domenica 13 aprile 2025

Scrittura al femminile - 13 aprile 2025

Un giorno o l’altro verrò citato come “uncorrect”, per ora tuttavia, consentitemi di donarvi cinque trame scritte da altrettante esimie scrittrici. Di cui, devo dire, tre di livello veramente elevato. Joan Didion con l’elaborazione del suo grande lutto, Daša Drndić con il suo puzzle di un mondo croato e Gabrielle Zevin tra amore e videogiochi. E sempre ringrazio Cordelli ed il NYT per i loro suggerimenti. Il tutto condito da un buon romanzo italiano di Nicoletta Verna ed un romanzo da grande relax di Kate Thompson, con il suo grande messaggio da condividere: leggete di tutto, poi se ne può parlare e criticare.

Kate Thompson “Sotto le strade di Londra” Garzanti s.p. (Prestito di Alessandra)

[A: 03/10/2024 – I: 23/11/2024 – T: 25/11/2024] - && --     

[tit. or.: The Little Wartime Library; ling. or.: inglese; pagine: 383; anno 2022]

Ho avuto un po’ di difficoltà ad inquadrare la scrittrice che di Kate Thompson ce ne sono diverse, tutte anglofone, ma alla fine, visto che questo dovrebbe essere il suo primo libro, mi sono orientato su quella più giovane. Che risulterebbe giornalista free lance nonché ghostwriter (anche se non si sa per quale autore). Anche se, vista la delicatezza con cui parla dei bambini poteva anche essere confusa con l’irlandese scrittrice per l’infanzia.

Comunque, visto anche le disquisizioni finali del libro, la cura con cui sono stati reperiti i materiali per il romanzo, e la facilità di scrittura, pur non essendo un libro che stravolge il lettore, è di certo una lettura agile, che, battendo alcuni tasti non banali, tende a sottolineare, in varie forme, l’importanza di leggere. E di leggere tutto, senza censure.

Pur se romanzata, quindi, la vicenda si basa su tre avvenimenti reali avvenuti a Londra durante la Seconda guerra mondiale. Il primo, il 7 settembre 1940, quando una bomba tedesca si schianta sul tetto della Biblioteca Centrale di Bethnal Green, distruggendola in gran parte. La seconda, una notte di marzo del 1943, quando 173 persone morirono in una calca umana sui gradini irregolari che scendevano al rifugio dopo un grande scoppio in superficie. La terza relativa al 27 marzo 1945, quando una bomba V2 distrugge un caseggiato vicino a Bethnal Green, le Hughes Mansions, uccidendo 134 tra uomini, donne e bambini.

Dopo la prima bomba, la biblioteca, per merito dei due responsabili il bibliotecario George F. Vale e il suo vice, Stanley Snaith, viene trasportata e ricostruita nella fermata ancora in disuso della metropolitana di Londra a Bethnal Green. Kate, per esigenza di storia, modifica i due personaggi sostituendoli con due donne, Clara Button e Ruby Monroe. Le due che diventano le voci narranti del libro, a capitoli alterni.

Il secondo episodio serve per umanizzare Ruby inventando la morte della sorella nella calca (una calca su cui torneremo che nasconde un episodio interessante). La terza, infine, è motivo per narrare prima la perdita e poi il ritrovamento di due attrici non protagoniste del romanzo, Marie e Betty, nonché il ruolo assunto da Billy, uno dei protagonisti di secondo livello.

In questo contesto quasi storico, la scrittrice ci fa seguire appunto le vicende di Clara e Ruby. La prima, vedova, gestisce la biblioteca, legge favole ai bambini rifugiati nella metropolitana, e cerca di sviluppare le coscienze attraverso la lettura. Sola a lottare contro i maschi al potere, avrà aiuto prima di tutto da Billy, un obiettore di coscienza con qualche punto oscuro alle spalle, ma tra i due si svilupperà, com’è ovvio, una storia d’amore con probabile lieto fine. Ed i secondo luogo dai bambini, sia quelli della lettura, sia da due bimbe fuggite dalla Francia occupata, con le quali si svilupperà una forte storia di reciproco aiuto e amicizia.

Ruby è invece lo spirito libero, che dà da leggere libri sulla contraccezione e sull’emancipazione femminile (tra cui l’allora famoso, anche se oggi dimenticato, “Ambra” di Kathleen Winsor), e dopo molte storielle, si innamora di un soldato americano di passaggio. Ci si domanda subito se anche qui si avrà un lieto fine, e se, soprattutto, Ruby riuscirà ad elaborare il lutto per la morte della sorella.

