domenica 13 aprile 2025

Scrittura al femminile - 13 aprile 2025

Un giorno o l’altro verrò citato come “uncorrect”, per ora tuttavia, consentitemi di donarvi cinque trame scritte da altrettante esimie scrittrici. Di cui, devo dire, tre di livello veramente elevato. Joan Didion con l’elaborazione del suo grande lutto, Daša Drndić con il suo puzzle di un mondo croato e Gabrielle Zevin tra amore e videogiochi. E sempre ringrazio Cordelli ed il NYT per i loro suggerimenti. Il tutto condito da un buon romanzo italiano di Nicoletta Verna ed un romanzo da grande relax di Kate Thompson, con il suo grande messaggio da condividere: leggete di tutto, poi se ne può parlare e criticare.

Kate Thompson “Sotto le strade di Londra” Garzanti s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 03/10/2024 – I: 23/11/2024 – T: 25/11/2024] - && --     

[tit. or.: The Little Wartime Library; ling. or.: inglese; pagine: 383; anno 2022]

Ho avuto un po’ di difficoltà ad inquadrare la scrittrice che di Kate Thompson ce ne sono diverse, tutte anglofone, ma alla fine, visto che questo dovrebbe essere il suo primo libro, mi sono orientato su quella più giovane. Che risulterebbe giornalista free lance nonché ghostwriter (anche se non si sa per quale autore). Anche se, vista la delicatezza con cui parla dei bambini poteva anche essere confusa con l’irlandese scrittrice per l’infanzia.

Comunque, visto anche le disquisizioni finali del libro, la cura con cui sono stati reperiti i materiali per il romanzo, e la facilità di scrittura, pur non essendo un libro che stravolge il lettore, è di certo una lettura agile, che, battendo alcuni tasti non banali, tende a sottolineare, in varie forme, l’importanza di leggere. E di leggere tutto, senza censure.

Pur se romanzata, quindi, la vicenda si basa su tre avvenimenti reali avvenuti a Londra durante la Seconda guerra mondiale. Il primo, il 7 settembre 1940, quando una bomba tedesca si schianta sul tetto della Biblioteca Centrale di Bethnal Green, distruggendola in gran parte. La seconda, una notte di marzo del 1943, quando 173 persone morirono in una calca umana sui gradini irregolari che scendevano al rifugio dopo un grande scoppio in superficie. La terza relativa al 27 marzo 1945, quando una bomba V2 distrugge un caseggiato vicino a Bethnal Green, le Hughes Mansions, uccidendo 134 tra uomini, donne e bambini.

Dopo la prima bomba, la biblioteca, per merito dei due responsabili il bibliotecario George F. Vale e il suo vice, Stanley Snaith, viene trasportata e ricostruita nella fermata ancora in disuso della metropolitana di Londra a Bethnal Green. Kate, per esigenza di storia, modifica i due personaggi sostituendoli con due donne, Clara Button e Ruby Monroe. Le due che diventano le voci narranti del libro, a capitoli alterni.

Il secondo episodio serve per umanizzare Ruby inventando la morte della sorella nella calca (una calca su cui torneremo che nasconde un episodio interessante). La terza, infine, è motivo per narrare prima la perdita e poi il ritrovamento di due attrici non protagoniste del romanzo, Marie e Betty, nonché il ruolo assunto da Billy, uno dei protagonisti di secondo livello.

In questo contesto quasi storico, la scrittrice ci fa seguire appunto le vicende di Clara e Ruby. La prima, vedova, gestisce la biblioteca, legge favole ai bambini rifugiati nella metropolitana, e cerca di sviluppare le coscienze attraverso la lettura. Sola a lottare contro i maschi al potere, avrà aiuto prima di tutto da Billy, un obiettore di coscienza con qualche punto oscuro alle spalle, ma tra i due si svilupperà, com’è ovvio, una storia d’amore con probabile lieto fine. Ed i secondo luogo dai bambini, sia quelli della lettura, sia da due bimbe fuggite dalla Francia occupata, con le quali si svilupperà una forte storia di reciproco aiuto e amicizia.

Ruby è invece lo spirito libero, che dà da leggere libri sulla contraccezione e sull’emancipazione femminile (tra cui l’allora famoso, anche se oggi dimenticato, “Ambra” di Kathleen Winsor), e dopo molte storielle, si innamora di un soldato americano di passaggio. Ci si domanda subito se anche qui si avrà un lieto fine, e se, soprattutto, Ruby riuscirà ad elaborare il lutto per la morte della sorella.

Le nostre due donzelle servono però da catalizzatrici anche di molte altre storie che avvengono nei rifugi sotterranei della metropolitana. C’è il rapporto quasi da femminicidio tra la madre di Ruby ed il suo secondo violento marito. Ci sono le storie del “Topi della Metro”, ragazzi della classe operaia che si aggirano nel sottosuolo, tra cui l’acuto Sparrow, che impara a leggere con l’aiuto di Clara. C’è il dramma di Mr. Pepper che perde la vista e la moglie in un bombardamento. E c’è la direttrice del rifugio, Mrs. Chumley, combattiva ex-suffragetta.

Quello che Kate ci vuole illustrare comunque, attraverso tutti i personaggi e le loro storie, sono alcuni temi vitali: l’orrore della guerra, l’elaborazione del lutto, la lotta per la sopravvivenza, la speranza che non deve mai morire. Avendo come filo conduttore l’importanza delle biblioteche, sia allora quando difficile era poter avere soldi per i libri, sia ora con la loro funzione sociale di aggregazione.

Tuttavia il libro è forse troppo pieno di storie, troppi personaggi che a volte sono dimenticati, a volte ritornano. Troppo per un solo libro, una narrazione più asciutta avrebbe giovato, anche se la scrittura giornalistica della scrittrice aiuta a seguire (quasi) tutto con facilità.

Volevo tornare sul punto lasciato in sospeso. Perché se due sono le bombe cruciali per la storia, la vicenda della calca che uccise quasi duecento persone è esemplare. Perché non era scoppiata una bomba, ma l’esplosione era dovuta a dei test di nuovi missili antiaerei che il governo stava provando nel vicino Victoria Park. Il governo soffocò immediatamente il disastro, secretandolo ma lasciando nello sgomento i poveri sopravvissuti che per anni non capirono cosa fosse avvenuto. Mi sembra che la storia continui a ripetersi, rimanendo purtroppo sempre tragedia.

“La vita è fatta di scelte perlopiù banali, ma prima o poi arriva il momento di prendere una decisione così devastante che non sai nemmeno da che parte girarti.” (307)

Joan Didion “L’anno del pensiero magico” Il Saggiatore s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/01/2025 – I: 10/02/2025 – T: 13/02/2025] - &&&&     

[tit. or.: The Year of Magical Thinking; ling. or.: inglese; pagine: 236; anno 2005]

Joan Didion era sempre stata una scrittrice che mi romanzava nella testa, dove mi chiedevo perché non ne avessi letto, pur sapendo che possedeva una bella scrittura, dove univa alle capacità narrative una buona dose di giornalismo, derivata dai suoi lunghi anni di partecipazione a riviste e giornali, nonché, mi ricordavo, anche al sodalizio con il marito e giornalista John Gregory Dunne.

Ma solo ora, sotto la spinta dei suggerimenti di Franco Cordelli, ho avuto l’animo di prendere in mano un suo libro. E che libro! Un colpo di fulmine. Un libro talmente doloroso da essere bellissimo. Un libro che mi ha fatto riflettere dalla prima all’ultima riga. Un libro che non è facile leggere, ma che tutti dovete leggere.

Intanto faccio mente locale che, antropologicamente, il pensiero magico è definito come la convinzione che determinate azioni possano influenzare eventi quando non esiste una connessione causale empirica tra di essi. Possiamo quindi tradurlo pensando che se una persona spera in qualcosa abbastanza o compie le azioni corrette, allora un evento inevitabile può essere evitato.

E Joan entra in questo “anno del pensiero magico” il 30 dicembre 2003. Lei e John Gregory Dunne, suo sposo da quarant'anni, tornano nella loro casa di New York dall’ospedale dove è ricoverata la loro figlia, Quintana Roo, in rianimazione per le complicazioni di una polmonite. Si mettono a tavola e mentre Joan prepara l’insalata, John ha un infarto e muore all'improvviso.

Per mesi, Joan vive come in una bolla sospesa, poi riprende in mano un suo diario e tra il 4 ottobre ed il 31 dicembre 2004 completa questo libro, con i suoi pensieri sparsi e con gli appunti presi durante il ricovero della figlia, che non si riprende mai definitivamente. Tanto che il 26 agosto 2005, Quintana Roo Dunne Michael muore di pancreatite.

