Edmund White “L’uomo sposato” Playground
euro 20 (in realtà, scontato a 19 euro)
[A: 06/11/2024 – I: 04/01/2025 – T: 06/01/2025] - && e ½
[tit. or.: The Married Man; ling. or.: inglese; pagine: 390; anno 2000]
È
forse un peccato che questo sia l’ultimo volume dedicato da White ad una sua
più o meno velata biografia, anche se qui, per motivi a me ignoti, decide di
mascherarsi dietro altri nomi. Diventando così un Austin Smith e camuffando
Hubert Sorin dietro il nome di Julien.
Già
da queste righe, avete capito che si tratta di una storia ambientata nel mondo
gay, dato che White stesso è gay e sieropositivo, anche se in una forma gestita
(o gestibile), visto che tra pochi giorni compirà 85 anni. Ed è una storia che
ripercorre gli ultimi anni di White in Europa. Infatti, visse a Parigi dal 1983
al 1990, e questo romanzo proprio sul finire degli anni ’80 ha la sua
ambientazione.
Tuttavia,
pur riconoscendogli una eccellente capacità descrittiva, ed una mia
partecipazione ai peripatetici viaggi non è riuscito a prendermi, a farmi
entrare fino in fondo nelle vicende e nella trama. Certo, sui luoghi dove si
muovono i protagonisti non posso che convenire, visto che non solo siamo a
Parigi e dintorni, ma ci si muove spesso per altri lidi a me cari: Nizza,
Venezia, Roma, la Florida, Key West, la penisola dello Yucatan e il Marocco.
Oltre ad alcuni che prima o poi visiterò, come il Vermont o Montreal. Mi
asterrei soltanto da Disney World, che non mi attira affatto.
È
tutto l’universo gay che attraversa il libro che ho guardato molto
dall’esterno, astenendomi da qualsiasi considerazione (l’amore è l’amore,
punto). Il modo però di attraversare la vita e la morte come descritta in
queste pagine, alla fine non mi ha preso particolarmente. Anche se, appunto,
devo riconoscere che White ne dà un’immagine dall’interno che è assolutamente
da seguire con attenzione e rispetto.
Saltando
tutte le trasposizioni autobiografiche, il romanzo ci parla di una intensa
storia d’amore tra Austin, cinquantenne americano, in trasferta europea per
scrivere un saggio sui mobili del diciassettesimo secolo, e Julien, un
architetto trentenne, dagli orientamenti sessuali “fluidi”, come si direbbe
ora. È sposato, ma quando si incontra con Austin in una palestra, non può
respingere il suo lato gay. Divorzia, e, non subito, non sempre con tutta la
testa, ma prima o poi, intreccia una potente storia con Austin.
Austin,
dal canto suo, è ossessionato dall’avanzare dell’età, ha da tempo chiuso una
storia lunga con Peter, di cui rimane amico e sodale, ma è anche appena uscito
da una tormentata storia con Julien Petit, che, giovane e rampante, lo ha
lasciato per altri lidi d’amore più promettenti. E noi sappiamo anche, da
subito, che Austin è sieropositivo.
Julien,
invece, brillante, giovane, desideroso di molte esperienze anche mondane, è più
un costruttore di false verità, con le quali costruisce il suo piccolo mondo di
ricerca. Sapremo alla fine che non è un aristocratico, che ha fatto anche altri
mestieri, che aveva avuto amanti donne (di cui millanta un grosso ricambio,
quando alla fine, loro quasi non si ricordano di lui).
E se
nella prima fase è tutto un incontro con gli ambienti gay degli espatriati
americani e con gli intellettuali francesi, da un certo punto in poi, tutto
vira verso tragedie prevedibili. Julien si scopre anche lui sieropositivo, ma
molto più debole di Austin, refrattario a molte cure, ed inesorabilmente
avviato verso la morte.
Questa
forse è la parte più intensa, ma che meno ho compreso. Questo senso di
vicinanza con la morte, quasi attesa, quasi posta lì, in un orizzonte di pochi
anni, se non di pochi mesi, come “traguardo” da varcare. Non che noi tutti non
si sappia che esiste la fine. Qui la fine è nota e vicina, e ci si fa i conti
tutti i giorni.
Nel
mezzo, assistiamo alla vita ed agli scontri di tutti i giorni dei protagonisti.
