Ne avevo parlato un paio circa di settimane fa, ed ora ci torno su, approfittando del passaggio di letture tra il capostipite del giallo giapponese, Edogawa Ranpo, al più noto e variegato Jun’ichiro Tanizaki, con alcuni racconti “neri” degli anni Venti di pregevole fatture, ed un buon romanzo sempre di quegli anni. Per poi venire nel nostro secolo con due prove di diversa riuscito di uno degli epigoni del nero giapponese, Yoshida Shuichi.
Seppur molto legata alla cultura locale, e
spesso non facilmente interpretabile in occidente, grazie anche alle ottime
traduzioni, abbiamo un buon panorama di letture che ci portano vicino una
cultura lontana.
Jun’ichiro Tanizaki “Racconti del crimine
Volume 1” Capolavori Giapponesi 7 euro 8,90
[A: 22/03/2023 – I: 04/11/2023 – T:
05/11/2023] - &&&
[tit. or.: originale
(antologia italiana di testi giapponesi); ling. or.: giapponese; pagine: 237; anno 2019]
È ben noto, Jun’ichiro Tanizaki, per i suoi scritti molto intrisi di
erotismo (come “La chiave” portato poi sugli schermi da Tinto Brass). In realtà
fu molto altro, e non dico meglio (non ne ho le capacità) ma di sicuro a più
ampio spettro, spaziando su tutti i generi, sino ad arrivare ad una letteratura
composita, ma innegabilmente personale. Opere storiche, autobiografiche,
poliziesche, ed ovviamente erotiche. Tanto che per sette volte, dal 1958
all’anno della sua morte nel 1965, fu candidato al Premio Nobel, senza riuscire
però mai a vincerlo.
Io ne ho collezionato un paio di libri che
vengono inseriti, a torto o a ragione, nel filone “giallo”, anche se si tratta
più che altro di indagini, introspezioni, momenti narrativi, in cui sono
inseriti “crimini”, come dice anche questo titolo antologico. Tanizaki,
infatti, dopo un primo periodo di scrittura in maniera tradizionale, dagli anni
’10 dello scorso secolo viene sempre più influenzato dalla cultura occidentale,
cui era venuto in contatto. Tanto che molti sui libri, da quel periodo in poi,
vertono proprio sulla dicotomia tra le due culture, mostrandone le inevitabili
ed insormontabili fratture.
È in quel periodo che diventa un assiduo
lettore di Edgar Allan Poe, e di alcuni suoi epigoni. Così che non ci si
meraviglia che molti racconti del periodo vengano a trattare argomenti simili o
assimilabili a quelli del grande maestro americano.
Qui, prima l’editore Marsilio poi l’editrice
GEDI per Repubblica, propongono una antologia di sei racconti (cinque brevi ed
uno lungo) in un accostamento che non è presente nella bibliografia del maestro
giapponese. Motivo per cui non abbiamo in alto il titolo originale, e motivo
anche che indico la prima comparsa sul mercato. Anche se poi i racconti
spaziano nella scrittura dal 1918 al 1926, per cui ne ho inserita la lettura
prima di altre opere dello stesso Tanizaki. Inoltre, ho preferito leggerne in ordine
cronologico di scrittura (dopo una assidua ricerca in rete) e non secondo lo
scadenziario proposto dall’editore. E con lo stesso andamento ne vado
brevemente ad illustrare qualche punto saliente.
Cronologicamente quindi cominciamo con Il
caso ai bagni Yanagi (Yanagiyu no jiken 柳湯の事件 1918). Come spesso in Tanizaki, c’è uno scrittore che
narra la storia. Mentre era presso un suo amico avvocato, irrompe un giovane,
stravolto, che racconta la strana storia della sua ossessione per una donna.
Racconto molto onirico, dove compaiono gli accenni alla Poe indicati: capelli
di donna che avvolgono i piedi del giovane mentre si lava nella vasca dei bagni
Yanagi. Alla fine del racconto, il giovane viene arrestato, ma è un assassino?
E nel caso chi è il morto?
Meglio articolato è Per la strada (Tojō 途上 1920) considerato uno dei maggiori esempi di giallo
“alla giapponese”. Un uomo viene avvicinato per la strada da un detective che
gli illustra come sia possibile che l’uomo abbia organizzato e poi realizzato
l’omicidio della prima moglie. Anche qui, si arriva sempre alla domanda finale:
racconto fantastico o descrizione realistica di fatti avvenuti?
L’anno successivo scrive altri due racconti: Io (Watashi 私 1921) e Uno stralcio di verbale – Dialogo (Aru chōso no issetsu – Taiwa ある調書の一節 1921). Nel primo, un uomo racconto un episodio della sua
gioventù: da studente avvengono furti nel collegio. È forse lui il ladro? Nel
caso, come mantenere un rapporto sereno con i suoi amici? Nel secondo, come
dice il titolo, c’è il lungo interrogatorio di una persona accusata di un
delitto. Un bellissimo scontro verbale tra l’accusato ed il poliziotto.