L’attacco del libro è così fulminante nella sinteticità di quanto riesce ad esprimere che lo voglio condividere anche in questa trama:

“La vita cambia in fretta.

La vita cambia in un istante.

Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.”

Il libro, saltando avanti e indietro nel tempo, avanti e indietro nei ricordi, da un lato porta avanti con spietata lucidità l’analisi di tutto quello che succede dopo aver subito una perdita. Dall’altro, non si tira indietro, che parla (anche) della malattia della figlia, degli ospedali, del senso di impotenza di fronte alle malattie.

Ma quello che mi rimane è la bellezza dei ricordi che affiorano come bolle, la descrizione di tutte quelle giornate trascorse in casa, ognuno a scrivere per proprio conto, ma poi anche per confrontarsi su qualsiasi cosa venisse in mente. Esce fuori quel sentimento che la morte, il lutto, la malattia, sono sempre (possibilmente) presenti anche se vorremmo tenerle lontano il più possibile. Ma a volte, è bene confrontarsi, entrare nella spirale della malattia stessa, e capirne i possibili conforti (pochi, è vero, ma ci torneremo).

Perché quando entra nel lutto, Joan ricorda, ripercorre tutto il loro sodalizio di vita e di professione, i forti legami di amicizia che avevano costruito attorno a loro, la casa sulla spiaggia a Malibu, le cene fuori, le passeggiate al Central Park. E Joan, a volte, si trova in testa pensieri che poi razionalmente non può che respingere. Non vuole buttare le scarpe del marito, anche se è già stata fatta l’autopsia, perché se lui dovesse tornare, come farebbe senza le scarpe? E poi ci si rende conto che lui non può, non potrà mai più tornare.

All’inizio poi, Joan cerca di essere dura, di resistere, di non far vedere il proprio dolore. Ma alla fine ben presto capisce che quando si percepisce l’esistenza di quel vuoto incolmabile, allora abbiamo anche il diritto di piangerci un po' addosso.

E tornando a quei momenti di possibile conforto, o sconforto, lei, noi, tutti quelli che hanno subito un lutto, cominciamo realmente a sentire sulla pelle una serie di domande, che non avranno mai più risposta. Ho apprezzato abbastanza quel momento di intimità? Ho davvero capito cosa volevi dirmi? Abbiamo fatto le scelte giuste? Che cosa resterà di noi, dopo?

A Joan, ed anche nella mia mente verso i miei cari passati, penso (spero) rimarrà la memoria dei momenti felici vissuti. E mentre leggevo, mentre pensavo alle frasi della scrittrice, veniva terribilmente voglia di prenderti la mano e ricordare, ad uno ad uno, tutti i passi che si sono fatti insieme. Quindi, come avete capito, un libro che fa tanto male, ma che è scritto in maniera sublime.

“Tutto procede come al solito e poi scoppia un gran casino.” (133)

“Il necrologio di uno scrittore, secondo William Faulkner, dovrebbe essere ‘Ha scritto dei libri, poi è morto’” (150)

“Eravamo entrambi incapaci di immaginare la realtà della vita senza l’altro.” (204)

Daša Drndić “Leica format” La nave di Teseo euro 22 (in realtà, scontato a 18,70 euro)

[A: 09/12/2024 – I: 09/04/2023 – T: 10/04/2023] - &&&&

[tit. or.: Leica format; ling. or.: croato; pagine: 419; anno 2003]

Un’altra bella seppur difficile lettura di uno dei libri proposti da Franco Cordelli come esempi eponimi di questo secolo. Una scrittura dovuta, più di venti anni fa, alla penna di una scrittrice croata, Daša Drndić, ma che leggo solo ora, a quasi sette anni dalla scomparsa dell’autrice.

Tra l’altro, non è che la letteratura croata sia piena di grandi nomi (a meno a mia memoria) né la mia biblioteca ne presenta esempi (anzi, forse solo il giornalista Drago Hedl). Quindi mi sono calato in questa lettura con interesse, che è stato premiato. È un testo non facile, ma Daša riesce a portarci su e giù per le pagine e su e giù nel tempo, con un’indubbia maestria, fors’anche dovuta ai lunghi anni di presenza radio-televisiva nelle emittenti di Belgrado.

Il testo, in realtà, non può avere una sua classificazione. Né romanzo né saggio, ci si può solo agganciare al titolo che ci rimanda ad uno storico apparecchio fotografico, così che vediamo le pagine scorrere come un collage di fotografie, a volte di gruppo, di sfondo, in primo piano, virate in seppia come le foto antiche (o con quei bordini dentellati bianchi come le prime foto dell’album di mia madre). Sono foto che ci presentano, senza soluzione di continuità, fatti accaduti e documentati insieme a storie di invenzione pura, ma di grande fascino narrativo.

Il tutto a ricomporre il puzzle di un mondo, che identifichiamo con la terra croata, vista da tanti angoli diversi, e che, dalla giustapposizione delle foto, riesce vivido e reale. Passiamo così di storia in storia, senza chiederci più cosa siano in realtà, ma capendo che servono a formare questo grande affresco. Di una terra che Daša ha sempre amato, ed in cui è sempre tornata, pur dopo anni di insegnamenti americani. E ne sentiamo le forti radici nell’ultima dimora che lei sceglie per l’ultimo ventennio della sua vita. Dove, appunto, si ferma nella Fiume istriana (Rijeka in croato).

Veleggiamo allora nella mente tra la storia di Antonia Host che dalla Croazia emigra in Puglia, si inventa (o crede fermamente) una diversa identità, ritorna ad essere la pianista della sua gioventù fino a che una sconosciuta le mostra come la sua identità sia una menzogna, e con la testa che svanisce viene ricondotta alla vita che aveva fuggito. Una fuga? Certo, perché in fondo tutte le storie sono fughe, che lasciano dietro di sé scie non sempre comprensibili.

Come nella lunga storia di Ludwig Jakob Fritz, dottore libertino che giunge a Fiume nel 1911 per imbarcarsi verso l’America. E mentre ce ne narra, mille storie si agglutinano alla sua. La sua, che forse prende la sifilide da rapporti poco protetti. Che si coagula in libri lasciati su di un comodino, venduti ad un antiquario, ritrovati dall’io narrante insieme ad una foto di una giovane che forse ora è la quasi centenaria che muore al quarto piano dello stabile. Ma Ludwig potrebbe essere il demente Luigi fratellastro di nonna Ana. E serve ad un excursus su rapporti sessuali, protezioni ed esperimenti medici su uomini sani. Esperimenti che fecero di certo anche in America, ma che servono a dare il via ad una lunga e dolorosa storia delle torture dei nazisti nei campi di concentramento, finendo nel grido di dolore della triste storia del piccolo Sergio De Simone.

Come dirà anche in altra sede, una serie di narrazioni che servono a farci presente come: “La storia ricorda i nomi dei criminali, mentre i nomi delle vittime vengono dimenticati”.

Sono microstorie quelle dei tanti emigrati croati che sbarcano (e spesso muoiono) ad Ellis Island. Sono grandi ferite il ricordo di un ospedale austriaco che ancora conserva risultati di esperimenti eugenetici intrapresi durante il nazismo. Sono momenti di beckettiana memoria le piccole vicende di un uomo completamente sordo. Sono istantanee delle città rimaste nella memoria dell’io narrante: Fiume, ovviamente, ma anche Vienna, Zagabria, Belgrado. Con quel richiamare sempre, da parte dell’autrice, ad una identità slava che doveva eliminare tutte quelle divisioni imposte tra serbi, croati, dalmati, sloveni, bosniaci, montenegrini, istriani. Laddove sentiamo tutto il dolore che si può provare sbagliando le parole e sentendosi emarginare. Quando ad esempio la voce narrante, entrando in un negozio, chiede di comperare un portafoglio usando la parola serba, ed il commesso croato non la serve.

Molti, oltre a quelli adombrati in questi sketch che mi sono rimasti impressi, sono gli altri bersagli di Daša, ma sempre riconducibili all’illimitata follia umana, dove la perdita della memoria dei fatti porta ad una ripetizione di azioni che non possono che essere condannate. Come ci ricorda qui e altrove, “Non ci sono piccoli fascismi, non ci sono piccoli, benigni nazismi”. E sottolineo, perché di un’attualità sconcertante, la parola “benigni”.

Per essere a volte più leggeri, ma non tanto, mi ha preso e rapito con sé il suo girovagare per la città di Fiume, leggendo i nomi delle vie, ricostruendone la storia, le modifiche imposte dai regimi che di volta in volta pretendono di guidare e sottomettere con i nomi delle storie che rimangono legate alle pietre, al di là dei nomi stessi. Ricordo, per inciso, a nomi romani che Piazza Esedra cambiò nome nel 1960 in Piazza della Repubblica (in vista delle Olimpiadi romane), ma che per noi romani doc rimane e rimarrà Esedra.

