domenica 5 maggio 2024

Romanzi eccellenti (meno uno) - 05 maggio 2024

Quattro buoni romanzi ed un quinto, quello che pensavo più ironico, il meno riuscito.

Sì, perché l’ultima prova di Recami con il ritorno dei “protagonisti della ringhiera” non mi ha convinto. Invece abbiamo due stranieri e due italiani che si stagliano “verso le alte vette”. C’è un romanzo iconico di Brautigan, c’è la fatica di Labatut intorno all’intelligenza artificiale. E per gli italiani, una riuscita prova (con qualche riserva) di Dario Ferrari ed un romanzo narrazione di Pier Vittorio Buffa, di cui leggerete per capirne i motivi della mia affezione.

Francesco Recami “Colpo grosso ai Frigoriferi Milanesi” Sellerio s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 29/08/2023 – I: 12/09/2023 – T: 13/09/2023] && +    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 321; anno: 2023]

Dopo aver fatto escursioni in altri possibili romanzi seriali, ecco che, seppur saltuariamente, Francesco Recami torna ai suoi personaggi di maggior successo, quelli della cosiddetta “Storie della Casa di Ringhiera”. Sono passati ben quattro anni dall’ultimo libro della serie, che, in un certo senso, sembrava quasi voler porre un termine a queste storie. Ma si sa, i personaggi sono tiranni, faticano a farsi lasciar andare. Fatica che si somma alle difficoltà di un autore a variare il copione su cui si sono inseriti.

È lo stesso Recami, infatti, che in un intervista confessa di aver avuto difficoltà nella scrittura di questo romanzo, prendendolo e lasciandolo, ingarbugliandolo e cercando di semplificarlo. Alla fine esce un romanzo con alcuni spunti, alcuni rimandi ed un tentativo di meta-testualità interessante ma non sempre ben congeniato.

La trama è semplice nella sua complessità: un gruppo di persone eterogeneo decide di effettuare una rapina in una struttura denominata “Frigoriferi Milanesi”, che non è altro che una vecchia “Fabbrica del Ghiaccio”, riconvertitesi in una struttura complessa comprendente anche dei sotterranei blindati, suddivisi in grandi caveaux, come cassette di sicurezza giganti. Il capo della banda di cui sopra, e di cui parleremo, è convinto, a torto o ragione, che in uno di questi depositi siano conservati oro ed altri oggetti preziosi che, in un romanzo precedente, una piacente signorina tedesca dovrebbe avergli rubato.

Vediamo fin dall’inizio che la banda ha visto e ben compreso la lezione del serial spagnolo “La casa di carta”, così che ognuno ha un suo soprannome: il Solista non può che essere il capo delle operazioni, con ai lati Piero che si dedica ai mezzi di trasporto, Faccia d’Angelo per lo sviluppo e l’utilizzo di apparecchiature elettroniche, nonché Renè che, in quanto più giovane, è preposto all’operazioni movimentate. A supporto, abbiamo la Mata Hari del gruppo, la signora Miciona, che si dedica alla ricerca di informazioni attraverso tutti i mezzi, leciti o illeciti, abbiamo la signorina Piccerella, che deve sfruttare le sue abilità di trasformismo, e la signorina Mantide, che, come dice il nome stesso, sarà la seduttrice del gruppo.

Dopo un inizio spaesante, anche se abbiamo qualche sospetto, il nostro gruppo di finti banditi, si rivela per quello che è. Nell’ordine di cui sopra, abbiamo i vari inquilini della casa di ringhiera: il centro dell’azione focalizzato su Amedei Consonni, con l’anziano ma sempre pronto alla guida Luis De Angelis, il giovane dedito all’azione Antonio, l’informatico che si era trasferito, l’anziana signorina Mattei-Ferri, l’amica e non solo di Amedeo, Angela Mattioli, con a corredo la figlia. Abbiamo anche dei caratteristi che entrano nel coro generale pur non essendo in primo piano nell’azione. Servono a dare tocchi di colore alla vita milanese, come gli Scemaghi, la famiglia devota a comportamenti altamente salutari, o come le amiche romagnole, giovani, scapestrate e sempre pronte al riso.

Non è particolarmente utile, per i nostri fini, seguire le modalità che i nostri attuano per reperire le informazioni necessarie per entrare nei caveaux, né serve sapere se troveranno quello che cercano, se la tedescona Yutta c’entra o meno, se i cinesi del pian terreno daranno una mano. E tanti altri punti interrogativi, che potete deliziarvi andandoli a leggere.