Meno coinvolgente ho trovato Il movente di un
delitto (Aru
tsumi no dōki ある 罪 の 時 1922) dove c’è un omicidio avvenuto, un colpevole
confesso e la polizia che cerca di risalire ai motivi del gesto. Un andamento
troppo orientale nella trama, che resta fredda.
Per ultimo ho letto il primo e più lungo testo Storia
di Tomoda e Matsunaga (Tomoda to Matsunaga no hanashi 友田と松永の話 1926). Anche qui abbiamo uno scrittore narratore che
viene contattato da una sua ammiratrice. Suo marito, Matsunaga, scompare e
ricompare ogni quattro anni. È un uomo schivo e gracile, ma dentro una borsa ha
una cartolina inviata dallo scrittore a un tal Tomoda. Perché? Lo scrittore
indaga, e scopre che anche Tomoda appare e scompare ogni
quattro anni, ma Tomoda è grasso, alcolizzato e gestore di un bordello a Tokyo.
Un caso che deve molto a Stevenson o c’è una diversa soluzione?
Non sono di certo i
classici gialli, non c’è indagine. Inoltre, nella maggior parte dei casi la
narrazione vede al centro il criminale stesso, attraverso di cui Tanizaki cerca
di spiegarci i meccanismi che sovraintendono le azioni criminali. È un sottile
gioco letterario che sapientemente usa un genere per parlare di tutto.
Di certo, non è
facile per noi occidentali entrare in tutti i meccanismi che l’autore ci
propone. Per fortuna c’è una buona introduzione della curatrice Luisa Bienati,
che consiglio di leggere dopo i racconti, quasi a farsene una nuova tappa
mentale. Non sono un esperto, ma fonti autorevoli mi dicono che anche le
traduzioni sono di buon livello. Io sottolineo solo che ho anche imparato
l’italiano, dove nel secondo racconto al protagonista risulta gradita
“l’illuvie del mio corpo”. Grande mistero!
Forse, poi, chi ha visitato il Giappone può
avere qualche elemento i più. Come personalmente quando l’autore mi parla dei
luoghi dove si svolgono le vicende: Ueno, Shinjuku, Asakusa. Bisognerà tornarci
ancora.
Jun’ichiro Tanizaki “Nero su bianco”
Giappone, crimini e misteri 9 euro 8,90
[A: 13/12/2022 – I: 25/11/2023 – T:
27/11/2023] - &&&
[tit. or.: 黒白 - Kokubyaku;
ling. or.: giapponese; pagine:
265; anno 1928]
Secondo libro di
Tanizaki che leggo nel quadro di quella parte delle sue opere genericamente
iscritte nell’ambito del “giallo psicologico”. In realtà, anche se c’è una
parte vagamente gialla, è di sicuro un romanzo psicologico, che tiene sospeso
il lettore nell’attesa che si sveli l’esatta natura della mente del
protagonista. Ma non si riuscirebbe ad inquadrare il libro e la scrittura
dell’autore se non facendo riferimento all’ambiente letterario degli anni Venti
in Giappone.
Il dibattito
all’epoca tra gli scrittori di rango era una diatriba tra due termini di
definizione dell’ambito letterario. Da una parte si andava definendo il modo
esplicito dello “shishōsetsu”, il romanzo-confessione, uno dei generi più
praticati in Giappone. Una narrazione in prima persona di quanto avvenga al
protagonista, quasi, appunto, a farne una pubblica confessione. Dall’altra, i
generi meno canonici, come lo “hanzai mono” (traducibile come racconto del
crimine), dove invece si parla della realtà (o di quella che viene considerata
vita quotidiana), magari sostituendo “hanzai mono” con “mainichi mono” (romanzi
della vita di ogni giorno).
Tanizaki entra a
gamba tesa nel contesto letterario, mescolandoli, facendo anche della
confessione un possibile elemento criminale. Come in questo caso, dove fin dal
titolo gioco sull’ambiguità, laddove 告白 – Kokuhaku che
vuol dire confessione si trasforma nel quasi omofono 黒白 – Kokubyaku (appunto
il titolo “Nero su bianco”). Titolo che ridonda sia il tema della confessione
(scrivere nero su bianco), sia la scrittura stessa, dove i giapponesi
scrivevano all’epoca con pennarelli di spazzola fine con inchiostro nero su
foglio bianchi.
Dato, appunto, che
oltre alla componente gialla, a quella psicologica, il romanzo è incentrato
sulle vicende che succedono ad uno scrittore.
La domanda
interiore che Tanizaki si pone scrivendo il romanzo è quanto la scrittura della
finzione sia, possa essere un avvenimento che accade nella realtà. In questo
gioco di specchi multipli, seguiamo quindi la vicenda dello scrittore Mizuno.
Uno scrittore di una antipatia unica, a me lettore, esponente di quella che
viene chiamata all’epoca “akumashugi” (diabolismo), con il quale si indica
appunto uno scrittore dedito a trame nere ed intricate (diaboliche).