Come dicevo, un libro difficile, visto che non c’è un filo conduttore stabile. Un libro che dà pugni allo stomaco quando si immerge nelle aberrazioni passate ed attuali. Una per tutte: la storia della madre dell’io narrante, della sua prigionia e delle torture subite dagli ustascia. Un libro che non dà speranze, ma che solo e sempre ci ricorda che non dobbiamo dimenticare. Mai!

“Non puoi svegliare chi finge di dormire.” (401)

Nicoletta Verna “I giorni di Vetro” Einaudi s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/01/2025 – I: 25/02/2025 – T: 27/02/2025] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 436; anno: 2024]

Qualcuno, e purtroppo a volte la memoria ha dei buchi giganti, mi aveva suggerito di leggere questo libro. Cosa che ho fatto, anche perché, seppure solo al dodicesimo posto, compare  nella lista dei migliori libri pubblicati nel 2024, compilata a cura de “La lettura”, l’inserto libri del Corriere della Sera.

Devo subito dire che, pur con qualche limite, è stata una buona lettura, sorretta tra l’altro da indubbie capacità narrative messe in mostra dalla scrittrice, ancora non cinquantenne, ma di sicuro esperta nel trattare le parole, visto che si occupa di web marketing editoriale a Firenze. Dove è emigrata dalla natia Forlì. Ed è proprio nel forlivese che ambienta questa storia, che abbraccia un lungo periodo (una ventina d’anni, o poco più) fondamentale per la storia d’Italia.

Dico subito che uno dei limiti, per me, è il dualismo vocale delle protagoniste. Mi spiego: la vicenda è narrata in prima persona da due donne (e ci può stare), tuttavia, dopo che per un centinaio di pagine seguiamo una vicenda, ecco che si inserisce la seconda voce. Con un narrato ovviamente diverso, ma che per un po’ lascia interdetti: e mo’ chi è che parla?

L’altro è il fatto che la copertina, come usuale, riporta il titolo in maiuscolo, e se si va subito alle prime pagine, si salta la titolazione ufficiale che replica il titolo così come l’ho riportato in alto. Perché, se è vero che tutta la vicenda parla della fragilità della vita (che può andare in frantumi come un bicchiere di vetro), è anche vero che, nella seconda metà, un ruolo importante riveste un gerarca fascista soprannominato Vetro, in virtù dell’occhio di vetro rimediato durante la guerra in Abissinia. Certo, credo che questa ambiguità sia stata volutamente cercata dalla scrittrice, anche se il ruolo di Vetro è forse di catalizzatore di avvenimenti. Mentre a me, un titolo come quello riportato, avrebbe fatto pensare a Vetro come protagonista in soggettiva del libro, cosa che non è.

Per venire alla trama in sé, come detto siamo nel forlivese, ed in particolare, gran parte della vicenda si svolge a Castrocaro. Lì è radicata, sebbene in periferia, la famiglia di Adalgisa, donne forte e fumantina, sposa di Primo, un fascista della prima ora. I due non riescono a far vivere i figli appena nati, che tre ne muoiono nei primi giorni di vita. Solo grazie ad una specie di santone locale, nasce e sopravvive Redenta, anche se, come predisse il santone, avrà una vita scalognata.

Redenta nasce il 10 giugno del 1924 (mio padre non aveva ancora un anno), il giorno dell’assassinio di Giacomo Matteotti da parte dei fascisti. Già non certo un segno positivo. Poco dopo nasce anche la sorella Marianna, ma entrambe dovranno andare da nonna Fafina, che Adalgisa deve scontare alcuni anni in prigione per aver quasi ucciso il marito prima delle nozze (una storia laterale che tralasciamo).

Redenta non parla, ma fa amicizia con Bruno, uno degli orfani che la Fafina tiene in casa per rimediare qualche soldo. Inoltre, si prende la polio, cui sopravvive, anche se avrà un piede zoppo che l’accompagnerà per tutta la vita. Come per tutta la vita l’accompagnerà il suo amore per Bruno, anche quando Bruno scompare, anche quando riappare in modi inusuali, anche …

Intanto, il padre fascista, tornato dall’Abissinia, la concede in sposa al suo comandante, il Vetro di cui all’inizio. Una persona in ogni caso (fascista o meno), violenta in tutte le sue manifestazioni, pubbliche e private. Ma Redenta, consapevole del suo essere “sciagurata”, reagisce a tutto ciò come un giunco. Si piega a tutti i venti, ma non si spezza, anzi…

Sull’altro versante seguiamo la storia di Iris, figlia di una maestra e maestra a sua volta, ma le scarsezze economiche la costringono a partire dal paesino di Tavolicci, e riciclarsi domestica a Castrocaro. Fortuna che la famiglia è ottima, compreso Diaz il tuttofare. Tutti anche antifascisti. Così che, quando scoppia la guerra partigiana, Diaz sale sui monti, con Iris e con altri emiliani, dando vita ad una delle tante formazioni partigiane dell’epoca.

Una formazione che avrebbe potuto cambiare la storia, perché, purtroppo, per una serie di motivi che vi lascio leggere, non riesce ad organizzare un attentato al Grand Hotel di Castrocaro, il giorno in cui i gerarchi fascisti scampati alle prime retate post 25 luglio, decidono di costituire la Repubblica Sociale Italiana, e di allearsi ai tedeschi per mantenere il controllo sull’Italia.

Seguiamo l’alternarsi delle vicende di Redenta e di Iris, che si intrecceranno, in maniera sempre più contorta, con le vicende di Vetro, di Bruno, di Diaz, dell’Italia tutta. Potrebbe anche essere uno spoiler, ma volutamente è abbastanza criptico da lasciarvi il tempo di leggere anche la fine del libro. Che personalmente non mi ha soddisfatto, troppi punti saltati o sorvolati, troppi momenti lasciati (anche) all’interpretazione del lettore.

La sapiente penna di Nicoletta Verna riesce a farci seguire le vicende aspettandone il concatenarsi. E nelle more, ci parla della dura vita contadina e della guerra, delle violenze e dei soprusi del fascismo e dei fascisti. Tra l’altro ricordandoci una delle più turpi vicende del luogo, dove il 22 luglio del ’44, un reparto di SS italiane, compie un eccidio nella località di Tavolicci, uccidendo 64 civili, tra cui una ventina di bambini sotto ai dieci anni. Tanto dolore, quindi, pervade tutte le pagine, ma anche, sottesa a tutto, la speranza che quel sangue, quel dolore, quelle indicibile sofferenze, personali e collettive, che allora erano state (purtroppo) necessarie, non lo siano più.

Una speranza che, vista con gli occhi di oggi, è solo una speranza.

Gabrielle Zevin “Tomorrow, and Tomorrow, and Tomorrow” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 8,55 euro)

[A: 23/11/2024 – I: 03/03/2025 – T: 05/03/2025] - &&&&---

[tit. or.: Tomorrow, and Tomorrow, and Tomorrow; ling. or.: inglese; pagine: 441 anno 2022]

Se non fosse stato indicato nei primi cento libri di questi primi venticinque anni del secolo, non credo che lo avrei letto. Ed avrei fatto male, che, pur non essendo sempre in sintonia con i miei pensieri letterari, è una prova interessante di una scrittrice “mix-americana”, dove, con una scrittura discretamente coinvolgente, ci costringe a fare un buon giro nella mentalità americana, e nei sentimenti tra le persone.

Intanto, per il mix di cui sopra, Gabrielle nasce da padre americano di origini ebree ashkenazite (nonni slavi) e da madre coreana. Una radice personale che si rivede in parti di questo libro, laddove Sam ha radici coreane e Marx giapponesi. Inoltre, i genitori di Gabrielle si conoscono durante gli studi nel Connecticut, da dove, entrambi, vanno poi a lavorare in IBM. Anche questo un tratto che si riversa a piene mani in questo scritto, dove molto è centrato sui computer, ed in particolare sui videogiochi.

Ma allora, bisogna essere un appassionato conoscitore di videogiochi per apprezzare questo libro? In realtà, sì e no. Cioè, se conosci il mondo del “gaming” puoi apprezzare meglio alcuni passaggi, se non lo conosci, la storia è talmente ben scritta che puoi farne a meno di capire i meccanismi interni.

Intanto, come riportato dalla strofa finale, il titolo viene dal quinto atto del Macbeth di Shakespeare, riportando il famoso soliloquio di Macbeth che, alla morte della moglie, si abbandona alla triste riflessione sul senso vacuo della vita e di tutte le azioni che la costellano. Tutti atti insignificanti che puntano al raggiungimento di obiettivi che non hanno alcun reale valore. Un titolo da contrappasso, che Gabrielle vuole dimostrare in tutto il libro il contrario.