Austin che scrive con difficoltà, che ha problemi di “politically correct” con
le sue classi americane. Austin e Julien che si scontrano con la burocrazia
americana delle dogane invalicabili. Julien che è geloso dei precedenti amanti
di Austin. Austin che si domanda se Julien gli è fedele. Fino al potente
finale, vissuto in un Marocco da incubo, seguendo una rotta che varie volte ho
fatto nei miei viaggi (Marrakech, Taroudant, valle del Draa, Erfoud,
Ouarzazate, Marrakech). Incubo perché Julien si aggrava durante il viaggio e
muore al fine in un sordido ospedale a Marrakech.
Vediamo
la profonda tristezza di Austin durante gli stadi finali della malattia di
Julien. Ma assistiamo anche al suo voltar pagina in pochi mesi, e riprendere la
vita “quam ante”, certo non dimenticando il suo amante “uomo sposato”, ma
andando nuovamente in cerca di altro amore, che la sua età continua ad
avanzare, e lui non se ne rassegna.
I
punti forti della scrittura di White sono in realtà molto dedicati ad una
specie di piccolo gioco in controaltare, laddove contrappone modi e pensieri
del Vecchio e del Nuovo Mondo. Un contrasto che solo un americano che ha
vissuto a lungo in Europa riesce a riprodurre con lucida chiarezza. L’altro,
ovvio, è rivolto alla cronaca di un amore adulto, sincero seppur complesso,
immerso fino in fondo nei difficili anni dello scoppio dell’AIDS. Quello che
poi gli riconosco è la sincerità espressiva. Anche quando dice cose sgradevoli,
pur verso sé stesso, mantiene il tono franco che ci deve sempre essere, ma che
non è facile mantenere.
Visto
che Veronesi aveva proposto di leggere il libro precedente a questo, penso che
prima o poi lo affronterò, sperando di trovarvi la stessa sincerità e magari,
da parte mia, una maggiore partecipazione complessiva. Qui, alla fine, come ho
detto, non ne sono rimasto coinvolto, ed ho faticato un po’ a terminarlo.
Antonio Franchini “Il fuoco che ti porti
dentro” Marsilio s.p. (Regalo di Alessandra)
[A: 07/01/2025 – I: 14/01/2025 – T:
16/01/2025] &&&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 223; anno:
2024]
Approfittando dei crediti natalizi, ho fatto
acquisti massicci da varie liste che avevo previsto per le feste. Tra queste,
quella dei migliori libri usciti nel 2024 e fornita da “La Lettura” del
Corriere della Sera. In questa classifica, l’ottimo libro di Franchini si è
piazzato al terzo posto, ed in attesa di leggere gli altri due vincitori, devo
dire che è stata un’ottima scelta. Il libro è anche entrato nella cinquina dei
finalisti del Premio Campiello, arrivando, nella votazione finale, al secondo posto.
Franchini, napoletano, verso i vent’anni, si
trasferisce a Milano, dove si occupa di scrittura, diventando curatore della
narrativa italiana per Mondadori, per poi passare, una decina di anni fa, alla
direzione della narrativa per Giunti Editore. Qui, in questo libro fortemente
biografico, prova a fare i conti con una grossa fetta della propria vita, in
generale nel suo rapporto con la madre ed in particolare proprio con la figura
stessa di Angela Izzo, madre dura e di non facile comprensione, nei rapporti e
negli atteggiamenti della vita.
Non è un libro facile, e non per le parti in
dialetto che pure richiedono fatica ad un lettore non napoletano. È la materia
stessa che crea difficoltà. È la descrizione, crudele a tratti, di un rapporto
conflittuale tra il narratore e la madre. Dove, anche se Franchini cerca di
essere sufficientemente onesto, non si può negare che Angela è vista dalla sua
ottica. Con tutti i limiti che una parzialità descrittiva non potrà mai
superare.
È anche difficile narrarne, che il testo,
pur ripercorrendo il percorso familiare dell’autore da quando prende coscienza
di sé e del proprio mondo, sino all’ineluttabile fine, si affastella a volte,
prende strade parallele, si perde nei meandri familiari o pseudo-familiari.
Tuttavia ha avuto il grande pregio, soggettivo, di spingermi a pensare alla mia
famiglia, alle mie figure ancestrali, ai miei genitori, ed ai nodi che mai sono
stati risolti e che mai potranno esserlo, visto che ormai sono mancate le due
figure tutelari del mio mondo famigliare.
Ma per tornare a Franchini, il romanzo cerca
di fare i conti con la figura materna, presentata con tutte le sue
idiosincrasie e tutte le sue meschinità. Conti che alla fine non saranno a
somma zero, che non ci sarà un discorso redentore tra le parti in causa. Un
testo però che serve all’autore (ed a noi) per riflettere, ed anche poi,
ricostruendone i passi, per costruire un film, soggettivo della propria
esistenza e di chi ci sta intorno.
