domenica 26 ottobre 2025

Il mio nome è Isabel 26 ottobre 2025

Una meta citazione dell’ultimissimo libro di Isabel Allende (“Il mio nome è Emilia Del Valle”) per una settimana di trame dedicata alla scrittrice cilena. Quattro testi filologici, dal 1987 al 2003, ed il penultimo libro (che era l’ultimo quando ne scrissi).  I quattro testi vanno in allegra discesa, come se quei lunghi anni californiani si incartassero uno dopo l’altro, magari prosciugando una zampillante vena poetica. Che invece risorge, pur con i suoi limiti, nel romanzo del 2023.

Isabel Allende “Eva Luna” Repubblica Latino-americana 2 euro 9,90

[A: 07/02/2020 – I: 14/02/2024 – T: 16/02/2024] - &&&   

[tit. or.: Eva Luna; ling. or.: spagnolo; pagine: 314; anno 1987]

Non è certo il primo libro della Allende che leggo, essendo una delle mie scrittrici preferite in quanto riesce a coniugare un’intesa partecipazione sociale a scritture che si fanno seguire quasi con andamento avventuroso. Con una buona dosa di partecipazione amorosa e finali che, quando non sono happy, sono sempre di notevole apertura.

Tra l’altro, rispetto ad altri autori sudamericani, benché ci sia nei suoi scritti una buona dose di “realismo magico”, cioè quella fusione, molto presente in Garcia Marquez o Amado, di elementi soprannaturali che intersecano il mondo reale, in Allende rimane sempre un tema sullo sfondo. Una tema che non oscura le spinte innovatrici dei suoi personaggi. Le spinte contro il potere e la corruzione dilagante in quei paesi. Contro la modalità di gestire il ruolo della donna ed il rapporto tra uomo e donna.

Ecco, quindi, che anche l’eroina di questo romanzo è giustamente donna, e giustamente lotta per il suo posto nel mondo. Magari lo fa non in maniera apertamente di rottura, ma di certo Eva usa tutte le armi a sua disposizione per affermare la sua verità ed affermarsi nel mondo.

La costruzione, comunque, ha un piglio diadico che se da un lato seguiamo la storia di Eva, dall’altro vediamo la vita e le opere di Rolf. Con il forte sospetto che, prima della fine, i due percorsi devono incrociarsi e, magari, arrivare ad un cammino comune.

Così, principalmente, seguiamo la narratrice, figlia di Consuelo, una donna allevata in missione, che la chiama Eva, nome fortemente evocativo (sia della prima donna sia di quell’icona sudamericana che fu Eva Peron), e non avendo un cognome anch’esso simbolico, Luna, a simboleggiare il potere matriarcale femminile. Consuelo dona alla figlia il potere della narrazione, che Eva usa per modellare la sua realtà in un modo che sia per lei vivibile, nonché, alla fine, per farne il suo mestiere di sceneggiatrice, cioè di narratrice “ufficiale” di storie.

Quando Consuelo muore, Eva ha sei anni e da lì comincia la trafila di posti in cui viene messa a servizio, a fare la serva. Quelli cattivi, come la zitella dalla quale scapperà dopo essere stata trattata male, anche se nel servizio con lei conosce Elvira che diventerà la sua nonna inventata. O quelli buoni, come il professor Jones, fissato con l’imbalsamazione, ma che le permetterà di crescere senza aver troppo le ali tarpate. Ma i servizi presso famiglie, per una serie di dissapori, visto che Eva non si piega mai, finiscono, e lei fugge, ma viene accolto da uno strano immigrato mediorientale, Riad detto il “turco”. Che diventerà per lei una figura prima paterna, poi protettiva.

Ci sono storie nelle storie durante la sua permanenza nella Colonia dove vive il turco. Con la pigra Zulema, moglie di Riad, con il nipote Hassan, ed altri rivoli che poco hanno di significativo nel flusso generale dell’opera.

Perché, fin dalla prima fuga, Eva incontra Huberto, ragazzo di strada più grande di lei, che se ne prende cura quando è piccola, fornendole appigli, protezioni, ed introducendola nel mondo irregolare di puttane e travestiti, dove conosce Melecio-Mimi. Poi i nostri si perdono, ma Huberto fa un suo percorso, diventando guerrigliero (cosa che accade spesso laggiù) anzi capo di uno dei movimenti. Per poi, al loro nuovo incontro, diventare l’amante fisso di Eva.

Dopo una serie di alti e bassi, Eva incontra di nuovo Mimì, ormai travestito ufficiale e star della televisione. E con il suo aiuto comincia a scrivere di quei racconti che sempre aveva nella testa e che fungevano da narrazione di sollievo per tutte le persone a lei vicine.

È in questa fase che incontra per la prima volta Rolf, di cui noi però già sapevamo tutto. Della sua infanzia in Europa, in un paese tra Germania e Polonia, con un padre aguzzino che finirà male. Mentre Rolf cresce nel dopo guerra, matura, ma ad un certo punto dovrà abbandonare il vecchio continente per il Sud America. Dove incontra un giornalista che gli fa capire la sua vera strada di narratore per immagini. Così Rolf comincia a filmare il filmabile, anche le azioni guerrigliere di Huberto, con il quale diventa non dico amico, ma di certo sodale.

Tutto convergente verso quel fine di speranza in cui Eva e Rolf inizieranno qualcosa. Forse non sarà per sempre, ma è un “ora e lì” pieno di possibilità.

La consueta abilità della Allende si ripropone anche qui, nella descrizione chiara e ordinata di tanti avvenimenti, anche complessi, che però non le fanno mai perdere il filo del racconto. Una narrazione dove vediamo Eva crescere e maturare in un paese di fantasia, che però po' essere uno qualsiasi dei tanti stati sudamericani, oppresso dalla dittatura, dove l’ingiustizia la fa da padrone, e dove i padroni sono sempre gli antagonisti dei nostri eroi. Di Eva, di Rolf, di Huberto, ma anche dei personaggi minori come Riad o Mimì.

Non è un messaggio subito forte come nei suoi primi libri, usciti quasi a caldo dopo la tragedia cilena, ma una costruzione che si tiene, che non ci fa perdere la speranza. Laddove qualcuno ha ancora e sempre la voglia di trasformare la realtà, e di intervenire su di essa nella speranza di un mondo migliore.

“La morte non esiste, figlia. La gente muore solo quando è dimenticata.” (49)

Isabel Allende “Eva Luna racconta” Repubblica 11 euro 9,90

[A: 12/10/2022 – I: 15/04/2024 – T: 17/04/2024] - &&+   

[tit. or.: Cuentos de Eva Luna; ling. or.: spagnolo; pagine: 252; anno 1990]

Si parla tanto nelle descrizioni di eventi seriali, di sequel (cioè di seguiti) o di prequel (cioè di precedenti), di modo che la trama si arricchisce del prima e del dopo. In questo mirabile, seppur non eccelso, libro di Isabel Allende dovremo invece parlare di spin-off. Cioè, se teniamo a mente il romanzo precedente (“Eva luna”), la fine raccontata da Eva del suo incontro e della loro decisione di proseguire insieme, era una delle storie che lei raccontava fin da piccola. Una fiaba dal finale felice.

Legandosi a quella, in questo volume che ne riprende i toni, si comincia con un’invocazione di Rolf, che, memore di quanto Eva ha sempre accennato nel romanzo precedente, chiede ad Eva stessa di raccontargli alcune delle sue storie. Scegliendo quelle che lo avrebbero sorpreso.

In effetti, sappiamo dalla scrittura di Eva Luna, che la nostra eroina si lancia in racconti quando non riesce a trovare un modo diverso di espressione e di intervento sulla realtà. Così qui vediamo ventitré racconti che spaziano in tutto l’universo “lunatico”, magari reincontrando personaggi e situazioni che conosciamo dal precedente. Non ci meravigliamo allora di incontrare di nuovo, oltre al benamato Rolf, il buon arabo Riad Halabì, la gentile ma inflessibile Maestra Ines, l’ineffabile Benefattore, intrecciati in storie diverse, che tuttavia, seguono mentalmente i tempi scanditi da Eva Luna. Non a caso lasciandoci con un piccolo parallelo che, partendo da quella fine, porta Eva e Rolf su nuove e complicate dimensioni, non sempre sormontabili.

Certo, e potete capirmi, non è stato facile entrare nel mondo di Isabel-Eva, per il modo frammentario in cui i racconti si presentano alla vita, anche se, come filo rosso immancabile, c’è sempre una presenza femminile che regge le fila del discorso, muovendone le leve, ed uscendone non sempre vincitrice, ma sempre protagonista.

Così abbiamo (“Due parole”) Belisa, l’anziana che vende lettere d’amore e che lega a sé, con due parole segrete, il destino di un possibile dittatore. O Elena (“Bimba perversa”), che da bimba si innamora dell’amante della madre, lo seduce ma lui si ritrae, lei cresce e dimentica, lui invecchia e ricorda. O la pia Clarisa (“Clarisa”) che dopo aver fatto due figli tarati con il marito legittimo, ne fa altri due con un suo amante, per “pareggiare” i conti con il destino. O Hermelinda (“Bocca di rospo”) che mette in vendita il suo corpo con un gioco in cui nessuno vince, fino a che soccombe al fascino del bel Pedro e si arrende. O lo strano ma efficace sodalizio della moglie e dell’amante di Vargas (“L'oro di Tomás Vargas”), che sottrarranno al loro maltrattatore l’oro di una vita.

E poi abbiamo Ortensia (“Se mi toccassi il cuore”), la vecchia rimasta prigioniera per cinquant’anni di un governatore geloso che, liberata, non ricorda neanche il suo nome, Patricia (“Regalo per una fidanzata”) e la ricerca lunga e fruttuosa del suo amore da parte di un giovane innamorato, Maurizia (“Tosca”) e la sua fuga d’amore “a mo’ di Tosca” ed ugualmente fallimentare, Ester (“Ester Lucero”) ammalata all’ultimo stadio e salvata dal dottore innamorato con i rimedi della foresta, Maria la folle (“Maria la sciocca”), la puttana più innocente di tutto il Cile ed il racconto della sua folle ma cosciente fine, l’anziana ballerina (“Piccolo Heidelberg”) della vecchia balera, Casilda (“La moglie del giudice”) e la sua vendetta per la morte del marito giudice, il viaggio di Claveles (“Un sentiero verso il nord”) alla ricerca del figlio venduto, inconsapevolmente, a trafficanti di organi, il rapporto tra Riad e Ines (“L'ospite dell'insegnante”) per nascondere un giusto crimine, la rivincita di Abigail (“Con il dovuto rispetto”), l’amore senza fine di Marcia (“Il Palazzo Immaginato”), la lunga trama ordita da Dulce Rosa (“Una vendetta”) per vendicarsi del suo stupratore, la forza di Analia (“Lettere d'amore tradite”) di superare il dolore per trovare l’autore delle lettere che l’hanno fatta innamorare.

Due racconti sono visti “al maschile”: ha al centro un ragazzo (“Walimai”) ma è tra i meno riusciti del lotto e l’altro narra la lotta di Michael (“Un miracolo discreto”) contro la cecità per ottenere un miracolo. Ed altri due hanno una coppia che agisce: due persone (“Nel profondo dell’oblio”) che subiscono torture sostenendosi a vicenda, due amanti (“Vita infinita”) che decidono la morte quando ad Ana viene diagnosticato un cancro.