Per farlo ci narra la storia di tre ragazzi americani per un periodo di oltre trent’anni. In realtà, il focus è solo su due di loro, Sam e Sadie, ma la presenza e le azioni di Marx sono fondamentali per la costruzione del mondo che ci viene rappresentato.

Allora Sam è asiatico coreano, colpito da un grande dolore da bambino: per motivi che non vi sto a spiegare la madre ha un incidente mortale in auto, dove a lui viene stritolato il piede destro. È un decenne in cura quando lo incontriamo, che entra ed esce dall’ospedale per curarsi (senza risolvere completamente il problema). Sarà sempre un po’ storpio, fino a che, da grande, non si farà amputare il piede, e con l’arto artificiale potrà (forse) avere una sua prospettiva meno dolente.

Nell’ospedale, intanto, conosce Sadie, una ragazzina coeva che tiene compagnia alla sorella leucemica (che guarisce). Sam e Sadie stringono un forte legame, suggellato dalla passione per i videogiochi, soprattutto da quello che all’epoca andava alla grande, “Super Mario”. Per ragioni che non vi spiego, però i due litigano di brutto e si perdono di vista. Per ritrovarsi, otto nove anni dopo, entrambi presso due diverse sezioni del MIT di Boston.

Sadie è un genio della tastiera e si è messa con il suo professore di computer grafica, ben più grande di lei e sinceramente antipatico. Sam deve tirare la carretta, non avendo grosse possibilità economica, ha una grande facilità nel disegno, e di conseguenza nel tratteggiare mondi fantastici ed accoglienti. Per limitare le spese vive con l’abbiente nippo-americano Marx.

A seguito di fortuite coincidenze, Sam e Sadie sviluppano un gioco che, lanciato con i soldi di Marx, avrà un successo folgorante. Da lì cominciano tutte le storie legate a loro tre ed ai loro videogiochi, al triturante mondo dell’economia americana, ed alla follia che sta a volte alla base delle persone ludopatiche.

Comunque, i nostri si trasferiscono in California, continuano ad avere successo, anche i video giochi diversi dal primo. Anzi, il loro maggior successo è proprio un gioco in cui ci si immerge e si diventa co-protagonisti della vita. Con Sam che assume le fattezze del fittizio sindaco di quel mondo. Un mondo di pace e serenità, molto anti-trumpiano, dove ci si può sposare anche tra gay, e sono concesse molte altre libertà (che poi non devono essere concesse ma sono alla base del vivere civile). Benché Sam sia da sempre innamorato non dichiarato di Sadie, assiste alla nascita dell’amore di Sadie e Marx, al loro matrimonio, a Sadie che aspetta un figlio.

La parte finale, dura e necessaria, fa precipitare il testo nella cruda realtà. Giocatori folli decidono di uccidere Sam come esempio della degenerazione del mondo, sbagliando bersaglio ed uccidendo Marx prima che questi possa vedere il figlio. un momento che non potrà che portare un’ulteriore crisi al mondo dei nostri. Pur se dolorosa, è anche una parte di riflessione sulle tematiche dell’amicizia e dell’amore che, unite alle altre cui arriveremo, è interessante leggere. Forse a volte il tutto su dei toni che mi sono lontani, ma che ho letto con curiosità (è sempre fondante leggere anche cose di cui non si è sempre in accordo).

Riusciranno Sam e Sadie a recuperare il loro rapporto? La loro amicizia? Il loro comunicare a primo sguardo ed attraverso le azioni virtuali dei loro alter ego? Un ultimo gioco sviluppato da Sadie dovrà essere il banco di prova di questo possibile futuro al di là del libro.

Sono tanti i bersagli che Gabrielle vuole colpire nella sua prosa, quasi sempre riuscendovi. In un libro intrinsecamente americano, un’ode al lavoro creativo, si mostra subito il contraltare della fallacia del sogno americano: senza i contatti giusti, un sogno rimane spesso un sogno. Ovvio d’altronde, per quanto tramato, che uno dei caposaldi del romanzo è mostrare la complessità dell’esperienza videoludica, cercando di dare un proprio ruolo ai videogiochi nella vita di ognuno. E ci dichiara appunto che si gioca perché nel gioco è insita la possibilità di ricominciare. Perché “L’idea è che, se continui a giocare, puoi vincere. Se perdi, non è per sempre, perché nulla è mai per sempre.” Quindi, si gioca per sconfiggere la morte, e quando la morte ci sconfigge, si gioca per costruirsi una vita “altra”.

Tanti altri poi sono i temi ricorrenti. La disabilità, di cui Sam rifiuta di farsi etichettare, la violenza sessuale nelle scene di sesso non consensuale tra Sadie e Dov. Tematiche LGBT come la fluidità di genere (il primo protagonista del primo videogioco di Sam e Sadie non ha un’identità sessuale) ed il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Per non dimenticare le continue frecciate al razzismo che incontriamo durante il nostro trentennale viaggio: Marx, ad esempio, recita nel teatro universitario e non interpreta mai ruoli di primo piano a causa delle sue origini per metà giapponesi; la madre di Sam, Anna Lee, vive la stessa situazione nel settore cinematografico; Sadie è continuamente svalutata nelle sue abilità di programmatrice perché è donna.

Sono inoltre grato alle edizioni TEA che hanno mantenuto in copertina “La grande onda di Kanagawa” l’imperdibile xilografia del pittore giapponese Katsushika Hokusai. Infatti, è proprio il dipinto di Hokusai a ispirare lo tsunami che apre il primo gioco della serie Ichigo di Sam e Sadie. Zevin ci mostra infine, come tutti possiamo lasciare un’impronta nella vita di qualcun altro. Leggendolo non può che tornarti in mente quanto siano preziosi gli amici. Anche se poi, videogiocando, Gabrielle chiosa: “L’amicizia è un po’ come avere un Tamagotchi”. E solo chi ha una certa età capisce il senso della frase.

“Viviamo al massimo mezza vita, pensava. C’era la vita che vivevi, che consisteva nelle tue scelte. E poi c’era l’altra vita, quella fatta delle cose che non avevi scelto.” (160)

“Quanto sei ingenuo a pensare che su internet ci sia qualcuno che sappia una verità qualsiasi.” (424)

“Continuo a pensare a quanto siamo stati fortunati … a essere nati nel momento in cui siamo nati.” (433)

Domani, e poi domani, e poi domani,

il tempo striscia, un giorno dopo l’altro,

a passetti, fino all’estrema sillaba

del discorso assegnato e i nostri ieri

saranno tutti serviti

a rischiarar la via verso la morte

a dei pazzi. Breve candela, spegniti!

La vita è solo un’ombra che cammina,

un povero attorello sussiegoso

che si dimena sopra un palcoscenico

per il tempo assegnato alla sua parte,

e poi di lui nessuno udrà più nulla:

è un racconto narrato da un idiota,

pieno di grida, strepiti, furori,

del tutto privi di significato!

Macbeth Atto V Scena V (369)

Continuando con la scrittura al femminile vorrei menzionare due autrici francofone ma non proprio francesi. La prima, Leïla Marouane, nel suo “Vita sessuale di un fervente musulmano a Parigi” mi fa rivenire in mente il bellissimo film di Scola, ed anche altri ricordi: “Facendo il verso al Mario quello de La Terrazza [Gassman nel film di Scola] mi sono chiesto con un sogghigno se fosse lecito essere felici anche a costo dell’infelicità altrui.” (94)

E poi Marguerite Duras de “L'amante” con due sentenze che mi fanno sempre pensare:

“Sono come voglio apparire, anche bella se gli altri lo vogliono, o carina … insomma posso diventare come gli altri vogliono che sia.” (19)

“Fin dai primi giorni [del nostro amore], sapendo che è impossibile un avvenire in comune, eviteremo di parlare dell’avvenire.” (43)

Come non sapete ma ve lo dico io ora mi allontanerò per almeno due settimane. Sperando che le mie trame non vi manchino troppo, vi mando un abbraccio pasquale.

domenica 6 aprile 2025

Conflitti - 06 aprile 2025

Una settimana di trame che, in vario modo, si occupano di conflitti, dove, essendo per lo più romanzi, si tratta spesso di conflitti dell’anima, del comportamento, dei rapporti. Su tutti svettano due autori italiani che, in diverso modo, affrontano il loro conflitto con la figura materna: Antonio Franchini e Andrea Bajani. Altro autore italiano affronta una serie di problemi sia di crescita che di rapporti intrafamiliari, seppur di famiglie allargate: Alessandro Piperno. E poi due classici o quasi. Una saga gay di Edmund White ed un pamphlet di difficile classificazione di Friederich Dürrenmatt.