Dato che quello che interessa a Recami, e che serve a portare avanti la trama, è la trovata, che esce fuori dopo i tre quarti del testo. I vari personaggi della trama non sono sempre in primo piano, ed allora, con una trovata pirandelliana alla “sei personaggi”, ne seguiamo l’uscita di scena, quando appunto non sono in primo piano, ed il loro parcheggiarsi in uno spazio sospeso, che l’autore battezza “Nonmondo”. Da quel punto in poi la trama in un certo qual modo, decade, entra ed esce dalla sua realtà fittizia, a dimostrare che Recami non riusciva a far procedere congruentemente una trama lineare, e si è inventato una trovata diagonale sia per portare a compimento il testo sia per cercare di tenere il lettore sulla pagina.

Purtroppo un tentativo che non dà molto respiro, ed ha l’unico risultato di rendere l’ultimo quarto del libro una serie di sequenze che non aiutano molto a ristabilire l’ironicità di fondo dei testi di Recami. L’autore vorrebbe coinvolgerci nelle sue riflessioni sul tempo che avanza, sugli spazi che cambiano, sulla vita e sulla sua assenza. Ma noi si preferiva lo scanzonato mondo di Consonni, come era nei primi tempi, anche se, magari, con qualche risvolto positivo in più nei rapporti interpersonali.

Due appunti per finire. Una riguarda la sempre più trasversalità delle opere di scrittura. Giulia Mattioli, la figlia di Angela, dovendo andare ad un concerto degli Immortal, una band metal norvegese, si traveste da Lisabeth Salander, quella della trilogia di Larsson. L’altra l’aggancio sempre presente e gradito alla realtà milanese, che la fabbrica citata, si chiama “Magazzini Refrigeranti e del Ghiaccio Artificiale Gondrand Mangili” un luogo presente vicino a Porta Vittoria, realizzato in una stupenda palazzina liberty di fine ‘800.

Speriamo che Recami riesca a tornare sui solchi della sua migliore fantasia.

Benjamin Labatut “Maniac” Adelphi euro 20

[A: 25/12/2023 – I: 03/03/2024 – T: 06/03/2024] - &&& +

[tit. or.: The MANIAC; ling. or.: inglese; pagine: 361; anno 2023]

Benjamin Labatut è uno scrittore cileno con doppia nazionalità (olandese) e questo libro l’ha scritto in inglese. È un “divulgatore epistemologico”, come ha mostrato il suo primo libro (“Quando smettemmo di capire il mondo”), e che qui si ingegna in un’operazione anche più complessa, ma che, fin dall’inizio, tende a dimostrare un assunto ben preciso scolpito nella mente dell’autore: i guasti e le gioie dell’Intelligenza Artificiale.

L’idea dell’autore è di mostrare la sua tesi attraverso tre passi, non verso le nuvole (che tra l’altro nel film di Blasetti erano quattro), ma verso il delirio (come nel film ad episodi diretto nel ’68 da Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini). O meglio attraverso la crisi.

Il primo è un passo breve, che illustra la crisi della fisica assediata dalla matematica. Il secondo è un lungo passo, che porta la crisi della matematica applicata, assediata da chi sa meglio fare i calcoli. L’ultimo è di nuovo un breve passo, che illustra la crisi della creatività assediata dall’intelligenza artificiale. E ad ogni passo, Labatut usa un uomo, eponimo del passo stesso.

Il primo passo, narrato in terza persona, si concentra su di una data: 25 settembre 1933. Il grande matematico e fisico Paul Ehrenfest entra nell’ospedale che ha in cura il figlio down, gli spara e si uccide. Motivo? Certo la follia, ma una lucida follia. Ehrenfest aveva compreso che i nuovi sviluppi della fisica stavano portando all’introduzione di elementi irrazionali incontrollabili. Vedeva la matematica entrare nelle descrizioni dei fenomeni, con quel suo essere esattamente aliena, ingestibile. Questa per lui fatale consapevolezza, unita alla depressione che lo stava avvolgendo (non ultimi i timori per la sempre più veloce crescita del nazismo) portano il fisico al gesto che apre il libro.

Il secondo e lungo passo è la storia complessa della vita e delle opere di una delle menti più geniali della storia: John von Neumann. Come afferma il suo amico Eugene Wigner: “A questo mondo ci sono due tipi di persone: von Neumann e gli altri”. Questo passo complesso è narrato da Labatut attraverso una lunga serie di piccoli contributi inventati, pur basati su elementi reali, dove, attraverso le testimonianze di persone vicine al genio, ne risulta la pittura in movimento di tutta la sua vita, dall’infanzia alla morte. Voci che tracciano la sua personalità, l’abisso di angoscia cui faceva piombare le persone a lui vicine che non riuscivano mai a sentirsi alla sua altezza, ma anche una freddezza visionaria eppur coerente (vedere le dure frasi che pronunciò per convincere i generali americani sul punto di maggior impatto per far deflagrare la bomba atomica).