Alla fine cosa possiamo dire delle azioni,
che dei sentimenti parleremo poi? Angela Izzo nasce nel Beneventano, ha un
padre che muore troppo presto in guerra, ed una madre che la opprimerà a lungo
(una nonna che i nipoti chiameranno “Locusto” per simboleggiare l’animaletto
che distrugge tutto al suo passaggio). Ha alcuni amori giovanili (dei
calabresi, razza cui lei sarà sempre ostile), studia (fa il classico, “sa di
greco e di latino” come direbbe Carducci). Di sicuro frequenta Lettere
all’Università (non ho capito se laureandosi), ma di sicuro seguendo dei corsi
(laddove nel suo ricordo, e nelle storpiature comicamente involontarie,
ricorderà sempre di aver studiato “Filologia ‘e romanzo”, e voi avete di certo
capito cosa studiava).
Conosce un maturo commercialista, di
vent’anni più grande di lei, il borghese Eugenio, schivo quanto lei è
esternante e diretta. Faranno tre figli, Antonio e le due sorelle, figli che
saranno sempre il bersaglio degli strali materni. Ne vedremo le vicissitudini,
una figlia succube, una che si sposa presto con un buddista e va a vivere a
Milano. E Antonio che non riesce a comprendere le sempre inopportune uscite
materne, anche lui ben presto in fuga verso il Nord.
Una Milano che però li vedrà riuniti, nella
vecchiaia di Angela che rimasta sola, senza mai avere amicizie vere, si
trasferisce anche lei vicino ai figli riparati al Nord. In una vecchiaia sempre
più acciaccata, costellata di malanni e forse di qualche forma di demenza
senile. Fino alla fine che non potrà che arrivare, senza consolazioni, senza
chiarimenti, e soprattutto senza possibilità di averli. Che Angela non uscirà
mai dal suo personaggio riottoso, malmostoso, immotivatamente rancoroso.
Non sono però le vicende minute che pur
costellano il testo, ma è l’accumularsi di indizi delle meschinità, della non
evoluzione di Angela. Una donna violenta nel parlare, che alla fine mostra un
disprezzo viscerale in tutto ciò che non rientra nel suo quadro di vita. Con
l’aggravante che non esterna mai quale sia questo quadro. Franchini è bravo nel
dipingere questo quadro, senza realmente intervenire nella trama, quasi solo
fotografandocelo, facendone vedere i fenomeni esteriori, in base ai quali, noi
lettori, noi figli, traiamo le nostre considerazioni, pensiamo al nostro
ambiente familiare, a quello che ci ha formato.
Diverso, distante, non rapportabile, ma in
una qual misura dipinto nella controluce dell’odissea familiare della famiglia
Franchini. Angela, con tutti i suoi difetti, ma anche con quel fuoco che si
porta dentro, che sembra sempre spingerla a dire la cosa sbagliata nel momento
sbagliato, non viene decifrata dal testo. E pur tuttavia, è un testo che si fa
leggere, che è bene leggere, proprio per quegli spunti che ci fornisce.
Leggete la prima frase che riporto, ed io ed
i miei cugini ci troviamo immediatamente nelle nostre estati di Tortoreto Lido.
Leggete la seconda e trovate subito altri riferimenti. Leggete la terza ed
immediatamente vengono in mente i libri di Barnes, dove si può vivere una vita
senza mai aver capito chi siano le persone che ci stanno intorno.
Ci sono poi due momenti musicali, tra i
tanti, che mi sono rimasti in testa. La citazione di Moby Dick del Banco a
pagina 35. Ma soprattutto, il testo di Pino Daniele su Napoli a pagina 209,
dove finalmente, vedendolo scritto, ne ho capito le parole.
Un libro dolente, in fin dei conti, come
dolorosa è per me la figura di Angela, che mi ha fatto riflettere e domandare
chi fu realmente mio padre? Chi fu realmente mia madre? Sono solo i miei
ricordi, o c’è altro che non ho mai saputo e che ne potrebbe fare persone
diverse? E se un libro ti porta a queste riflessioni è senz’altro un buon
libro.