Ed alla fine c’è il raccordo tra Eva, Rolf, il passato ed il futuro, laddove l’ultimo testo riprende la vicenda di Omarya Sanchez, una bambina colombiana intrappolata nel fango di un disastro montano, che non riescono a tirare fuori dalle macerie, e muore sorridendo ai suoi inutili soccorritori. La vicenda (“Di polvere siamo fatti”) viene immortalata dalla foto di un fotografo francese, Frank Fournier, che farà il giro del mondo per la sua crudele bellezza. Isabel ripercorre la storia, ponendo Rolf al posto di Frank, ma soprattutto entrando non tanto nella tragedia di Omarya, quanto nei tormenti di Rolf per la sua impotenza, e nelle conseguenze di tristezza ed inutilità di vivere che perseguiteranno Rolf negli anni a venire.

Pur con qualche puntata sul maschile, quindi, l’occhio indagatore di Isabel non può che puntarsi sulle donne, sulla loro forza di fronte a qualsiasi tragedia, sulla loro capacità di inserirsi fattivamente in qualsiasi commedia. Con quel tocco d’amore, sempre presente in lei. Un amore sempre manifesto, pur se a volte non palese, che ne rinsalda la capacità di amare, anche al di là di quella frontiera di reciprocità. Amano superando anche il bisogno di essere amate.

Isabel Allende “Il vento conosce il mio nome” Feltrinelli s.p. (prestito di Alessandra)

[A: 16/03/2024 – I: 28/05/2024 – T: 30/05/2024] - &&&+   

[tit. or.: El Viento conoce mi nombre; ling. or.: spagnolo; pagine: 318; anno 2023]

Interrompendo il flusso della lettura cronologica dell’opera della Allende, ho letto con interesse, anche senza raggiungere l’alto livello delle sue prime opere, questa sua ultima fatica letteraria. Un libro che arieggia, scusate il gioco di parole, alcune tematiche care da sempre alla scrittrice cilena, ma che in alcuni punti non riesce a farle emergere con la forza della denuncia.

Quindi certo un libro di interesse nella lettura, di pacato coinvolgimento in alcuni punti, ma anche di ferma insofferenza in altri. Perché sempre più spesso mi capita con scrittore sudamericani di trovare dei punti in cui, per la mia cultura, sembrano partire per la tangente, una strada per me di difficile percorrenza.

Dicevo che riprende alcuni suoi temi classici, intanto nell’andamento corale delle vicende. Anche se non fa “parlare” in prima persona le varie avventure corali che si distendono lungo le linee del romanzo. Linee corali che, con la sua solita magica intersezione dei casi della vita, non possono che convergere alla fine. Convergenza forzata, forse. Ma d’altra parte che senso avrebbe altrimenti parlare di tante vite lungo i percorsi della storia (con la “s” sia minuscola che maiuscola).

Come impariamo a comprendere ben presto, ci sono i protagonisti primari, e i co-protagonisti, anche con compiti non banali. Nei primi, seguiremo nel corso dei decenni, la storia di Samuel Adler, quella di Letizia Cordero e di Anita Diaz. Nei secondi, hanno un posto importante Selena, Frank e Nadine.

Samuel fa un  po’ da ossatura del testo. Lo incontriamo bambino a Vienna, durante la “Notte dei cristalli” (che ricordo fu l’inizio dello sterminio ebraico in Vienna, con forse più di mille morti nei giorni 9 e 10 novembre del ’38). Allende ben descrive l’orrore di quelle ore (d’altra parte la scrittrice ha una mano felice, in scrittura, e dolente, in ricordo, quando parla di massacri ed altre atrocità), con la dispersione della famiglia Adler, ed il rifugiarsi di Samuel, prima in Inghilterra, poi in California. Ma lì solo dopo aver incontrato a New Orleans, dove andò, lui violinista, a cercare di capire il jazz a metà degli anni Cinquanta, la bella Nadine. Donna affascinante, libera, subito presa dal fascino dolente e dalla dirittura di “mister Bogart” (come chiamava Samuel, per via della somiglianza con il grande Humphrey).

Sarà un rapporto lungo tutta la vita, con momenti di rottura e di congiungimento (alla fine si sposeranno tre volte dopo due divorzi), con Samuel sempre fedele alla sua Nadine, e lei libera come sempre stata, con tante storie, ma anche tante iniziative. In fondo, lei era il sale della sua vita, lui era l boa di sicurezza cui sempre tornare. Hippies, bohemien, girovaghi, e quando finalmente fermi a Berkley, lui in prestigiose orchestre, lei in mille iniziative, spesso in favore degli immigrati irregolari dal Sud America.

Tra questi, ma ovvio che lo sapremo molto più in là, c’è la gioiosa Letizia, anche lei sfuggita ad un massacro. Quello del 10 dicembre 1981, dove l’armata regolare salvadoregna assale il villaggio di El Motoze, uccidendo immotivatamente un migliaio di civili, per lo più donne e bambini. Letizia riesce a fuggire in America, dove si ricostruisce una vita, ed alla fine la ritroviamo, nel 2020, governante da vent’anni nella casa degli Adler.

Poi c’è Anita, bimba di otto anni, ipovedente dopo un incidente, che ripara in Arizona fuggendo con la madre alla persecuzione di un macho salvadoregno. In America, essendo illegali, vengono separati, la madre rimandata in Messico, Anita sballottolata in vari istituti e case famiglia. Certo, seguiamo dolentemente le sue vicissitudini, anche se, essendo quelli più permeati da un qualche rimasuglio del realismo magico latino-americano, rimangono per me un po’ più di difficile empatia.

Ovvio che Anita viene presa sotto la protezione del progetto Magnolia (ricordo che la magnolia è il fiore simbolo di New Orleans), dove in particolare si troverà sotto le ali amichevoli di Selena, che farà di tutto per ritrovare la madre di Anita, che coinvolgerà l’avvocato in carriera Frank ad aiutarla dal punto di vista legale. Con tutta una serie di piccole storie di contorno, di bella lettura, e di accompagnamento per addolcire una storia di fondo cruda.

Senza arrivare alla descrizione pur semplice delle convergenze finali, in varie forme, il messaggio grande di Isabel è la descrizione degli orrori, sempre uguali in tutte le latitudini. Abbiamo gli orrori forti, come in quel di Vienna durante il nazismo o in Salvador nella Guerra Civile. Ma abbiamo anche, e forse ancor più forti, gli orrori sottili del mondo odierno. I respingimenti in America, in particolare durante il governo Trump (e non è un caso la coincidenza temporale), dove, senza nessun discernimento, gli irregolari che attraversano il Rio Grande, vengono in principio rimandati in Messico. Spesso, come nel caso di Anita, separando genitori e figli ed immettendo i bambini in circuiti assistenziali molte volte poco adeguati.

Una denuncia, da parte della scrittrice, forte e circostanziata. Dove forse qualcuno si salva, ma dove molti periscono, anche non solo fisicamente. E quando si torna a girare per le strade americane, come ho fatto in questo periodo, se ne capisce l’emarginazione di chi non ha o non riesce ad integrarsi nel “sogno americano”. Forse un discorso anche più lungo, ma che vale la pena aver qui accennato.

Per fortuna, nel fondo, la settantenne cilena è sempre permeata dalla felicità che alla fine, anche nel male, qualcosa di buona si riesce ad ottenere. E la sua allegria di fondo, nonostante tutto (e noi si sa quanto sia grande questo nonostante), mi ha accompagnato in lettura, e lasciato felicemente consapevole di tutto quello che sto e stiamo vivendo. Forse anch’io, sono gramscianamente ottimista.

“Mi ricordo quello che voglio ricordare e non quello che gli altri vogliono che io ricordi.” (160)

Isabel Allende “Ritratto in seppia” Repubblica 13 euro 9,90

[A: 24/10/2022 – I: 17/09/2025 – T: 19/05/2025] - && e ½     

[tit. or.: Retrato en sepia; ling. or.: spagnolo; pagine: 265; anno 2000]

Dopo aver letto l’ultimo di Isabel, ancora incentrato sui della Valle (ma recensito in altra sede), anche se in maniera sghemba rispetto alla trilogia classica, faccio un salto indietro nella scrittura di venticinque anni, quando esce questo ritratto, lungo monologo di Aurora della Valle. Con una scrittura sempre fedele ai suoi caratteri distintivi, ma che qui non riesce ad emozionare e coinvolgere come nelle prove migliori, come il terzo capitolo della saga, quella “casa degli spiriti” che ritengo la migliore scrittura della scrittrice cilena.

Qui, come detto, ci inseriamo nel filone principale della storia, dove seguiamo dalle parole di Aurora, un percorso che va dal 1862 al 1910. Cioè dalla nascita di Lynn sino al presente narrato dalla protagonista. Che certo racconta, ma che rimane un po’ in ombra. Vediamo i parenti, sodali e antagonisti, ma poco vediamo di lei. Se non il ricordo vivo di aggrapparsi a quell’apparecchio fotografico che le consente di ripassare volti e figure della sua vita, magari, come dice il titolo, con le foto virate in seppia, dove appunto, come sanno i miei valenti cugini, l’argento metallico della foto si converte in un più stabile e duraturo solfuro d’argento, assumendo le calde tonalità “seppia”.

Aurora, nella prima parte, si ricollega agli avvenimenti de “La figlia della fortuna”, dove Eliza Sommers e Tao Chi'en alla fine avevano coronato la loro vicinanza nella California della Corsa all’Oro, soprattutto nella cura della bellissima figlia di lei, Lynn. Tanto bella e tanto ingenua da cadere nelle trappole verbali del fatuo Matias Rodriguez de Santa Cruz della Valle, senza comprendere invece il sentimento d’amore vero del di lui fratello, Severo. Entrambi, come dice il nome, figli di quella Paulina della Valle, che abbiamo incontrato anche nell’ultimo scritto di Isabel.

Matias, in realtà, è spesso attratto più dagli uomini, e presto se ne andrà a vivere in Europa, tornando in patria solo per morire. Severo sarebbe fidanzato con Nivea, ma la lascia per sposare Lynn e fare in modo che non nasca una figlia “bastarda”. Ovvio che invece Lynn muoia di parto, ed Aurora venga, per i primi anni, allevata dai nonni anglo-cinesi. Mentre Severo torna in Cile e sposa Nivea mettendo al mondo un numero sterminato di figli.

Ma Tao muore ai cinque anni di Aurora, Eliza scompare e la piccola viene affidata a nonna Paulina, che, nella sua dirittura non convenzionale, la educherà lontano dai canoni buddisti della prima infanzia, e tuttavia in modi sempre anticonformisti, come sarà sempre la sua vita. Ad esempio, allontanandosi dal marito Feliciano, non sopportando di farsi vedere grassa, ma consentendo la vicinanza con il maggiordomo Frederick Williams. Tant’è che, alla morte del marito, e dovendo tornare in Cile, decide di sposare Frederick, che è sempre bene avere un uomo accanto, in special modo in società arretrate come la cilena.

Lì a Valparaiso, Aurora cresce con l’unica consolazione, come detto, della fotografia. Ma ha anche ereditato l’ingenua immediatezza della madre, tanto da innamorarsi di Diego, un bellimbusto che pensa solo alla bella vita, avendo una ricca famiglia alle spalle. E lo sposa anche, pentendosene ben presto, che Diego aveva consentito al grande passo solo per star vicino alla cognata e continuare con lei una lunga storia di adulteri.

Nel mentre, Aurora ha finalmente due sprazzi di positività. Conosce un medico dedito alla cura dei poveri, oriundo slavo, il dottor Ivan Radovic (dove abbiamo una specie di insight verso il futuro, che ora, venticinque anni dopo la scrittura e più di cento dagli avvenimenti, l’attuale presidente cileno è proprio un oriundo croato, Gabriel Boric) e finalmente si ricongiunge con nonna Eliza.

Il tutto dovuto, purtroppo, alla morte di Paulina. Con Ivan si spera in un futuro più sereno. Con Eliza, finalmente, ripercorre i momenti della giovinezza, la dirittura morale di nonno Tao ed i motivi che ne hanno portato alla morte, in seguito ad un losco attacco di cinesi prosseneti.

