Quattro buoni romanzi ed un quinto, quello che pensavo più ironico, il meno riuscito.
Sì, perché l’ultima prova di Recami con il
ritorno dei “protagonisti della ringhiera” non mi ha convinto. Invece abbiamo
due stranieri e due italiani che si stagliano “verso le alte vette”. C’è un
romanzo iconico di Brautigan, c’è la fatica di Labatut intorno all’intelligenza
artificiale. E per gli italiani, una riuscita prova (con qualche riserva) di
Dario Ferrari ed un romanzo narrazione di Pier Vittorio Buffa, di cui leggerete
per capirne i motivi della mia affezione.
Francesco
Recami “Colpo grosso ai Frigoriferi Milanesi” Sellerio s.p. (Regalo di
Emilio&Fako)
[A: 29/08/2023
– I: 12/09/2023 – T: 13/09/2023] &&
+
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 321; anno: 2023]
Dopo
aver fatto escursioni in altri possibili romanzi seriali, ecco che, seppur
saltuariamente, Francesco Recami torna ai suoi personaggi di maggior successo,
quelli della cosiddetta “Storie della Casa di Ringhiera”. Sono passati ben
quattro anni dall’ultimo libro della serie, che, in un certo senso, sembrava
quasi voler porre un termine a queste storie. Ma si sa, i personaggi sono
tiranni, faticano a farsi lasciar andare. Fatica che si somma alle difficoltà
di un autore a variare il copione su cui si sono inseriti.
È lo
stesso Recami, infatti, che in un intervista confessa di aver avuto difficoltà
nella scrittura di questo romanzo, prendendolo e lasciandolo, ingarbugliandolo
e cercando di semplificarlo. Alla fine esce un romanzo con alcuni spunti,
alcuni rimandi ed un tentativo di meta-testualità interessante ma non sempre
ben congeniato.
La
trama è semplice nella sua complessità: un gruppo di persone eterogeneo decide
di effettuare una rapina in una struttura denominata “Frigoriferi Milanesi”,
che non è altro che una vecchia “Fabbrica del Ghiaccio”, riconvertitesi in una
struttura complessa comprendente anche dei sotterranei blindati, suddivisi in
grandi caveaux, come cassette di sicurezza giganti. Il capo della banda di cui
sopra, e di cui parleremo, è convinto, a torto o ragione, che in uno di questi
depositi siano conservati oro ed altri oggetti preziosi che, in un romanzo
precedente, una piacente signorina tedesca dovrebbe avergli rubato.
Vediamo
fin dall’inizio che la banda ha visto e ben compreso la lezione del serial
spagnolo “La casa di carta”, così che ognuno ha un suo soprannome: il Solista
non può che essere il capo delle operazioni, con ai lati Piero che si dedica ai
mezzi di trasporto, Faccia d’Angelo per lo sviluppo e l’utilizzo di
apparecchiature elettroniche, nonché Renè che, in quanto più giovane, è
preposto all’operazioni movimentate. A supporto, abbiamo la Mata Hari del
gruppo, la signora Miciona, che si dedica alla ricerca di informazioni
attraverso tutti i mezzi, leciti o illeciti, abbiamo la signorina Piccerella,
che deve sfruttare le sue abilità di trasformismo, e la signorina Mantide, che,
come dice il nome stesso, sarà la seduttrice del gruppo.
Dopo
un inizio spaesante, anche se abbiamo qualche sospetto, il nostro gruppo di
finti banditi, si rivela per quello che è. Nell’ordine di cui sopra, abbiamo i
vari inquilini della casa di ringhiera: il centro dell’azione focalizzato su
Amedei Consonni, con l’anziano ma sempre pronto alla guida Luis De Angelis, il
giovane dedito all’azione Antonio, l’informatico che si era trasferito,
l’anziana signorina Mattei-Ferri, l’amica e non solo di Amedeo, Angela
Mattioli, con a corredo la figlia. Abbiamo anche dei caratteristi che entrano
nel coro generale pur non essendo in primo piano nell’azione. Servono a dare
tocchi di colore alla vita milanese, come gli Scemaghi, la famiglia devota a
comportamenti altamente salutari, o come le amiche romagnole, giovani,
scapestrate e sempre pronte al riso.
Non
è particolarmente utile, per i nostri fini, seguire le modalità che i nostri
attuano per reperire le informazioni necessarie per entrare nei caveaux, né
serve sapere se troveranno quello che cercano, se la tedescona Yutta c’entra o
meno, se i cinesi del pian terreno daranno una mano. E tanti altri punti
interrogativi, che potete deliziarvi andandoli a leggere.