“Dopo il mare si torna a casa, si fa un
pasto pesante e i bambini, che avrebbero voluto solo giocare … o leggere,
vengono consegnati … al rito crudele del riposo pomeridiano.” (30)
“Si alza presto la mattina, fa il caffè e
… aggiorna un grosso registro sul quale riporta … le caratteristiche
bibliografiche dei volumi che possiede.” (63)
“Neanche la vita che abbiamo vissuto
possediamo, perché ognuno se la ricorda a modo suo e la vita nostra non è affatto
la vita nostra ma il racconto che ce ne siamo fatti e che chiunque abbiamo
incontrato è in grado di raccontare in tutt’altro modo.” (120)
“Meglio non divertirsi troppo con le
sfortune altrui.” (173)
Alessandro Piperno “Aria di famiglia”
Mondadori s.p. (Regalo di Alessandra)
[A: 07/01/2025 – I: 27/01/2025 – T:
28/01/2025] &&&
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 405; anno:
2024]
In genere sono discretamente attento alle
scritture di Piperno su Corriere ed allegati (come l’ultimo ed interessante
mini-saggio a puntate su perché si scrive), meno invece sui suoi romanzi. Così
ho preso al balzo il suggerimento de “La Lettura”, dove questo suo libro si è
piazzato al secondo posto dei libri editi nel 2024, dietro solo al mio idolo
Murakami.
Così l’ho messo subito in corsia
preferenziale, leggendolo con un giusto interesse, anche se poi, nel finale, mi
ha lasciato un sentimento ambivalente. Cioè, una bella scrittura, che si segue
senza difficoltà, ma con due punti nevralgici che non sono riuscito a superare.
Il primo, è il fatto che, anche secondo le parole dell’autore, questo è il
secondo libro di una trilogia. E non avendo letto, né avuto contezza, del primo
libro (“Di chi è la colpa”) non so se mi perdo collegamenti e rimandi. Anche se
la critica più accreditata sostiene l’indipendenza possibile della lettura dei
libri del nostro.
Il secondo punto è il fastidio, quasi l’odio
(parola forse un po’ forte) verso il protagonista. Che subisce una serie di
colpi, anche molto forti e subdoli. Ma sempre, ad ogni colpo, sembra fuggire
per altre vie. Quasi come il refrain che ripete una parente pur a me cara (ma
verso cui dissento): “il tempo aggiusta tutto”. No, non è vero, il tempo non
aggiusta, e bisogna tirar fuori il meglio di sé per affermare la propria
identità. Altrimenti, che senso ha vivere questa vita?
Il libro, quasi romanzo di un crollo che
dura anni e anni, per me ha tra momenti topici, ed un sotto momento che mi ha
scaldato il cuore. La storia, banalmente, vede al centro il cinquantenne
professor Sacerdoti, ebreo poco ortodosso, che attraversa due momenti difficili
della sua vita: una diatriba professionale all’Università e la convivenza con
un parente acquisito, convivenza inaspettata e foriera di molte conseguenze,
non sempre positive.
Il primo di quei momenti forti è la causa
scatenata da una collega universitaria di Sacerdoti, che lì insegna letteratura
francese. Parlando di Flaubert, ne cita frasi misogine ad esemplificare un
quadro di scrittura del grande francese. Nella moda imperante del “politically
correct”, la lezione di Sacerdoti viene presa come adesione alla scarsa
considerazione verso le donne (che tuttavia era una costante nell’Ottocento),
innescando un processo all’interno delle istituzioni che sarebbe ridicolo se
non fosse tragico. Qui esce fuori quella che sarà una costante della vita di
Sacerdoti: tra affermare la propria identità e le proprie idee e ritirarsi in
attesa che tutto passi, il nostro (qui ed altrove) sceglie la seconda opzione.
Manda tutti a quel paese, ritirandosi dall’insegnamento ed isolandosi nel suo
mondo solitario di lettere e letture.
Incidentalmente, poco dopo, viene ad essere
affidatario del piccolo Noah, parente alla lontana, cui sono morti tragicamente
i genitori, e che non ha altri congiunti nel suolo italico. I genitori,
infatti, in rotta con la famiglia inglese d’origine, sono fuggiti da Londra per
vivere una vita altra. Sacerdoti si trova a crescere Noah, ad avere un rapporto
con un bambino, lui che non ne aveva mai voluti, trovandoli insopportabilmente
fastidiosi. Ma che forse (ed in questo ne capisco l’origine) ne soffriva dal ricordo
della propria infanzia forse non proprio felice.
Questo è quel momento che pervade tutta la
parte centrale del libro, del rapporto tra l’adulto immaturo ed il giovane già
troppo cresciuto. Mi ha fatto venire in mente episodi sparsi che hanno
costellato una giovinezza di momenti interessanti di crescita. Certo,
purtroppo, finiti in modo diverso dalle aspettative del tempo. Ma il modo di
rapportarsi tra Noah ed il professore è stato un momento di relax intellettuale
che mi ha cullato per alcune ore.