Il nostro genio alieno nasce in Ungheria come János Lajos Neumann, da una famiglia elevata al rango aristocratico nel 1913, così da aggiungere il “prefisso” von. È di un’intelligenza anni luce avanti ai suoi coetanei, ma che rimase sempre diretta verso le scienze (la moglie Klara affermerà: “Quell’uomo non sapeva neanche allacciarsi le scarpe”).

Così, nella prima parte vediamo l’infanzia sino al trasferimento in America ed al cambio del nome in John. Attraverso le parole dell’amico Wigner (futuro premio Nobel), della madre, del fratello, della prima moglie. Tutto teso, oltre all’aspetto privato, alla ricerca di poter fondare la matematica su di una base coerente di assiomi, tentativo fatto naufragare dagli inarrivati teoremi dell’incompletezza di Kurt Gödel.

Nella seconda parte viene preso in esame tutto il contributo di von Neumann al Progetto Manhattan sulla costruzione della bomba atomica, sino agli sviluppi post-bellici di architetture informatiche per la costruzione di una macchina computazionale. Quella appunto sviluppata che porta Nicholas Metropolis a costruire MANIAC (acronimo per Mathematical Analyzer, Numerical Integrator, and Computer).

L’ultima parte dei testi su von Neumann sono dedicate da un lato al duro confronto con il matematico italo-norvegese Nils Aall Barricelli sulla vita artificiale, dall’altro agli ultimi anni, dolentemente descritti dalla seconda moglie Klara (che tra l’altro fu la prima a scrivere un programma per MANIAC), attraverso l’improvviso insorgere e degenerare di un tumore al pancreas.

Quello che emerge, a parte le indubbie ed aliene qualità di Jancsi, è il tentativo, lungo tutta una vita, di portare avanti una computazione che potesse alleviare l’uomo da calcoli ripetitivi, ma che fosse, ad un certo punto, di stimolo per l’uomo stesso. Anche se, nella sua perfezione, non aveva compreso un elemento che Turing amava sottolineare: l’importanza della casualità nella costruzione di macchine intelligenti.

Un assist che permette a Labatut di arrivare all’ultimo capitolo, tutto devoto all’IA. E tutto incentrato su un genio sud-coreano e sulla sfida tra lui e AlphaGo. Perché a partire dagli anni Cinquanta, dal sasso lanciato da von Neumann, i calcolatori e l’intelligenza artificiale faranno passi da gigante. Tanto che nel 1997 DeepBlue, un calcolatore costruito per questo solo scopo dall’IBM, batte il più grande campione di scacchi dell'epoca, Garry Kasparov.

Ma qui si passa ad un gioco ancora più complesso e quasi artistico: il go. Ed al suo campione indiscusso negli anni Dieci di questo secolo, il sud-coreano Lee Se-dol. Nel marzo 2016, Lee affronta AlphaGo, un calcolatore appositamente creato per giocare a Go. La potenza di calcolo ormai raggiunge livelli inarrivabili, ed AlphaGo può costruire le sue partite su milioni di milioni di esempi. È facile predire che sarà lui a vincere la sfida per 4 a 1, ma è importante soffermarsi proprio su quell’1. L’unica vittoria di Lee è dovuta ad una mossa “fuori schema”, ricordata negli annali del go come “mossa 78”. Tanto imprevista che il calcolatore non riesce ad interpretarla, i suoi programmi vanno quasi in tilt, inducendolo in mosse insensate che portano Lee alla vittoria.

È il trionfo della casualità predicata da Turing. Ma da quel punto in poi gli sviluppatori dell’IA cominceranno ad ipotizzare costruzioni impreviste che potranno portare l’IA verso i salti logici propri dell’intelligenza umana.

È un’opera di finzione che l’autore costruisce attraverso brandelli di realtà, veri o presunti. Uno scritto che tenta di delineare la figura di una “macchina pensante” (che per fortuna non lo è ancora), ma che per diventare quello che ora è qualcosa di simile a ChatGPT, è dovuta passare per un momento creativo, di forte tensione, durante gli anni Quaranta, che ha portato due risultati diversi ed opposti: l’intelligenza artificiale e la bomba atomica.

Un libro che, pur nella complessità della sua costruzione, fa riflettere il lettore, facendogli fare un giro completo della mente per ritornare al punto di partenza di Ehrenfest: arriviamo al punto di dare nuove leggi al cosmo e non poterle tradurre attraverso delle formule. Un buon libro, anche se in alcune parti (alcune delle testimonianze reali-fittizie della vita di von Neumann) non riesce pienamente nel suo intento.