Una corrente cui
era stato spesso accomunato lo stesso Tanizaki nelle opere giovanili, dove si
intrecciano trame paranoiche di uno scrittore nevrotico mescolate con le sue
avventure sessuali. Abbiamo, infatti, Mizuno che ha appena finito di scrivere
un racconto dal titolo “Fino ad uccidere un uomo”, dove immagina i percorsi
mentali di un assassino alle prese con l’idea di compiere un delitto senza
scopo ma soprattutto senza essere scoperto.
Mizuno costruisce
un’intrigante trama, commettendo tuttavia una svista: nelle ultime pagine del
racconto, invece del nome di fantasia, usa quello reale del personaggio che lo
ha ispirato. Un redattore di riviste, con cui si è spesso incontrato casualmente,
e che trova decisamente sgradevole. Ma la svista lo butta nel panico: e se
qualcuno, seguendo la sua trama, realmente uccidesse Kojima?
Mizuno è
scapestrato, inaffidabile, non si tira indietro nel tentativo di sfruttare gli
altri per il proprio tornaconto personale, ma quel tarlo del nome sbagliato lo
porta anche ad un parossismo di paranoia. Così, capitolo dopo capitolo,
assistiamo alla sua discesa verso la confusione totale. Ne vediamo (ed in lui
vediamo il riflesso di Tanizaki) le ossessioni erotiche, l’amore per il cinema,
il voyeurismo, nonché l’attrazione per una femme fatale.
Avendo descritto un
delitto che potrebbe avvenire il 25 novembre, giorno di plenilunio, cerca di
trovarsi un alibi per quel giorno e lo fa imbattendosi in una donna molto
occidentalizzata, una che, nel gergo dell’epoca, viene definita “modan garu”,
nome derivante dalla pronuncia giapponese di “modern girl” (una ragazza che
seguiva la moda ed i comportamenti mutuati dalle donne occidentali). Peccato
che sia tanto fatale da essere introvabile quando serve a Mizuno.
Peccato anche che,
proprio nella data indicata, qualcuno uccide realmente Kojima.
È con grande
apprezzamento di stile che seguiamo i tormenti di Mizuno, che riempiono le
pagine di teorie, di deduzioni, di analisi sbagliate, il tutto nella mente di
questo scrittore totalmente egocentrico, ed anche totalmente incapace di
rapportarsi e di comprendere la realtà che lo circonda. Tipica la descrizione
del casuale incontro con la sua ex-moglie.
Ma a Tanizaki non
interessa risolvere il dramma, non ha senso per lui sapere chi ha ucciso
Kojima, né se l’ispettore Watanabe riuscirà a far cadere in contraddizione
Mizuno, né se Mizuno stesso sia o meno colpevole. Il percorso di Tanizaki è
mostrarci la psicologia di Mizuno ed il suo evolversi (o involversi) verso un
finale che non è detto sia all’interno del romanzo stesso. Non è questo
l’importante. Quello che interessa è descrivere un mondo.
Una descrizione che
serve anche, di passaggio, a fare un discorso sulla letteratura, sul modo di
scrivere, sui rapporti tra gli scrittori e tra questi ed i lor editori. Non si
tira indietro lo scrittore nel portare avanti critiche e recriminazioni, in un
caleidoscopio di scatole cinesi intrecciate. Un bell’esercizio di fantasia e di
scrittura.
Tuttavia, e questa
è la domanda finale, dove finisce la fantasia? Dove finisce (o dove inizia) la
realtà? Un romanzo inventato che descrive un delitto inventato dove, nel
romanzo, avviene un delitto descritto nell’invenzione. Magistrale.
Jun’ichiro Tanizaki “Racconti del crimine
Volume 2” Capolavori Giapponesi 33 euro 8,90
[A: 13/12/2023 – I: 09/01/2024 – T:
12/01/2024] - &&
+
[tit. or.: originale
(antologia italiana di testi giapponesi); ling. or.: giapponese; pagine: 263; anno 2020]
Eccoci allora ad un
altro e forse per il momento ultimo scritto del grande Tanizaki che analizziamo
per le nostre trame. È la prosecuzione di quel primo volume di “Racconti del
crimine” di cui ho parlato poco sopra. Non ritorno quindi sulla figura di Tanizaki,
né sull’impianto di questi volumi. Anche perché se nel primo c’erano, anche,
momenti di ricerca poliziesca mutuati di esempi occidentali, qui l’autore ci
mostra crimini, cioè devianze, dall’ordinario senza che ci sia una vera e
propria “crime story”.
Anche qui, per il
mio gusto personale, ne parlo in ordine cronologico che spesso non coincide con
l’ordine di presentazione nel volume. E sempre per la mia sensibilità, devo
dire che, globalmente non mi hanno coinvolto granché, pur riconoscendone la
bellezza stilistica.
Il primo racconto Il
segreto (Himitsu - 秘密 1911) è uno dei primi in
assoluto che scrive l’autore. Delicatamente, all’inizio, ci inserisce nei
tormenti di un uomo che, non riuscendo a trovare stimoli nella propria vita,
comincia a travestirsi da donna. Con sempre maggior successo e spensieratezza,
per girare nel quartiere e divertirsi. Così travestito incontra una donna che
aveva conosciuto anni prima, e comincia con lei un gioco erotico di incontri e
di nascondigli. Quando, per un eccesso di stimoli, decide di scoprire il
segreto della donna, perde il senso del mistero e si dedica a cercare altri
piaceri.