Le nostre due donzelle servono però da catalizzatrici anche di molte altre storie che avvengono nei rifugi sotterranei della metropolitana. C’è il rapporto quasi da femminicidio tra la madre di Ruby ed il suo secondo violento marito. Ci sono le storie del “Topi della Metro”, ragazzi della classe operaia che si aggirano nel sottosuolo, tra cui l’acuto Sparrow, che impara a leggere con l’aiuto di Clara. C’è il dramma di Mr. Pepper che perde la vista e la moglie in un bombardamento. E c’è la direttrice del rifugio, Mrs. Chumley, combattiva ex-suffragetta.

Quello che Kate ci vuole illustrare comunque, attraverso tutti i personaggi e le loro storie, sono alcuni temi vitali: l’orrore della guerra, l’elaborazione del lutto, la lotta per la sopravvivenza, la speranza che non deve mai morire. Avendo come filo conduttore l’importanza delle biblioteche, sia allora quando difficile era poter avere soldi per i libri, sia ora con la loro funzione sociale di aggregazione.

Tuttavia il libro è forse troppo pieno di storie, troppi personaggi che a volte sono dimenticati, a volte ritornano. Troppo per un solo libro, una narrazione più asciutta avrebbe giovato, anche se la scrittura giornalistica della scrittrice aiuta a seguire (quasi) tutto con facilità.

Volevo tornare sul punto lasciato in sospeso. Perché se due sono le bombe cruciali per la storia, la vicenda della calca che uccise quasi duecento persone è esemplare. Perché non era scoppiata una bomba, ma l’esplosione era dovuta a dei test di nuovi missili antiaerei che il governo stava provando nel vicino Victoria Park. Il governo soffocò immediatamente il disastro, secretandolo ma lasciando nello sgomento i poveri sopravvissuti che per anni non capirono cosa fosse avvenuto. Mi sembra che la storia continui a ripetersi, rimanendo purtroppo sempre tragedia.

“La vita è fatta di scelte perlopiù banali, ma prima o poi arriva il momento di prendere una decisione così devastante che non sai nemmeno da che parte girarti.” (307)

Joan Didion “L’anno del pensiero magico” Il Saggiatore s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/01/2025 – I: 10/02/2025 – T: 13/02/2025] - &&&&     

[tit. or.: The Year of Magical Thinking; ling. or.: inglese; pagine: 236; anno 2005]

Joan Didion era sempre stata una scrittrice che mi romanzava nella testa, dove mi chiedevo perché non ne avessi letto, pur sapendo che possedeva una bella scrittura, dove univa alle capacità narrative una buona dose di giornalismo, derivata dai suoi lunghi anni di partecipazione a riviste e giornali, nonché, mi ricordavo, anche al sodalizio con il marito e giornalista John Gregory Dunne.

Ma solo ora, sotto la spinta dei suggerimenti di Franco Cordelli, ho avuto l’animo di prendere in mano un suo libro. E che libro! Un colpo di fulmine. Un libro talmente doloroso da essere bellissimo. Un libro che mi ha fatto riflettere dalla prima all’ultima riga. Un libro che non è facile leggere, ma che tutti dovete leggere.

Intanto faccio mente locale che, antropologicamente, il pensiero magico è definito come la convinzione che determinate azioni possano influenzare eventi quando non esiste una connessione causale empirica tra di essi. Possiamo quindi tradurlo pensando che se una persona spera in qualcosa abbastanza o compie le azioni corrette, allora un evento inevitabile può essere evitato.

E Joan entra in questo “anno del pensiero magico” il 30 dicembre 2003. Lei e John Gregory Dunne, suo sposo da quarant'anni, tornano nella loro casa di New York dall’ospedale dove è ricoverata la loro figlia, Quintana Roo, in rianimazione per le complicazioni di una polmonite. Si mettono a tavola e mentre Joan prepara l’insalata, John ha un infarto e muore all'improvviso.

Per mesi, Joan vive come in una bolla sospesa, poi riprende in mano un suo diario e tra il 4 ottobre ed il 31 dicembre 2004 completa questo libro, con i suoi pensieri sparsi e con gli appunti presi durante il ricovero della figlia, che non si riprende mai definitivamente. Tanto che il 26 agosto 2005, Quintana Roo Dunne Michael muore di pancreatite.