Dato
che quello che interessa a Recami, e che serve a portare avanti la trama, è la
trovata, che esce fuori dopo i tre quarti del testo. I vari personaggi della
trama non sono sempre in primo piano, ed allora, con una trovata pirandelliana
alla “sei personaggi”, ne seguiamo l’uscita di scena, quando appunto non sono
in primo piano, ed il loro parcheggiarsi in uno spazio sospeso, che l’autore
battezza “Nonmondo”. Da quel punto in poi la trama in un certo qual modo,
decade, entra ed esce dalla sua realtà fittizia, a dimostrare che Recami non
riusciva a far procedere congruentemente una trama lineare, e si è inventato
una trovata diagonale sia per portare a compimento il testo sia per cercare di
tenere il lettore sulla pagina.
Purtroppo
un tentativo che non dà molto respiro, ed ha l’unico risultato di rendere
l’ultimo quarto del libro una serie di sequenze che non aiutano molto a
ristabilire l’ironicità di fondo dei testi di Recami. L’autore vorrebbe
coinvolgerci nelle sue riflessioni sul tempo che avanza, sugli spazi che
cambiano, sulla vita e sulla sua assenza. Ma noi si preferiva lo scanzonato
mondo di Consonni, come era nei primi tempi, anche se, magari, con qualche
risvolto positivo in più nei rapporti interpersonali.
Due
appunti per finire. Una riguarda la sempre più trasversalità delle opere di
scrittura. Giulia Mattioli, la figlia di Angela, dovendo andare ad un concerto
degli Immortal, una band metal norvegese, si traveste da Lisabeth Salander,
quella della trilogia di Larsson. L’altra l’aggancio sempre presente e gradito
alla realtà milanese, che la fabbrica citata, si chiama “Magazzini Refrigeranti
e del Ghiaccio Artificiale Gondrand Mangili” un luogo presente vicino a Porta
Vittoria, realizzato in una stupenda palazzina liberty di fine ‘800.
Speriamo
che Recami riesca a tornare sui solchi della sua migliore fantasia.
Benjamin Labatut “Maniac” Adelphi euro 20
[A:
25/12/2023 – I: 03/03/2024 – T: 06/03/2024] - &&& +
[tit. or.: The MANIAC; ling. or.: inglese; pagine: 361; anno 2023]
Benjamin Labatut è uno scrittore cileno con
doppia nazionalità (olandese) e questo libro l’ha scritto in inglese. È un
“divulgatore epistemologico”, come ha mostrato il suo primo libro (“Quando smettemmo
di capire il mondo”), e che qui si ingegna in un’operazione anche più
complessa, ma che, fin dall’inizio, tende a dimostrare un assunto ben preciso
scolpito nella mente dell’autore: i guasti e le gioie dell’Intelligenza
Artificiale.
L’idea dell’autore è di mostrare la sua tesi
attraverso tre passi, non verso le nuvole (che tra l’altro nel film di Blasetti
erano quattro), ma verso il delirio (come nel film ad episodi diretto nel ’68
da Roger Vadim, Louis Malle e Federico Fellini). O meglio attraverso la crisi.
Il primo è un passo breve, che illustra la
crisi della fisica assediata dalla matematica. Il secondo è un lungo passo, che
porta la crisi della matematica applicata, assediata da chi sa meglio fare i
calcoli. L’ultimo è di nuovo un breve passo, che illustra la crisi della
creatività assediata dall’intelligenza artificiale. E ad ogni passo, Labatut
usa un uomo, eponimo del passo stesso.
Il primo passo, narrato in terza persona, si
concentra su di una data: 25 settembre 1933. Il grande matematico e fisico Paul
Ehrenfest entra nell’ospedale che ha in cura il figlio down, gli spara e si
uccide. Motivo? Certo la follia, ma una lucida follia. Ehrenfest aveva compreso
che i nuovi sviluppi della fisica stavano portando all’introduzione di elementi
irrazionali incontrollabili. Vedeva la matematica entrare nelle descrizioni dei
fenomeni, con quel suo essere esattamente aliena, ingestibile. Questa per lui
fatale consapevolezza, unita alla depressione che lo stava avvolgendo (non
ultimi i timori per la sempre più veloce crescita del nazismo) portano il
fisico al gesto che apre il libro.
Il secondo e lungo passo è la storia
complessa della vita e delle opere di una delle menti più geniali della storia:
John von Neumann. Come afferma il suo amico Eugene Wigner: “A questo mondo ci
sono due tipi di persone: von Neumann e gli altri”. Questo passo complesso è
narrato da Labatut attraverso una lunga serie di piccoli contributi inventati,
pur basati su elementi reali, dove, attraverso le testimonianze di persone
vicine al genio, ne risulta la pittura in movimento di tutta la sua vita,
dall’infanzia alla morte. Voci che tracciano la sua personalità, l’abisso di
angoscia cui faceva piombare le persone a lui vicine che non riuscivano mai a
sentirsi alla sua altezza, ma anche una freddezza visionaria eppur coerente
(vedere le dure frasi che pronunciò per convincere i generali americani sul
punto di maggior impatto per far deflagrare la bomba atomica).