Alcuni anni dopo, sul finire della Prima Guerra mondiale, esce Un
tumore dal volto umano (Jinmenso - 房の髪 1918). Un racconto tutto
pervaso dall’attenzione verso la nuova arte che comincia a stravolgere il mondo
dello spettacolo: il cinema. È un racconto a più piani, con una struttura che
piacerà senza dubbio a mio cugino Alessandro: cinema nel cinema nella letteratura,
con abbondanza di “close-up”, di avvicinamenti progressivi all’immagine
descritta. Il testo narra di una attrice che scopre un suo film che non
ricordava aver girato, che lo vede assistita da un proiezionista in un rapporto
uno a uno tra lei ed il film stesso.
Il misterioso film narra di una cortigiana che, ingannando un mendicante,
ne subisce la maledizione. Il mendicante si incarna nel ginocchio della donna
in forma di tumore, ne stravolge la vita sociale, diventando sempre più
somigliante ad ogni “caduta” della donna. Fino a che lei uccide il suo amante e
si suicida, e contemporaneamente il tumore prende definitivamente i lineamenti
del mendicante. Ma non è solo il narrato del film che interessa Tanizaki,
quanto esplorare le risposte emotive del pubblico che guarda il film: la faccia
malefica diventa un incubo che provoca incubi agli spettatori. L’altro elemento
che Tanizaki indaga è la reazione dell’attore che guardando in solitario il suo
film, diventa sempre meno consapevole della sua presenza fisica.
Ci sono poi due quasi coevi racconti, che, in realtà, esplorano pur con
modalità diverse, un segmento di realtà molto simile. Sono Il pregiudicato
(Zenkamono - 前科者 1918) e Oro e argento
(Kin to gin - 金と銀 1919). Infatti, in entrambi
c’è il rapporto tra due artisti (o due amanti dell’arte), anche se sviluppato
secondo direttrici differenti.
Nel primo c’è il rapporto tra artista e studioso. Il primo ha sempre
bisogno di soldi, che usa spesso e volentieri per assoldare prostitute volte
alla soddisfazione delle sue fantasie. È l’artista che assume il ruolo del
narratore e racconta i raggiri che inventa per spillare soldi al suo mecenate,
il Barone K. Il narratore ha una forte coscienza di sé, tanto da esordire
dicendo: “Sono un pregiudicato. E sono anche un artista.”. Però tira troppo la
corda, il Barone lo denuncia e verrà giudicato e condannato. Soprattutto perché
è una frode per soldi, che se fosse per sesso, forse, avrebbe avuto altre
soluzioni.
Nel secondo invece sono Aono e Ogawa i due artisti in competizione. Il
secondo è manierista ed affermato. Il primo invece non è compreso, ma sembra
avere un talento superiore, così come l’oro è superiore all’argento (da cui il
titolo). Il testo sembra, pagina dopo pagine (d’altronde è anche il più lungo)
immergersi in una atmosfera da “Delitto e Castigo”. Laddove la tensione scoppia
quando entrambi utilizzano la modella Eiko, e Ogawa capisce a quel punto la
superiorità di Aono. Da qui, tutto il tormento e le modalità di Ogawa per
realizzare la morte di Aono, che seguiremo in tutti i suoi risvolti, anche
imprevisti.
Per ultimo c’è il più tardo Un ciuffo di capelli (Hitofusa no kami - 房の髪 1926) dove ci trasferiamo a
Yokohama (come fece anche Tanizaki) con l’azione che si svolge durante un
evento molto significativo per i giapponesi: il terremoto del Kanto del 1923
(un sisma di magnitudine 7,9 che provocò quasi 150.000 vittime). Ma quello è
solo il contesto, che l’attenzione di Tanizaki è sugli immigrati occidentali
costretti a vivere in quella città (il resto del Giappone non era ancora
aperto), spesso poco sopra la soglia della povertà. Non magari le signorine che
usano il proprio corpo, come la protagonista Kalinka, una russa che tiene sul
filo tre uomini. Dick il narratore è l’unico che si salva. Katinka ed i tre
amanti sono a casa di lei quando scoppiano gli incendi a valle del terremoto.
Lotte tra i tre, Dick colpito da un colpo di pistola, uno morto sotto le
macerie ed il terzo che uccide Kalinka per non farla avere ad altri, e poi si
uccide. A Dick rimarrà solo un ciuffo dei capelli rossi di Katinka.
Già ho parlato di
molti dei temi criminosi che tocca Tanizaki, qui vorrei chiudere con poco
altro. In molti di questi racconti c’è la vivida sensazione che l’autore ha
letto, compreso ed amato molta letteratura occidentale (cenni a Poe ed epigoni
polizieschi, con libri citati, anche se non capisco perché citati in inglese
quando esistono anche in italiano, e poi passaggi verso Dostoevskij o
Baudelaire). C’è una critica ai costumi artistici dei periodi nipponici
denominati Meiji e Taishō (in pratica dal 1860 al 1920 circa), dove molti
furono gli scandali sessuali con protagonisti scrittori.