C’è una piccola ambivalenza nel denso scritto che stiamo tramando. Da un lato, come suo costume, Isabel ci presenta forti personaggi femminili, indipendenti, positivi. Dall’altro, la maggior parte dei personaggi che entrano in questa storia, sembra lo facciano solo per interpretare un carattere da ammirare o da esecrare: c’è lo spendaccione Matias ed il virtuoso Severo, c’è la bella ed ingenua Lynn e la determinata Nivea. E si potrebbe continuare, ma rimarchiamo solo che, in questo modo, non esce fuori bene il narratore Aurora, che non riesce ad avere una sua forte distinzione, rimanendo un po’ sbiadita (quasi come una vecchia foto).

L’altro elemento che segue sempre gli scritti di Isabel è l’attenzione alla storia patria, che qui vediamo narrata, forse anche troppo, attraverso le vicende sia della Guerra del Pacifico (1879 – 1884, quella che portò all’occupazione, da parte del Cile, dello sbocco marino della Bolivia) sia della Guerra Civile del 1891 (che abbiamo visto a lungo anche in Emilia della Valle).

Insomma, un recupero del filo narrativo della scrittrice cilena, ma con risvolti più filologici che partecipativi.

“Sai quanti anni ho…? Settantaquattro. Pochi vivono così a lungo … Ma lei è immortale! … No, figliola, lo sembro e basta.” (193) [dove mettere la firma per l’immortalità?]

Isabel Allende “Il mio paese inventato” Repubblica 14 euro 9,90 (in realtà, scontato a 9 euro)

[A: 12/10/2022 – I: 14/10/2025 – T: 16/10/2025] - &&    

[tit. or.: Mi pais inventado; ling. or.: spagnolo; pagine: 184; anno 2003]

Proseguendo, con alterna periodicità, nella lettura “All Allende”, facciamo un piccolo salto in avanti di tre anni, e andiamo a seguire uno dei libri più sentiti da Isabel, anche perché è in pratica una lunga autobiografia, intervallata da alcune considerazioni antropologiche sui sudamericani in generale e sui cileni in particolare. Quello che fa rimanere un po’ fuori centro è il fatto di leggerne ora, quando alcune cose fondamentali della vita della scrittrice sono cambiate.

I suoi ricordi, prima o poi, non possono che intrecciarsi con la storia cilena. Ma prima di quella, dobbiamo passare attraverso alcune forche caudine della “casa Allende”. In primis, Isabel ci ricorda che lei nasce a Lima, dove in quel periodo lavorava il padre. Ma la storia d’amore dei suoi genitori finisce presto, il padre sparisce, e la madre trona in Cile, nella casa vita. È lì che nascono i ricordi di fondo che poi saranno esorcizzati nella scrittura. L’immagine strabordante della bisnonna ma soprattutto, il nonno, con la sua imponente presenza, che ben ritroveremo nel suo primo libro “La casa degli spiriti”.

Fortunatamente la madre troverà ben presto un nuovo equilibrio con “lo zio Ramon”, e dopo i primi anni cileni dell’infanzia, ecco nascere un turbine di iniziative e di vita al seguito del patrigno, diplomatico di carriera, e spesso in giro per il mondo, prima in Bolivia, poi in Europa, infine in Libano, dove rimarrà fino ai diciassette anni. Isabel ci mostra la sua adolescenza ribelle, ma anche alcune scelte “in coerenza” direbbe lei con la grande e protettiva famiglia Allende.

Così si sposa nel ’62 con Miguel Frìas, con cui ha due figli (Paula, di cui sappiamo tutto nei suoi dolenti libri di madre sulla malattia e la morte della figlia, e Nicolas), ma non rinuncia mai alla vita attiva: è giornalista sempre pronta alle battaglie, attivista politica, femminista, ma anche, e pienamente, madre e moglie. Sino alla grande cesura dell’11 settembre 1973. C’è il colpo di stato che porterà al potere il generale Pinochet ed alla morte il presidente eletto Salvator Allende (cugino del padre di Isabel).

Per rievocare i fatti del ’73, Isabel fa anche un interessante viaggio nel passato cileno, nelle sue lotte durante tutto l’Ottocento. Ed è un bagaglio che già è presente in alcune parti di “Ritratto in seppia”, e che poi sarà anche potentemente esplorato in “Lungo petalo di mare” e in “Il mio nome è Emilia del Valle”. Ovvio che molta storia cilena è presente nel suo primo libro, “La casa degli spiriti”, ma quella è la storia contemporanea sua personale, i giorni dell’attesa, l’inizio della scomparsa delle persone care e vicine, sino a decide nel ’75 di lasciare per sempre il Cile. Prima tappa, il Venezuela, dove si consumerà il lungo periodo di allontanamento con Miguel, sino al divorzio nell’87. E poi l’incontro con William Gordon, per amore del quale l’anno successivo si trasferisce in California.

Ci sono lunghi passaggi, nel libro, dedicate a William, compresa l’accenno alla costruzione del libro “Il piano infinito” che cerca di ricostruire la storia della sua famiglia. Ma la scrittura è del 2003, e Isabel è solo uscita fuori, seppur con fatica, dai lunghi anni di difficile lutto per la morte della figlia. Ed è ancora pienamente convinta del suo ruolo americano e del suo rapporto con William (avendolo sposato, ha anche la doppia cittadinanza).

Isabel non è più tornata stabilmente in Cile, che, dalle ferite della dittatura, è risorto, ma è diventato altro dal “suo” Cile. Così che, ad un certo punto afferma  “Da quando attraversai le Ande ho cominciato inconsapevolmente a inventarmi un paese.” Ed è di questo paese inventato questo Cile solo suo che qui ci narra. Che potrebbe avere confluenze con il Cile reale, forse vere, forse soltanto casuali. Anche se, come riflette lei stessa a valle di incontri per parlare di letteratura, è un Cile velato di nostalgia. Nostalgia che secondo il dizionario è “la tristezza di trovarsi lontano dalla propria terra, la malinconia causata dal ricordo di una gioia perduta”. E che, di riflesso, potrebbe essere la cifra di tutta la sua opera letteraria.

Finisco con due sole notazioni. In esilio in Venezuela, riceve la notizia della malattia forse mortale del tanto amato nonno. Comincia allora a scrivergli una lettera, l’8 gennaio 1981. Una lettera che si gonfia a poco a poco fino a diventare il suo primo libro. Per questo motivo scaramantico, da allora, Isabel inizia a scrivere i suoi libri sempre l’8 di gennaio.

Guardando poi nel futuro, una dozzina di anni dopo questo libro, anche il rapporto con William si esaurisce. Lei rimane nella casa californiana, e poco tempo dopo conosce un avvocato newyorchese, Roger Cukras, che per amore di Isabel si trasferisce in California. E sempre per amore, i due si sposano.

Non è un libro che mi ha attratto come altre scritture di Isabel, ma è un libro necessario per capire un certo suo modo di essere (ho volutamente sorvolato e/o ignorato le descrizioni ed i giudizi sui cileni, che vedrò di riprendere e commentare quando finalmente sarò riuscito ad andare in Cile).

“Se si vive abbastanza a lungo e si guarda al passato, ci si rende conto che non si è fatto altro che girare in tondo.” (173)

A contraltare di una letteratura pura, prendiamo qualche citazioni da giallisti puri, sparsi per il mondo. C’è il fiammingo Pieter Aspe che in “Caos a Bruges” mi dà la ricetta della mia vita (magari): “Alcuni hanno un fisico perfetto, altri si devono accontentare del cervello.” (24)

C’è l’italiano Alex B. Di Giacomo (pseudonimo nei gialli di Alessio Billi) che in “Punto di rottura” stigmatizza in due righe il comportamento degli uomini: “La formazione dei sentimenti è più banale di quello che si crede. Un bel giorno la memoria cancella spietate pene come il segno del gesso da una lavagna, e si comincia a pensare a un’altra.” (171)

Infine, il sino-americano Qiu Xiaolong  che ne “La misteriosa morte della compagna Guan” ci dà consigli, ed una frase che mi ritrae in pieno: “Come può riconoscermi da una foto del liceo? … La mia lingua non è mutata, ma i miei capelli sono diventati grigi.” (11)

“Decise di tornare a casa a piedi. A volte riusciva a pensare meglio mentre camminava.” (127)

“Dopotutto un uomo è solamente quello che decide di fare o di non fare.” (246)

Non tutte le settimane hanno sempre cose da ricordare, pubbliche o private. Per casualità degli scritti, fu proprio in questa settimana, cinquantacinque anni fa, che venne eletto Presidente del Cile lo zio di Isabel, Salvador Allende. Noi invece si continua il periodo di riposo, letture e progettazioni. Tutte piccole cose personali che condivido abbracciandovi.

domenica 19 ottobre 2025

Il nero viene dal Giappone - 19 ottobre 2025

Una trama gialla, anche questa settimana, in cui si mettono a confronto diverse provenienze di nero. Ebbene, domina e di gran lunga, il nero giapponese di Masako Togawa, pur con delle incomprensioni che potrete leggere nel testo. Al secondo posto, anche se ben da lontano, il nero spagnolo di Domingo Villar, premiato soprattutto per il recupero del gallego nella scrittura e nella vita. Chiudono, ben lontani, sia Pierre Lemaitre, che preferisco quando parla di noir piuttosto che quando ne scrive, sia gli inglesi, questa volta ben lontani. M.C. Beaton con il serial di Agatha Raisin e S. J. Bennett con una fiction che coinvolge la regina come motore primo delle indagini.

Pierre Lemaitre “Il serpente maiuscolo” Repubblica Essenza Noir 4 euro 8,90

[A: 15/07/2022 – I: 27/06/2025 – T: 29/06/2025] - &&  

[tit. or.: Le serpent majuscule; ling. or.: francese; pagine: 252; anno 2021]

Confesso di avere un sentimento ambivalente verso il valente scrittore francese. Ho letto alcuni suoi noir, e devo dire che il mio giudizio va dal sufficiente all’inutile. Poi ho letto il bellissimo Dizionario per gli amanti del giallo. Che ritengo una delle cose più interessanti e coinvolgenti che abbia letto dedicate a questo genere letterario. Ovviamente un po’ francofono centrico, ma ci può stare.

Tornando quindi ai romanzi, mi trovò a leggere questo libro che un po’ ne è la summa. È il primo libro scritto da Lemaitre nel lontano 1985, ma che poi l’autore tiene nel cassetto per decenni. Contiene in embrione una serie di temi che l’autore svolgerà ed approfondirà nei romanzi successivi. Poi trentacinque anni dopo la prima stesura, lo riprende in mano e decide di pubblicarlo, praticamente senza cambiare una virgola, e con una precisazione inziale importante: nelle intenzioni di Lemaitre c’è di dedicarsi ad altri tipi di scrittura, per cui queto chiude un ciclo, potendo essere il primo libro (scritto) e l’ultimo libro (pubblicato).

In ogni caso, e magari ci troneremo in finale, pur essendo in accordo con l’autore che non ha senso modificare lo scritto, avrei forse fatto dei piccoli aggiustamenti al fine di evitare incongruenze e salti di informazione. Non avrei certo modificato ad esempio il modo di comunicare tra i personaggi misteriosi, tramite messaggi lasciati in cabine telefoniche (visto che allora non c’erano ancora cellulari che hanno sconvolto non solo la scrittura, ma anche la nostra vita).