Il nostro genio alieno nasce in Ungheria come
János Lajos Neumann, da una famiglia elevata al rango aristocratico nel 1913,
così da aggiungere il “prefisso” von. È di un’intelligenza anni luce avanti ai
suoi coetanei, ma che rimase sempre diretta verso le scienze (la moglie Klara
affermerà: “Quell’uomo non sapeva neanche allacciarsi le scarpe”).
Così, nella prima parte vediamo l’infanzia
sino al trasferimento in America ed al cambio del nome in John. Attraverso le
parole dell’amico Wigner (futuro premio Nobel), della madre, del fratello,
della prima moglie. Tutto teso, oltre all’aspetto privato, alla ricerca di
poter fondare la matematica su di una base coerente di assiomi, tentativo fatto
naufragare dagli inarrivati teoremi dell’incompletezza di Kurt Gödel.
Nella seconda parte viene preso in esame
tutto il contributo di von Neumann al Progetto Manhattan sulla costruzione
della bomba atomica, sino agli sviluppi post-bellici di architetture
informatiche per la costruzione di una macchina computazionale. Quella appunto
sviluppata che porta Nicholas Metropolis a costruire MANIAC (acronimo per Mathematical
Analyzer, Numerical Integrator, and Computer).
L’ultima parte dei testi su von Neumann sono
dedicate da un lato al duro confronto con il matematico italo-norvegese Nils
Aall Barricelli sulla vita artificiale, dall’altro agli ultimi anni,
dolentemente descritti dalla seconda moglie Klara (che tra l’altro fu la prima
a scrivere un programma per MANIAC), attraverso l’improvviso insorgere e
degenerare di un tumore al pancreas.
Quello che emerge, a parte le indubbie ed
aliene qualità di Jancsi, è il tentativo, lungo tutta una vita, di portare
avanti una computazione che potesse alleviare l’uomo da calcoli ripetitivi, ma
che fosse, ad un certo punto, di stimolo per l’uomo stesso. Anche se, nella sua
perfezione, non aveva compreso un elemento che Turing amava sottolineare:
l’importanza della casualità nella costruzione di macchine intelligenti.
Un assist che permette a Labatut di arrivare
all’ultimo capitolo, tutto devoto all’IA. E tutto incentrato su un genio
sud-coreano e sulla sfida tra lui e AlphaGo. Perché a partire dagli anni
Cinquanta, dal sasso lanciato da von Neumann, i calcolatori e l’intelligenza
artificiale faranno passi da gigante. Tanto che nel 1997 DeepBlue, un calcolatore costruito
per questo solo scopo dall’IBM, batte il più grande campione di scacchi
dell'epoca, Garry Kasparov.
Ma qui si passa ad un gioco ancora più
complesso e quasi artistico: il go. Ed al suo campione indiscusso negli anni
Dieci di questo secolo, il sud-coreano Lee Se-dol. Nel marzo 2016, Lee affronta
AlphaGo, un calcolatore appositamente creato per giocare a Go. La potenza di
calcolo ormai raggiunge livelli inarrivabili, ed AlphaGo può costruire le sue
partite su milioni di milioni di esempi. È facile predire che sarà lui a
vincere la sfida per 4 a 1, ma è importante soffermarsi proprio su quell’1.
L’unica vittoria di Lee è dovuta ad una mossa “fuori schema”, ricordata negli
annali del go come “mossa 78”. Tanto imprevista che il calcolatore non riesce
ad interpretarla, i suoi programmi vanno quasi in tilt, inducendolo in mosse
insensate che portano Lee alla vittoria.
È il trionfo della casualità predicata da
Turing. Ma da quel punto in poi gli sviluppatori dell’IA cominceranno ad
ipotizzare costruzioni impreviste che potranno portare l’IA verso i salti
logici propri dell’intelligenza umana.
È un’opera di finzione che l’autore
costruisce attraverso brandelli di realtà, veri o presunti. Uno scritto che
tenta di delineare la figura di una “macchina pensante” (che per fortuna non lo
è ancora), ma che per diventare quello che ora è qualcosa di simile a ChatGPT,
è dovuta passare per un momento creativo, di forte tensione, durante gli anni
Quaranta, che ha portato due risultati diversi ed opposti: l’intelligenza
artificiale e la bomba atomica.
Un libro che, pur nella complessità della sua
costruzione, fa riflettere il lettore, facendogli fare un giro completo della
mente per ritornare al punto di partenza di Ehrenfest: arriviamo al punto di dare
nuove leggi al cosmo e non poterle tradurre attraverso delle formule. Un buon
libro, anche se in alcune parti (alcune delle testimonianze reali-fittizie
della vita di von Neumann) non riesce pienamente nel suo intento.