Ma io, al solito,
termino con un cenno geografico personale: soprattutto il primo racconto mi ha
riportato a Tokyo. L’azione si svolge ad Asakusa, e spesso il protagonista si
aggira intorno al grande tempio Sensoji nel distretto di Rokku. Un quartiere che
agli inizi del secolo divenne la mecca della cultura popolare, e che ho sempre
visitato con piacere nei miei tour giapponesi.
Yoshida Shuichi “Appartamento 401”
Corriere euro 8,90
[A: 06/12/2022 – I: 28/02/2024 – T:
29/02/2024] - &&
[tit. or.: パレード,
Parēdo; ling. or.: giapponese;
pagine: 229; anno 2002]
Yoshida Shuichi scrittore post-modernista
giapponese, ha da sempre privilegiato un tipo di approccio trasversale alle sue
scritture, tanto che risulta sempre difficile interpretare in modo unitario i
suoi scritti. Cosa che non è
detto sia un male, anche se poi, nei lanci dei suoi libri in giro per il mondo,
spesso viene categorizzato laddove le categorie hanno poco senso.
Questo
è il primo romanzo che gli ha dato gloria e lustro, sia per il romanzo in sé,
sia per l’adattamento cinematografico che ne venne fatto alcuni anni dopo e che
vinse il Premio della Critica al Festival di Berlino. Così che, relegato in una
collana dedicata ai “neri giapponesi”, il mio giudizio ne risulta condizionato,
una media pesata tra un quasi zero alla collana ed una sufficienza piena allo
scritto ed alla scrittura, anche se non sempre l’autore riesce a coinvolgerci
nella sua trama. Ne rimangono a tratti pezzi irrisolti, e situazioni che
potevano essere portate a maggior chiarezza per il lettore.
Comunque,
qui di mistero c’è poco o nulla, se non quanto potrebbe esserci nella vita di
tutti i giorni di ognuno di noi. C’è un vicino di casa che accoglie strane
persone nel suo appartamento, che forse è un bordello di lusso o forse
tutt’altro. Ci sono donne che vengono ferite di notte, con più o meno violenza,
potrebbe esserci un maniaco, o solo un ciclotimico disturbato. Niente che
induca a paura, ad indagini o altre situazioni “noir”. Ma un racconto, uno
spaccato di vita giapponese che illustra a buon titolo sia il modo locale di
vivere, sia l’angoscia che i giovani nipponici non riescono ad esorcizzare.
Anche
la forma è discreta, pur se riciclata da altri scritti in giro per il mondo.
Abbiamo alcuni personaggi che narrano gli avvenimenti, in una sequenza
temporale “a staffetta”. Inciso: guarda caso, un tipo di scrittura che ho
incontrato poche letture fa, in un libro giallo italiano degli anni Trenta (“Il
sette bello” di Varaldo). Personaggi che vivono in un condominio, ed in
particolare nell’appartamento del titolo. Siamo nel quartiere di Setagaya a
Tokyo, quartiere che confina con Meguro (famosa per il viale dei ciliegi) e
Shibuya (quella del parco Yoyogi e di Harajuku noto per la sua moda
eccentrica).
In
un libro molto giapponese (e quindi a volte di difficile fruizione per chi sia
abituato alle scritture anglo-americane imperanti) vediamo i quattro inquilini
narrare la vita che scorre. E mentre ognuno parla, scopriamo una “zona cieca”
in ognuno di loro. Per i pochi non adusi alla psicologia ricordo che mi
riferisco alla “zona cieca di Johary”, uno schema psicologico che divide il
nostro esistere in quattro quadranti: quello che gli altri sanno di me (area
pubblica), quello che io so di me (area privata), quello che gli altri sanno e
io non so (area cieca) e quello che non sappiamo né io né gli altri (area
ignota).
Inizia
a narrare Ryosuke, studente di 21 anni, poco riuscito negli studi e cameriere
part-time; ha sempre l’angoscia di deludere i suoi genitori; è quello che ci
introduce nella dinamica della casa, dove vivono i quattro. Due maschi (lui e
Naoki) e due femmine (Mirai e Kotomi) nelle loro stanze da letto. Poi c’è il
salotto dove si converge per stare insieme (e magari vedere la tv sempre
accesa) e la cucina (di solito poco usata in Giappone, dove spesso si va a
prendere qualcosa fuori da mangiare). Ryo nella parte privata ci dice di
essersi innamorato della “donna di un amico suo”, relazione che tende a portare
avanti con difficoltà, restando comunque “quello affidabile, quello che aiuta
gli altri”, anche se non risolve i problemi. Soprattutto quello che cerca di
smuovere la passività di Kotomi.
Kotomi
ha invece 23 anni, aveva un discreto lavoro a Sapporo, ma si innamora di un
compagno di gioventù, che segue a Tokyo. Lui diventa attore di serie tv, e lei
resta tutto il giorno in casa a guardarlo in tv ed aspettare che lui le
telefoni. È l’angelo del focolare, senza di cui la casa sarebbe un porcile
invivibile. Rimarrà incinta del suo amore, e si dibatte se tenere o lasciare. È
anche l’unica attenta a quanto succede intorno (l’altro appartamento, le strade
di notte).