Il secondo momento nevralgico è quando, in
base a tutta una serie di avvenimenti che tralascio, si scopre che Noah ha
un’eredità milionaria, ma che i parenti londinesi ne rivendicano la
comproprietà, sostenendo l’avidità di Sacerdoti verso quei soldi (di cui il
nostro non sapeva neanche l’esistenza). Qui si scatena la seconda guerra del
mondo di Sacerdoti. E benché nel poco tempo del rapporto con Noah abbia
imparato (reciprocamente) a voler bene al ragazzo, alla fine rinuncia alla
lotta, pensando (anche qui con una intempestività micidiale) che forse per Noah
era meglio una vita inglese senza lotta, piuttosto che una guerra dall’esito
incerto.
Il terzo e ultimo momento, una quindicina,
credo, di anni dopo, è l’incontro tra Sacerdoti e Noah, al matrimonio di
quest’ultimo che nel frattempo si è emancipato dagli orrori dickensiani della
famiglia inglese, si è dato alla cucina (sua passione sin da giovane), aprendo
un locale di successo a Milano. In poche pagine, i due tirano fuori una serie
di tematiche che mostrano la crescita di Noah, nonostante tutto. L’affetto di
Noah verso il professore, ma anche il dispiacere della mancata crescita di Sacerdoti.
Il professore ha fatto un lungo crollo di quattrocento pagine, da cui ne esce
con molte ferite, ma alla fine con qualche barlume di speranza.
In fondo, Noah ha preso alcune cose da lui,
e soprattutto, ha fatto sua la lezione inversa: affrontare il mondo e non
lasciare nulla di scontato o intentato.
Come si ricava dal titolo, il libro è una riflessione
sul ruolo della famiglia nella propria vita. Scritto con pulizia, con rimandi
giusti a mondi letterari noti (d’altronde Piperno è un forte conoscitore della
materia), e che induce tante riflessioni. Alcune ne ho accennate sopra.
Un’ultima viene dall’adesione alla frase che cito, ed all’affetto verso la mia
polisportiva di cugini. Purtroppo, manca, per dare un giudizio più alto,
quell’adesione a qualche momento di scrittura che in altre opere mi consente di
far mio il testo, pur se con motivazioni altre.
Qui, il romanzo è ben scritto, ma, alla
fine, troppo di testa e poco verso il mio cuore.
“Ne avevo così tanti di cugini, che
mettendoli assieme avrei potuto fondare una polisportiva.” (162) [idem]
Friederich Dürrenmatt “La valle del caos” Einaudi s.p.
(Biblioteca Borgogno)
[A: 21/11/2024 – I: 29/01/2025 – T: 01/02/2025]
- &
[tit. or.: Durcheinandertal; ling. or.:
tedesco; pagine: 116; anno 1989]
Inizio
ringraziando di cuore i cugini Borgogno per avermi consentito di accedere alla
loro biblioteca familiare, da cui ho prelevato alcuni libri che ritengo utili
per la mia personale biblioteca, ma anche necessari come ricordo che mai
tramonterà di Zio Occo e zia Nanna.
Questo è il primo
di quei libri-ricordo ad essere letto, legato tra l’altro ad un autore che,
personalmente, ritengo abbia scritto uno dei libri più significativi del mio
pantheon cartaceo, “La promessa”, uno dei più belli ed intensi libri che io
abbia letto.
Purtroppo, però,
questo è un libro di tutt’altro genere, certamente ed assolutamente in linea
con tutta la scrittura dell’autore, ma con una tematica che, nel complesso, ho
gradito per la sua ardita composizione, ma che non mi ha coinvolto né di pancia
né di cervello. Risentendo forse delle fatiche e delle difficoltà anche fisiche
dell’autore, dato che ricordiamo queto essere stato l’ultimo libro pubblicato
in vita, morendo Dürrenmatt un anno dopo per un infarto.
Intanto, benché
sia formalmente corretto, il titolo avrebbe avuto una più giusta espressione se
fosse stato reso come “La valle della confusione”. Perché è proprio la
confusione che regna sovrana per tutto il testo. Una confusione che serve a
mettere all’indice tutte le certezze del mondo moderno. Forse letto trent’anni
fa avrebbe avuto anche un maggior impatto personale. Ora, purtroppo, ho poca
speranza che si riesca ad uscire dalla confusione, che si riesca ad avere, come
l’autore ci mostra nel finale, forse uno spiraglio di speranza.