Richard Brautigan “La pesca alla trota in
America” Corriere Americana euro 8,90
[A: 10/01/2024 – I: 08/03/2024 – T: 10/03/2024]
- &&&
[tit. or.: Trout Fishing in America; ling. or.: inglese; pagine: 142; anno 1967]
Un libro? Un romanzo? Una poesia? Questo è un
volo della mente nel cuore duro di un’America che vota (ora) Trump vista,
descritta, irrisa da chi non andrà mai a votare. E seppur geniale e
irriverente, raggiunge molti scopi, si legge in un sospiro, muove qualcosa
nella testa (e non è poco), ma alla fine si squaglia al sole. È stato bello
leggerti, cara Pesca alla trota, ma il tuo mondo (il mio mondo) è stato
sconfitto e la risata non è riuscita a seppellire nessuno.
Brautigan è stato il classico esempio della
controcultura americana, sul lato scrittura, come altri lo furono in altri
campi. Dopo una dura infanzia e giovinezza, segnata da alcool, schizofrenia, elettroshock
per episodio paranoici, poco dopo i vent’anni partendo dalla natia Tacoma (sul
Pacifico verso il Canada) si ritrova nella brulicante San Francisco della fine
degli anni Cinquanta. Lavoretti salutari, vita al limite, scrittura di poesie
per sbarcare il lunario. Poi nel ’61, durante un campeggio nel poco lontano
Idaho, scrive di getto questo “testo”, che chiamerò testo d’ora in poi, essendo
ogni altra definizione poco calzante.
Un testo che era già allora difficile da
assimilare, che per anni nessuno vuole pubblicare, fino a che un piccolo
editore, nel 1967, la “Four Season Foundation” di Donald Allen, uno dei primi
guru della controcultura, decide di tentare la sorte. Ne vende 29.000 copie,
quando del libro si accorge una casa specializzata in comics e gialli, la
Delacorte, che ne compra i diritti. E vende in poco tempo 2 milioni di copie,
perché era il libro che catturava lo spirito della beat generation, quella che
ascoltava Bob Dylan e Janis Joplin, che teneva Philip K. Dick sul comodino,
mentre ascoltava Ginsberg e Ferlinghetti.
Fu il successo, ma per Brautigan fu, da
allora, la scoperta di essere uno sfigato di successo. Non riuscì più a
produrre testi così ben accolti, anche se alcuni libri hanno avuto una buona
riuscita. Non entro in tutte le vicende di Brautigan che ne volevo solo
delineare le prime fasi, per poi dispiacermi con voi che a poco a poco la fama
scema, lui torna agli episodi schizoidi dell’infanzia, e nel settembre del 1984
si spara un colpo di pistola alla testa.
Ma cos’è questo testo: un insieme di episodi,
brevi racconti, fotogrammi narrativi, sperimentazioni stilistiche, storie
stralunate di amori finiti male, di amari incontri, d’improvvise allegrie e
malinconici congedi. Piccole storie quotidiane che ruotano intorno a quel luogo
immaginario che è un ruscello in cui guizzano, o almeno dovrebbero, le trote, e
che a volte è una pozza d’acqua rafferma, una discarica o una casupola di legno,
diventando un torrente montano smontato a pezzi, venduto nel Deposito Demolizioni
di Cleveland. Un’ironia senza freni come quando descrive l'acquisto di un paio
di scarpe e la possibilità di avere in omaggio un paio di calzini. Un’ironia
che rovescia i canoni della vita cosiddetta normale.
Pesca alla trota in America non è solo il
titolo di questo testo, è il testo stesso, a volte è un personaggio incarnato
dal nome Pesca alla trota in America, qualche volta è semplicemente
un'attività, poi è un ricettario e allo stesso tempo un commensale di Maria
Callas, un cadavere o una frase capace di farti finire per direttissima
nell'ufficio del preside, un’entità che diventa un oracolo, il vestito di Jack
lo squartatore, un alberghetto, uno stato mentale, un barbone alcolizzato. Un
disordine globale, perché è impossibile trovare l'ordine nella vita, dove
l’ordine non c'è. Dove, alla fine, non c’è niente per cui valga la pena
affannarsi, è sempre meglio sorridere e andare a pescare!
Difficile quindi parlarne da esterni. Ma
entriamo nel mondo di Brautigan con alcuni punti che esemplificano la sua forza
e la sua follia.
Nella prima edizione (e nelle migliori
seguenti), non c’è titolo né autore. Il testo si presenta con una fotografia
che ritrae Brautigan (un gran pezzo d’uomo alto quasi due metri) in piedi con
tanto di cappello, panciotto e jeans, davanti alla statua di Benjamin Franklin
in Washington Square a San Francisco, con accanto l'amica Michaela Le Grand. In
questo modo, sottolinea nell’introduzione, tutte le persone che ogni giorno si
ritrovano sotto quella statua, si ritroveranno allo stesso tempo davanti al suo
libro.
Mi permetto poi di citare un breve brano,
come anche altri hanno fatto.
Titolo: “Omaggio di una mezza domenica a un
Leonardo da Vinci intero”.