L’attacco del libro è così fulminante nella sinteticità di quanto riesce ad esprimere che lo voglio condividere anche in questa trama:

“La vita cambia in fretta.

La vita cambia in un istante.

Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita.”

Il libro, saltando avanti e indietro nel tempo, avanti e indietro nei ricordi, da un lato porta avanti con spietata lucidità l’analisi di tutto quello che succede dopo aver subito una perdita. Dall’altro, non si tira indietro, che parla (anche) della malattia della figlia, degli ospedali, del senso di impotenza di fronte alle malattie.

Ma quello che mi rimane è la bellezza dei ricordi che affiorano come bolle, la descrizione di tutte quelle giornate trascorse in casa, ognuno a scrivere per proprio conto, ma poi anche per confrontarsi su qualsiasi cosa venisse in mente. Esce fuori quel sentimento che la morte, il lutto, la malattia, sono sempre (possibilmente) presenti anche se vorremmo tenerle lontano il più possibile. Ma a volte, è bene confrontarsi, entrare nella spirale della malattia stessa, e capirne i possibili conforti (pochi, è vero, ma ci torneremo).

Perché quando entra nel lutto, Joan ricorda, ripercorre tutto il loro sodalizio di vita e di professione, i forti legami di amicizia che avevano costruito attorno a loro, la casa sulla spiaggia a Malibu, le cene fuori, le passeggiate al Central Park. E Joan, a volte, si trova in testa pensieri che poi razionalmente non può che respingere. Non vuole buttare le scarpe del marito, anche se è già stata fatta l’autopsia, perché se lui dovesse tornare, come farebbe senza le scarpe? E poi ci si rende conto che lui non può, non potrà mai più tornare.

All’inizio poi, Joan cerca di essere dura, di resistere, di non far vedere il proprio dolore. Ma alla fine ben presto capisce che quando si percepisce l’esistenza di quel vuoto incolmabile, allora abbiamo anche il diritto di piangerci un po' addosso.

E tornando a quei momenti di possibile conforto, o sconforto, lei, noi, tutti quelli che hanno subito un lutto, cominciamo realmente a sentire sulla pelle una serie di domande, che non avranno mai più risposta. Ho apprezzato abbastanza quel momento di intimità? Ho davvero capito cosa volevi dirmi? Abbiamo fatto le scelte giuste? Che cosa resterà di noi, dopo?

A Joan, ed anche nella mia mente verso i miei cari passati, penso (spero) rimarrà la memoria dei momenti felici vissuti. E mentre leggevo, mentre pensavo alle frasi della scrittrice, veniva terribilmente voglia di prenderti la mano e ricordare, ad uno ad uno, tutti i passi che si sono fatti insieme. Quindi, come avete capito, un libro che fa tanto male, ma che è scritto in maniera sublime.

“Tutto procede come al solito e poi scoppia un gran casino.” (133)

“Il necrologio di uno scrittore, secondo William Faulkner, dovrebbe essere ‘Ha scritto dei libri, poi è morto’” (150)

“Eravamo entrambi incapaci di immaginare la realtà della vita senza l’altro.” (204)

Daša Drndić “Leica format” La nave di Teseo euro 22 (in realtà, scontato a 18,70 euro)

[A: 09/12/2024 – I: 09/04/2023 – T: 10/04/2023] - &&&&

[tit. or.: Leica format; ling. or.: croato; pagine: 419; anno 2003]

Un’altra bella seppur difficile lettura di uno dei libri proposti da Franco Cordelli come esempi eponimi di questo secolo. Una scrittura dovuta, più di venti anni fa, alla penna di una scrittrice croata, Daša Drndić, ma che leggo solo ora, a quasi sette anni dalla scomparsa dell’autrice.

Tra l’altro, non è che la letteratura croata sia piena di grandi nomi (a meno a mia memoria) né la mia biblioteca ne presenta esempi (anzi, forse solo il giornalista Drago Hedl). Quindi mi sono calato in questa lettura con interesse, che è stato premiato. È un testo non facile, ma Daša riesce a portarci su e giù per le pagine e su e giù nel tempo, con un’indubbia maestria, fors’anche dovuta ai lunghi anni di presenza radio-televisiva nelle emittenti di Belgrado.