Certo, ci sarebbe
da appellarsi a Mao Zedong quando affermava: “Grande è la confusione sotto il
cielo, quindi la situazione è eccellente!”. Ma qui la confusione che inscena
l’autore serve solo a mostrare quanto sia malato il mondo. C’è una confusione
degli ambienti, dove seguendo i più rozzi gangster americani, si passa dalla
costa californiana alle crociere sul Nilo. C’è la confusione dei personaggi,
che nella clinica svizzera teatro principe dell’azione, i gangster di cui sopra
fanno chirurgie estetiche che li fanno diventare sosia di personaggi buoni. C’è
la confusione delle vendite artistiche, dove quadri autentici vengono venduti
come falsi, e quadri perfettamente valsi sono venduti come autentici. Non
vengono meno le forze dell’ordine, che nella loro confusione dispiegano mezzi
inusitati per arrestare e giustiziare … un cane.
Ma la maggiore
confusione è quella inscenata dal pazzo Moses Melker, che uccide le sue mogli
per troppo amore, e si trova incastrato nella gestione della clinica “Casa
della povertà”, dove vengono i ricchi per vivere alcuni mesi in estrema
povertà. Forti della cosmogonia di Melker che propugna la teologia al
contrario, dove i beati sono i ricchi, che i poveri verranno salvati dalla
Grazia in quanto se non lo fossero che Grazia sarebbe. Mentre sono i ricchi che
devono essere i destinatari della misericordia del Grande Vecchio.
Tutto ciò serve
appunto a mostrare tutte le malattie del mondo. Laddove c’è confusione, c’è un
mondo malato. Nella finanza che avvelena tutti gli aspetti della vita e che si
comporta in modo rozzo tale e qualmente la criminalità di bassa lega. Nella
religione, non tanto oppio dei popoli, ma strumento per manipolare le
coscienze. Nei rapporti familiari, laddove il perbenismo di ogni giorno è
soltanto una favola ipocrita che presto svela le sue gambe corte. E se la
finanza, la religione, la famiglia servono solo ad accumulare denaro, malati
diventano i rapporti sociali. Per finire con una feroce critica alla modernità
dello sviluppo, che serve soltanto a rendere i poveri sempre più poveri.
Ovviamente Dürrenmatt
non può che ambientare tutto nella sua amata – odiata Svizzera, riuscendo alla
fine a descrivere come una imbelle comunità, a fronte di tutte le confusioni
citate, non possa che venir travolta dalle lusinghe del denaro, delle
ideologie, della trasgressione, dell’indifferenza.
L’epica
dello scrittore, fa in modo che un gangster rifattosi la faccia come
benefattore, metta in cinta Elsi, la figlia di Melker e padrona del cane che si
voleva uccidere. E fa anche in modo, nonostante il suo nichilismo, di darci una
flebile speranza. Tutta la confusione che si concentra nella famosa clinica di
Melker, per una serie di ragioni scoppierà come un’emulazione dello Zabriskie
Point di Antonioni. Rimangono soltanto il cane, Elsi ed il bambino che cresce
nel suo utero. Tutti gli altri muoiono, ma dove c’è un bambino può nascere la
speranza.
Certo,
raccontato così, per idee, sembra un bel romanzo anarchico. E forse lo è, ma il
modo intorcinato di portare avanti tutte queste situazioni, tipico della
scrittura del nostro, ne rende difficoltosa la lettura, e poco agevole un
sereno compiacimento verso una possibile opera di grande livello.
Andrea Bajani “L’anniversario” Feltrinelli
euro 16 (in realtà, scontato a 15,20 euro)
[A: 17/03/2025 – I: 21/03/2025 – T:
23/03/2025] &&&&---
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127; anno:
2025]
Come sanno i miei assidui lettori, ho sempre
seguito con interesse le prose di Bajani, anche se non sempre le ho trovato
allo stesso livello. D’altra parte, non pretendiamo certo che un autore si
esprima sempre al meglio. Ci possono essere alti e bassi, e noi arguti lettori,
ne segnaliamo l’andamento per suggerire migliorie.
Non avevo giudicato al massimo il suo ultimo
libro, il “Libro delle case”, ma devo dire che quello possa aver dato spunti di
riflessione all’autore per cimentarsi in questa prova, ardua e pur intensamente
bella. In quella disamina delle case, si citavano case genitoriali, tra Lazio e
Piemonte, nonché accenni all’esistenza di un Padre e di una Madre, che
presentavano elementi di forte contrasto con l’Io narrante.
Qui si prende al balzo quell’accenno, per
affondare la lama della scrittura in quella che potrebbe presentarsi come
un’infelicità tolstojana. Finzione? Autobiografia? O autofiction? Lo scrittore
ci lascia nel vago, sia adoperando questa scrittura molto esterna da sé, pur se
in prima persona, sia sottolineando, in copertina, che il titolo è
“L’anniversario. Un romanzo”. Quasi a volerci dire che non è realtà soggettiva,
quella di cui si scrive, ma invenzione dell’anima.