“In questa strana giornata d’inverno nella
piovosa San Francisco, Leonardo da Vinci mi è apparso in visione. La mia donna
è fuori a sgobbare, lavora anche la domenica, non ha neanche un giorno libero.
È uscita di casa stamattina alle otto per andare al lavoro all’angolo tra
Powell e California. Io me ne sono stato seduto qui come un rospo su un tronco
a sognare Leonardo da Vinci.
Ho sognato che era un dipendente della South
Bend – Attrezzature da pesca, ma, naturalmente, indossava abiti diversi,
parlava con un accento diverso e aveva avuto un’infanzia diversa, magari una
tipica infanzia americana in una città come Lordsburg, in New Mexico, o
Winchester, in Virginia.
L’ho visto mentre inventava una nuova esca
rotante per la pesca alla trota in America. L’ho visto prima lavorare
d’immaginazione e poi col metallo, i colori e gli ami, provando prima una cosa
e poi l’altra, prima aggiungendo un po’ di movimento, poi togliendolo e quindi
tornando a mettercene dell’altro, ma stavolta diverso, finché alla fine l’esca
era bella e inventata.
Allora aveva chiamato i superiori. Appena
quelli vedevano l’esca, cadevano a terra svenuti. Solo, in piedi in mezzo a
quei corpi stesi a terra, Leonardo teneva in mano l’esca e decideva di darle un
nome. La chiamava “L’ultima cena”. Poi si dava da fare per rinvenire i suoi
capi.
Nel giro di pochi mesi quell’esca per la
pesca alla trota divenne la sensazione del Ventesimo secolo, sorpassando di
gran lunga imprese superficiali come Hiroshima o il Mahatma Gandhi. In America
si vendettero milioni di “Ultime Cene”. Perfino il Vaticano ne ordinò diecimila
e lì non avevano neanche una trota.
La gente faceva a gara per fare pubblicità
all’esca. trentaquattro ex presidenti degli Stati Uniti dissero tutti: ‘Con
“L’ultima cena” ho battuto il mio record’.”
E poi la fine. In un breve paragrafo
Brautigan afferma “Per esprimere un bisogno umano, ho sempre desiderato
scrivere un libro che finisse con la parola maionese”. L’ultimo capitolo è una
breve finta lettera della madre che termina con il seguente postscriptum: “PS:
Mi dispiace di essermi scordata di darvi la maionese”.
Geniale!
Dario
Ferrari “La ricreazione è finita” Sellerio s.p. (Regalo di Alessandra)
[A: 25/12/2023
– I: 05/04/2024 – T: 07/04/2024] &&&&
---
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 466; anno: 2023]
Se
ne era sentito parlare in giro da diversi amici, ed allora si è chiesto di
averne un regalo l’ultimo Natale. Ed ora, in quel di Pasqua si è letto, con
discreto piacere ed interesse.
Ferrari
è di vena toscana tendente alla spiaggia, di sicuro studioso con dottorato in
quel di Pisa, dove di certo conosce l’ottimo Malvaldi, da cui deriva, ma
interpretandoli, alcuni modi di porre il testo. Come di sicuro la genesi
interna del libro non può aver prescisso da Pisa sia come luogo di studio che
come luogo di lotta.
È
una scrittura piacevole la sua, anche se il testo è complesso, ed in un certo
senso è come se avesse riunito due romanzi in uno (o forse anche più di due). Con
una grande lente vediamo da un lato, la parte personale con il percorso di vita
del protagonista, Marcello Gori. Dall’altra, la parte politica con il diverso
percorso di Tito Sella, compendiato in una elaborazione testuale, e biografica,
del fittizio pisano che si condensa in un lungo capitolo di centocinquanta
pagine che poteva avere la dignità di una libro a sé.
Ma
se poi scendiamo più vicino al testo, ne vediamo uscire altri, che si snodano
attraverso i due filoni su esposti. C’è il romanzo universitario, imperniato
nel mondo accademico e di cui Ferrari fa un dipinto realistico e impietoso. C’è
il romanzo di formazione, dove vediamo evolversi la vita di Marcello avvinta
come un’edera a quella di Tito. C’è il romanzo nel romanzo, quello che meno mi
ha convinto, dove Marcello scrive a modo suo il romanzo perduto di Tito. C’è
infine il romanzo giallo, perché c’è anche un piccol mistero, che Marcello
scopre e ci rivelerà nel lungo e personale finale.
L’inizio
è folgorante e coinvolgente. Ferrari ci narra in prima persona le vicende
personali di Marcello, inconcludente trentenne, che aspetta che le decisioni
vengano prese al posto suo, che non sa cosa fare dopo una dignitosa tesi su
Kafka, non volendo subentrare al padre nella gestione del bar di famiglia.