Il testo, in realtà, non può avere una sua classificazione. Né romanzo né saggio, ci si può solo agganciare al titolo che ci rimanda ad uno storico apparecchio fotografico, così che vediamo le pagine scorrere come un collage di fotografie, a volte di gruppo, di sfondo, in primo piano, virate in seppia come le foto antiche (o con quei bordini dentellati bianchi come le prime foto dell’album di mia madre). Sono foto che ci presentano, senza soluzione di continuità, fatti accaduti e documentati insieme a storie di invenzione pura, ma di grande fascino narrativo.

Il tutto a ricomporre il puzzle di un mondo, che identifichiamo con la terra croata, vista da tanti angoli diversi, e che, dalla giustapposizione delle foto, riesce vivido e reale. Passiamo così di storia in storia, senza chiederci più cosa siano in realtà, ma capendo che servono a formare questo grande affresco. Di una terra che Daša ha sempre amato, ed in cui è sempre tornata, pur dopo anni di insegnamenti americani. E ne sentiamo le forti radici nell’ultima dimora che lei sceglie per l’ultimo ventennio della sua vita. Dove, appunto, si ferma nella Fiume istriana (Rijeka in croato).

Veleggiamo allora nella mente tra la storia di Antonia Host che dalla Croazia emigra in Puglia, si inventa (o crede fermamente) una diversa identità, ritorna ad essere la pianista della sua gioventù fino a che una sconosciuta le mostra come la sua identità sia una menzogna, e con la testa che svanisce viene ricondotta alla vita che aveva fuggito. Una fuga? Certo, perché in fondo tutte le storie sono fughe, che lasciano dietro di sé scie non sempre comprensibili.

Come nella lunga storia di Ludwig Jakob Fritz, dottore libertino che giunge a Fiume nel 1911 per imbarcarsi verso l’America. E mentre ce ne narra, mille storie si agglutinano alla sua. La sua, che forse prende la sifilide da rapporti poco protetti. Che si coagula in libri lasciati su di un comodino, venduti ad un antiquario, ritrovati dall’io narrante insieme ad una foto di una giovane che forse ora è la quasi centenaria che muore al quarto piano dello stabile. Ma Ludwig potrebbe essere il demente Luigi fratellastro di nonna Ana. E serve ad un excursus su rapporti sessuali, protezioni ed esperimenti medici su uomini sani. Esperimenti che fecero di certo anche in America, ma che servono a dare il via ad una lunga e dolorosa storia delle torture dei nazisti nei campi di concentramento, finendo nel grido di dolore della triste storia del piccolo Sergio De Simone.

Come dirà anche in altra sede, una serie di narrazioni che servono a farci presente come: “La storia ricorda i nomi dei criminali, mentre i nomi delle vittime vengono dimenticati”.

Sono microstorie quelle dei tanti emigrati croati che sbarcano (e spesso muoiono) ad Ellis Island. Sono grandi ferite il ricordo di un ospedale austriaco che ancora conserva risultati di esperimenti eugenetici intrapresi durante il nazismo. Sono momenti di beckettiana memoria le piccole vicende di un uomo completamente sordo. Sono istantanee delle città rimaste nella memoria dell’io narrante: Fiume, ovviamente, ma anche Vienna, Zagabria, Belgrado. Con quel richiamare sempre, da parte dell’autrice, ad una identità slava che doveva eliminare tutte quelle divisioni imposte tra serbi, croati, dalmati, sloveni, bosniaci, montenegrini, istriani. Laddove sentiamo tutto il dolore che si può provare sbagliando le parole e sentendosi emarginare. Quando ad esempio la voce narrante, entrando in un negozio, chiede di comperare un portafoglio usando la parola serba, ed il commesso croato non la serve.

Molti, oltre a quelli adombrati in questi sketch che mi sono rimasti impressi, sono gli altri bersagli di Daša, ma sempre riconducibili all’illimitata follia umana, dove la perdita della memoria dei fatti porta ad una ripetizione di azioni che non possono che essere condannate. Come ci ricorda qui e altrove, “Non ci sono piccoli fascismi, non ci sono piccoli, benigni nazismi”. E sottolineo, perché di un’attualità sconcertante, la parola “benigni”.