Richard Brautigan “La pesca alla trota in America” Corriere Americana euro 8,90

[A: 10/01/2024 – I: 08/03/2024 – T: 10/03/2024] - &&&

[tit. or.: Trout Fishing in America; ling. or.: inglese; pagine: 142; anno 1967]

Un libro? Un romanzo? Una poesia? Questo è un volo della mente nel cuore duro di un’America che vota (ora) Trump vista, descritta, irrisa da chi non andrà mai a votare. E seppur geniale e irriverente, raggiunge molti scopi, si legge in un sospiro, muove qualcosa nella testa (e non è poco), ma alla fine si squaglia al sole. È stato bello leggerti, cara Pesca alla trota, ma il tuo mondo (il mio mondo) è stato sconfitto e la risata non è riuscita a seppellire nessuno.

Brautigan è stato il classico esempio della controcultura americana, sul lato scrittura, come altri lo furono in altri campi. Dopo una dura infanzia e giovinezza, segnata da alcool, schizofrenia, elettroshock per episodio paranoici, poco dopo i vent’anni partendo dalla natia Tacoma (sul Pacifico verso il Canada) si ritrova nella brulicante San Francisco della fine degli anni Cinquanta. Lavoretti salutari, vita al limite, scrittura di poesie per sbarcare il lunario. Poi nel ’61, durante un campeggio nel poco lontano Idaho, scrive di getto questo “testo”, che chiamerò testo d’ora in poi, essendo ogni altra definizione poco calzante.

Un testo che era già allora difficile da assimilare, che per anni nessuno vuole pubblicare, fino a che un piccolo editore, nel 1967, la “Four Season Foundation” di Donald Allen, uno dei primi guru della controcultura, decide di tentare la sorte. Ne vende 29.000 copie, quando del libro si accorge una casa specializzata in comics e gialli, la Delacorte, che ne compra i diritti. E vende in poco tempo 2 milioni di copie, perché era il libro che catturava lo spirito della beat generation, quella che ascoltava Bob Dylan e Janis Joplin, che teneva Philip K. Dick sul comodino, mentre ascoltava Ginsberg e Ferlinghetti.

Fu il successo, ma per Brautigan fu, da allora, la scoperta di essere uno sfigato di successo. Non riuscì più a produrre testi così ben accolti, anche se alcuni libri hanno avuto una buona riuscita. Non entro in tutte le vicende di Brautigan che ne volevo solo delineare le prime fasi, per poi dispiacermi con voi che a poco a poco la fama scema, lui torna agli episodi schizoidi dell’infanzia, e nel settembre del 1984 si spara un colpo di pistola alla testa.

Ma cos’è questo testo: un insieme di episodi, brevi racconti, fotogrammi narrativi, sperimentazioni stilistiche, storie stralunate di amori finiti male, di amari incontri, d’improvvise allegrie e malinconici congedi. Piccole storie quotidiane che ruotano intorno a quel luogo immaginario che è un ruscello in cui guizzano, o almeno dovrebbero, le trote, e che a volte è una pozza d’acqua rafferma, una discarica o una casupola di legno, diventando un torrente montano smontato a pezzi, venduto nel Deposito Demolizioni di Cleveland. Un’ironia senza freni come quando descrive l'acquisto di un paio di scarpe e la possibilità di avere in omaggio un paio di calzini. Un’ironia che rovescia i canoni della vita cosiddetta normale.

Pesca alla trota in America non è solo il titolo di questo testo, è il testo stesso, a volte è un personaggio incarnato dal nome Pesca alla trota in America, qualche volta è semplicemente un'attività, poi è un ricettario e allo stesso tempo un commensale di Maria Callas, un cadavere o una frase capace di farti finire per direttissima nell'ufficio del preside, un’entità che diventa un oracolo, il vestito di Jack lo squartatore, un alberghetto, uno stato mentale, un barbone alcolizzato. Un disordine globale, perché è impossibile trovare l'ordine nella vita, dove l’ordine non c'è. Dove, alla fine, non c’è niente per cui valga la pena affannarsi, è sempre meglio sorridere e andare a pescare!

Difficile quindi parlarne da esterni. Ma entriamo nel mondo di Brautigan con alcuni punti che esemplificano la sua forza e la sua follia.

Nella prima edizione (e nelle migliori seguenti), non c’è titolo né autore. Il testo si presenta con una fotografia che ritrae Brautigan (un gran pezzo d’uomo alto quasi due metri) in piedi con tanto di cappello, panciotto e jeans, davanti alla statua di Benjamin Franklin in Washington Square a San Francisco, con accanto l'amica Michaela Le Grand. In questo modo, sottolinea nell’introduzione, tutte le persone che ogni giorno si ritrovano sotto quella statua, si ritroveranno allo stesso tempo davanti al suo libro.