Lei
lascia la parola a Mirai, 24 anni, disegnatrice e gestore di un negozio, ma
soprattutto completamente dedita all’alcool, che in genere la porta ad
ubriacarsi nei locali LGBT della capitale. Il suo lato privato è una cassetta
che contiene tantissime scene di stupro riprese da tutti i maggiori film
internazionali. Il suo lato alcolico, poi, la porta poi a condurre in casa
Satoru, un giovane prostituto di 18 anni, che viene usato dall’autore come
elemento per scardinare la quiete della casa.
Che
vediamo Satoru entrare ed uscire, farsi di coca, farsi rimorchiare da uomini e
donne, entrare in appartamenti non suoi (ma non da ladro, piuttosto da voyeur),
e mettere in crisi la casa. Risveglia i sentimenti “da studente” di Ryo, si
accompagna spesso a Koto, riuscendo a farla uscire dai suoi gusci, cancella
parte della cassetta di Mirai, e farà comprendere la vera natura del sé di
Naoki.
È
lui, Naoki, 28 anni, atletico, salutista, dipendente di una casa di produzione
cinematografica, a chiuderci il cerchio. Lui aveva iniziato l’avventura della
casa andandoci a vivere con la sua fidanzata del tempo, Misaki. Lei, stanca
delle liti con Naoki, aveva portato Mirai. Lui per bilanciare l’atmosfera,
aveva introdotto Ryo. E quando Misaki se ne va, Mirai porta nella casa la sua
amica Koto. A lui spetta di chiudere il cerchio, lui sarà quello della sua zona
che vorrebbe cieca, ma che tutti sanno. Ma che anche tutti resteranno fermi
solo a guardare: la grande incomunicabilità giapponese non consente a nessuno
di fare un passo dentro l’intimità altrui.
La
capacità di Shuichi è, laddove avvengono pochi fatti (nei cui particolari non
entro, che servono all’economia del libro e che vi invito a leggere), ha un
ritmo di scrittura che tiene alta l’attenzione. Per la descrizione di questi
giovani (che all’epoca avevano una decina di anni meno di Shuichi e che quindi
lui conosceva bene) tutti con i propri problemi, e tutti con il problema comune
della totale incomunicabilità, tipica della cultura asiatica. Sono tutti
esternamente felici, ma … (cosa siano, quali siano tutti i loto demoni ve lo
lascio scoprire).
Come
spesso in altre letture (Murakami docet) c’è anche molto spazio per il lettore,
visto che l’autore spesso accenna ma non delucida sino in fondo. Quello che
delucida, e che per me è l’ultimo pezzo forte, è la città. Che leggendone sono
di nuovo tornato alla Tokyo dello scorso anno, e mi ci sono di nuovo immerso,
nella folla, nelle metropolitane, nei parchi. Beh, a me quella città piace
ancora.
Yoshida Shuichi “L’uomo che voleva
uccidermi” Repubblica Emozione Noir 21 euro 7,90
[A: 04/11/2019 – I: 23/03/2024 – T:
26/03/2024] - &&&
[tit. or.: 悪人
Akunin; ling. or.: giapponese;
pagine: 381; anno 2007]
Secondo
libro letto del “trasversalista” Yoshida Shūichi che conferma questa vena che
entra ed esce dai generi, un po’ noir un po’ inclassificabile, con un libro,
scritto cinque anni dopo il primo che ho letto, che di sicuro migliora il mio
gradimento verso l’autore.
Non
migliora, invece, il mio rapporto con gli inventori dei titoli italiani. Che
seppur quella del titolo è una frase che viene detta ad un certo punto del
romanzo, il titolo originale è “Una persona malvagia”. Un titolo programmatico
di quanto avviene nel romanzo, e che pone il lettore di fronte alla domanda
cruciale: verità o ironia? Tra l’altro, come altri libri di Yoshida, il testo è
stato anche trasposto in un film uscito nel 2010, film che mantiene, invece, il
titolo originale.
Come
dicevo, Yoshida usa una trama trasversale, che tocca una parte etichettabile
come “gialla”, che si immerge in quello che potremmo definire “noir
psicologico”, ma che è in definitiva un modo, pur complesso, di descriverci la
società giapponese in uno degli aspetti suoi più cupi ed inquietanti: la
solitudine. Presentata in molti aspetti, ma che ne costituisce il filo
trainante.
Giallo
perché c’è una persona che viene uccisa, e che per una buona metà del libro
accumula indizi e possibilità su chi sia l’assassino. Diventando noir quando,
entrando più a fondo nei personaggi, nella seconda parte vediamo ogni attore
del dramma nella sua luce interna, nei suoi risvolti, nelle sue paure, nel suo
inserimento (mai voluto sempre subito) nella società giapponese. Un male di
vivere per ognuno, e per ognuno elementi (a volte non solo nipponici) che ne
fanno emblema appunto del disagio. Disagio della solitudine e
dell’incomunicabilità.