Per essere a volte più leggeri, ma non tanto, mi ha preso e rapito con sé il suo girovagare per la città di Fiume, leggendo i nomi delle vie, ricostruendone la storia, le modifiche imposte dai regimi che di volta in volta pretendono di guidare e sottomettere con i nomi delle storie che rimangono legate alle pietre, al di là dei nomi stessi. Ricordo, per inciso, a nomi romani che Piazza Esedra cambiò nome nel 1960 in Piazza della Repubblica (in vista delle Olimpiadi romane), ma che per noi romani doc rimane e rimarrà Esedra.

Come dicevo, un libro difficile, visto che non c’è un filo conduttore stabile. Un libro che dà pugni allo stomaco quando si immerge nelle aberrazioni passate ed attuali. Una per tutte: la storia della madre dell’io narrante, della sua prigionia e delle torture subite dagli ustascia. Un libro che non dà speranze, ma che solo e sempre ci ricorda che non dobbiamo dimenticare. Mai!

“Non puoi svegliare chi finge di dormire.” (401)

Nicoletta Verna “I giorni di Vetro” Einaudi s.p. (Regalo di Alessandra)

[A: 07/01/2025 – I: 25/02/2025 – T: 27/02/2025] &&&   

[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 436; anno: 2024]

Qualcuno, e purtroppo a volte la memoria ha dei buchi giganti, mi aveva suggerito di leggere questo libro. Cosa che ho fatto, anche perché, seppure solo al dodicesimo posto, compare  nella lista dei migliori libri pubblicati nel 2024, compilata a cura de “La lettura”, l’inserto libri del Corriere della Sera.

Devo subito dire che, pur con qualche limite, è stata una buona lettura, sorretta tra l’altro da indubbie capacità narrative messe in mostra dalla scrittrice, ancora non cinquantenne, ma di sicuro esperta nel trattare le parole, visto che si occupa di web marketing editoriale a Firenze. Dove è emigrata dalla natia Forlì. Ed è proprio nel forlivese che ambienta questa storia, che abbraccia un lungo periodo (una ventina d’anni, o poco più) fondamentale per la storia d’Italia.

Dico subito che uno dei limiti, per me, è il dualismo vocale delle protagoniste. Mi spiego: la vicenda è narrata in prima persona da due donne (e ci può stare), tuttavia, dopo che per un centinaio di pagine seguiamo una vicenda, ecco che si inserisce la seconda voce. Con un narrato ovviamente diverso, ma che per un po’ lascia interdetti: e mo’ chi è che parla?

L’altro è il fatto che la copertina, come usuale, riporta il titolo in maiuscolo, e se si va subito alle prime pagine, si salta la titolazione ufficiale che replica il titolo così come l’ho riportato in alto. Perché, se è vero che tutta la vicenda parla della fragilità della vita (che può andare in frantumi come un bicchiere di vetro), è anche vero che, nella seconda metà, un ruolo importante riveste un gerarca fascista soprannominato Vetro, in virtù dell’occhio di vetro rimediato durante la guerra in Abissinia. Certo, credo che questa ambiguità sia stata volutamente cercata dalla scrittrice, anche se il ruolo di Vetro è forse di catalizzatore di avvenimenti. Mentre a me, un titolo come quello riportato, avrebbe fatto pensare a Vetro come protagonista in soggettiva del libro, cosa che non è.

Per venire alla trama in sé, come detto siamo nel forlivese, ed in particolare, gran parte della vicenda si svolge a Castrocaro. Lì è radicata, sebbene in periferia, la famiglia di Adalgisa, donne forte e fumantina, sposa di Primo, un fascista della prima ora. I due non riescono a far vivere i figli appena nati, che tre ne muoiono nei primi giorni di vita. Solo grazie ad una specie di santone locale, nasce e sopravvive Redenta, anche se, come predisse il santone, avrà una vita scalognata.

Redenta nasce il 10 giugno del 1924 (mio padre non aveva ancora un anno), il giorno dell’assassinio di Giacomo Matteotti da parte dei fascisti. Già non certo un segno positivo. Poco dopo nasce anche la sorella Marianna, ma entrambe dovranno andare da nonna Fafina, che Adalgisa deve scontare alcuni anni in prigione per aver quasi ucciso il marito prima delle nozze (una storia laterale che tralasciamo).