Mi permetto poi di citare un breve brano, come anche altri hanno fatto.

Titolo: “Omaggio di una mezza domenica a un Leonardo da Vinci intero”.

“In questa strana giornata d’inverno nella piovosa San Francisco, Leonardo da Vinci mi è apparso in visione. La mia donna è fuori a sgobbare, lavora anche la domenica, non ha neanche un giorno libero. È uscita di casa stamattina alle otto per andare al lavoro all’angolo tra Powell e California. Io me ne sono stato seduto qui come un rospo su un tronco a sognare Leonardo da Vinci.

Ho sognato che era un dipendente della South Bend – Attrezzature da pesca, ma, naturalmente, indossava abiti diversi, parlava con un accento diverso e aveva avuto un’infanzia diversa, magari una tipica infanzia americana in una città come Lordsburg, in New Mexico, o Winchester, in Virginia.

L’ho visto mentre inventava una nuova esca rotante per la pesca alla trota in America. L’ho visto prima lavorare d’immaginazione e poi col metallo, i colori e gli ami, provando prima una cosa e poi l’altra, prima aggiungendo un po’ di movimento, poi togliendolo e quindi tornando a mettercene dell’altro, ma stavolta diverso, finché alla fine l’esca era bella e inventata.

Allora aveva chiamato i superiori. Appena quelli vedevano l’esca, cadevano a terra svenuti. Solo, in piedi in mezzo a quei corpi stesi a terra, Leonardo teneva in mano l’esca e decideva di darle un nome. La chiamava “L’ultima cena”. Poi si dava da fare per rinvenire i suoi capi.

Nel giro di pochi mesi quell’esca per la pesca alla trota divenne la sensazione del Ventesimo secolo, sorpassando di gran lunga imprese superficiali come Hiroshima o il Mahatma Gandhi. In America si vendettero milioni di “Ultime Cene”. Perfino il Vaticano ne ordinò diecimila e lì non avevano neanche una trota.

La gente faceva a gara per fare pubblicità all’esca. trentaquattro ex presidenti degli Stati Uniti dissero tutti: ‘Con “L’ultima cena” ho battuto il mio record’.”

E poi la fine. In un breve paragrafo Brautigan afferma “Per esprimere un bisogno umano, ho sempre desiderato scrivere un libro che finisse con la parola maionese”. L’ultimo capitolo è una breve finta lettera della madre che termina con il seguente postscriptum: “PS: Mi dispiace di essermi scordata di darvi la maionese”.

Geniale!

Dario Ferrari “La ricreazione è finita” Sellerio s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 25/12/2023 – I: 05/04/2024 – T: 07/04/2024] &&&& ---    

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 466; anno: 2023]

Se ne era sentito parlare in giro da diversi amici, ed allora si è chiesto di averne un regalo l’ultimo Natale. Ed ora, in quel di Pasqua si è letto, con discreto piacere ed interesse.

Ferrari è di vena toscana tendente alla spiaggia, di sicuro studioso con dottorato in quel di Pisa, dove di certo conosce l’ottimo Malvaldi, da cui deriva, ma interpretandoli, alcuni modi di porre il testo. Come di sicuro la genesi interna del libro non può aver prescisso da Pisa sia come luogo di studio che come luogo di lotta.

È una scrittura piacevole la sua, anche se il testo è complesso, ed in un certo senso è come se avesse riunito due romanzi in uno (o forse anche più di due). Con una grande lente vediamo da un lato, la parte personale con il percorso di vita del protagonista, Marcello Gori. Dall’altra, la parte politica con il diverso percorso di Tito Sella, compendiato in una elaborazione testuale, e biografica, del fittizio pisano che si condensa in un lungo capitolo di centocinquanta pagine che poteva avere la dignità di una libro a sé.

Ma se poi scendiamo più vicino al testo, ne vediamo uscire altri, che si snodano attraverso i due filoni su esposti. C’è il romanzo universitario, imperniato nel mondo accademico e di cui Ferrari fa un dipinto realistico e impietoso. C’è il romanzo di formazione, dove vediamo evolversi la vita di Marcello avvinta come un’edera a quella di Tito. C’è il romanzo nel romanzo, quello che meno mi ha convinto, dove Marcello scrive a modo suo il romanzo perduto di Tito. C’è infine il romanzo giallo, perché c’è anche un piccol mistero, che Marcello scopre e ci rivelerà nel lungo e personale finale.