Il dato forte che emerge da questo primo scritto è anche il tentativo (spesso devo dire riuscito) di fare ironia da parte dell’autore. Non ci si presenta una trama lineare, non ci vengono mostrati personaggi da amare e/o da odiare. Una scelta che, se non ben dosata, a volte è un limite dello scritto, e qui, devo dire, lo è. Non solo non riusciamo ad “amare” o a identificarci con qualche personaggio. Ma quando sembra che abbiamo un movente per ritenere nostro sodale qualcuno, ecco che questo o muore o fa delle cose così strane e riprovevoli, che esce fuori subito dal radar della nostra benevolenza.

Il nodo centrale della trama è seguire le (dis)avventure di sicari professionisti, delle loro vittime e dei poliziotti che stanno dando loro la caccia. Purtroppo, però, il secondo corno del trittico sopra esposto è quello meno sviluppato. Chi è Quentin, il primo morto ammazzato? Chi è Brigitte la porno-studentessa anche lei uccisa e che forse ha dei legami con Quentin? Di sicuro, almeno sembra, perché vengono uccisi dalla stessa persona. Ma non è detto.

A parte alcuni sicari collaterali, il sicario principe è quantomeno una persona insospettabile: Mathilde, sessantenne sovrappeso, amante dei cani ed un filino distratta. Anche se Mathilde viene da una scuola invidiabile: eroina della resistenza durante la Seconda Guerra mondiale (allora ventenne), invidiabile dura nel punire, con tortura e morte, i prigionieri tedeschi. Alla fine della guerra, si ritira in buon ordine, si sposa, ha un’esistenza “normale”, e mette al mondo anche una figlia. Ma ad un certo punto, Henri, il suo responsabile dei giorni di guerra, le chiede una missione delicata. E lei accetta.

Da questo punto sviluppa una doppia vita, senza che mai nessuna ne sospetti qualcosa. Ad un certo punto, il marito muore (e Lemaitre lascia intravedere la possibilità che non sia una morte del tutto naturale). Lei vorrebbe che Henri si dichiarasse, cosa che non succede. Allora si dedica a queste saltuarie missioni. Ben remunerate e tutte di successo. Peccato che ora, dopo i sessanta, cominci a perdere colpi.

A volte usa più pallottole del necessario (perché sparare anche al basso ventre, quando la prima pallottola aveva già compiuto il suo dovere?), a volte uccide più del necessario (perché uccidere anche il povero bassotto?). Poi si dimentica di disfarsi delle pistole. Cioè, va in riva alla Senna, ma poi torna a casa e mette le pistole in vari cassetti, tutte ben oliate e pronte all’uso. Si dimentica anche chi le ordina cosa, tanto che trovando il nome su di un foglio, uccide la persona senza chiedersi (o senza ricordarsi) chi sia la persona, e perché il nome è su di un foglio, vista la segretezza che circonda le missioni che Henri le affida.

Henri si accorge delle defaillance di Mathilde, ed è di fronte ad un bivio: ucciderla per salvare “l’azienda” o fuggire insieme a lei. Prova tutte e due le strade, anche se Mathilde, pur distratta, è sempre un passo avanti. Portando tutta la seconda parte del libro ad un livello splatter che forse farebbe piacere al mio amico Bissa (o almeno al Bissa giovane).

Unico baluardo che sembra possa fermare Mathilde è l’ispettore René Vassiliev. Intanto, lo straniamento è dato da quel cognome da immigrato russo. Poi anche dalla storia personale di Renè. Famiglia presto disgregata, solo una specie di patrigno che lo accudisce, che ora, peccato, sia realmente in via di Alzheimer, anche se con punte di coscienza. Anziano che viene accudito dalla bella cambogiana Tany, di cui Renè sembra innamorarsi. Renè che è l’unico a capire la possibile pista Mathilde. Tra qui pro quo, ed altre ironiche avventure, di questi quattro personaggi, uno solo arriverà alla fine, con buona pace di chi, via via, si innamora di questa o di quella persona.

Quindi, a parte i dubbi su perché vengano uccise le persone dai sicari, rimangono altri punti in sospeso. Per alcune pagine comare il figlio abbondonato da una ragazza madre, prima drogata, poi uscita dal tunnel. E poi, in concomitanza con eventi insondabili, di questo ragazzo non si sente più parlare. Altro mistero è chi ha decapitato il povero Ludo, il simpatico dalmata di Mathilde. Insomma, ci sono incongruenze, e non viene seguito minimamente l’elenco di regole imposte al genere fin dagli anni ’20 da S. S. Van Dine.

Quindi, certo, alcune riflessioni sulla vecchiaia (ma ormai spesso i libri di quasi tutti gli scrittori, soprattutto nel post-Covid, parlano di fine vita), alcune ironie sulla casualità della vita, ma niente di realmente coinvolgente ed appagante. Un bel compitino “giovanile” che forse la maturità ottenuta avrebbe consentito di rendere più efficace e meno filologico.

Masako Togawa “Residenza per signore sole” Repubblica Giappone 17 euro 8,90

[A: 19/01/2025 – I: 15/07/2025 – T: 16/07/2025] - &&&&

[tit. or.: 大いなる幻影, Ōi Naru Genei; ling. or.: giapponese; pagine: 175; anno 1962]

Un libro ed una lettura piena di piccole incomprensione, ma riscattate, alla fine, da un risultato superiore alle aspettative.

Essendo uno dei libri della collana di Repubblica dedicata al “Giappone d’autore”, l’avevo inserito nelle letture “romanzesche”. In realtà, come ho poi scoperto anche documentandomi, e leggendone, è un giallo molto interessante, uscito dalla penna di Masako Togawa, anch’essa una persona molto particolare.

Masako, infatti, nasce nel ’31, perde il padre in guerra e, per ristrettezze economiche, va a vivere con la madre in una residenza come questa del libro, dove vivono solo donne. Intorno ai 25 anni, notata da un critico musicale durante un coro, viene ingaggiata come cantante in un locale di Tokyo. Nelle pause tra le esibizioni, nel suo camerino, comincia a scrivere storie legate alla casa dove vive. Storie che poi cuce in questo libro che, uscito lei trentenne, ha subito un grande successo, tanto che vince il più prestigioso premio per libri polizieschi giapponese, il Premio Edogawa Rampo.

Dagli anni ’60 in poi acquista notevole popolarità. Scrive (alla fine più di cento romanzi), canta, apre un locale a Tokyo che andrà avanti sino al 2010, e che diventa punto di riferimento della comunità LGBT. Ha almeno sette figli da diversi compagni, anche se non risulta mai sposata. Negli anni ’70, si esibisce anche come attrice in film e serie televisive tratte dai suoi romanzi. Muore di cancro a 85 anni nel 2016.

Altra confusione riguarda le date, che viene detto nelle bibliografie italiane, essere un libro del 2022. Invece è uscito, come detto sopra, ben sessanta anni prima. Un errore benefico, perché altrimenti avrei posticipato la lettura ad altre epoche.

L’ultimo errore “tecnico” della lettura, ma non imputabile a me, è il titolo. Che il titolo originale, tradotto, recita “La Grande Illusione”. Anche il successo inglese è attraverso un titolo cambiato, che lì intitolano “La Chiave Universale”. Nella pubblicazione italiana, esce fuori questo titolo, collegato all’ambiente in cui si svolge l’azione, che fa pensare ad uno dei tanti libri di “benessere” che il Giappone sta sfornando negli ultimi anni.

Il meccanismo narrativo risente molto della tradizione giapponese, sia per l’ambientazione che per i modi espressivi. Tutto si svolge in un condominio femminile, dove vivono alcune signore attempate “dai destini incrociati”, come direbbe Calvino. Quella delle residenze a basso costo per persone di limitate possibilità economiche è stata a lungo, nel dopoguerra dopo la grande sconfitta, un modo per poter sopravvivere proprio di donne che avevano solo pensioni basse o impieghi a basso reddito. Un luogo con delle custodi che controllano l’ingresso, dove gli uomini sono tollerati solo per visite diurne, essendo ben schedati all’entrata.

Oltre alle due custodi indolenti (Tōjō e Tamura), vediamo scorrere nelle varie stanze della residenza la vita di diverse donne. Kimura, un’ex insegnante che passa il suo tempo a scrivere una lettera al giorno a ciascuno dei suoi studenti. Yatabe, una violinista dotata violinista, che è stata costretta, in gioventù, a interrompere una brillante carriera a causa della paralisi a un dito. Muneka, vedova di uno scienziato che sta cercando disperatamente di portare a termine e di far pubblicare il lavoro del marito. Ueda, un’insegnante di disegno di una scuola elementare che non esce mai dalla stanza. Ishyama, una stramba inquilina che vive dell’assistenza pubblica, di furti e di piccoli stratagemmi. Santō, donna misteriosa e forse un po’ pazza che non si vede quasi mai. Iyoda, seguace della una setta esoterica “Culto dei tre spiriti”.

Oltre a questo nucleo di personaggi dislocati ai vari piani della residenza, ed in qualche modo legati alle vicende di un passe-partout che apre tutte le porte, e che passa di mano in mano, Masako utilizza una scrittura variata e coinvolgente. Alternarsi di prima e terza persona, articoli, lettere, confessioni, salti temporali. Tutte descrizioni che seguiamo accorgendoci ad un certo punto che i narratori sono inaffidabili, che ci portano verso finali cui crediamo, ma che saranno sempre sbagliati e superati dal vero finale, che sarà un bel riavvolgimento di tutti i discorsi.

La trama inizia nel ’51, quando Ueda ed un tizio misterioso seppelliscono in giardino una valigia con un bambino morto, sicuri di essere soli, ma non lo sono. Poi, dato che nella residenza non possono entrare uomini, il tizio esce vestito da donna ed un furgone lo travolge e muore. Nessuno ne sa più nulla, e Ueda comincia ad aspettare. Contemporaneamente, sui giornali compare la notizia del rapimento di un bambino figlio di un americano ed una giapponese (i figli della guerra). Bambino che scompare e di cui si perdono le tracce.

Otto anni dopo, nel residence, Ueda aspetta sempre. Ishyama ruba un violino prezioso a Yatabe (addirittura un “Guarnieri del Gesù”, cosa improbabile che ce ne sono 50 al mondo, ognuno dal valore di svariati milioni di dollari), violino che Yatabe aveva rubato al suo maestro francese quando questi, dopo aver fatto l’amore con lei, la lascia miseramente. Poi le vicende si accavallano: qualcuno scopre che Masako, affetta da demenza senile, riempie fogli di simboli inutili; altri, pensando che Ishyama abbia qualcosa nascosto, da fuoco alla stanza, provocandone quasi la morte.

Intanto Kimura, scrivendo, scrivendo, manda una lettera a Keiko, una sua alunna, che altri non è che la madre del bimbo rapito. Le due si incontrano, si comprendono e Kimura comincia ad indagare sospettando di Ueda. Il tutto complicato dal fatto che la residenza verrà spostata, e di certo uscirà fuori la tomba dell’inizio. Ed ancora più complicato dalla setta di Iyoda che sembra sapere molte cose più del normale, a meno che non sia vero che sia in contatto con i demoni dell’aldilà.

Come detto, alla fine un gran colpo di genio collegherà tutti i fili, per cui capisco i motivi che lo abbiano reso uno dei capofila della letteratura poliziesca giapponese. Laddove unisce un certo gusto occidentale, con una modalità tipicamente giapponese della narrazione, mutuata fin dagli anni Venti da quel capolavoro narrativo e poi cinematografico di Rashōmon.

Certo, un libro datato, ma riscattato da una bella trama, da una bella scrittura e da un visione non occidentale delle vicende giapponesi, dove sempre più si capisce il motivo della solitudine personale e dell’incomunicabilità delle persone che non sanno esternare i propri sentimenti.