Redenta non parla, ma fa amicizia con Bruno, uno degli orfani che la Fafina tiene in casa per rimediare qualche soldo. Inoltre, si prende la polio, cui sopravvive, anche se avrà un piede zoppo che l’accompagnerà per tutta la vita. Come per tutta la vita l’accompagnerà il suo amore per Bruno, anche quando Bruno scompare, anche quando riappare in modi inusuali, anche …

Intanto, il padre fascista, tornato dall’Abissinia, la concede in sposa al suo comandante, il Vetro di cui all’inizio. Una persona in ogni caso (fascista o meno), violenta in tutte le sue manifestazioni, pubbliche e private. Ma Redenta, consapevole del suo essere “sciagurata”, reagisce a tutto ciò come un giunco. Si piega a tutti i venti, ma non si spezza, anzi…

Sull’altro versante seguiamo la storia di Iris, figlia di una maestra e maestra a sua volta, ma le scarsezze economiche la costringono a partire dal paesino di Tavolicci, e riciclarsi domestica a Castrocaro. Fortuna che la famiglia è ottima, compreso Diaz il tuttofare. Tutti anche antifascisti. Così che, quando scoppia la guerra partigiana, Diaz sale sui monti, con Iris e con altri emiliani, dando vita ad una delle tante formazioni partigiane dell’epoca.

Una formazione che avrebbe potuto cambiare la storia, perché, purtroppo, per una serie di motivi che vi lascio leggere, non riesce ad organizzare un attentato al Grand Hotel di Castrocaro, il giorno in cui i gerarchi fascisti scampati alle prime retate post 25 luglio, decidono di costituire la Repubblica Sociale Italiana, e di allearsi ai tedeschi per mantenere il controllo sull’Italia.

Seguiamo l’alternarsi delle vicende di Redenta e di Iris, che si intrecceranno, in maniera sempre più contorta, con le vicende di Vetro, di Bruno, di Diaz, dell’Italia tutta. Potrebbe anche essere uno spoiler, ma volutamente è abbastanza criptico da lasciarvi il tempo di leggere anche la fine del libro. Che personalmente non mi ha soddisfatto, troppi punti saltati o sorvolati, troppi momenti lasciati (anche) all’interpretazione del lettore.

La sapiente penna di Nicoletta Verna riesce a farci seguire le vicende aspettandone il concatenarsi. E nelle more, ci parla della dura vita contadina e della guerra, delle violenze e dei soprusi del fascismo e dei fascisti. Tra l’altro ricordandoci una delle più turpi vicende del luogo, dove il 22 luglio del ’44, un reparto di SS italiane, compie un eccidio nella località di Tavolicci, uccidendo 64 civili, tra cui una ventina di bambini sotto ai dieci anni. Tanto dolore, quindi, pervade tutte le pagine, ma anche, sottesa a tutto, la speranza che quel sangue, quel dolore, quelle indicibile sofferenze, personali e collettive, che allora erano state (purtroppo) necessarie, non lo siano più.

Una speranza che, vista con gli occhi di oggi, è solo una speranza.

Gabrielle Zevin “Tomorrow, and Tomorrow, and Tomorrow” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 8,55 euro)

[A: 23/11/2024 – I: 03/03/2025 – T: 05/03/2025] - &&&&---

[tit. or.: Tomorrow, and Tomorrow, and Tomorrow; ling. or.: inglese; pagine: 441 anno 2022]

Se non fosse stato indicato nei primi cento libri di questi primi venticinque anni del secolo, non credo che lo avrei letto. Ed avrei fatto male, che, pur non essendo sempre in sintonia con i miei pensieri letterari, è una prova interessante di una scrittrice “mix-americana”, dove, con una scrittura discretamente coinvolgente, ci costringe a fare un buon giro nella mentalità americana, e nei sentimenti tra le persone.

Intanto, per il mix di cui sopra, Gabrielle nasce da padre americano di origini ebree ashkenazite (nonni slavi) e da madre coreana. Una radice personale che si rivede in parti di questo libro, laddove Sam ha radici coreane e Marx giapponesi. Inoltre, i genitori di Gabrielle si conoscono durante gli studi nel Connecticut, da dove, entrambi, vanno poi a lavorare in IBM. Anche questo un tratto che si riversa a piene mani in questo scritto, dove molto è centrato sui computer, ed in particolare sui videogiochi.

Ma allora, bisogna essere un appassionato conoscitore di videogiochi per apprezzare questo libro? In realtà, sì e no. Cioè, se conosci il mondo del “gaming” puoi apprezzare meglio alcuni passaggi, se non lo conosci, la storia è talmente ben scritta che puoi farne a meno di capire i meccanismi interni.