L’inizio è folgorante e coinvolgente. Ferrari ci narra in prima persona le vicende personali di Marcello, inconcludente trentenne, che aspetta che le decisioni vengano prese al posto suo, che non sa cosa fare dopo una dignitosa tesi su Kafka, non volendo subentrare al padre nella gestione del bar di famiglia. Quasi senza scopo, Marcello partecipa ad un concorso per ricercatori imbandito dal barone di Italianistica, il professor Sacripanti. Ed in maniera rocambolesca, vince uno dei due posti. A valle del quale il prof lo convince a dedicarsi ad una tesi su di un autore di nicchia, l’ex-terrorista Tito Sella, morto in carcere dopo una condanna all’ergastolo per banda armata e morti varie, ed autore di alcuni testi marginale eppur interessanti. Oltre ad un’autobiografia scomparsa, intitolata “La Fantasima” (crasi improbabile tra fantasia e fantasma).

Tutta questa parte è spesso ironica con spunti arguti sul mondo claustrofobico ed impermeabile all’esterno delle accademie universitarie. Magistrale è il concione di Carlo, lo sfortunato dottorando amico di Marcello, sull’uso delle note a piè di pagina dei testi accademici. Folgorante è il giudizio sulla boria dei suddetti accademici (come fa dire a Marcello: “Gente che scuote la testa incredula nel constatare che il loro ‘La metrica nella poesia vernacolare italiana tra Ottocento e Novecento’ ha venduto meno dell’ultimo Strega”).

Saltando un romanzo, c’è poi quello che meno mi ha convinto. Marcello per la sua ricerca si trasferisce a Parigi entrando in contatto con i fuoriusciti della “dottrina Mitterand”, e li scrive e ci ripropone per intero la finta ma reale biografia di Tito. Ne esce fuori una visione un po’ goliardica del terrorismo italiano, dove magari c’è anche del vero in quelle discussione nei centri periferici lontano dalle grandi città. Una storia che forse viene da un idea laterale dell’autore, e che serve certo ad illustrare alcuni passaggi del progredire nella vita di Marcello, ma forse è troppo lunga ed irrisolta. Ho apprezzato alcuni tipicizzazioni di estremismi immaturi (con alcune punte che ho rivisto in discussioni sentite ai tempi). Ma soprattutto mi ha fatto venire in mente una trasfigurazione, in alcune scelte di Tito, alcune posizioni, soprattutto morali di Adriano Sofri, che sempre di quelle parti era.

La parentesi parigina comunque permette a Marcello di risolvere il giallo appena velato che si presenta durante tutto il romanzo. Una soluzione forse un po’ scontata, almeno così l’ho vista io, ma che chiude questo tipo di romanzo in poche e sentite battute.

Rimane quello citato per secondo, che in effetti permea come una vena irrorante buon sangue, tutto il testo. La formazione di Marcello, dall’agnosticismo ed il poco impegno mentale, attraverso le vicende della vita che lo costringono a ragionare, ed al confronto con Tito, quasi fosse un suo alter-ego lontano, fino alle prese di posizioni, all’affermazione del sé come essere agente e non come essere subente.

Un buon percorso che, alla fine, chiude un buon romanzo, pieno di spunti e di ipotesi future. Non di altre avventure di Marcello, non se ne sente il bisogno. Ma di riflettere sulle sue cose, sulla frase cardine che riporto sotto, e su tante cose che degli anni di piombo ci hanno lasciato come pesante strascico.

In fondo se tutti ci domandiamo se e come è possibile cambiare le cose, la risposta di Marcello, per gradi ci porta alla riflessione di Dario. Non è certo subendo, lasciandosi vivere che si incide. Ma non è neanche con delle ipotetiche fughe in una realtà che nessuno ora condivide. Forse, appunto, è proprio l’inconcludenza di Marcello quando si trasforma, obbligata dalla vita, ad essere attiva, a consentire di trovare uno spiraglio di futuro. Facendomi venire sempre in mente quella massima di Gesualdi, allievo di don Milani, che predicava “sobrietà!”.

È comunque un romanzo colto, pieno non solo di spunti, ma anche di citazioni letterarie e non solo. Ho trovato solidarietà nella sparata della giovane ricercatrice che si scaglia contro Gadda, autore degno e particolarissimo, che, personalmente, mi ha sempre dato fastidio leggere.

Sarà che sono per citazioni più leggere, come quella che vede Marcello apostrofare la sua fidanzata storica Letizia come “Goldilocks”. Ora qui aprire una bella parentesi. Primo, caro Dario, perché non chiamarla italianamente (tanto avremmo capito ugualmente) “Riccioli d’oro”?

