, come avrete capito, Connie lo lascia per Ethan. E se ne vanno, lasciandolo ai suoi libri. Magari lanciandogli, muti, una forte domanda: “Perché non vivi invece di leggere?”.

Ma leggere, per Bob, è la vita. Nei libri trova il mondo che non lo delude. Fino a che, appunto, in una passeggiata incontra una donna, Chip, sulla via della demenza senile, fuggita senza rendersene conto dalla residenza per anziani Gambell-Reed. Dove Bob la riporta, e dove inizia a capire che potrebbe esserci altro nella vita.

Convinto dalla simpatica Marta che gestisce il centro, prima prova a imbastire letture per gli anziani (senza successo), poi soltanto a stare con gli anziani del centro. Dove, e noi con lui, conosciamo il simpatico e sboccato Linus, dongiovanni non pentito costretto dall’obesità alla sedia a rotelle, o la depressa Jill, ossessionata dai puzzle, o la stessa “proto-Alzheimer” Chip.

Incontri che porteranno a sorprese che non vi dico, alla decisione di Bob, ad un certo punto della sua vita, di entrare anche lui nel centro. Dove finalmente, pur non liberandosi dai libri (anche perché non lo vuole) troverà uno spazio fisico e mentale “tutto per sé”.

Forse, allora, riuscirà a rispondere positivamente al direttore dell’albergo della sua infanzia che lo esortava ad “accettare la felicità quando ti passa davanti”.

Ripeto, non è un brutto libro, e mi ha coinvolto nella lettura nella sua prima parte, in quanto anziano ed in quanto lettore. Non trovo però corretta la separazione tra vita e libri. Bisogna avere la testa, ma si può fare. Che chi legge è un viaggiatore, mentre che si lascia leggere dai libri è solo un turista.

Una sola domanda finale: perché modificare il titolo da bibliotecario ad amante dei libri? Vero è che “librarianist” è un po’ più di “librarian”, ma il titolo italiano mi convince solo fino ad un certo punto.

“Era … in pensione, aveva settantun anni, e non era infelice. Stava bene in salute e passava le sue giornate a leggere, cucinare, mangiare, riordinare la casa e fare passeggiate.” (9)

Denis Johnson “Jesus’ Son” Corriere Americana 26 euro 8,90

[A: 22/12/2023 – I: 01/01/2024 – T: 02/01/2024] - &&  

[tit. or.: originale; ling. or.: inglese; pagine: 98; anno 1992]

Devo comunque riconoscere a Sandro Veronese la capacità di proporre in questa collana del Corriere testi interessanti. Non sempre eccelsi, non sempre nelle mie corde, ma sempre con particolarità e spunti. Quindi, almeno per ora, un ottimo voto al curatore.

Purtroppo, questa lettura, pur facendomi conoscere un autore che non era nelle tracce delle mie ricerche librarie, è un libro di racconti che, interessanti per sé ed anche curiosamente cross-referenziabili, nel complesso mi hanno fatto mancare quella spinta alla partecipazione che opere più compatte mi consentono di esplorare.

Certo è anche che, pur racconti, hanno un che di “unitario”, tant’è che sono stati oggetto di un film di culto nei tardi anni ’90, dove i vari episodi, i vari momenti, venivano uniti dalla presenza di uno stesso personaggio, rendendone possibile una lettura romanzesca non episodica.

Altro merito del romanzo è avermi fatto conoscere Denis Johnson un autore non certo di gran notorietà all’estero, pur ben noto in patria. Con una fama di scrittore di nicchia, non prolifico, con alcune buone riuscite (tra cui un National Book Award per il suo “Albero di fumo”). Ma noto soprattutto per questa raccolta di schizzi pubblicati originariamente sul “The New Yorker” uno dei più noti periodici americani). Uno scrittore che, come molti outsider, fece molti lavori e passò una giovinezza di alcool e droga, per poi uscirne verso i trent’anni e cominciare a scrivere. O meglio a scriverne, visto che, come in questi racconti, molto viene da quelle esperienze.