Edmund White “L’uomo sposato” Playground euro 20 (in realtà, scontato a 19 euro)

[A: 06/11/2024 – I: 04/01/2025 – T: 06/01/2025] - && e ½      

[tit. or.: The Married Man; ling. or.: inglese; pagine: 390; anno 2000]

Avevo incontrato il nome di Edmund White (anzi Edmund Valentine White III come risulta all’anagrafe) in veste di saggista (su Genet, Proust e Rimbaud), anche se non ne avevo approfondito la scrittura, né ero passato alle sue opere di narrativa. Spinto dalla ormai ben nota contro lista di Franco Cordelli, pur avendo altro nella mia libreria, ho deciso di affrontare subito questo poderoso libro.

È forse un peccato che questo sia l’ultimo volume dedicato da White ad una sua più o meno velata biografia, anche se qui, per motivi a me ignoti, decide di mascherarsi dietro altri nomi. Diventando così un Austin Smith e camuffando Hubert Sorin dietro il nome di Julien.

Già da queste righe, avete capito che si tratta di una storia ambientata nel mondo gay, dato che White stesso è gay e sieropositivo, anche se in una forma gestita (o gestibile), visto che tra pochi giorni compirà 85 anni. Ed è una storia che ripercorre gli ultimi anni di White in Europa. Infatti, visse a Parigi dal 1983 al 1990, e questo romanzo proprio sul finire degli anni ’80 ha la sua ambientazione.

Tuttavia, pur riconoscendogli una eccellente capacità descrittiva, ed una mia partecipazione ai peripatetici viaggi non è riuscito a prendermi, a farmi entrare fino in fondo nelle vicende e nella trama. Certo, sui luoghi dove si muovono i protagonisti non posso che convenire, visto che non solo siamo a Parigi e dintorni, ma ci si muove spesso per altri lidi a me cari: Nizza, Venezia, Roma, la Florida, Key West, la penisola dello Yucatan e il Marocco. Oltre ad alcuni che prima o poi visiterò, come il Vermont o Montreal. Mi asterrei soltanto da Disney World, che non mi attira affatto.

È tutto l’universo gay che attraversa il libro che ho guardato molto dall’esterno, astenendomi da qualsiasi considerazione (l’amore è l’amore, punto). Il modo però di attraversare la vita e la morte come descritta in queste pagine, alla fine non mi ha preso particolarmente. Anche se, appunto, devo riconoscere che White ne dà un’immagine dall’interno che è assolutamente da seguire con attenzione e rispetto.

Saltando tutte le trasposizioni autobiografiche, il romanzo ci parla di una intensa storia d’amore tra Austin, cinquantenne americano, in trasferta europea per scrivere un saggio sui mobili del diciassettesimo secolo, e Julien, un architetto trentenne, dagli orientamenti sessuali “fluidi”, come si direbbe ora. È sposato, ma quando si incontra con Austin in una palestra, non può respingere il suo lato gay. Divorzia, e, non subito, non sempre con tutta la testa, ma prima o poi, intreccia una potente storia con Austin.

Austin, dal canto suo, è ossessionato dall’avanzare dell’età, ha da tempo chiuso una storia lunga con Peter, di cui rimane amico e sodale, ma è anche appena uscito da una tormentata storia con Julien Petit, che, giovane e rampante, lo ha lasciato per altri lidi d’amore più promettenti. E noi sappiamo anche, da subito, che Austin è sieropositivo.

Julien, invece, brillante, giovane, desideroso di molte esperienze anche mondane, è più un costruttore di false verità, con le quali costruisce il suo piccolo mondo di ricerca. Sapremo alla fine che non è un aristocratico, che ha fatto anche altri mestieri, che aveva avuto amanti donne (di cui millanta un grosso ricambio, quando alla fine, loro quasi non si ricordano di lui).

E se nella prima fase è tutto un incontro con gli ambienti gay degli espatriati americani e con gli intellettuali francesi, da un certo punto in poi, tutto vira verso tragedie prevedibili. Julien si scopre anche lui sieropositivo, ma molto più debole di Austin, refrattario a molte cure, ed inesorabilmente avviato verso la morte.

Questa forse è la parte più intensa, ma che meno ho compreso. Questo senso di vicinanza con la morte, quasi attesa, quasi posta lì, in un orizzonte di pochi anni, se non di pochi mesi, come “traguardo” da varcare. Non che noi tutti non si sappia che esiste la fine. Qui la fine è nota e vicina, e ci si fa i conti tutti i giorni.

Nel mezzo, assistiamo alla vita ed agli scontri di tutti i giorni dei protagonisti. Austin che scrive con difficoltà, che ha problemi di “politically correct” con le sue classi americane. Austin e Julien che si scontrano con la burocrazia americana delle dogane invalicabili. Julien che è geloso dei precedenti amanti di Austin. Austin che si domanda se Julien gli è fedele. Fino al potente finale, vissuto in un Marocco da incubo, seguendo una rotta che varie volte ho fatto nei miei viaggi (Marrakech, Taroudant, valle del Draa, Erfoud, Ouarzazate, Marrakech). Incubo perché Julien si aggrava durante il viaggio e muore al fine in un sordido ospedale a Marrakech.

Vediamo la profonda tristezza di Austin durante gli stadi finali della malattia di Julien. Ma assistiamo anche al suo voltar pagina in pochi mesi, e riprendere la vita “quam ante”, certo non dimenticando il suo amante “uomo sposato”, ma andando nuovamente in cerca di altro amore, che la sua età continua ad avanzare, e lui non se ne rassegna.

I punti forti della scrittura di White sono in realtà molto dedicati ad una specie di piccolo gioco in controaltare, laddove contrappone modi e pensieri del Vecchio e del Nuovo Mondo. Un contrasto che solo un americano che ha vissuto a lungo in Europa riesce a riprodurre con lucida chiarezza. L’altro, ovvio, è rivolto alla cronaca di un amore adulto, sincero seppur complesso, immerso fino in fondo nei difficili anni dello scoppio dell’AIDS. Quello che poi gli riconosco è la sincerità espressiva. Anche quando dice cose sgradevoli, pur verso sé stesso, mantiene il tono franco che ci deve sempre essere, ma che non è facile mantenere.

Visto che Veronesi aveva proposto di leggere il libro precedente a questo, penso che prima o poi lo affronterò, sperando di trovarvi la stessa sincerità e magari, da parte mia, una maggiore partecipazione complessiva. Qui, alla fine, come ho detto, non ne sono rimasto coinvolto, ed ho faticato un po’ a terminarlo.

Antonio Franchini “Il fuoco che ti porti dentro” Marsilio s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/01/2025 – I: 14/01/2025 – T: 16/01/2025] &&&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 223; anno: 2024]

Approfittando dei crediti natalizi, ho fatto acquisti massicci da varie liste che avevo previsto per le feste. Tra queste, quella dei migliori libri usciti nel 2024 e fornita da “La Lettura” del Corriere della Sera. In questa classifica, l’ottimo libro di Franchini si è piazzato al terzo posto, ed in attesa di leggere gli altri due vincitori, devo dire che è stata un’ottima scelta. Il libro è anche entrato nella cinquina dei finalisti del Premio Campiello, arrivando, nella votazione finale, al secondo posto.

Franchini, napoletano, verso i vent’anni, si trasferisce a Milano, dove si occupa di scrittura, diventando curatore della narrativa italiana per Mondadori, per poi passare, una decina di anni fa, alla direzione della narrativa per Giunti Editore. Qui, in questo libro fortemente biografico, prova a fare i conti con una grossa fetta della propria vita, in generale nel suo rapporto con la madre ed in particolare proprio con la figura stessa di Angela Izzo, madre dura e di non facile comprensione, nei rapporti e negli atteggiamenti della vita.

Non è un libro facile, e non per le parti in dialetto che pure richiedono fatica ad un lettore non napoletano. È la materia stessa che crea difficoltà. È la descrizione, crudele a tratti, di un rapporto conflittuale tra il narratore e la madre. Dove, anche se Franchini cerca di essere sufficientemente onesto, non si può negare che Angela è vista dalla sua ottica. Con tutti i limiti che una parzialità descrittiva non potrà mai superare.

È anche difficile narrarne, che il testo, pur ripercorrendo il percorso familiare dell’autore da quando prende coscienza di sé e del proprio mondo, sino all’ineluttabile fine, si affastella a volte, prende strade parallele, si perde nei meandri familiari o pseudo-familiari. Tuttavia ha avuto il grande pregio, soggettivo, di spingermi a pensare alla mia famiglia, alle mie figure ancestrali, ai miei genitori, ed ai nodi che mai sono stati risolti e che mai potranno esserlo, visto che ormai sono mancate le due figure tutelari del mio mondo famigliare.