“Perché nei libri c’è tutta la vita umana: amore, desiderio, successo e sconfitta, dolore e morte” (163)

M. C. Beaton “Amore, bugie e liquori” Repubblica Noir 42 euro 8,90

[A: 10/04/2022 – I: 16/07/2025 – T: 18/07/2025] - &&  

[tit. or.: Agatha Raisin, Love, Lies and Liquors; ling. or.: inglese; pagine: 249; anno 2006]

Non posso dire né di essere un appassionato sostenitore della scrittura di Marion C. Beaton né di ritenere la sua creazione seriale più longeva, cioè le avventure di Agatha Raisin, uno dei pilastri del giallo moderno. Quando e se capita, ne leggo con occhio distratto, tanto per avere del tempo di relax prima di affrontare più impegnative letture.

Sulle storie di Agatha Raisin, poi, devo segnalare che, a partire dal ’92 sino al 2019 (anno della morte della scrittrice), Marion (questo il significato della M.) ha scritto trenta episodi della serie. Lessi e tramai tempo fa il primo episodio, che risultò gradevole seppur non eccelso. Qui, saltiamo addirittura al diciassettesimo episodio, anche se devo ribadire il giudizio iniziale. Scorrevole lettura, qualche spunto, e qualche lungaggine, per una trama gialla che non sempre avvince.

Intanto cominciamo con le solite lamentele su questa edizione per i tipi di Repubblica. Per quale motivo si decide di far sparire dal titolo l’indicazione che si tratta di un episodio delle avventure di Agatha Raisin? La seconda osservazione riguarda più in generale il titolo di tutte le edizioni italiane. L’inglese giocava sulla tripla “L” delle parole. Tradotte così letteralmente, il gioco si perde. Magari si poteva sfruttare qualche sinonimo, tipo “Agatha Raisin AMA (amori, menzogne e alcolici)”.

Per chi non conoscesse la serie Raisin, ne faccio un breve sunto. Agatha viene da una famiglia proletaria, ma con lo studio e l’applicazione, prima diventa segretaria, poi si occupa di pubbliche relazioni con una sua società. Accumulato un piccolo capitale, liquida tutto, si accontenta di una pensione onorevole seppur non eccelsa, e si trasferisce in una fittizia cittadina del Cotswolds (che possiamo immaginare tra Cardiff, Gloucester e Bristol).

Ha 53 anni, abbastanza intraprendente, e fin dalla prima avventura, che narra del suo trasferimento sulla costa, viene coinvolta in inchieste criminali. Che lei, quasi una novella Miss Marple, risolve brillantemente (spesso con un suo coinvolgimento in prima persona). Nel corso del tempo si crea una piccola ma solida cerchia di amici. Il detective della polizia Bill Wong, l’avaro Sir Charles Fraith, con cui ha qualche passaggio intimo discontinuo, la sua più stretta conoscente, Mrs. Margaret Bloxby, moglie del pastore locale, e James Lacey, un vicino con cui ha molte ed intricate storie.

Dopo molto investigare per diletto, dall’episodio 15 (“Agatha Raisin e il ballo mortale”) mette in piedi una sua agenzia investigativa, che la seguirà sino all’ultima puntata. Inoltre, nell’episodio 16 (“Agatha Raisin e il modello di virtù”) prima si sposa con Lacey, poi, constatata l’inconsistenza di James, divorzia, pur se il tizio (a me mai stato simpatico) rimane nel suo cuore.

Quest’episodio comincia con un tentativo di riconciliazione con James, che la invita in una vacanza. Agatha spera in qualcosa nel sud della Francia, mentre James la porta nel Sussex, in un posto dove aveva trascorso anni della sua infanzia (un po’ il suo Tortoreto, se i miei parenti capiscono). Il luogo è però decaduto, alberghi in rovina, ristoranti dai cibi scadenti, e frequentato da persone volgari come la signora Jankers.

Quando poi la tipa viene trovata strangolata con la sciarpa di Agatha, si verificano due fatti: lei è costretta a rimanere sul posto, per scagionarsi (e quindi per cominciare ad indagare) e James pensa bene di lasciarla sola. Io, a questo punto, lo avrei mandato a quel paese, cosa che Agatha sembra fare solo alla fine del libro (sembra, che l’autrice lascia qualche dubbio).

Quello che non è in dubbio è il fatto che Agatha si trova ad indagare su tutta la famiglia Jankers. Geraldine (la signora) è al terzo o quarto matrimonio, con i precedenti mariti abbastanza malmessi (o morti o in prigione). Qui è in viaggio di nozze con Fred, che sembra un patetico pesce fuor d’acqua. Poi c’è il figlio Wayne con la volgare moglie Chelsea. E per finire, gli amici di famiglia Cyril Hammond con la moglie Dawn.

Il tessuto generale della trama si barcamena tra le vicende private di Agatha (con James che va e viene ma è meglio che vada, e sir Charles che lo sostituisce nei pensieri e nel letto, ma senza molto futuro) e le indagini. Qui, da un lato viene coinvolta tutta l’agenzia di Agatha, ed in particolare il giovane Harry che troverà il modo, alla fine, di incastrare chi di dovere. Dall’altro si susseguono morti ed agnizioni, nel puro spirito di un giallo a metà tra mystery e cozy crimes.

Ovvio che alla fine tutto si restringerà nel capire chi sia stata in realtà Geraldine, che ruolo hanno avuto tutti i suoi mariti (compreso il presente) ed anche il legame di amicizia (reale? Imposta?) con il (ma lo scopriremo solo più tardi) manesco Cyril.

Agatha avrà presto tutte le carte in mano per comprendere chi ha fatto cosa, ma senza, appunto, una fulminante idea di Harry, non sarebbe riuscita a risolvere il caso.

Quello che a me ha più interessato, tuttavia, visto che il giallo è molto “labile”, sono le descrizioni della vita inglese di provincia, i tristi ristoranti, i pub non sempre di buona frequentazione, la pioggia, ed altre “inglesitudini” che rendono sopportabile la lettura di un giallo di buona ma non eccelsa fattura.

“Agatha rimpiangeva l’epoca in cui nei caffè si serviva il caffè americano filtrato. Ormai non si beveva altro che caffè espresso.” (62) [magari…]

“Gli uomini amano sempre pensare che ci sarà una donna a prendersi cura di loro quando saranno un po’ senili e rimbambiti.” (195)

S. J. Bennett “Il nodo Windsor” Repubblica Anima Noir 14 euro 8,90

[A: 02/11/2021 – I: 09/09/2025 – T: 10/09/2025] - && e ½   

[tit. or.: The Windsor Knot; ling. or.: inglese; pagine: 313; anno 2020]

Un altro libro nel solco del coinvolgimento di persone famose in indagini e gialli di vario tipo. La risposta è dubitativa. Certo, il personaggio principale è famoso, noto, quindi riconoscibile. Ma la sua natura non viene stravolta, come in altri gialli similari (penso alle indagini di Dante Alighieri ad esempio). Abbiamo una brava scrittrice inglese, Sophia Bennett (che si firma S.J. e non sono riuscito a sapere perché “J.”) che ben conosce la vita reale inglese e che imbastisce un credibile giallo con al centro la regina Elisabetta.

Credibile perché non vedremo “Lilibet” andare in giro ad interrogare i sospetti ed altre investigazioni di bassa forza, ma utilizzare la sua arguzia (ed anche il suo humor) per muovere le rotelle dell’indagine. Credibile anche nell’ambientazione generale: il castello di Windsor, la pletora di paggi e paggetti, gli aiutanti della Regina, il principe consorte Filippo, la sua irruenza e le sue battute (sempre ai limiti delle gaffe), i corgi Windsor Pembroke reali, nonché i cavalli e le gare a loro riservate.

Poiché questo è il contorno, lo abbiamo indicato, e possiamo passare oltre. C’è una serata di gala nel castello di Windsor, dedicata ad una qualche iniziativa benefica dell’allora principe Carlo (che in qualche modo coinvolgeva iniziative filantropiche russe). Così che si assiste ad una festa ad inviti che vede presenti il magnate russo Yuri Pejrovski con la giovane moglie Masha, un loro carissimo amico (bello e bravo pianista e ballerino) Maksim Brodskij, Meredith Gostelow famosa architetta inglese che lavora soprattutto a San Pietroburgo, l’arcivescovo di Canterbury, Sir David Attenborough, un ex governatore russo e altri dignitari di corte.

Poiché Windsor è spesso ambito per la sua segretezza, in altra parte del castello si riunivano Sir Peter, addetto reale a grandi manovre economiche ed una squadra di giovani ed emergenti promesse per studiare gli effetti economici di una nuova possibile “via della seta” cinese in versione tecnologica. Dimenticavo, siamo nel 2016, avviandoci verso il novantesimo compleanno della Sovrana (che sarà il 21 aprile), Filippo ha da poco compiuto 95 anni. E siamo prima dell’estate, visto che con in un accenno si dice che entro poco tempo cominceranno le olimpiadi a Rio de Janeiro.

La mattina si scopre il corpo di Maksim tentativamente agghindato come in un eccesso di autoerotismo, ma da subito capiamo che è stato un omicidio. In effetti, Elisabetta lo capisce subito, ed aiutata dalla sua assistente, l’avvenente nigeriana Rozie Oshodi comincia le sue indagini. Qui abbiamo i tocchi ironici tipici del “cozy crime”, con i Servizi Segreti che puntano subito alla pista del complotto ordito da Putin (si tratta in ogni caso della morte di un russo, che pare avesse un blog antiputiniano). E da qui, per tutto il romanzo, ci sarà un duello di fioretto e sciabola tra MI5 e la Regina, dove Elisabetta vincerà sempre, ma farà sempre in modo da nascondersi dietro qualcosa. Rozie, un agente segreto in pensione o altro.

Comunque, poi si scopre che una signorina che faceva parte (o avrebbe dovuto far parte) della riunione “cinese” muore anche lei. E muore una seconda ragazza che aveva conosciuto Maksim all’Università e che pare facesse l’escort o qualcosa di simile, avendo sempre molti soldi a disposizione di dubbia provenienza.

Il punto debole della trama è purtroppo l’accumularsi di nomi e di intrighi, per cui non si segue con facilità l’andamento lineare delle indagini. Maksim sembra a volte un gigolò, poi un semplice tombeur de femme, con un indubbio fascino. La prima signorina, oltre a sapere il cinese per il suo lavoro di economista, non sembra avere altri appeal. Come anche la seconda, anche lei fluente in mandarino per un lungo passato in giovinezza ad Hong Kong (ma data l’età, in una città già cinesizzata).

Vedremo all’opera la nostra Rozie, sotto la sapiente guida reale, ma anche con indubbie capacità proprie: laureata in economia con tre anni all’accademia di Sandhurst nell’Artiglieria reale. Saprà Rozie muoversi con discrezione ed efficacia, saprà unire i puntini che le fornisce la Regina, e saprà restituire alla stessa le informazioni che permetteranno ad Elisabetta di avere il quadro della situazione e degli avvenimenti, per decidere come muoversi al fine di circoscrivere gli eventuali danni di immagine e fornire all’MI5 i dati necessari alla chiusura delle indagini.

Per i meno addentro alla moda, il titolo è ben significativo. Infatti, non si riferisce meramente a Windsor inteso come castello, ma al nodo che porta il suo nome, universalmente noto come “nodo Scappino”, uno dei modi classici di annodare le cravatte (tra l’altro l’unico che ho sempre usato io). Ed è anche il nodo con cui veniva legato il giovane Maksim nella messa in scena del finto suicidio. Una volta tanto che il titolo è coerente con il testo, e con il suo mantenimento anche in italiano.

Ultima annotazione ironico-personale. Viene citata come prima dama di compagnia ed aiutante della Regina tal Mary Pargeter (pagina 127), che non so se sia esistita, ma il nome è il vero nome della scrittrice Ellis Peters, scrittrice di gialli imperniati sulla figura di un frate medioevale, fratello Cadfael, di cui scrisse 21 romanzi, di cui ho la collezione completa.