Intanto, come riportato dalla strofa finale, il titolo viene dal quinto atto del Macbeth di Shakespeare, riportando il famoso soliloquio di Macbeth che, alla morte della moglie, si abbandona alla triste riflessione sul senso vacuo della vita e di tutte le azioni che la costellano. Tutti atti insignificanti che puntano al raggiungimento di obiettivi che non hanno alcun reale valore. Un titolo da contrappasso, che Gabrielle vuole dimostrare in tutto il libro il contrario.

Per farlo ci narra la storia di tre ragazzi americani per un periodo di oltre trent’anni. In realtà, il focus è solo su due di loro, Sam e Sadie, ma la presenza e le azioni di Marx sono fondamentali per la costruzione del mondo che ci viene rappresentato.

Allora Sam è asiatico coreano, colpito da un grande dolore da bambino: per motivi che non vi sto a spiegare la madre ha un incidente mortale in auto, dove a lui viene stritolato il piede destro. È un decenne in cura quando lo incontriamo, che entra ed esce dall’ospedale per curarsi (senza risolvere completamente il problema). Sarà sempre un po’ storpio, fino a che, da grande, non si farà amputare il piede, e con l’arto artificiale potrà (forse) avere una sua prospettiva meno dolente.

Nell’ospedale, intanto, conosce Sadie, una ragazzina coeva che tiene compagnia alla sorella leucemica (che guarisce). Sam e Sadie stringono un forte legame, suggellato dalla passione per i videogiochi, soprattutto da quello che all’epoca andava alla grande, “Super Mario”. Per ragioni che non vi spiego, però i due litigano di brutto e si perdono di vista. Per ritrovarsi, otto nove anni dopo, entrambi presso due diverse sezioni del MIT di Boston.

Sadie è un genio della tastiera e si è messa con il suo professore di computer grafica, ben più grande di lei e sinceramente antipatico. Sam deve tirare la carretta, non avendo grosse possibilità economica, ha una grande facilità nel disegno, e di conseguenza nel tratteggiare mondi fantastici ed accoglienti. Per limitare le spese vive con l’abbiente nippo-americano Marx.

A seguito di fortuite coincidenze, Sam e Sadie sviluppano un gioco che, lanciato con i soldi di Marx, avrà un successo folgorante. Da lì cominciano tutte le storie legate a loro tre ed ai loro videogiochi, al triturante mondo dell’economia americana, ed alla follia che sta a volte alla base delle persone ludopatiche.

Comunque, i nostri si trasferiscono in California, continuano ad avere successo, anche i video giochi diversi dal primo. Anzi, il loro maggior successo è proprio un gioco in cui ci si immerge e si diventa co-protagonisti della vita. Con Sam che assume le fattezze del fittizio sindaco di quel mondo. Un mondo di pace e serenità, molto anti-trumpiano, dove ci si può sposare anche tra gay, e sono concesse molte altre libertà (che poi non devono essere concesse ma sono alla base del vivere civile). Benché Sam sia da sempre innamorato non dichiarato di Sadie, assiste alla nascita dell’amore di Sadie e Marx, al loro matrimonio, a Sadie che aspetta un figlio.

La parte finale, dura e necessaria, fa precipitare il testo nella cruda realtà. Giocatori folli decidono di uccidere Sam come esempio della degenerazione del mondo, sbagliando bersaglio ed uccidendo Marx prima che questi possa vedere il figlio. un momento che non potrà che portare un’ulteriore crisi al mondo dei nostri. Pur se dolorosa, è anche una parte di riflessione sulle tematiche dell’amicizia e dell’amore che, unite alle altre cui arriveremo, è interessante leggere. Forse a volte il tutto su dei toni che mi sono lontani, ma che ho letto con curiosità (è sempre fondante leggere anche cose di cui non si è sempre in accordo).

Riusciranno Sam e Sadie a recuperare il loro rapporto? La loro amicizia? Il loro comunicare a primo sguardo ed attraverso le azioni virtuali dei loro alter ego? Un ultimo gioco sviluppato da Sadie dovrà essere il banco di prova di questo possibile futuro al di là del libro.