Ma per tornare a Franchini, il romanzo cerca di fare i conti con la figura materna, presentata con tutte le sue idiosincrasie e tutte le sue meschinità. Conti che alla fine non saranno a somma zero, che non ci sarà un discorso redentore tra le parti in causa. Un testo però che serve all’autore (ed a noi) per riflettere, ed anche poi, ricostruendone i passi, per costruire un film, soggettivo della propria esistenza e di chi ci sta intorno.

Alla fine cosa possiamo dire delle azioni, che dei sentimenti parleremo poi? Angela Izzo nasce nel Beneventano, ha un padre che muore troppo presto in guerra, ed una madre che la opprimerà a lungo (una nonna che i nipoti chiameranno “Locusto” per simboleggiare l’animaletto che distrugge tutto al suo passaggio). Ha alcuni amori giovanili (dei calabresi, razza cui lei sarà sempre ostile), studia (fa il classico, “sa di greco e di latino” come direbbe Carducci). Di sicuro frequenta Lettere all’Università (non ho capito se laureandosi), ma di sicuro seguendo dei corsi (laddove nel suo ricordo, e nelle storpiature comicamente involontarie, ricorderà sempre di aver studiato “Filologia ‘e romanzo”, e voi avete di certo capito cosa studiava).

Conosce un maturo commercialista, di vent’anni più grande di lei, il borghese Eugenio, schivo quanto lei è esternante e diretta. Faranno tre figli, Antonio e le due sorelle, figli che saranno sempre il bersaglio degli strali materni. Ne vedremo le vicissitudini, una figlia succube, una che si sposa presto con un buddista e va a vivere a Milano. E Antonio che non riesce a comprendere le sempre inopportune uscite materne, anche lui ben presto in fuga verso il Nord.

Una Milano che però li vedrà riuniti, nella vecchiaia di Angela che rimasta sola, senza mai avere amicizie vere, si trasferisce anche lei vicino ai figli riparati al Nord. In una vecchiaia sempre più acciaccata, costellata di malanni e forse di qualche forma di demenza senile. Fino alla fine che non potrà che arrivare, senza consolazioni, senza chiarimenti, e soprattutto senza possibilità di averli. Che Angela non uscirà mai dal suo personaggio riottoso, malmostoso, immotivatamente rancoroso.

Non sono però le vicende minute che pur costellano il testo, ma è l’accumularsi di indizi delle meschinità, della non evoluzione di Angela. Una donna violenta nel parlare, che alla fine mostra un disprezzo viscerale in tutto ciò che non rientra nel suo quadro di vita. Con l’aggravante che non esterna mai quale sia questo quadro. Franchini è bravo nel dipingere questo quadro, senza realmente intervenire nella trama, quasi solo fotografandocelo, facendone vedere i fenomeni esteriori, in base ai quali, noi lettori, noi figli, traiamo le nostre considerazioni, pensiamo al nostro ambiente familiare, a quello che ci ha formato.

Diverso, distante, non rapportabile, ma in una qual misura dipinto nella controluce dell’odissea familiare della famiglia Franchini. Angela, con tutti i suoi difetti, ma anche con quel fuoco che si porta dentro, che sembra sempre spingerla a dire la cosa sbagliata nel momento sbagliato, non viene decifrata dal testo. E pur tuttavia, è un testo che si fa leggere, che è bene leggere, proprio per quegli spunti che ci fornisce.

Leggete la prima frase che riporto, ed io ed i miei cugini ci troviamo immediatamente nelle nostre estati di Tortoreto Lido. Leggete la seconda e trovate subito altri riferimenti. Leggete la terza ed immediatamente vengono in mente i libri di Barnes, dove si può vivere una vita senza mai aver capito chi siano le persone che ci stanno intorno.

Ci sono poi due momenti musicali, tra i tanti, che mi sono rimasti in testa. La citazione di Moby Dick del Banco a pagina 35. Ma soprattutto, il testo di Pino Daniele su Napoli a pagina 209, dove finalmente, vedendolo scritto, ne ho capito le parole.

Un libro dolente, in fin dei conti, come dolorosa è per me la figura di Angela, che mi ha fatto riflettere e domandare chi fu realmente mio padre? Chi fu realmente mia madre? Sono solo i miei ricordi, o c’è altro che non ho mai saputo e che ne potrebbe fare persone diverse? E se un libro ti porta a queste riflessioni è senz’altro un buon libro.

“Dopo il mare si torna a casa, si fa un pasto pesante e i bambini, che avrebbero voluto solo giocare … o leggere, vengono consegnati … al rito crudele del riposo pomeridiano.” (30)

“Si alza presto la mattina, fa il caffè e … aggiorna un grosso registro sul quale riporta … le caratteristiche bibliografiche dei volumi che possiede.” (63)

“Neanche la vita che abbiamo vissuto possediamo, perché ognuno se la ricorda a modo suo e la vita nostra non è affatto la vita nostra ma il racconto che ce ne siamo fatti e che chiunque abbiamo incontrato è in grado di raccontare in tutt’altro modo.” (120)

“Meglio non divertirsi troppo con le sfortune altrui.” (173)

Alessandro Piperno “Aria di famiglia” Mondadori s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/01/2025 – I: 27/01/2025 – T: 28/01/2025] &&&  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 405; anno: 2024]

In genere sono discretamente attento alle scritture di Piperno su Corriere ed allegati (come l’ultimo ed interessante mini-saggio a puntate su perché si scrive), meno invece sui suoi romanzi. Così ho preso al balzo il suggerimento de “La Lettura”, dove questo suo libro si è piazzato al secondo posto dei libri editi nel 2024, dietro solo al mio idolo Murakami.

Così l’ho messo subito in corsia preferenziale, leggendolo con un giusto interesse, anche se poi, nel finale, mi ha lasciato un sentimento ambivalente. Cioè, una bella scrittura, che si segue senza difficoltà, ma con due punti nevralgici che non sono riuscito a superare. Il primo, è il fatto che, anche secondo le parole dell’autore, questo è il secondo libro di una trilogia. E non avendo letto, né avuto contezza, del primo libro (“Di chi è la colpa”) non so se mi perdo collegamenti e rimandi. Anche se la critica più accreditata sostiene l’indipendenza possibile della lettura dei libri del nostro.

Il secondo punto è il fastidio, quasi l’odio (parola forse un po’ forte) verso il protagonista. Che subisce una serie di colpi, anche molto forti e subdoli. Ma sempre, ad ogni colpo, sembra fuggire per altre vie. Quasi come il refrain che ripete una parente pur a me cara (ma verso cui dissento): “il tempo aggiusta tutto”. No, non è vero, il tempo non aggiusta, e bisogna tirar fuori il meglio di sé per affermare la propria identità. Altrimenti, che senso ha vivere questa vita?

Il libro, quasi romanzo di un crollo che dura anni e anni, per me ha tra momenti topici, ed un sotto momento che mi ha scaldato il cuore. La storia, banalmente, vede al centro il cinquantenne professor Sacerdoti, ebreo poco ortodosso, che attraversa due momenti difficili della sua vita: una diatriba professionale all’Università e la convivenza con un parente acquisito, convivenza inaspettata e foriera di molte conseguenze, non sempre positive.

Il primo di quei momenti forti è la causa scatenata da una collega universitaria di Sacerdoti, che lì insegna letteratura francese. Parlando di Flaubert, ne cita frasi misogine ad esemplificare un quadro di scrittura del grande francese. Nella moda imperante del “politically correct”, la lezione di Sacerdoti viene presa come adesione alla scarsa considerazione verso le donne (che tuttavia era una costante nell’Ottocento), innescando un processo all’interno delle istituzioni che sarebbe ridicolo se non fosse tragico. Qui esce fuori quella che sarà una costante della vita di Sacerdoti: tra affermare la propria identità e le proprie idee e ritirarsi in attesa che tutto passi, il nostro (qui ed altrove) sceglie la seconda opzione. Manda tutti a quel paese, ritirandosi dall’insegnamento ed isolandosi nel suo mondo solitario di lettere e letture.

Incidentalmente, poco dopo, viene ad essere affidatario del piccolo Noah, parente alla lontana, cui sono morti tragicamente i genitori, e che non ha altri congiunti nel suolo italico. I genitori, infatti, in rotta con la famiglia inglese d’origine, sono fuggiti da Londra per vivere una vita altra. Sacerdoti si trova a crescere Noah, ad avere un rapporto con un bambino, lui che non ne aveva mai voluti, trovandoli insopportabilmente fastidiosi. Ma che forse (ed in questo ne capisco l’origine) ne soffriva dal ricordo della propria infanzia forse non proprio felice.

Questo è quel momento che pervade tutta la parte centrale del libro, del rapporto tra l’adulto immaturo ed il giovane già troppo cresciuto. Mi ha fatto venire in mente episodi sparsi che hanno costellato una giovinezza di momenti interessanti di crescita. Certo, purtroppo, finiti in modo diverso dalle aspettative del tempo. Ma il modo di rapportarsi tra Noah ed il professore è stato un momento di relax intellettuale che mi ha cullato per alcune ore.