Curiosamente,
nel mio immaginario di lettore, la prima parte sembra riprodurre, in ambito
giapponese e con una scrittura un po’ rarefatta, un libro scritto da Colin
Dexter, senza avere la presenza, ribaltante, di un ispettore Morse. Yoshida ci
narra di strade, di paesaggi urbani e montani, di persone che aspettano, di
gente che si muove in giro, che ha delle mire o forse delle aspettative. Quando
capiamo di più dei personaggi, però, abbandoniamo del tutto Dexter e piombiamo
in pieno nella cosmogonia quotidiana del Giappone.
Tra
l’altro, un romanzo che si muove non solo lontano da Tokyo, ma anche dalle
grandi città. Certo Nagasaki non è lontana, ed anche Fukuoka viene attraversata
dai nostri. Ma sono le prefetture di Saga e la città di Kurume che fanno da
padroni, riportandoci ad una vita quotidiana fatta di piccoli gesti, di
prossimità che non diventano mai conoscenze, della ricerca di trovare una nuova
vita, o di cercare, in quella che viviamo, delle nicchie in cui nascondersi.
Non a caso il termine che viene alla mente, potente, in tutta la narrazione è
“hikikomori”, neologismo giapponese che indica una persona che cerca di
isolarsi, attraverso la scelta di comunicare solo attraverso freddi sistemi
informatici.
Vediamo
così primeggiare nella prima parte Yoshino, una donna che Yoshida non cerca mai
di farci diventare simpatica. Figlia di un barbiere, accetta il primo lavoro
che le viene offerto per andare via di casa. Un lavoro che non le consente il
tenore di vita che vorrebbe, per cui si inserisce in un sito di incontri
online, diventando, in tutto e per tutto, una escort di media grandezza. Nel
sito incontra Yuichi, con il quale ha lunghi rapporti sessuali nei “love hotel”
(un’istituzione giapponese che andrebbe studiata meglio). Ma Yoshino vuole
anche sembrare altro. Così, incontrando in un bar il ricco e vanaglorioso
Masuo, si inventa una storia con lui, soltanto per diventarne una stalker dura
e pura.
Sarà
Yoshino ad essere strangolata nel tenebroso passo montano di Mitsuse. Chi l’ha
uccisa? Masuo? Yuichi? Uno dei suoi tanti clienti occasionali? Perché, poi, si
trovava lì?
Anche
nella seconda parte troviamo al centro una donna, Mitsuyo. Anche lei
insoddisfatta, commessa in un negozio di abbigliamento. Anche lei sola, così
che, sempre attraverso il sito online, incontra Yuichi. Il loro rapporto inizia
burrascosamente, duramente. Mitsuyo cercava realmente qualcuno con cui uscire e
non un incontro di solo sesso. Quando i due riescono a vincere le proprie paure
ed a confessarsi le proprie realtà, inizia quella che potrebbe diventare una
storia d’amore. Si trovano, e trovano una loro complementarità.
Incidentalmente,
vediamo agire Masuo, fatuo, che cerca solo il proprio piacere, e si atteggia a
“gallo del pollaio”, con quelle uscite forzate e fuori le righe che tutti gli
perdonano, perché, in fondo, lui è ricco. Ma perché, trovato il corpo di
Yoshino, fugge per due settimane? Cosa deve nascondere? Ed ha qualcosa da
nascondere o è solo uno scriteriato giovane senza un briciolo di coscienza?
In
tutto ciò, non dimentichiamo che fin dall’inizio incontriamo Yuichi, e,
capitolo dopo capitolo, ne scopriamo la storia. Abbandonato dalla madre a
cinque anni, viene cresciuto dai nonni. Non ha grosse aspirazioni nella vita,
unico suo scopo è guidare la sua bellissima auto bianca (con alettone). Lavora
con lo zio in un cantiere, ora si deve anche occupare del nonno che entra ed
esce dall’ospedale. Per questo entra nel sito di appuntamenti. Per questo si
attacca come una cozza a tutte le donne che escono con lui. Ma per poco. Rimane
solo attaccato a Yoshino, prima, ed a Mitsuyo dopo.
Alla
fine scopriamo che qualcuno ha caricato Yoshino per strada, per poi scaricarla
brutalmente lì sul passo montano, dove qualcun altro l’ha incontrata, non
casualmente, ma casualmente (o forse con malvagità?) l’ha uccisa. Scopriamo
anche tutta la tenerezza dell’amore possibile tra Mitsuyo e Yuichi, che permea
tutta l’ultima parte.
Dove
Yoshida, presentatici tutti i personaggi e tutte le azioni, ci lascia appunto
con la domanda cruciale: chi è veramente la persona malvagia?