Sia quel che sia, e soprattutto non entrando
nel merito se l’Io narrante sia Bajani o altri, questo “romanzo” è una dura
lama che affonda le sue parole come coltelli in una vicenda personale ma in un
certo senso generale. Certo, non voglio dire che tutte le famiglie italiane
siano così, né che lo siano tante, ma solo che ne esistono. Anche nel caso sia
una percentuale insignificante è comunque uno spaccato di un mondo molto, molto
reale.
In un certo senso, a me verrebbe di dividere
il narrato in due parti. La descrizione, lunga e cruda, di un’esistenza
possibile, che potrebbe essere eponima di molte situazioni analoghe se non
simili. E lo scioglimento della stessa, che invece è unico, legato all’Io
narrante e solo a lui imputabile, nella scelta e nelle conseguenze.
La parte generale e comune descrive, andando
su e giù nel tempo, il nascere e l’evolversi di una famiglia. Padre e madre si
conoscono al liceo in quel di Roma, dove vivono. Lei studiosa e diligente,
prende la maturità e si iscrive a Lettere (ha sempre avuto un lato verso la
letteratura, anche se …). Lui, oltre ad avere una macchina per uscire con lei,
ha voglia zero di studio, non si presenta alla maturità, ed inizia a lavorare
presso un negozio al Nomentano.
Padre è caparbiamente arroccato nel suo
ruolo che intorta Madre, ne fa il suo oggetto di vita preferito, ed una volta
incinta, si avviano verso le nozze ed una gestione familiare tutta imperniata
sul padre-padrone. Padre che litiga sul lavoro, si licenzia, si barcamena con
piccole cose. Figlio che nasce, e genitori della madre che sembrano essere gli
unici ad aiutare la coppia malmessa. Fino a che, non si sa per quale santo in
paradiso, Padre riceve un posto fisso, ma in quel di Cuneo, così che la famiglia
(Padre, Madre, Figlio e Sorella appena nata) si trasferiscono in Piemonte, dove
vivranno la maggior parte del tempo.
Ed è lì, in quel mondo fatto di poche anime,
che Padre assurge al ruolo di unico reggitore delle sorti familiari.
Tiranneggiando la famiglia, e soprattutto la Madre. Ma l’Io narrante non vuole
parlare del Padre, troppa importanza verrebbe data a quella figura poco
sintonica con Figlio. Vuole parlare di Madre, di come nasce e cresce la sua
sottomissione, quasi che il percorso verso gl’inferi di Madre possa spiegare la
discesa verso esistenze crudelmente insoddisfatte di tutta la famiglia.
Bajani riesce, saltando anche qua e là nel
tempo, a darci scorci e spunti: Madre con figli che prende il treno per tornare
a Roma per le vacanze estive, da passare in quel di Santa Marinella a casa
della suocera. Le amiche di Madre al tempo delle elementari, che poi si
dissolvono crescendo. Meno una, che cerca di tirar fuori la donna che è in
Madre, che prova a farla ribellare verso Padre scoprendone gli altari
dell’amante (al che il fascista dentro risponde, sì ho un’amante ma a te non
faccio mancare nulla). Le botte di Padre fino a un certo punto nascoste, ma poi
palesi, anche se Madre non lo denuncerà mai.
La cattiveria verbale di Padre (lui legge
libri, Madre legge romanzetti e fa la “Settimana Enigmistica”). Cattiveria
anche e soprattutto verso i figli. Ma Sorella, appena può, si sottrae
sposandosi ed andandosene. Figlio no. Rimane legato a quel mondo, soffrendo,
senza mai trovare il modo di ribellarsi, quasi che un suo gesto forte mettesse
in pericolo più Madre che altro.
Ma il disagio cresce, fino a che Io trova
l’unico modo che ha per sottrarsi. Chiudere tutto, andare via, lasciare spazi
vuoti dietro se. Fino a trovare, ora, in un tempo anniversario di
quell’abbandono, la forza di scriverne, chiosando: “Da allora ho cambiato
numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho
messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita.”
A parte la scrittura, potente e tagliente,
un elemento che molto è rimasto impresso mentre leggevo è quella mancanza di
notizie certe. L’Io narrante parla, descrive, ricostruisce, ma deve anche
confessare che spesso, di Madre, non ha notizie dirette. Uno dei momenti più
forti è quando si domanda cosa faccia Madre la mattina, quando Padre lavora ed
i figli sono a scuola.