Il secondo momento nevralgico è quando, in base a tutta una serie di avvenimenti che tralascio, si scopre che Noah ha un’eredità milionaria, ma che i parenti londinesi ne rivendicano la comproprietà, sostenendo l’avidità di Sacerdoti verso quei soldi (di cui il nostro non sapeva neanche l’esistenza). Qui si scatena la seconda guerra del mondo di Sacerdoti. E benché nel poco tempo del rapporto con Noah abbia imparato (reciprocamente) a voler bene al ragazzo, alla fine rinuncia alla lotta, pensando (anche qui con una intempestività micidiale) che forse per Noah era meglio una vita inglese senza lotta, piuttosto che una guerra dall’esito incerto.

Il terzo e ultimo momento, una quindicina, credo, di anni dopo, è l’incontro tra Sacerdoti e Noah, al matrimonio di quest’ultimo che nel frattempo si è emancipato dagli orrori dickensiani della famiglia inglese, si è dato alla cucina (sua passione sin da giovane), aprendo un locale di successo a Milano. In poche pagine, i due tirano fuori una serie di tematiche che mostrano la crescita di Noah, nonostante tutto. L’affetto di Noah verso il professore, ma anche il dispiacere della mancata crescita di Sacerdoti. Il professore ha fatto un lungo crollo di quattrocento pagine, da cui ne esce con molte ferite, ma alla fine con qualche barlume di speranza.

In fondo, Noah ha preso alcune cose da lui, e soprattutto, ha fatto sua la lezione inversa: affrontare il mondo e non lasciare nulla di scontato o intentato.

Come si ricava dal titolo, il libro è una riflessione sul ruolo della famiglia nella propria vita. Scritto con pulizia, con rimandi giusti a mondi letterari noti (d’altronde Piperno è un forte conoscitore della materia), e che induce tante riflessioni. Alcune ne ho accennate sopra. Un’ultima viene dall’adesione alla frase che cito, ed all’affetto verso la mia polisportiva di cugini. Purtroppo, manca, per dare un giudizio più alto, quell’adesione a qualche momento di scrittura che in altre opere mi consente di far mio il testo, pur se con motivazioni altre.

Qui, il romanzo è ben scritto, ma, alla fine, troppo di testa e poco verso il mio cuore.

“Ne avevo così tanti di cugini, che mettendoli assieme avrei potuto fondare una polisportiva.” (162) [idem]

Friederich Dürrenmatt “La valle del caos” Einaudi s.p. (Biblioteca Borgogno)

[A: 21/11/2024 – I: 29/01/2025 – T: 01/02/2025] - &  

[tit. or.: Durcheinandertal; ling. or.: tedesco; pagine: 116; anno 1989]

Inizio ringraziando di cuore i cugini Borgogno per avermi consentito di accedere alla loro biblioteca familiare, da cui ho prelevato alcuni libri che ritengo utili per la mia personale biblioteca, ma anche necessari come ricordo che mai tramonterà di Zio Occo e zia Nanna.

Questo è il primo di quei libri-ricordo ad essere letto, legato tra l’altro ad un autore che, personalmente, ritengo abbia scritto uno dei libri più significativi del mio pantheon cartaceo, “La promessa”, uno dei più belli ed intensi libri che io abbia letto.

Purtroppo, però, questo è un libro di tutt’altro genere, certamente ed assolutamente in linea con tutta la scrittura dell’autore, ma con una tematica che, nel complesso, ho gradito per la sua ardita composizione, ma che non mi ha coinvolto né di pancia né di cervello. Risentendo forse delle fatiche e delle difficoltà anche fisiche dell’autore, dato che ricordiamo queto essere stato l’ultimo libro pubblicato in vita, morendo Dürrenmatt un anno dopo per un infarto.

Intanto, benché sia formalmente corretto, il titolo avrebbe avuto una più giusta espressione se fosse stato reso come “La valle della confusione”. Perché è proprio la confusione che regna sovrana per tutto il testo. Una confusione che serve a mettere all’indice tutte le certezze del mondo moderno. Forse letto trent’anni fa avrebbe avuto anche un maggior impatto personale. Ora, purtroppo, ho poca speranza che si riesca ad uscire dalla confusione, che si riesca ad avere, come l’autore ci mostra nel finale, forse uno spiraglio di speranza.

Certo, ci sarebbe da appellarsi a Mao Zedong quando affermava: “Grande è la confusione sotto il cielo, quindi la situazione è eccellente!”. Ma qui la confusione che inscena l’autore serve solo a mostrare quanto sia malato il mondo. C’è una confusione degli ambienti, dove seguendo i più rozzi gangster americani, si passa dalla costa californiana alle crociere sul Nilo. C’è la confusione dei personaggi, che nella clinica svizzera teatro principe dell’azione, i gangster di cui sopra fanno chirurgie estetiche che li fanno diventare sosia di personaggi buoni. C’è la confusione delle vendite artistiche, dove quadri autentici vengono venduti come falsi, e quadri perfettamente valsi sono venduti come autentici. Non vengono meno le forze dell’ordine, che nella loro confusione dispiegano mezzi inusitati per arrestare e giustiziare … un cane.

Ma la maggiore confusione è quella inscenata dal pazzo Moses Melker, che uccide le sue mogli per troppo amore, e si trova incastrato nella gestione della clinica “Casa della povertà”, dove vengono i ricchi per vivere alcuni mesi in estrema povertà. Forti della cosmogonia di Melker che propugna la teologia al contrario, dove i beati sono i ricchi, che i poveri verranno salvati dalla Grazia in quanto se non lo fossero che Grazia sarebbe. Mentre sono i ricchi che devono essere i destinatari della misericordia del Grande Vecchio.

Tutto ciò serve appunto a mostrare tutte le malattie del mondo. Laddove c’è confusione, c’è un mondo malato. Nella finanza che avvelena tutti gli aspetti della vita e che si comporta in modo rozzo tale e qualmente la criminalità di bassa lega. Nella religione, non tanto oppio dei popoli, ma strumento per manipolare le coscienze. Nei rapporti familiari, laddove il perbenismo di ogni giorno è soltanto una favola ipocrita che presto svela le sue gambe corte. E se la finanza, la religione, la famiglia servono solo ad accumulare denaro, malati diventano i rapporti sociali. Per finire con una feroce critica alla modernità dello sviluppo, che serve soltanto a rendere i poveri sempre più poveri.

Ovviamente Dürrenmatt non può che ambientare tutto nella sua amata – odiata Svizzera, riuscendo alla fine a descrivere come una imbelle comunità, a fronte di tutte le confusioni citate, non possa che venir travolta dalle lusinghe del denaro, delle ideologie, della trasgressione, dell’indifferenza.

L’epica dello scrittore, fa in modo che un gangster rifattosi la faccia come benefattore, metta in cinta Elsi, la figlia di Melker e padrona del cane che si voleva uccidere. E fa anche in modo, nonostante il suo nichilismo, di darci una flebile speranza. Tutta la confusione che si concentra nella famosa clinica di Melker, per una serie di ragioni scoppierà come un’emulazione dello Zabriskie Point di Antonioni. Rimangono soltanto il cane, Elsi ed il bambino che cresce nel suo utero. Tutti gli altri muoiono, ma dove c’è un bambino può nascere la speranza.

Certo, raccontato così, per idee, sembra un bel romanzo anarchico. E forse lo è, ma il modo intorcinato di portare avanti tutte queste situazioni, tipico della scrittura del nostro, ne rende difficoltosa la lettura, e poco agevole un sereno compiacimento verso una possibile opera di grande livello.

Andrea Bajani “L’anniversario” Feltrinelli euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)

[A: 17/03/2025 – I: 21/03/2025 – T: 23/03/2025] &&&&---  

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno: 2025]

Come sanno i miei assidui lettori, ho sempre seguito con interesse le prose di Bajani, anche se non sempre le ho trovato allo stesso livello. D’altra parte, non pretendiamo certo che un autore si esprima sempre al meglio. Ci possono essere alti e bassi, e noi arguti lettori, ne segnaliamo l’andamento per suggerire migliorie.

Non avevo giudicato al massimo il suo ultimo libro, il “Libro delle case”, ma devo dire che quello possa aver dato spunti di riflessione all’autore per cimentarsi in questa prova, ardua e pur intensamente bella. In quella disamina delle case, si citavano case genitoriali, tra Lazio e Piemonte, nonché accenni all’esistenza di un Padre e di una Madre, che presentavano elementi di forte contrasto con l’Io narrante.