Quasi senza scopo, Marcello partecipa ad un concorso per ricercatori imbandito
dal barone di Italianistica, il professor Sacripanti. Ed in maniera
rocambolesca, vince uno dei due posti. A valle del quale il prof lo convince a
dedicarsi ad una tesi su di un autore di nicchia, l’ex-terrorista Tito Sella,
morto in carcere dopo una condanna all’ergastolo per banda armata e morti
varie, ed autore di alcuni testi marginale eppur interessanti. Oltre ad un’autobiografia
scomparsa, intitolata “La Fantasima” (crasi improbabile tra fantasia e
fantasma).
Tutta
questa parte è spesso ironica con spunti arguti sul mondo claustrofobico ed
impermeabile all’esterno delle accademie universitarie. Magistrale è il
concione di Carlo, lo sfortunato dottorando amico di Marcello, sull’uso delle
note a piè di pagina dei testi accademici. Folgorante è il giudizio sulla boria
dei suddetti accademici (come fa dire a Marcello: “Gente che scuote la testa
incredula nel constatare che il loro ‘La metrica nella poesia vernacolare
italiana tra Ottocento e Novecento’ ha venduto meno dell’ultimo Strega”).
Saltando
un romanzo, c’è poi quello che meno mi ha convinto. Marcello per la sua ricerca
si trasferisce a Parigi entrando in contatto con i fuoriusciti della “dottrina
Mitterand”, e li scrive e ci ripropone per intero la finta ma reale biografia
di Tito. Ne esce fuori una visione un po’ goliardica del terrorismo italiano,
dove magari c’è anche del vero in quelle discussione nei centri periferici
lontano dalle grandi città. Una storia che forse viene da un idea laterale
dell’autore, e che serve certo ad illustrare alcuni passaggi del progredire
nella vita di Marcello, ma forse è troppo lunga ed irrisolta. Ho apprezzato
alcuni tipicizzazioni di estremismi immaturi (con alcune punte che ho rivisto
in discussioni sentite ai tempi). Ma soprattutto mi ha fatto venire in mente
una trasfigurazione, in alcune scelte di Tito, alcune posizioni, soprattutto
morali di Adriano Sofri, che sempre di quelle parti era.
La
parentesi parigina comunque permette a Marcello di risolvere il giallo appena
velato che si presenta durante tutto il romanzo. Una soluzione forse un po’
scontata, almeno così l’ho vista io, ma che chiude questo tipo di romanzo in
poche e sentite battute.
Rimane
quello citato per secondo, che in effetti permea come una vena irrorante buon
sangue, tutto il testo. La formazione di Marcello, dall’agnosticismo ed il poco
impegno mentale, attraverso le vicende della vita che lo costringono a
ragionare, ed al confronto con Tito, quasi fosse un suo alter-ego lontano, fino
alle prese di posizioni, all’affermazione del sé come essere agente e non come
essere subente.
Un
buon percorso che, alla fine, chiude un buon romanzo, pieno di spunti e di
ipotesi future. Non di altre avventure di Marcello, non se ne sente il bisogno.
Ma di riflettere sulle sue cose, sulla frase cardine che riporto sotto, e su
tante cose che degli anni di piombo ci hanno lasciato come pesante strascico.
In
fondo se tutti ci domandiamo se e come è possibile cambiare le cose, la
risposta di Marcello, per gradi ci porta alla riflessione di Dario. Non è certo
subendo, lasciandosi vivere che si incide. Ma non è neanche con delle
ipotetiche fughe in una realtà che nessuno ora condivide. Forse, appunto, è
proprio l’inconcludenza di Marcello quando si trasforma, obbligata dalla vita,
ad essere attiva, a consentire di trovare uno spiraglio di futuro. Facendomi
venire sempre in mente quella massima di Gesualdi, allievo di don Milani, che predicava
“sobrietà!”.
È
comunque un romanzo colto, pieno non solo di spunti, ma anche di citazioni
letterarie e non solo. Ho trovato solidarietà nella sparata della giovane
ricercatrice che si scaglia contro Gadda, autore degno e particolarissimo, che,
personalmente, mi ha sempre dato fastidio leggere.
Sarà
che sono per citazioni più leggere, come quella che vede Marcello apostrofare
la sua fidanzata storica Letizia come “Goldilocks”. Ora qui aprire una bella
parentesi. Primo, caro Dario, perché non chiamarla italianamente (tanto avremmo
capito ugualmente) “Riccioli d’oro”?
Secondo,
e più seriamente, in effetti Letizia è quasi un punto di riferimento solido per
la costruzione di Ferrari. Infatti, ricordo ai meno adusi alle favole inglesi,
che in “Riccioli d’oro ed i tre orsi” si narrano le vicende di una bimba
impertinente alle prese con tre orsi. Ma non mi interessa la fiaba, bensì la
morale, a valle della regola del tre (un orso scarso, un orso eccessivo, un
orso giusto), cioè l’idea che la via da seguire sta nel trovare un'esatta via
di mezzo tra gli opposti. Una regola di vita fondamentale.