Per finire con la scrittrice, come dicevo, ben l’ambiente e l’uso dei reali non in modo da stravolgerne il modo di vivere, bene anche l’ironia (e le frecciate a Putin nel 2020 sono un balsamo lette ora cinque anni e molta guerra dopo). Un po’ troppo complicata la trama, per un giudizio giustamente sufficiente.

Domingo Villar “Occhi d’acqua” Repubblica Profondo Noir 31 euro 8,90

[A: 26/01/2024 – I: 05/10/2025 – T: 07/10/2025] - &&& --  

[tit. or.: Ojos de agua; ling. or.: spagnolo; pagine: 205; anno 2006]

Domingo Villar è stato un interessante esponente della letteratura regionale spagnola. Poiché, come tutti sanno, gli spagnoli sono adusi certo a scrivere in castigliano, la lingua “ufficiale”. Ma non disdegnano esprimersi anche nelle lingue “locali”: catalano a Barcellona, il gallego a Santiago de Compostela o il basco a Bilbao (ho volutamente citato i centri delle varie lingue, che altrimenti si apriva un dibattito senza fine).

Qui siamo in una scrittura gallega o galiziana, che l’autore stesso poi tradusse in castigliano per la pubblicazione dentro e fuori la Spagna. Tant’è che il titolo originale era “Ollos de auga”, diventato poi in castigliano “Ojos de agua” ed in italiano “Occhi d’acqua”. Per fortuna, una volta tanto, mantenendo anche l’originale, anche perché fanno riferimento ai bellissimi occhi color dell’acqua di mare del morto al centro delle indagini.

Dicevo Domingo era perché purtroppo nel 2022, a soli 51 anni, stroncato da un ictus. Un galiziano puro, nato e morto a Vigo, sulle rive dell’Oceano, anche se normalmente viveva ormai a Madrid, lavorando come commentatore radio-televisivo di letteratura, gastronomia e calcio. Anche se non disdegnava cimentarsi in teatro e sceneggiatura. Ma per la narrativa era noto come autore della trilogia con protagonista l’ispettore Leo Caldas, di cui questo è il primo episodio.

E sono contento di averne letto, e di averne letto dal principio, che qui vediamo ed apprezziamo la nascita di un personaggio e di uno stile di scrittura. Cominciando dal secondo, l’elemento peculiare dello scritto è l’aver battezzato ogni capitolo con una parola, e di averne dato poi una definizione basata sul dizionario spagnolo della Real Academia de España. Sono parole che introducono una sorta di riassunto del capitolo stesso, anche se a volte, invece che esplicatrici possono condurre verso l’inganno. Comunque un vezzo che mi riporta alla memoria alcuni momenti topici di un altro grande investigatore aduso a cercare conforto ai propri pensieri nelle pagine di un dizionario, Kostas Charitos di Petros Markaris.

Ma qui, nonostante il caldo (l’azione di svolge a maggio), siamo appunto a Vigo, sulle rive oceaniche. Una città che non conosco ma che l’autore ci fa vivere nelle strade, nei locali, nel porto, e nell’entroterra, tanto che viene subito voglia di andarla a visitare. Vigo è l’altro personaggio principale degli scritti di Villar, con la sua presenza morfologica, ma anche con le caratteristiche degli abitanti e soprattutto, dato il retroterra culturale di Villar, con le specialità gastronomiche ed i piccoli locali che ne servono. Come dimenticare il “polbo á feira”, cioè il “polipo alla galiziana” che noi spacciamo ignominiosamente come insalata di polpo. Andate in Spagna e vedete la differenza. Senza dimenticare i vini (e cito solo l’Albariño, un bianco locale DOC).

Detto tutto il contesto, veniamo intanto al protagonista della vicenda ed al suo dottor Watson. Il motore principe è l’ispettore di polizia Leo Caldas. Non sappiamo molto di lui, per ora. Forse ha avuto una storia con una certa Alba, ma ora pare “soltero”. Riflessivo e deduttivo, arrivando a convinzioni forti parte lancia in resta, anche se è capace di cambiar rotta nel caso capisco l’errore. Ad aiutarlo nelle indagini c’è l’agente Rafael Estévez, mandato a Vigo per punizione dalla natia Saragozza. In effetti, Rafa è rissoso, polemico, sempre fuori luogo e fuori misura. Uno dei momenti di feroce e riuscita ironia di Villar è la descrizione di un interrogatorio tra l’impaziente agente ed un galiziano, rilassato e molto tipico.

I nostri vengono coinvolti nelle indagini per la morte assai atroce di Lois Reigosa, un sassofonista con poco chiari introiti, visto che vive in un lussuoso appartamento ed anche sopra le righe. La morte si acclara essere dovuta ad un’iniezione nelle parti basse di formalina, un composto che conosciamo come conservante, ma che, in certe dosi, può servire ad assorbire l’acqua dai tessuti. E non vi dico cosa possa provocare in una zona corporea con pochissime ossa.

Con facili indagini, Leo scopre che Lois era gay, ma pacifico e senza troppi fronzoli. Ma scopre anche che la formalina ha un suo tracciabile mercato, che lo porta velocemente nel mondo ospedaliero. Per farla breve, Leo scopre un amante di Lois, che tuttavia è l’insospettabile capo della potenza economica della famiglia Zurigana, Dimas. E scopre anche che Dimas è sposato da venti anni con la bella Mercedes, ma anche che viene ricattato per il suo rapporto con Lois da uno spregiudicato DJ, Orestes. Quando Leo cerca di unire i puntini, anche Orestes viene ucciso, con tutti gli indizi, e le prove (comprese impronte digitali varie) che puntano in direzione di Dimas.

Ma sarà veramente così? Ovvio che sembra tutto troppo facile e troppo facilmente scoperto, e noi giallisti smaliziati, ci aspettiamo di trovare qualche interessante sorpresa nel finale. Cosa che puntualmente avverrà.

La calma scrittura di Villar, navigando tra le varie pieghe del giallo, tocca comunque alcuni elementi di interesse e di riflessione. Pensieri sulla diversità soprattutto nella visita molto ben descritta ai locali gay, o ai sentimenti di inadeguatezza che pervadono alcuni atteggiamenti di Dimas, non disgiunti, sia in lui che in Mercedes che in altri personaggi, da un attaccamento ai beni materiali (soldi e potere in primis).

Dicevo prima delle conoscenze giallistiche dell’autore, esplicitate in citazioni varie di libri (anche Lois è un appassionato di gialli), di cui voglio ricordare solo, per il piacere che fa una divagazione oltre confine, la citazione, a pagina 32, de “Il cane di terracotta” di Camilleri.

Insomma, una buona lettura, ed un piccolo rimpianto nel non aver incontrato prima Villar.

“L’ignorante afferma, mentre il saggio dubita e il sapiente riflette.” (57)

Questa settimana, più che contrappasso, mettiamo proprio un solco tra trama e citazioni. Perché recuperiamo tre frasi del grande André Gide e due pensieri dal sopravalutato Federico Moccia.

Del primo, ci rivolgiamo a “L'immoralista”:

“Presto capii che le cose ritenute peggiori (la menzogna, per non dire di altre) sono difficili da fare quando non le si è mai fatte; ma presto diventano tutte agevoli, gradite, facili da fare, e, in seguito, del tutto naturali.” (61)

“Le opere migliori dell’uomo nascono immancabilmente dal dolore. Che cos’è il racconto della felicità? Solamente ciò che la prepara o ciò che la distrugge, si può raccontare.” (70)

“Non ero mai stato un buon conversatore… In compagnia degli altri mi sentivo monotono, triste, fastidioso, annoiavo gli altri ed ero annoiato io stesso. (90)

Il secondo invece lo prendiamo da un racconto pubblicato dal Corriere della Sera “La bugia”. La prima è una lunga frase che sottoscriverei solo eliminando dopo poche battute quel “quasi sperduti”: “è sempre affascinante trovarsi da soli, quasi sperduti, in una città che non è la nostra, in mezzo a persone che non conosciamo assolutamente e che provengono da varie parti del mondo, e sentirsi a proprio agio.” (24, io mi sento sempre a mio agio in quell’altrove).

La seconda è una “catalanata” imperdibile: “Avere coraggio significa avere paura, perché senza paura non c’è coraggio.” (46)

Oggi sarebbe il compleanno di mia madre, che purtroppo ci ha lasciato or son otto anni. Eppure, come ognuno sa, il sentimento di presenza verso i genitori rimane. Dopo un giorno, dopo un mese, ma anche dopo cinque, dieci anni o più. Per cui termino questa trama ottobrina con un pensiero caro a tutte le persone che hanno subito lutti nella vita. Li porteremo sempre nella testa, ed i più fortunati anche nel cuore. Per cui dolentemente ma con un sorriso di futuro vi saluto con un grande abbraccio.

domenica 12 ottobre 2025

Oxford è meglio - 12 ottobre 2025

Una trama gialla, questa settimana, dominata dalla scoperta di un nuovo giallista inglese, anzi oxfordiano. Simon Mason si presenta con due episodi dei suoi Wilkins, Ray e Ryan, coppia di poliziotti molto eterogenea. Ray nero, sposato e laureato. Ryan bianco, padre single e molto “outfit”. Un mix che l’autore gestisce egregiamente. Poi Florencia Etcheves un ricordo argentino con un difficile noir, quasi un docu-noir come capirete leggendo, una spruzzata d’Islanda con il recupero di un Indridason d’annata, iniziando con un Connelly senza Bosch (ed un po’ dispiace).

Michael Connelly “La morte è il mio mestiere” Pickwick euro 10,90

[A: 20/07/2021– I: 28/03/2025 – T: 30/03/2025] - && e ½    

[tit. or.: Fair Warning; ling. or.: inglese; pagine: 359; anno 2020]

JM6; RW8

Michael Connelly non è certamente stufo della sua (e nostra) creatura prediletta (il grande Bosch), ma ogni tanto rifiata, cerca strade laterali, che uno scrittore di best seller deve avere la possibilità di diversificare la sua opera. Anche quando il suo personaggio non mostra segni di defaillance. Ma l’insuccesso è sempre alle porte, e Connelly sa che si deve parare.

Infatti, ad un certo punto, inserisce Mike Heller, avvocato e non poliziotto, che ha un suo successo ed un suo seguito. Ma non così deflagrante, ed allora, facendo in modo che Heller e Bosch si scoprano fratellastri, riesce ad imbastire storie anche di Mike, spesso poi con una presenza, attiva e decisiva, anche di Harry.

L’altro suo pallino è Jack McEvoy, che aveva creato per riprendere un po’ delle sue esperienze dirette, lui che nasce cronista di nera, per poi diventare un grande scrittore di gialli. Così, nel 1996, vediamo costruirsi un ottimo thriller intorno a Jack (“Il poeta”), dove compare, in quel tempo dal lato FBI, Rachel Welling. Otto anni dopo, il nostro riprende Jack e Welling, immergendoli in una trama che nasce un po’ per cavalcare la vecchia onda, un po’ per chiudere un cerchio che era rimasto aperto (“Il poeta è tornato”).

Dopo altri cinque anni (e dopo un paio di romanzi in cui aveva tentato di mescolare Harry e Rachel, ma senza che nasce un grosso feeling), Connelly riporta in campo la coppia Jack e Rachel, in una indagine molto delicata (“L’uomo di paglia”), dove alla fine per una serie di motivi, Jack lascia il suo ruolo di cronista di nera e Rachel viene pensionata anticipatamente dall’FBI. Inoltre, il loro amore non resiste ai guasti che hanno provocato le sopracitate rotture.