Secondo, e più seriamente, in effetti Letizia è quasi un punto di riferimento solido per la costruzione di Ferrari. Infatti, ricordo ai meno adusi alle favole inglesi, che in “Riccioli d’oro ed i tre orsi” si narrano le vicende di una bimba impertinente alle prese con tre orsi. Ma non mi interessa la fiaba, bensì la morale, a valle della regola del tre (un orso scarso, un orso eccessivo, un orso giusto), cioè l’idea che la via da seguire sta nel trovare un'esatta via di mezzo tra gli opposti. Una regola di vita fondamentale.

C’è anche una punta morale anche negli atteggiamenti conclusivi di Marcello, una volta che, bagnatosi alla fonte di Tito, rivede i suoi sogni nel confronto con il reale, quasi a volerci dire, infine, che i sogni sono una prerogativa solo di chi se li può permettere.

Comunque, alla fine, un sentito grazie a Ferrari, alla sua scrittura, ed alla smossa che dà ai nostri poveri neuroni.

“È l’oppressore che arma la mano dell’oppresso.” (131)

“Alle volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane (da Calvino).” (455)

Pier Vittorio Buffa “La casa dell’uva fragola” Piemme s.p. (Regalo di Emilio&Fako)

[A: 12/09/2023 – I: 24/09/2023 – T: 26/04/2024] &&& e ½   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 285; anno: 2023]

Come in altre trame, devo cominciare con confessare anche qui qualche difficoltà nell’affrontare lo scritto di un autore nonché giornalista con cui ho passato cinque intensi anni di vita in un contatto continuo. Per poi continuare saltabeccando qua e là, e ritrovarsi, onusti d’età e d’esperienze, in questo canuto tramonto.

Per cui con qualche timore ho affrontato la prosa di Pier Vittorio, pur conoscendone le doti giornalistiche, pur avendo interessanti documentazioni da lui preparate sulla Seconda Guerra Mondiale, e quindi conoscendone in buon grado le doti descrittive. Ma quando si legge di persone vicine, c’è sempre la paura che l’amicizia contrasti il giudizio sereno. Buono o cattivo quando serve, ma di sicuro sempre guidato dalla testa, dal cuore e dalla pancia.

Per cui, torniamo subito al libro, galeotto come tutti, anche se questo non parla (o non parla solo) d’amore tra persone, ma parla d’amore per i luoghi, d’amore per la propria storia e per la propria appartenenza. Amore che ben si sviluppa, parlando d’altro, quasi come si fosse in tribuna a seguire uno spettacolo giù nell’arena.

Ed è proprio con l’occhio da giornalista di cronaca che Pier Vittorio si cimenta con la storia di una casa e con le persone ad essa legate. Ovvio, e noi lo sappiamo anche se poco influisce sulla lettura, che la casa è quella che Pier Vittorio ha frequentato tutte le estati della sua giovinezza (e forse anche qualcosa in più). Ma la casa dell’uva fragola è la storia di persone che vi hanno vissuto, che hanno portato avanti la vita, e tutto il loro essere, lungo il corso di lunghi e non facili anni.

La storia si spande dall’inizio della prima all’inizio della Seconda guerra mondiale. Ma, come ci avverte l’autore, è una storia che poi si espande prima e dopo, coinvolgendo tanti generazioni di cabiagliesi e non solo. Che la casa si trova, ora, in quella che fu ribattezzato durante il fascismo con il nome di Castello Cabiaglio, e di quella casa seguiamo la storia attraverso le persone che lì hanno vissuto (o che da lì sono transitate nella loro vita).

Con il suo collaudato piglio di giornalista di cronaca, Pier Vittorio ci prende per mano, ci fa fare vie laterali, conducendoci insieme al postino Isidoro per le vie di Cabiaglio, fino ad arrivare lì, alla casa che nel 1915 è guidata con piglio fermo da Ezechiella. Attraverso di lei conosciamo la storia dei Zanzi, dei De Maria, dei Porrani, dei Buffa. Percorriamo senza accorgercene le strade del tempo che dall’Ottocento ci hanno portato lì, e che da lì ripartiranno per quel pezzo del Novecento triste e dolente.

Ci vengono presentati i personaggi, lì dove il tocco dello scrittore ci fa intuire come la componente femminile sia l’asse portante del gruppo familiare in quell’interno. Che è ovvio rimanga ben impressa alla mente la figura di Ezechiella, ma anche quella di Pia, di Lina, di Cencia. Intorno si aggirano anche i maschi. Il patrono della casa, Giovanni De Maria, il primo figlio Ernesto che rimarrà sui campi di guerra. La figura, discreta, ma intensamente forte, di Agostino, che non si smonta per aver perso una gamba in guerra, continuando per tutta la vita ad essere soldato, dentro e fuori, a trasmettere questa rettitudine a tutti i suoi discendenti, insieme all’amore per i cavalli. Non dico altro ma ricordo con piacere una giornata a Piazza di Siena.