Sono tanti i bersagli che Gabrielle vuole colpire nella sua prosa, quasi sempre riuscendovi. In un libro intrinsecamente americano, un’ode al lavoro creativo, si mostra subito il contraltare della fallacia del sogno americano: senza i contatti giusti, un sogno rimane spesso un sogno. Ovvio d’altronde, per quanto tramato, che uno dei caposaldi del romanzo è mostrare la complessità dell’esperienza videoludica, cercando di dare un proprio ruolo ai videogiochi nella vita di ognuno. E ci dichiara appunto che si gioca perché nel gioco è insita la possibilità di ricominciare. Perché “L’idea è che, se continui a giocare, puoi vincere. Se perdi, non è per sempre, perché nulla è mai per sempre.” Quindi, si gioca per sconfiggere la morte, e quando la morte ci sconfigge, si gioca per costruirsi una vita “altra”.

Tanti altri poi sono i temi ricorrenti. La disabilità, di cui Sam rifiuta di farsi etichettare, la violenza sessuale nelle scene di sesso non consensuale tra Sadie e Dov. Tematiche LGBT come la fluidità di genere (il primo protagonista del primo videogioco di Sam e Sadie non ha un’identità sessuale) ed il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Per non dimenticare le continue frecciate al razzismo che incontriamo durante il nostro trentennale viaggio: Marx, ad esempio, recita nel teatro universitario e non interpreta mai ruoli di primo piano a causa delle sue origini per metà giapponesi; la madre di Sam, Anna Lee, vive la stessa situazione nel settore cinematografico; Sadie è continuamente svalutata nelle sue abilità di programmatrice perché è donna.

Sono inoltre grato alle edizioni TEA che hanno mantenuto in copertina “La grande onda di Kanagawa” l’imperdibile xilografia del pittore giapponese Katsushika Hokusai. Infatti, è proprio il dipinto di Hokusai a ispirare lo tsunami che apre il primo gioco della serie Ichigo di Sam e Sadie. Zevin ci mostra infine, come tutti possiamo lasciare un’impronta nella vita di qualcun altro. Leggendolo non può che tornarti in mente quanto siano preziosi gli amici. Anche se poi, videogiocando, Gabrielle chiosa: “L’amicizia è un po’ come avere un Tamagotchi”. E solo chi ha una certa età capisce il senso della frase.

“Viviamo al massimo mezza vita, pensava. C’era la vita che vivevi, che consisteva nelle tue scelte. E poi c’era l’altra vita, quella fatta delle cose che non avevi scelto.” (160)

“Quanto sei ingenuo a pensare che su internet ci sia qualcuno che sappia una verità qualsiasi.” (424)

“Continuo a pensare a quanto siamo stati fortunati … a essere nati nel momento in cui siamo nati.” (433)

Domani, e poi domani, e poi domani,

il tempo striscia, un giorno dopo l’altro,

a passetti, fino all’estrema sillaba

del discorso assegnato e i nostri ieri

saranno tutti serviti

a rischiarar la via verso la morte

a dei pazzi. Breve candela, spegniti!

La vita è solo un’ombra che cammina,

un povero attorello sussiegoso

che si dimena sopra un palcoscenico

per il tempo assegnato alla sua parte,

e poi di lui nessuno udrà più nulla:

è un racconto narrato da un idiota,

pieno di grida, strepiti, furori,

del tutto privi di significato!

Macbeth Atto V Scena V (369)

Continuando con la scrittura al femminile vorrei menzionare due autrici francofone ma non proprio francesi. La prima, Leïla Marouane, nel suo “Vita sessuale di un fervente musulmano a Parigi” mi fa rivenire in mente il bellissimo film di Scola, ed anche altri ricordi: “Facendo il verso al Mario quello de La Terrazza [Gassman nel film di Scola] mi sono chiesto con un sogghigno se fosse lecito essere felici anche a costo dell’infelicità altrui.” (94)

E poi Marguerite Duras de “L'amante” con due sentenze che mi fanno sempre pensare:

“Sono come voglio apparire, anche bella se gli altri lo vogliono, o carina … insomma posso diventare come gli altri vogliono che sia.” (19)

“Fin dai primi giorni [del nostro amore], sapendo che è impossibile un avvenire in comune, eviteremo di parlare dell’avvenire.” (43)

Come non sapete ma ve lo dico io ora mi allontanerò per almeno due settimane. Sperando che le mie trame non vi manchino troppo, vi mando un abbraccio pasquale.

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