Una storia di una famiglia disfunzionale e
di un percorso di crescita. Ma una crescita non sintonica, ma avversa al
contesto familiare, che cerca di uscire dalle spire mortali, riuscendoci
soltanto con un estremo “abbandono dei genitori”.
Qualcuno farà dotte considerazioni sui
comportamenti dei personaggi del veloce libro. Io, povero tramatore solitario,
mi accontento di aver vissuto insieme all’autore i suoi momenti di dolente
riflessione. Abbiamo avuto famiglie diverse, ed io non ho abbandonato nessuno,
ma momenti di scrittura hanno mosso delle corde all’unisono con l’autore.
Con il mese di aprile iniziamo l’elenco
delle letture di gennaio, con le sue diciassette uscite. Su cui svettano
Franchini (di cui avete lette sopra) con il suo fuoco materno, Carofiglio con
il saggio sull’imprecisione e Julie Otsuka con il bellissimo ricordo della
madre. Mentre quasi sottozero finisce un inutile giallo italiano di Boccia
& Lombardi.
# |
Autore |
Titolo |
Editore |
Euro |
J |
1 |
Yuka Murayama |
La stanza dei kimono |
Corriere
Giappone |
8,90 |
2,5 |
2 |
Richard Osman |
Il club dei delitti del giovedì |
Repubblica
Noir |
8,90 |
1,5 |
3 |
Edmund
White |
L’uomo
sposato |
Playground |
20 |
2,5 |
4 |
Francesco
Caringella |
Oltre
ogni ragionevole dubbio |
Repubblica
Anima Noir |
8,90 |
2,5 |
5 |
Marco
Vichi |
Il
brigante |
Repubblica
Montagna |
9,90 |
2 |
6 |
Torrey
Peters |
Detransition,
Baby |
Mondadori
|
20 |
2,5 |
7 |
Giancarlo
De Cataldo |
Un
cuore sleale |
Repubblica
Essenza Noir |
8,90 |
2 |
8 |
Alain
De Botton |
Le
consolazioni della filosofia |
Repubblica
Filosofia Viva |
9,90 |
3 |
9 |
Antonio Franchini |
Il fuoco che ti
porti dentro |
Marsilio |
s.p. |
4 |
10 |
Don Winslow |
La pattuglia dell’alba |
Repubblica Brivido Noir |
8,90 |
3 |
11 |
Sara
Loffredi |
Fronte
di scavo |
Repubblica
Montagna |
9,90 |
2 |
12 |
Gianrico Carofiglio |
Elogio dell’ignoranza
e dell’errore |
Einaudi |
s.p. |
4 |
13 |
Giancarlo
De Cataldo |
Il
suo freddo pianto |
Repubblica
Mistero Noir |
8,90 |
2,5 |
14 |
Haruki
Murakami |
Il
mestiere dello scrittore |
Corriere |
8,90 |
3 |
15 |
Julie Otsuka |
Nuoto libero |
Bollati
Boringhieri |
s.p. |
4 |
16 |
Luigi
Boccia & Nicola Lombardi |
Strigarium
I delitti del noce |
Mondadori |
5,90 |
0,5 |
17 |
Alessandro Piperno |
Aria di famiglia |
Mondadori
|
s.p. |
3 |
Non
avendo un centro fisso da colpire, questa settimana vi inondo di alcuni
pensieri sparsi. Il primo viene da “La
colpa” di Laura Grimaldi (grande giallista e ricordo anche come concorrente a “Lascia o raddoppia?”):
“Non avevo niente di mio da dire. Amavo semplicemente interpretare ciò
che altri avevano espresso.” (80)
La seconda dall’austriaco Leo Perutz che nell’ottimo “Dalle nove
alle nove” ci ricorda che: “Una
donna può voler bene a un uomo, anche se è brutto e sciocco. E anche se è
cattivo” (106)
Infine, dal mio amato islandese Arnaldur Indriđason estraggo da “Un corpo nel lago” un
discorso tra amanti: “Non abbiamo fatto altro che parlare, io e te. È
molto più di quanto possa dire lui” (131) e da “Un grande gelo” un’amara
considerazione sugli uomini: “So che ci sono uomini del genere … Vivono
sull’onda della passione finché dura, poi appena comincia ad affievolirsi se ne
vanno.” (262)
Ci avviciniamo a grandi passi alla Pasqua ed anche ad una stagione si spera meno fredda (visto che ho ancora strascichi di raffreddore). Si prospettano, forse, molte iniziative, anche se per ora l’unico problema che ho è sperare che l’uomo con i capelli color crodino non faccia altre mosse dannose per tutti noi. Speriamo, e quindi con l’affetto immutato vi abbraccio.
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