Come sottolinea lo stesso autore in ex ergo, sono le donne quelle a cui lui presta attenzione. E sono quelle che a me rimangono impresse. Lina per la sua scelta di puro amore che sarà coronata dal successo familiare tanto da diventare una colonna portante dell’asse generale delle famiglie. E la Cencia, che all’inizio seguiamo giovane e inesperta, ma che matura grandemente e con una coscienza sociale, che l’autore accenna, ma che noi, conoscendo la Storia, sappiamo rappresentare quell’asse sotteso che riuscì a portare l’Italia fuori dalla guerra e dal fascismo (almeno negli anni Quaranta; per l’oggi lascerei sospeso il giudizio).

Ripeto, sono contento di aver fatto questo viaggio nel tempo con la complessa famiglia Buffa. E ritrovo, nella scrittura di Pier Vittorio, immutato negli anni, l’ardore civile e civico che lo ha sempre contraddistinto.

Infine, avendo iniziato con ricordi personali, con questi anche finisco. Che la famiglia Buffa, una sola volta, passò le vacanze al mare, quando la Lina porto i figli a Varazze. Cosa che mi ha toccato il cuore che io, benché “romano de Roma”, ho una punta di sangue ligure, dovuto alla mia carissima nonna materna, Paola Bianca dei Marchesi Torriglia di Varazze.

Iniziamo allora questo maggio ricordando le complessivamente buone letture del mese di febbraio. Con tre letture al top: il capitolo finale della scrittura di Cormac McCarthy, e due libri datati ma molto interessanti. Un giallo di Alessandro Varallo ed una prova dello scorso secolo di Haruki Murakami. E con tutte le altre letture di sicuro buon livello, tanto che nessuna si posiziona sotto i due libri di gradimento, la soglia minima per risultare in ogni caso una lettura gradevole.

 

#

Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Alan Bradley

Il Natale di Flavia de Luce

Repubblica Brivido Noir

8,90

2,5

2

Annamaria Fassio

Desaparecidos

Mondadori

6,90

3

3

Lisa Taddeo

Tre donne

Corriere Americana

8,90

3,5

4

Edogawa Ranpo

La strana storia dell’isola Panorama

Capolavori Giapponesi

8,90

3

5

Pieter Aspe

Il caso Dreyse

Repubblica Emozione Noir

7,90

3

6

Cormac McCarthy

Stella Maris

Einaudi

s.p.

4

7

Giovanni Cocco & Amneris Magella

La sposa nel lago

Marsilio

10

2,5

8

Anders Roslund & Borge Hellstrom

Tre secondi

Corriere Profondo Nero

7,90

3

9

Isabel Allende

Eva Luna

Repubblica Latino-americana

9,90

3

10

Simona Tanzini

Conosci l’estate?

Sellerio

14

3,5

11

Alessandro Robecchi

Pesci piccoli

Sellerio

16

2,5

12

Christian Jacq

La regina d’oro

tre60

s.p.

2

13

Alessandro Varaldo

Il sette bello

Mondadori

5,90

4

14

Martin Caparros

Tutto per la patria

Repubblica Brivido Noir

8,90

2

15

Haruki Murakami

La ragazza dello Sputnik

Corriere

8,90

4

16

Giancarlo De Cataldo

Io sono il castigo

Repubblica Noir

8,90

3

17

Yoshida Shuichi

Appartamento 401

Corriere

8,90

2

Parliamo di romanzi, ed allora come non citarne un meta libro, “La libreria del buon romanzo” di Laurence Cossé. Dove mi piace riportarvi due considerazioni sul rapporto a due: “Dio sa quanto amo le donne, quanto le ho amate e quanto alcune abbiano desiderato rimanere con me … Quel che sono in grado di offrire io non è abbastanza reale perché una donna possa immaginare di farne qualcosa … ho sempre proposto più instabilità che sicurezza … La vita in comune e tutto ciò che ne consegue è una via che non sono in grado di percorrere … da parte mia non è una scelta, è una incapacità … so troppo bene che darei una delusione a che si fida di me” (117). E “Ora so come fare la corte a qualcuno che non crede più in sé stesso, so che bisogna essere pazienti e fiduciosi nonostante tutto, e che la cosa può durare un pezzo” (401).

Passati problemini, e rimasti doloretti, non possiamo tacere l’ottima vacanza trascorsa i giorni passati a Barcellona, dove si mancava da anni e che ho trovato di una gradevolezza assoluta. Non solo per le belle cose da vedere, e ce ne sono, ma proprio per la città stessa, il suo modo di vivere e il meraviglioso giardino della libreria “La Central”. Dovete andarci o tornarci, ne vale sempre la pena. Per questo fortemente vi abbraccio.

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