Un grosso colpo per la verve di Connelly, che impiega più di dieci anni per trovare un’idea che faccia di nuovo scendere in campo i nostri paladini della giustizia. E fortunatamente lo trova imbastendo, come spesso nelle storie di Jack, oltre al lato “giallo”, una serie di piccole frecciate al modo di vivere americano. Partendo dai più facili, come l’uso del dark web e degli strani personaggi che lo frequentano, per salire ad una moda modernissima, l’industria dei test genetici e dell’analisi del DNA, per finire in una riflessione, quanto mai complessa, della relazione tra etica e privacy.

Intanto vediamo i nostri che fine hanno fatto. Jack, a corto di soldi, si è riciclato cronista in un sito dedito ad avvertire i consumatori sulle frodi e gli imbrogli del mercato. Si chiama “FairWarning” (il giusto avvertimento), ed è anche il titolo originale del libro. Dove non si capisce perché si sia voluto spostare l’attenzione ed il testo verso una frase che Jack pronuncia ad un certo punto (“Per molto tempo, in passato, avevo detto che la morte era il mio mestiere”) e che serviva per collegarsi all’attacco del primo libro di Jack (dove ne “Il poeta” dice “La morte è il mio mestiere, ci guadagno da vivere”).

Rachel, invece, ha aperto un’agenzia investigativa di piccolo cabotaggio, dove non esercita più il suo ruolo preferito di “profiler”. Ma le vicissitudini del libro riporteranno i due prima a riavvicinarsi, poi a finire di nuovo a letto, poi a litigare per le loro prese di posizione a volte rigide. Infine, nell’ultima scena Jack le propone di aprire loro due un’agenzia di indagini sui crimini insoluti. Non vi dico la risposta di Rachel, da cui dipende, ovviamente, se nel futuro saranno previste altre uscite delle loro indagini.

Comunque, per venire al testo, Jack viene coinvolto nella vicenda perché una donna, con cui aveva avuto una notte di sesso un anno prima, viene trovata morta per DAO (dislocazione atlanto-occipitale, volgarmente detta decapitazione interna: le hanno girato il collo di centottanta gradi). Ovviamente non c’entra nulla, ma per una serie di accidenti, Jack comincia ad avere delle pulci nelle orecchie.

Trova alcune donne morte in modo similare, e tutte si erano rivolte ad una ditta di analisi del DNA per avere informazioni sul loro patrimonio genetico e sulla possibile esistenza di parenti non noti. Indagando su quella ditta, Jack e soci (che poi dirò solo Jack, laddove lui è aiutato sia dai cronisti del giornale sia da Rachel) scoprono che la ditta stessa può rivendere le informazioni del DNA ad altre società, ovviamente in forma anonima.

Non passa molto tempo che Jack si accorge primo che la forma anonima è facilmente bypassata con semplici hackeraggi della ditta primaria, e secondo che in qualche piega del dark web qualcuno, accoppiando nomi e DNA, li rivende di certo non in maniera limpida. In particolare, c’è un grosso traffico intorno al DNA femminile nel caso contengo un elemento, il DRD4, un gene che indica la propensione della donna stessa ad attività sessuali in modo libero e disinvolto. In particolare questi profili vengono acquistati da una comunità che si definisce “incel” (che sta per “involontury celibate”, che vi invito ad indagare in rete; un raggruppamento misogino di suprematisti bianchi con ideologie da paura).

Tuttavia, mentre i normali “incel” se ne servono per scopi sessuali, ce n’è uno che al sesso fa seguire l’omicidio del partner. Un comportamento da killer, tanto che il tizio si fa chiamare “averla” (come il piccolo uccello predatore che si avvicina in silenzio alle sue prede, le attacca alle spalle afferrandole con il becco e spezza loro il collo).

Seguiamo tutte le vicende di cui non entro nel merito della caccia al killer, dell’avvicinamento e dell’allontanamento tra Jack e Rachel, fino alla resa dei conti finale. Rimarcando solo che, dopo più di trecento pagine di intrecci e di interessanti scioglimenti, il finale è da un lato veloce, e dall’altro non spiega tutti i risvolti della vicenda. Insomma, un Connelly che, dopo averci condotto bene a lungo, sembra aver voglia di chiudere tutto presto, ma non bene.

In ogni caso, la parte migliore è quando si parla dei buchi legislativi americani, dove, se io fornisco il mio DNA per scopi privati, non c’è modo di bloccarne la propagazione, e questo potrebbe non essere un male. Ma non c’è modo di controllare se ne viene fatto un uso diverso dalla ricerca scientifica, motivo per cui era stato iniziato il percorso.

Altro punto in positivo è l’uso dell’organizzazione no-profit “FairWarning”, che è realmente esistita sino al 2021, pubblicando interessanti articoli in favore dei consumatori. Ora tutti gli articoli sono reperibili sul sito dell’Università dell’Illinois.

Un Connelly in minore, che forse avrà del futuro, anche se io aspetto con ansia un ritorno a Bosch. Anche perché qui, senza Bosch, manca completamente una colonna sonora. Non solo niente jazz, ma nessuna musica in sottofondo. Peccato.

Florencia Etcheves “La Virgen en tus ojos” Booket euro 13

[A: 25/04/2025 – I: 02/05/2025 – T: 03/05/2025] - &&&--   

[tit. or.: originale; ling. or.: spagnolo; pagine: 278; anno 2012]

Florencia Etcheves è una giornalista ora cinquantenne, discretamente nota in patria, specialmente per le sue apparizioni televisive, nonché per alcuni scritti, in particolare la trilogia investigativa incentrata sulla figura del commissario Francisco Juánez, un fine ricostruttore delle scene criminali, attento osservatore e sempre ricordato come una persona che risolve tutti i casi a lui affidati.

Il libro, scritto una decina di anni fa, ha alcuni buoni spunti, soprattutto nella personalità di Francisco, ma anche perché affronta alcuni temi di grande interesse ed impatto. Uno dei momenti forti dell’indagine è ad esempio l’analisi di tutte le varianti degli interrogatori, per scoprire, attraverso anche riscontri sulla scena del crimine, chi mente e chi dice la verità.

Il secondo punto, forse anche più forte, è l’analisi dell’uso dei media per creare un’immagine del colpevole, interrogandosi a lungo anche sul ruolo che l’opinione pubblica riveste nell’influenzare l’andamento delle indagini stesse. Indagini che poi toccano un tema al tempo della scrittura poco affrontato, quello della violenza sulle donne. Non è un caso, allora, che Florencia si sia spesso spesa per il FIT-U (il “Frente de Izquierda y de los Trabajadores – Unidad).

Ma facciamo anche un passo indietro, che questo libro viene come sottoprodotto di uno dei miei (o meglio nostri) ultimi viaggi. Un giro non lungo ma esaustivo in Argentina, con alcuni giorni finali di relax e passeggiate nella bellissima Buenos Aires. Dove, girando per la Recoleta, capitiamo in quella che il National Geographic ha nominato come “la libreria più bella del mondo”: cioè “El Ateneo Grand Splendid”. Un ex-teatro riconvertito in libreria con una scenografia bellissima, ed il proscenio mutato in cafè. Lì ho incontrato una commessa di gentilezza estrema, cui ho chiesto indicazioni per leggere un libro di autore argentino, possibilmente poliziesco. Nasce così l’indicazione di questa scrittrice e di questo libro. Un ricordo veramente intenso.

Ma torniamo al testo.

La storia ruota intorno a due amiche, che vivono nello stesso appartamento: Gloriana Márquez e Minerva del Valle. Anche se la convivenza non è certo tutta rose e fiori. Il momento scatenante è quando Minerva trova il cadavere di Gloriana. Qui cominciano i problemi, che, stando alla probabile ora della morte, Minerva doveva essere presente in casa. Come mai non si accorge del cadavere dell’amica? Sono sbagliati gli orari? O Minerva mente?

Come detto, le indagini sono guidate da Francisco Juánez, e supportate con il peso economico e di relazioni dalla potente nonna di Minerva. Francisco, contro tutte le evidenze, non è convinto della colpevolezza di Minerva, ma non riesce a trovare prove né a favore né contro. L’abilità giornalistica della scrittrice ci porta a toccare con mano come il crimine sconvolga il paese, la stampa esasperata cerca in tutti i modi di addossare le colpe a Minerva. Ma il sistema giudiziario non è riuscito a provare nessuno dei sospetti.

Il corso degli eventi fa qui un salto e si porta venti anni dopo la vicenda, in una spiaggia dell’Ecuador, dove ritroviamo Minerva. E troviamo un ragazzo con una strana iride negli occhi (la vergine del titolo). Non vi dico come né perché, ma si innescano tutta una serie di ragionamenti che portano noi poveri lettori a scoprire la verità. Oppure a capire che la verità è solo un modo in cui si guarda la realtà, un suo adattamento.

Sebbene la prima parte sia di un classico impianto poliziesco, e lì riesce bene a collocarsi ed agire la figura di Juánez, alla fine il tentativo di Etcheves è di lasciare tutto un po’ ingarbugliato. Con una prosa che essa stessa si complica, senza accompagnare il lettore verso la comprensione di un finale che, in fin dei conti, non mi risulta ancora chiarissimo.

Nonostante le parole della scrittrice di non aver voluto parlare di un caso reale, ma solo di aver cercato di realizzare un archetipo di indagini e di modi di affrontare le questioni poliziesche, i conoscitori della realtà argentina (non io, ma forse il mio amico Alejandro) mi dicono che, con alcune variazioni sul tema, il testo sembra ripercorrere l’omicidio di Solange Grabenheimer, che era stato trovato dalla sua amica Lucila Frend. Faccio solo un esempio: Lucila esce la mattina presto per andare al lavoro, chiama varie volte Solange senza successo. Si preoccupa solo a sera, quando l’amica non si presenta ad una festa di amici comuni.

Una ricostruzione identica a quella descritta dalla scrittrice. Ma io non sono né avvocato né poliziotto, e comunque rilevo che Lucila, al processo in cui era stata accusata dell’omicidio, è stata assolata per mancanza di prove.

Per tornare al testo, in ogni caso, un buon esercizio per irrobustire lo spagnolo.

Arnaldur Indriðason “Opération Napoléon” Points euro 26

[A: 14/07/2025 – I: 08/08/2025 – T: 10/08/2025] && e ½ 

[tit. or.: Napóleonsskjölin; ling. or.: islandese; pagine: 424; anno 1999]

Continua l’operazione “recupero” degli scritti di Arnaldur, anche di quelli che non appartengono a nessuna serie. Come questo testo isolato, scritto alla fine del secolo scorso, e che ho trovato nella mia ultima visita nel paese del fuoco e del ghiaccio. Poiché l’islandese non è (ancora) alla mia portata, ho trovato ad Akureyri questa versione in francese. Peccato soltanto che non sia tradotto dall’originale, ma dall’inglese. Quindi, traduzione di secondo livello, che tuttavia, per un libro di intrattenimento, anche se con qualche spunto, può andar bene. Forse si perde qualcosa, me il filo generale del discorso c’è e si segue discretamente.

Purtroppo, non è nel filone giallo principale di Arnaldur, né delle piccole serie di contorno. È un testo isolato, dove i protagonisti non torneranno altrove, e dove, più che giallo in sé, starebbe bene in una collana tipo “spy story”. Perché se è vero che c’è giallo, ci sono morti e c’è suspense, è tutta più materia di spionaggio che di polizia.

Il nocciolo duro del racconto è costituito da un aereo (tedesco? americano?) che verso la fine della Seconda Guerra mondiale si schianta sul Vatnajökull, il ghiacciaio più grande d'Europa (che ben conosco, e che ho visitato proprio due giorni dopo aver comprato il libro). In Islanda c’era già una forte base americana, messa in funzione dal 1941, e da lì partono i soccorsi che a capo della base c’era tal Morris, che confesserà di sapere che alla guida dell’aereo c’era un pilota di caccia americano, suo fratello. Ma il cattivo tempo impedisce i soccorsi, e fa sì che il ghiacciaio inghiotta l’aereo ed i suoi occupanti.