C’è
anche una punta morale anche negli atteggiamenti conclusivi di Marcello, una
volta che, bagnatosi alla fonte di Tito, rivede i suoi sogni nel confronto con
il reale, quasi a volerci dire, infine, che i sogni sono una prerogativa solo
di chi se li può permettere.
Comunque,
alla fine, un sentito grazie a Ferrari, alla sua scrittura, ed alla smossa che
dà ai nostri poveri neuroni.
“È
l’oppressore che arma la mano dell’oppresso.” (131)
“Alle
volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane (da Calvino).” (455)
Pier Vittorio
Buffa “La casa dell’uva fragola” Piemme s.p. (Regalo di Emilio&Fako)
[A:
12/09/2023 – I: 24/09/2023 – T: 26/04/2024] &&&
e ½
[titolo:
originale; lingua: italiano; pagine: 285; anno: 2023]
Come
in altre trame, devo cominciare con confessare anche qui qualche difficoltà
nell’affrontare lo scritto di un autore nonché giornalista con cui ho passato
cinque intensi anni di vita in un contatto continuo. Per poi continuare
saltabeccando qua e là, e ritrovarsi, onusti d’età e d’esperienze, in questo
canuto tramonto.
Per
cui con qualche timore ho affrontato la prosa di Pier Vittorio, pur
conoscendone le doti giornalistiche, pur avendo interessanti documentazioni da
lui preparate sulla Seconda Guerra Mondiale, e quindi conoscendone in buon
grado le doti descrittive. Ma quando si legge di persone vicine, c’è sempre la
paura che l’amicizia contrasti il giudizio sereno. Buono o cattivo quando
serve, ma di sicuro sempre guidato dalla testa, dal cuore e dalla pancia.
Per
cui, torniamo subito al libro, galeotto come tutti, anche se questo non parla
(o non parla solo) d’amore tra persone, ma parla d’amore per i luoghi, d’amore
per la propria storia e per la propria appartenenza. Amore che ben si sviluppa,
parlando d’altro, quasi come si fosse in tribuna a seguire uno spettacolo giù
nell’arena.
Ed
è proprio con l’occhio da giornalista di cronaca che Pier Vittorio si cimenta
con la storia di una casa e con le persone ad essa legate. Ovvio, e noi lo
sappiamo anche se poco influisce sulla lettura, che la casa è quella che Pier
Vittorio ha frequentato tutte le estati della sua giovinezza (e forse anche
qualcosa in più). Ma la casa dell’uva fragola è la storia di persone che vi
hanno vissuto, che hanno portato avanti la vita, e tutto il loro essere, lungo
il corso di lunghi e non facili anni.
La
storia si spande dall’inizio della prima all’inizio della Seconda guerra
mondiale. Ma, come ci avverte l’autore, è una storia che poi si espande prima e
dopo, coinvolgendo tanti generazioni di cabiagliesi e non solo. Che la casa si
trova, ora, in quella che fu ribattezzato durante il fascismo con il nome di
Castello Cabiaglio, e di quella casa seguiamo la storia attraverso le persone
che lì hanno vissuto (o che da lì sono transitate nella loro vita).
Con
il suo collaudato piglio di giornalista di cronaca, Pier Vittorio ci prende per
mano, ci fa fare vie laterali, conducendoci insieme al postino Isidoro per le
vie di Cabiaglio, fino ad arrivare lì, alla casa che nel 1915 è guidata con
piglio fermo da Ezechiella. Attraverso di lei conosciamo la storia dei Zanzi,
dei De Maria, dei Porrani, dei Buffa. Percorriamo senza accorgercene le strade
del tempo che dall’Ottocento ci hanno portato lì, e che da lì ripartiranno per
quel pezzo del Novecento triste e dolente.
Ci
vengono presentati i personaggi, lì dove il tocco dello scrittore ci fa intuire
come la componente femminile sia l’asse portante del gruppo familiare in
quell’interno. Che è ovvio rimanga ben impressa alla mente la figura di
Ezechiella, ma anche quella di Pia, di Lina, di Cencia. Intorno si aggirano
anche i maschi. Il patrono della casa, Giovanni De Maria, il primo figlio
Ernesto che rimarrà sui campi di guerra. La figura, discreta, ma intensamente
forte, di Agostino, che non si smonta per aver perso una gamba in guerra,
continuando per tutta la vita ad essere soldato, dentro e fuori, a trasmettere
questa rettitudine a tutti i suoi discendenti, insieme all’amore per i cavalli.
Non dico altro ma ricordo con piacere una giornata a Piazza di Siena.