Alla
fine ne esce con le ossa rotte il Giappone e la sua società. Un mondo
dall’impeccabile profilo lavorativo e produttivo, dove non c’è modo, non c’è
nessuna speranza di avere rapporti umani sinceri. Così sono ben rappresentati
sia l’impossibilità dei rapporti (Yoshino si inventa storie affascinanti sul
suo rapporto con Masuo per non raccontare alle amiche che si incontra con
Yuichi), sia la tristezza dell’ambiente lavorativo (dove nessuno sembra
soddisfatto della propria vita). Con un gigante campanello d’allarme
sull’incomunicabilità tra generazioni. I giovani, oscillanti tra modernità e
tradizione, vivendo senza nessuno scatto mentale la propria alienazione e che,
della tradizione sembra apprezzare solo il cibo, e gli anziani che non
comprende i giovani, continuando a restare ancorata alla propria dignitosa
tradizione, venendo travolta da tutto ciò che è nuovo.
C’è
tutta la fragilità di questo mondo pronto a spezzarsi al primo soffio di vento,
laddove ognuno sembra solo avere bisogno di una piccola attenzione. Emblematico
e significativo il passo in cui il genitore di Yoshino si presenta davanti ad
uno che aveva trattato male la figlia, non cercando altro che avere un segno di
pentimento del cattivo comportamento tenuto.
Insomma,
un libro non pienamente riuscito, troppi personaggi (che ho tagliato) ed una
scrittura che solo nella seconda parte prende il via con scioltezza. Ma un
libro duramente giapponese.
Un
ultimo appunto, per gli stampatori del libro, perché lasciare l’evidente errore
di testo laddove viene scritto: “Il mostro che ho incontraxto”? Non c’è nessuno
capace di eliminare la “x”?
Visto che abbiamo parlato tanto di Giappone,
rimaniamo sul suolo nipponico con una lunga serie di citazioni di una
scrittrice di cui ho letto quasi tutto. Abbiamo ben tre romanzi da sezionare in
frasi di Banana Yoshimoto.
Il primo è “High & Dry Primo Amore”:
“Non
sapevo che quando ci si innamora di qualcuno si versano così tante lacrime, un
po’ per la tristezza e un po’ per la felicità.” (25)
“Come
tutti i maschi, una volta che bacio … finisco per pensare a cosa verrà dopo.”
(36)
“In
fondo credo che sia una mamma normale. Del tutto normale. Così tanto da
sembrare speciale.” (37) [dedicato a tutte le mamme in questo giorno di festa
per loro]
“Se
questa è la vita, bisogna stare attenti a non sprecarne neanche un po’, in
mezzo alla desolazione ed alla fretta.” (50)
“A
questa distanza tu e la mamma mi sembrate ancora più belle che nella realtà.”
(64)
“Quando
si è direttamente coinvolti, è difficile accorgersi di qualcosa.” (70)
“Ho
la sensazione che ci siano cose che a parlarne svaniscono, e altre che invece
crescono. Quello che c’era tra noi apparteneva alla prima categoria.” (75)
“Il
tempo passa… Lo si percepisce con estrema precisione quando si torna dopo tanto
in un luogo rimasto uguale a com’era.” (87)
Il secondo è “Sly”:
“Al
mondo ci sono un’infinità di cose che si capiscono solo se si provano sulla
propria pelle.” (46)
“In
un modo o nell’altro, le cose che creiamo parlano di noi con più precisione di
ogni altra.” (58)
“A
volte penso a quanto era bello guardare il mercato mangiando pancake egiziano e
bevendo il tè con dentro le foglie di menta fresca.” (126)
Mentre il terzo mi coinvolge, nel titolo e
nel testo. Parlo di “Un viaggio
chiamato vita”:
“Un
viaggio, per quanto terribile possa essere, nel ricordo si trasforma in
qualcosa di meraviglioso.” (9)
“Penso
che siano molte le persone che, studiando all’estero, sono ingrassate senza più
riuscire a tornare come prima.” (16)
“Le
cose sono più buone quando si bevono nel luogo da cui provengono … però il
fatto che i sapori restino legati al corpo come ricordi ha dell’incredibile.”
(23)
“[L’Italia]
è un paese in cui niente va come deve andare, e si deve spesso cedere a qualche
compromesso, ma è proprio questo che mi piace.” (41)
“Però
è difficile che, indolente come sono, riesca … a concentrarmi su qualcosa e
portarla avanti.” (44)
“La
tavola [del pranzo, con i cibi] è come una tela dipinta che ci insegna che
‘oggi’ è una volta sola.” (93)
“I
libri non servono a niente se poi si manca di spirito di osservazione.” (102)
“Sono
certa che tutti hanno qualcosa … per la quale le altre persone pensano ‘per
fortuna che ci sei’.” (116)
“Grazie
di cuore per essere stato sempre gentile con me.” (171)
“Ogni
giorno è un viaggio.” (179) [una verità assoluta].
Ma
non è solo un festival giapponese da celebrare oggi, e neanche solo la Festa
della Mamma (che io non ho più, ma che sempre manca). Ci sono tutti i
compleanni di questo primo terzo di maggio, che sanno poiché li ho già
omaggiati. A cui aggiungiamo l’odierno di Pietro, il mio amico fisico-scrittore-psicologo
che sarà sempre un po’ più giovane di me.
Con alterno umore, poi, vi saluto che, se non succedono altri guasti, il resto del mese di maggio verrà passato altrove. Quindi vi saluto dandovi appuntamento alla Festa della Repubblica con un abbraccio.
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