Johnson è poi morto di cancro al fegato sette anni fa all’età di 67 anni.

Ma veniamo ai testi, che sono uniti dall’io narrante, partecipe in molte azioni, e di cui scopriremo ad un certo punto non il nome, ma il soprannome “Fuckhead” (“Testadicazzo”) dato che “ogni cosa che tocca si trasforma in merda”. Sono storie di uomini e donne, perduti nella droga e nell’alcool, che sopravvivono in una provincia inquietante (i racconti sono ambientati nell’Iowa e spesso in un bar chiamato “Vine”). La bravura di Johnson sta da un lato di scriverne e raccontarne come se anche noi fossimo in qualche stato allucinatorio, nel capovolgimento di fronte cui spesso ci fa assistere (per un po’ empatizziamo con un protagonista, fino a che questi, improvvisamente e senza ragione alcuna, prende una pistola ed ammazza qualcuno.

Altro dato, forse collegato a quanto sopra, è l’apparente casualità di quanto accade, con una slegatura tra le scene, per cui in un racconto c’è una scena di sesso tra il narratore ed una donna, dopo di che lui va al bar, incontra l’amico Wayne, succedono altre cose, il racconto finisce e di quella donna non sappiamo più nulla.

Non è certo un caso che il libro si apre con una citazione di un verso della canzone “Heroin” cantata da Lou Reed quando era con i “Velvet Underground”: “When I’m rushing on my run / And I feel like Jesus’ son”, da dove Johnson prende anche il titolo della raccolta.

Seguiamo allora Testadicazzo nelle sue avventure/disavventure. Ha un incidente d’auto ("Incidente durante l'autostop") mentre fa l’autostop completamente fatto, ma ce ne parla anni dopo in un periodo di disintossicazione. Cerca di portare a casa un uomo apparentemente muto ("Due uomini"), ma forse solo stordito dalle droghe per poi cercare il venditore delle suddette. Narra di quando falsificava assegni ("Fuori su cauzione") per procurarsi la droga con Jack, che alla fine muore di overdose e lui esclama: “Sono ancora vivo!”. O di quando va a cercare un pusher (“Dundun”) e scopre che questi ha appena sparato ad un tizio. Poi riprende una narrazione dei due uomini di qualche storia prima ("L'altro uomo"), dicendo di voler parlare del secondo, per poi narrarci la storia di finto polacco di Cleveland. Di quando cerca una ballerina per tutta la notte ("Happy Hour") o quando, con l’amico Bill cerca l’aloperidolo (un disintossicante) in un ospedale di Seattle ("Mani ferme al Seattle General").

Ma i tre racconti eponimi sono “Lavoro”, quello che comincia con la scena sopra descritta, prosegue con l’incontro con Wayne, con il furto di rame in una casa, e con una solenne bevuta pagata dalla vendita del rame. Sono “Matrimonio sporco” dove narra il suo rapporto con Michelle, lei che rimane incinta, lei che abortisce, lei che lo lascia e va a vivere con John, un altro spostato. Lei che va in overdose, ma John, completamente fatto, non se ne accorge e la lascia morire. Sono “Emergency” dove narra il suo lavoro come addetto alle pulizie in un ospedale, le vicissitudine del Pronto Soccorso, la morte dei coniglietti che voleva allevare. Solo qui c’è una punta di speranza, che il nostro finisce in un programma di recupero e inizia a mantenere un lavoro stabile scrivendo una newsletter per i residenti di una casa di cura. 

Lavoro che riprende nella storia conclusiva, parlando del suo recupero come aiutante nella casa di cura “Beverly Home”, perché si accorge di star migliorando un po' ogni giorno in mezzo a persone che chiama "strambi", che poi qualifica “strambi come me”.