Come
sottolinea lo stesso autore in ex ergo, sono le donne quelle a cui lui presta
attenzione. E sono quelle che a me rimangono impresse. Lina per la sua scelta
di puro amore che sarà coronata dal successo familiare tanto da diventare una
colonna portante dell’asse generale delle famiglie. E la Cencia, che all’inizio
seguiamo giovane e inesperta, ma che matura grandemente e con una coscienza
sociale, che l’autore accenna, ma che noi, conoscendo la Storia, sappiamo
rappresentare quell’asse sotteso che riuscì a portare l’Italia fuori dalla
guerra e dal fascismo (almeno negli anni Quaranta; per l’oggi lascerei sospeso
il giudizio).
Ripeto,
sono contento di aver fatto questo viaggio nel tempo con la complessa famiglia
Buffa. E ritrovo, nella scrittura di Pier Vittorio, immutato negli anni,
l’ardore civile e civico che lo ha sempre contraddistinto.
Infine,
avendo iniziato con ricordi personali, con questi anche finisco. Che la
famiglia Buffa, una sola volta, passò le vacanze al mare, quando la Lina porto
i figli a Varazze. Cosa che mi ha toccato il cuore che io, benché “romano de
Roma”, ho una punta di sangue ligure, dovuto alla mia carissima nonna materna,
Paola Bianca dei Marchesi Torriglia di Varazze.
Iniziamo allora questo maggio ricordando le
complessivamente buone letture del mese di febbraio. Con tre letture al top: il
capitolo finale della scrittura di Cormac McCarthy, e due libri datati ma molto
interessanti. Un giallo di Alessandro Varallo ed una prova dello scorso secolo
di Haruki Murakami. E con tutte le altre letture di sicuro buon livello, tanto
che nessuna si posiziona sotto i due libri di gradimento, la soglia minima per risultare
in ogni caso una lettura gradevole.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Alan
Bradley |
Il
Natale di Flavia de Luce |
Repubblica
Brivido Noir |
8,90 |
2,5 |
2 |
Annamaria Fassio |
Desaparecidos |
Mondadori |
6,90 |
3 |
3 |
Lisa Taddeo |
Tre donne |
Corriere Americana |
8,90 |
3,5 |
4 |
Edogawa Ranpo |
La strana storia dell’isola Panorama |
Capolavori Giapponesi |
8,90 |
3 |
5 |
Pieter Aspe |
Il caso Dreyse |
Repubblica Emozione Noir |
7,90 |
3 |
6 |
Cormac McCarthy |
Stella Maris |
Einaudi |
s.p.
|
4 |
7 |
Giovanni Cocco & Amneris Magella |
La sposa nel lago |
Marsilio |
10 |
2,5 |
8 |
Anders Roslund & Borge Hellstrom |
Tre secondi |
Corriere Profondo Nero |
7,90 |
3 |
9 |
Isabel Allende |
Eva Luna |
Repubblica Latino-americana |
9,90 |
3 |
10 |
Simona Tanzini |
Conosci l’estate? |
Sellerio |
14 |
3,5 |
11 |
Alessandro Robecchi |
Pesci piccoli |
Sellerio |
16
|
2,5 |
12 |
Christian Jacq |
La regina d’oro |
tre60 |
s.p.
|
2 |
13 |
Alessandro Varaldo |
Il sette bello |
Mondadori |
5,90 |
4 |
14 |
Martin
Caparros |
Tutto
per la patria |
Repubblica
Brivido Noir |
8,90 |
2 |
15 |
Haruki Murakami |
La ragazza dello Sputnik |
Corriere |
8,90 |
4 |
16 |
Giancarlo
De Cataldo |
Io
sono il castigo |
Repubblica Noir |
8,90 |
3 |
17 |
Yoshida Shuichi |
Appartamento 401 |
Corriere |
8,90 |
2 |
Parliamo di romanzi, ed allora come non citarne un meta libro, “La libreria del buon romanzo” di Laurence Cossé. Dove mi piace riportarvi due considerazioni sul rapporto a due: “Dio sa quanto amo le donne, quanto le ho amate e quanto alcune abbiano desiderato rimanere con me … Quel che sono in grado di offrire io non è abbastanza reale perché una donna possa immaginare di farne qualcosa … ho sempre proposto più instabilità che sicurezza … La vita in comune e tutto ciò che ne consegue è una via che non sono in grado di percorrere … da parte mia non è una scelta, è una incapacità … so troppo bene che darei una delusione a che si fida di me” (117). E “Ora so come fare la corte a qualcuno che non crede più in sé stesso, so che bisogna essere pazienti e fiduciosi nonostante tutto, e che la cosa può durare un pezzo” (401).
Passati problemini, e rimasti doloretti, non possiamo tacere l’ottima vacanza trascorsa i giorni passati a Barcellona, dove si mancava da anni e che ho trovato di una gradevolezza assoluta. Non solo per le belle cose da vedere, e ce ne sono, ma proprio per la città stessa, il suo modo di vivere e il meraviglioso giardino della libreria “La Central”. Dovete andarci o tornarci, ne vale sempre la pena. Per questo fortemente vi abbraccio.
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