Qui si prende al balzo quell’accenno, per affondare la lama della scrittura in quella che potrebbe presentarsi come un’infelicità tolstojana. Finzione? Autobiografia? O autofiction? Lo scrittore ci lascia nel vago, sia adoperando questa scrittura molto esterna da sé, pur se in prima persona, sia sottolineando, in copertina, che il titolo è “L’anniversario. Un romanzo”. Quasi a volerci dire che non è realtà soggettiva, quella di cui si scrive, ma invenzione dell’anima.

Sia quel che sia, e soprattutto non entrando nel merito se l’Io narrante sia Bajani o altri, questo “romanzo” è una dura lama che affonda le sue parole come coltelli in una vicenda personale ma in un certo senso generale. Certo, non voglio dire che tutte le famiglie italiane siano così, né che lo siano tante, ma solo che ne esistono. Anche nel caso sia una percentuale insignificante è comunque uno spaccato di un mondo molto, molto reale.

In un certo senso, a me verrebbe di dividere il narrato in due parti. La descrizione, lunga e cruda, di un’esistenza possibile, che potrebbe essere eponima di molte situazioni analoghe se non simili. E lo scioglimento della stessa, che invece è unico, legato all’Io narrante e solo a lui imputabile, nella scelta e nelle conseguenze.

La parte generale e comune descrive, andando su e giù nel tempo, il nascere e l’evolversi di una famiglia. Padre e madre si conoscono al liceo in quel di Roma, dove vivono. Lei studiosa e diligente, prende la maturità e si iscrive a Lettere (ha sempre avuto un lato verso la letteratura, anche se …). Lui, oltre ad avere una macchina per uscire con lei, ha voglia zero di studio, non si presenta alla maturità, ed inizia a lavorare presso un negozio al Nomentano.

Padre è caparbiamente arroccato nel suo ruolo che intorta Madre, ne fa il suo oggetto di vita preferito, ed una volta incinta, si avviano verso le nozze ed una gestione familiare tutta imperniata sul padre-padrone. Padre che litiga sul lavoro, si licenzia, si barcamena con piccole cose. Figlio che nasce, e genitori della madre che sembrano essere gli unici ad aiutare la coppia malmessa. Fino a che, non si sa per quale santo in paradiso, Padre riceve un posto fisso, ma in quel di Cuneo, così che la famiglia (Padre, Madre, Figlio e Sorella appena nata) si trasferiscono in Piemonte, dove vivranno la maggior parte del tempo.

Ed è lì, in quel mondo fatto di poche anime, che Padre assurge al ruolo di unico reggitore delle sorti familiari. Tiranneggiando la famiglia, e soprattutto la Madre. Ma l’Io narrante non vuole parlare del Padre, troppa importanza verrebbe data a quella figura poco sintonica con Figlio. Vuole parlare di Madre, di come nasce e cresce la sua sottomissione, quasi che il percorso verso gl’inferi di Madre possa spiegare la discesa verso esistenze crudelmente insoddisfatte di tutta la famiglia.

Bajani riesce, saltando anche qua e là nel tempo, a darci scorci e spunti: Madre con figli che prende il treno per tornare a Roma per le vacanze estive, da passare in quel di Santa Marinella a casa della suocera. Le amiche di Madre al tempo delle elementari, che poi si dissolvono crescendo. Meno una, che cerca di tirar fuori la donna che è in Madre, che prova a farla ribellare verso Padre scoprendone gli altari dell’amante (al che il fascista dentro risponde, sì ho un’amante ma a te non faccio mancare nulla). Le botte di Padre fino a un certo punto nascoste, ma poi palesi, anche se Madre non lo denuncerà mai.

La cattiveria verbale di Padre (lui legge libri, Madre legge romanzetti e fa la “Settimana Enigmistica”). Cattiveria anche e soprattutto verso i figli. Ma Sorella, appena può, si sottrae sposandosi ed andandosene. Figlio no. Rimane legato a quel mondo, soffrendo, senza mai trovare il modo di ribellarsi, quasi che un suo gesto forte mettesse in pericolo più Madre che altro.

Ma il disagio cresce, fino a che Io trova l’unico modo che ha per sottrarsi. Chiudere tutto, andare via, lasciare spazi vuoti dietro se. Fino a trovare, ora, in un tempo anniversario di quell’abbandono, la forza di scriverne, chiosando: “Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.”

A parte la scrittura, potente e tagliente, un elemento che molto è rimasto impresso mentre leggevo è quella mancanza di notizie certe. L’Io narrante parla, descrive, ricostruisce, ma deve anche confessare che spesso, di Madre, non ha notizie dirette. Uno dei momenti più forti è quando si domanda cosa faccia Madre la mattina, quando Padre lavora ed i figli sono a scuola.

Una storia di una famiglia disfunzionale e di un percorso di crescita. Ma una crescita non sintonica, ma avversa al contesto familiare, che cerca di uscire dalle spire mortali, riuscendoci soltanto con un estremo “abbandono dei genitori”.

Qualcuno farà dotte considerazioni sui comportamenti dei personaggi del veloce libro. Io, povero tramatore solitario, mi accontento di aver vissuto insieme all’autore i suoi momenti di dolente riflessione. Abbiamo avuto famiglie diverse, ed io non ho abbandonato nessuno, ma momenti di scrittura hanno mosso delle corde all’unisono con l’autore.

Con il mese di aprile iniziamo l’elenco delle letture di gennaio, con le sue diciassette uscite. Su cui svettano Franchini (di cui avete lette sopra) con il suo fuoco materno, Carofiglio con il saggio sull’imprecisione e Julie Otsuka con il bellissimo ricordo della madre. Mentre quasi sottozero finisce un inutile giallo italiano di Boccia & Lombardi.

 

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Autore

Titolo

Editore

Euro

J

1

Yuka Murayama

La stanza dei kimono

Corriere Giappone

8,90

2,5

2

Richard Osman

Il club dei delitti del giovedì

Repubblica Noir

8,90

1,5

3

Edmund White

L’uomo sposato

Playground

20

2,5

4

Francesco Caringella

Oltre ogni ragionevole dubbio

Repubblica Anima Noir

8,90

2,5

5

Marco Vichi

Il brigante

Repubblica Montagna

9,90

2

6

Torrey Peters

Detransition, Baby

Mondadori

20

2,5

7

Giancarlo De Cataldo

Un cuore sleale

Repubblica Essenza Noir

8,90

2

8

Alain De Botton

Le consolazioni della filosofia

Repubblica Filosofia Viva

9,90

3

9

Antonio Franchini

Il fuoco che ti porti dentro

Marsilio

s.p.

4

10

Don Winslow

La pattuglia dell’alba

Repubblica Brivido Noir

8,90

3

11

Sara Loffredi

Fronte di scavo

Repubblica Montagna

9,90

2

12

Gianrico Carofiglio

Elogio dell’ignoranza e dell’errore

Einaudi

s.p.

4

13

Giancarlo De Cataldo

Il suo freddo pianto

Repubblica Mistero Noir

8,90

2,5

14

Haruki Murakami

Il mestiere dello scrittore

Corriere

8,90

3

15

Julie Otsuka

Nuoto libero

Bollati Boringhieri

s.p.

4

16

Luigi Boccia & Nicola Lombardi

Strigarium I delitti del noce

Mondadori

5,90

0,5

17

Alessandro Piperno

Aria di famiglia

Mondadori

s.p.

3

 

Non avendo un centro fisso da colpire, questa settimana vi inondo di alcuni pensieri sparsi. Il primo viene da “La colpa” di Laura Grimaldi (grande giallista e ricordo anche come concorrente a “Lascia o raddoppia?”): “Non avevo niente di mio da dire. Amavo semplicemente interpretare ciò che altri avevano espresso.” (80)

La seconda dall’austriaco Leo Perutz che nell’ottimo “Dalle nove alle nove” ci ricorda che: “Una donna può voler bene a un uomo, anche se è brutto e sciocco. E anche se è cattivo” (106)

Infine, dal mio amato islandese Arnaldur Indriđason estraggo da “Un corpo nel lago” un discorso tra amanti: “Non abbiamo fatto altro che parlare, io e te. È molto più di quanto possa dire lui” (131) e da “Un grande gelo” un’amara considerazione sugli uomini: “So che ci sono uomini del genere … Vivono sull’onda della passione finché dura, poi appena comincia ad affievolirsi se ne vanno.” (262)

Ci avviciniamo a grandi passi alla Pasqua ed anche ad una stagione si spera meno fredda (visto che ho ancora strascichi di raffreddore). Si prospettano, forse, molte iniziative, anche se per ora l’unico problema che ho è sperare che l’uomo con i capelli color crodino non faccia altre mosse dannose per tutti noi. Speriamo, e quindi con l’affetto immutato vi abbraccio.