È di sicuro un libro che esce dai canoni, che mostra uno scrittore ed una scrittura fuori dall’ordinario, ma che non mi ha fatto scattare moti dell’anima.

Ottima, infine, la traduzione dei testi da parte di Silvia Pareschi.

Philip Roth “L’animale morente” Corriere Americana 11 euro 8,90

[A: 12/09/2023 – I: 03/01/2024 – T: 04/01/2024] - &&  

[tit. or.: The Dying Animal; ling. or.: inglese; pagine: 113; anno 2001]

Sinceramente, continuo a pensare che Philip Roth non sia intonato alle mie corde emozionali. Certo, questo è un libro agile, che scorre piacevolmente, che ha di sicuro alcuni punti interessanti quando il narratore si interroga sul fine vita. Ma per il resto, mi rimane lontano.

Tra l’altro, secondo la critica (ma io non ne ho letto), questo dovrebbe essere il terzo elemento di una trilogia dedicata allo stesso personaggio, l’erudito David Kepesh. Il primo libro è del ’70, si intitola “Il seno”, ed è una rilettura erotica di Kafka, laddove David si trasforma in una enorme mammella. Il secondo, del ’77, è “Il professore di desiderio”, dove David narra della sua vita da studente ed i suoi inizi di professore, sempre alle prese con i propri desideri erotici, altalenanti tra repressione interna e sfogo socialmente poco accettato.

Dopo quasi 25 anni, ecco che il professor Kepesh ritorna. Ormai è affermato, anzi avviato quasi alla pensione. Eppure continua a tenere corsi universitari, anzi un corso, sempre con lo stesso titolo “Critica pratica”, ma che adatta ogni anno alla sua sensibilità, ed alla platea studentesca che lo ascolta. Laddove il solo scopo reale di David nel tenere il corso è individuare una preda tra le sue studentesse, e, dopo la fine del corso, abbordarla e portarsela a letto.

Rimane così, anche qui, il punto cruciale di tutta la produzione di Roth, l’ossessione per il sesso. Anche se in questo romanzo, visto che l’autore si avviava alla settantina, a quella si aggiunge l’ossessione – paura – interrogazione intorno alla morte. Ovvio, la sua in prima istanza, ma anche delle cose e delle persone intorno a lui.

L’elemento diversificante dell’anno di cui David ci narra in prima persona è la comparsa, tra le sue studentesse, di un’esule cubana di famiglia benestante, Consuela Castillo. Un’apparizione per David, che ne ammira l’eleganza, il portamento, anche alcuni tratti di intelligenza, ma che per lui tutto si concentra sull’elemento cruciale: Consuela ha dei seni bellissimi. E su questi si concentra tutta l’attenzione e l’erotismo di David.

C’è una bella differenza di età tra i due (lui affermato più che sessantenne, lei sui venticinque pieni), ed anche di vita sociale. David, oltre alle lezioni, tiene un momento di critica letteraria in televisione, cosa che lo ha fatto conoscere al gran pubblico, aumentando le presenze ai suoi corsi universitari. Consuela è una normale studentessa, con i normali giri di amicizia e di studio propri della sua età.

Anche per questa discrasia, i due, dopo che David l’ha efficacemente sedotta, tendono a fare sesso, ma non a frequentarsi in pubblico. David paventa di non saper cosa dire in una riunione con i coetanei di Consuela, e lei ha paura di essere paparazzata nei momenti pubblici di David.

Va così avanti una relazione sbilanciata, in cui Roth ha tutto l’agio di mostrarci le profondità erotica del suo personaggio, con punto che, personalmente, non mi hanno convinto sino in fondo, ma d’altro canto è lui che scopa in quel modo, ed io chi sono per giudicarlo? Inoltre, David non si accontenta, che porta avanti anche altre relazioni, in particolare con la più matura Helen, anche se, pure in questo caso, si parla di sesso e mai di amore.

Quando però David buca la festa di compleanno di Consuela, anche perché in quella erano presenti anche i genitori della ragazza, la bella cubana lo manda a quel paese. Il sesso si tronca, anche se David continua ancora ed ancora a ripensare a lei ed al suo seno.

Alcuni anni dopo (due?) Consuela si palesa improvvisamente. E qui si ricongiunge il senso della morte che era presente inizialmente nel solipsismo di David. Ha un tumore al seno, deve subire una mastectomia, e desidera celebrare la fine di parte del suo corpo con colui che solo era riuscito ad esaltarlo. Non sappiamo, né ci interessa, come sia la prosecuzione, l’operazione, cosa ci sarà. Qui, è bene fermarsi, come si ferma Roth. Ha cominciato con un seno gigante, ed ora finisce con la privazione del seno. Un cerchio che si chiude.

Dicevo anche dell’altra ossessione di Roth sulla fine, intorno a cui si interroga, e che riporto, ovviamente alla mia maniera, nella citazione finale. C’è anche un timido accenno al rapporto tra Kepesh e suo figlio, ma a me è scivolato via senza lasciare traccia. Come scivola via la figura di David. Non mi è simpatico, anzi, leggendone, mi diventa sempre più ostico ed ostile. Capisco che si possa amare il sesso, ma non si può vivere senza amare. Anche la pur cruda ed in parte condivisa riflessione sulla vecchiaia, al fine è sterile, come quasi tutta la produzione letteraria di Roth che ho letto. Per cui mantengo le mie posizioni critiche nei suoi confronti ed una voluta distanza con i suoi scritti.

“Ogni fase della vita più avanzata della propria è inimmaginabile. … La fine è … il primo pezzo di vita da cui ti senti totalmente escluso, pur essendoci dentro. … Osservando la propria decadenza … c’è un moltiplicarsi dei segni che portano a questa spiacevole conclusione. … Bisogna fare una distinzione tra il morire e la morte. … Per quelli che non sono ancora vecchi, essere vecchio significa essere stato. Ma essere vecchio [per chi c’è dentro] significa anche che sei ancora. … Si è immortali per tutto il tempo che si è al mondo.” (27-28)

Come detto, in questa trama ritornante, non possono non parlare, anche, di viaggi. Ed allora come non pensare a Evelyn Waugh ed al suo “Quando viaggiare era un piacere”!

Una serie di frasi con un finale che credo Waugh abbia scritto appositamente per me:

“Io non ho mai aspirato a essere un grande viaggiatore. Sono stato, più semplicemente, un giovane tipico del mio tempo: si viaggiava perché ci veniva naturale farlo” (15)

“Mi rendo conto che, qualunque cosa possa accadermi, e per quanto io possa dispiacermene, … non riuscirò mai a diventare, nella realtà, un uomo di mondo, di quel tipo che si legge nei romanzi” (199)

 “Mi trovavo di nuovo… [a Londra] in un posto dove andavano tutti … [ma] dove il caldo era più insopportabile di quello di Zanzibar, il fracasso più assordante di quello del mercato di Harar, e le regole della decenza e dell’ospitalità più disattese che nelle taverne di Kabalo” (271)

“Quando si viaggia (e anche quando ci si innamora) non lo si fa certo per collezionare materiale. Lo si fa semplicemente perché fa parte della vita” (273)

Ebbene sì, siamo tornati e l’abbiamo vista, la mitica “aurora boreale”. Uno spettacolo che, concordo con i più, non si riesce a descrivere, non si riesce a farne partecipi gli altri. O forse, si riesce a comunicarla solo a chi l’ha vista anche lui. Un viaggio in ogni caso forte e che necessita forte sostegno del gruppo viaggiante, così come è stato.

Ora, ci vuole del riposo, anche non tanto che l’età avanza e se ne tiene conto. Per cui, canonici abbracci del lettore viaggiatore a tutti.

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