Solo nel 1999, anno in cui si svolge l’azione, a causa di caldi eccessivi, foto aeree mostrano l’aereo. Motivo per cui la CIA organizza una missione segreta per il suo recupero, ponendone a capo una spia al soldo del miglior offerente e di sicuro molto più vicina alla cattiveria nazista che al buonismo islandese. Per sfortuna, nella zona c’è un’esercitazione islandese di recupero, e due ragazzi, allontanatisi, scorgono le manovre. Elias telefona allora alla sorella Kristin, giovane avvocato a Reykjavík, ma dopo poche frasi la conversazione cade. Kristin capisce che c’è qualcosa, ma soprattutto che il fratello è in pericolo.

Pericolo che si concretizza la mattina dopo, quando due sgherri della CIA si precipitano a casa di Kristin nel tentativo di neutralizzarla, rapendola o uccidendola. Lei, molto fortunosamente, riesce a scappare, e si rifugia nella base americana di stanza nell’isola (dove rimarrà sino al 2006), per cercare aiuto da una sua vecchia fiamma, Steve.

Con l’aiuto di Steve, l’involontario suggerimento di diverse persone che sapevano qualche brandello di verità, m non tutta, Steve e Kristin riescono a raggiungere un contadino che, nella sua fattoria alla base del ghiacciaio, aveva seguito tutti gli avvenimenti dall’inizio, ed ora, ottantenne, era depositario di alcune informazioni che non ha mai fornito agli americani, ma che volentieri gira a Kristin.

Nel frattempo, i cattivi americani smantellano l’aereo, buttano Elias in un crepaccio, per una serie altrettanto fortunosa di eventi, rapiscono Kristin e Steve. Il secondo fa una brutta fine, lei riesce ancora una volta a fuggire, mettendosi in contatto con la “parte buona” (se esistesse) della CIA che le fornisce una mezza verità. L’aereo era partito da Berlino con una serie di informazioni che avrebbero permesso di portare a termine le loro manovre, denominate “Operazione Napoleone”, ricordando che il grande corso, sconfitto, venne esiliato in un’isola semi-deserta. Così come avrebbe potuto …

Non finisce il discorso, che Kristin viene drogata e si ritrova nel suo appartamento nella capitale islandese, solo quattro giorni dopo l’inizio della trama. Ma nessuno in ambasciata americana sa nulla, la polizia segue piste improbabili, e tutto si perde nei meandri del solito insabbiamento dello spionaggio americano. Solo il fatto che Elias sia stato ferito, e che sia uscito dal coma, consentono a Kristin di capire che non era un sogno.

Il libro finisce nel 2005, con Kristin che, sempre rosa dalle morti da lei causate e dalla fine ignota dell’operazione, liquida tutto, e si imbarca per il Sudamerica, dove, in uno sperduto paese della Patagonia, trova la tomba di un cane di nome Blondi.

Il libro, certo uno dei primi di Arnaldur (in effetti, il terzo in ordine di scrittura), risente ancora di alcuni meccanismi poco rodati, non ultimo forse, una conoscenza non approfondita dei meccanismi di guerra descritti. Di sicuro è (giustamente) permeato di un sentimento antiamericano che gli islandesi hanno sviluppato e mantenuto a lungo (e non senza ragione). Inoltre, pur essendo al 90% un discreto thriller, la fine è pretenziosamente inventata, implausibile e già comprensibile dall’inizio del testo.

Dicevamo allora, di alcune imprecisioni storiche. L’aereo che si schianta sul ghiacciaio viene detto indicato come bombardiere e identificato come Junker 52 che, in realtà, era un aereo da trasporto, utilizzato una sola volta come bombardiere, solo per distruggere la città di Guernica nel 1936. Inoltre, un pilota di caccia non ha lo stesso addestramento per guidare senza problemi un bombardiere. Poi ci sarebbero alcuni rilievi sulle croci uncinate sparse nel testo che vi risparmio, come piccole altre incongruenze marginali.

Non marginale il fatto che Blondi era il nome del pastore tedesco di Hitler, trovato avvelenato dal cianuro nel bunker berlinese accanto al corpo del führer. E non faccio commenti, se non per rilevare che, a parte la statura, l’accostamento tra Adolfo e Bonaparte ha suscitato non poco risentimento da parte francese.

Finisco con un piccolo accenno storico. Il 10 maggio 1940, mentre la Germania invadeva la Norvegia, truppe britanniche occupano l’Islanda, che in tutto aveva 24 militari. Occupazione che serviva a mantenere aperta la rotta atlantica nel nord dell’Oceano. Poiché gli inglesi non avevano forze a sufficienza, il 7 luglio 1941 il controllo dell’isola viene lasciato agli americani (che ancora erano neutrali, visto che Pearl Harbor sarà solo il 7 dicembre ’41). Gli USA, unico lato positivo, visto che non c’erano aeroporti, costruiscono le fondamenta di quello che è tutt’ora l’aeroporto islandese di Keflavik. Ma rimarranno sull’isola sino al 2006, fomentando per anni la difficile convivenza tra soldati americani e locali, in quella che gli islandesi battezzarono con il nome di “la Situazione”, per indicare le non poche donne locali che avevano rapporti intimi con gli americani, e con la conseguente nascita di tanti bambini. Una parte di storia che Arnaldur riporterà in libri più tardi e più maturi.

Questo è piacevole, soprattutto nel ricordo del ghiacciaio e della strada costiera che lo unisce alla capitale, comprese le sue bellissime cascate. Per il resto, c’è solo il mio amore per l’isola ed il mio rispetto per l’autore.

Simon Mason “Un omicidio a novembre” Sellerio 16 (in realtà scontato a 15,20 euro)

[A: 27/05/2025 – I: 15/08/2025 – T: 17/08/2025] - &&&&    

[tit. or.: A Killing in November; ling. or.: inglese; pagine: 456; anno 2022]

Avevo sentito parlare di Simon Mason, della sua capacità di ordire intrecci ed ero curioso di leggere questo suo debutto nel poliziesco classico, con un battage che puntava molto sui detective che si sarebbero occupati del caso.

Come raramente accade, le premesse hanno portato ad un libro magari non riuscito in tutte le sue forme, ma di sicuro meritevole di essere letto e seguito. Come saranno seguite le prossime avventure di Ray e Ryan, visto che ci troviamo veramente in un giallo classico, che riecheggia le bellissime atmosfere del compianto Colin Dexter, aggiornandone alcune modalità espressive alla realtà di venti anni dopo. Magari mettendoci anche un pizzico di adrenalina per qualche momento di fisicità non presente, normalmente, nel pacifico giallo inglese.

L’inizio è ironicamente deflagrante. C’è una cena in uno snobissimo college oxfordiano, il Barnabas Hall, dove il rettore cerca di ingraziarsi uno sceicco arabo per avere sovvenzioni varie. Un momento che si preannuncia foriero di intrighi. Oltre al rettore, ci sono uno sceicco arabo, un professore arabista a contratto, un ricercatore americano, una dottoranda profuga siriana e qualche elemento al contorno.

Il rettore non smuove di un millimetro lo sceicco; il professore cerca di smerciare un Corano sunnita allo sceicco sciita, il ricercatore si aggira cadendo sempre dalle nuvole ad ogni accadimento, la profuga, per pagarsi gli studi, fa anche da cameriera, e, mentre organizza uno tiro mancino allo sceicco, vede anche qualcosa che non doveva vedere. Insomma, la siriana fa entrare degli arabi di nascosto che bloccano lo sceicco e gli mostrano i loro deretani (massimo spregio), e tutta l’atmosfera si ingarbuglia, dove noi ci si aspetta qualche altro colpo di testa islamico. Invece, alla fine dei giochi, il rettore scopre il cadavere seminudo di una donna nel suo ufficio al Rettorato.

Già quest’inghippi fanno salire l’attenzione alla trama che diventa massimo quando l’ispettore Wilkins viene incaricato delle indagini. Un poliziotto bianco, scorretto, indisciplinato, con un difficile passato alle spalle ma dotato di un grande intuito. Ryan (questo il suo nome) prende tutti di petto, professori, rettore, moglie dello stesso, camerieri e personale vario. Suscitando un vespaio che arriva presto all’orecchio della Sovraintendente della polizia. Che si meraviglia, avendo incaricato il suo miglior elemento per le delicate indagini, l’ispettore Wilkins. Peccato che questi sia Ray, nero, di buona famiglia, laureato ad Oxford e sempre impeccabile. Un banale errore di comunicazione. Che darà vita e nerbo a tutto il romanzo (e probabilmente anche ai successivi episodi).

Nel solito intreccio tra pubblico e privato, vediamo Ray e Ryan costretti ad indagare insieme, facendo scintille ad ogni piè sospinto. Ma ne vediamo anche i risvolti privati. Ryan cresciuto in un campo di roulotte, sempre in mezzo a delinquenza e droga, da cui ne esce per volontà e rifiuto di un ambiente familiare governato da un padre alcolizzato e manesco. Peccato che la moglie Michelle, pur avendo messo al mondo loro figlio, non riesca a tirarsi fuori dall’ambiente e muoia di overdose. Mentre Ray, ossessionato dalla precisione e dall’ordine, ha un bel rapporto con la moglie, ma dopo la morte nella culla di loro figlio, non riescono ad averne altri.

Per tutta una buona parte del libro, R&R cercano di capire chi sia la misteriosa morta, e perché sia stata uccisa lì nel college. Tra intuizioni di Ryan e ricerche di Ray, trovano tutta una sequenza di collegamenti improbabili e misteriosi.

La morta era essa stessa una profuga mediorientale, ma di famiglia ricca, che aveva anche frequentato il college, ed aveva anche avuto profferte dal poco raccomandabile rettore (un predatore sessuale di bassa tacca). Quando la sua famiglia, per crisi varie, perde tutto, lei si mette a fare la escort, e realizza con un fotografo di professione, servizi in cui appare nuda in luoghi non consoni alla nudità (come il rettorato, ad esempio). Ma perché ucciderla?

Quando poi anche l’altra profuga viene uccisa ed il corano sparisce, i nostri capiscono molto della trama, arrivando alla soluzione con un colpo da maestro che fa salire ulteriormente le già alte quotazioni dell’autore. Nel finale però dobbiamo anche registrare che Ryan, non vi dico i come ed i perché, prende a pugni il padre, e viene sospeso dalla polizia. Sono curioso di capire come si evolverà il rapporto tra i nostri Wilkins nei successivi episodi.

La bravura di Mason è stata quella di riuscire in un delicato mix tra poliziesco e realtà, dove, a volte di corsa, a volte con più attenzione, si dà conto di questioni sociali (nei contrasti tra R&R, due mondi opposti che però alla fine cominciano a trovare il buono là dove ognuno di loro non se lo aspetta), di razzismo, di guerre, di tratta dei migranti (il doloroso e realistico viaggio della profuga dalla Siria ad Oxford), il tutto condito da segreti accademici risibili ma anche reali nel contrasto tra apparenza e realtà. Momenti universitari che si intrecciano con traffici d’opere d’arte, foto scomparse, il prezioso e misterioso Corano, ed altro ancora.

C’è un uso sapiente dell’ironia, ed una riuscita empatia con i personaggi. Vedremo se il seguito manterrà le promesse.

Simon Mason “Il caso Poppy Clarke” Sellerio 16 (in realtà scontato a 15,20 euro)

[A: 01/09/2025 – I: 29/09/2025 – T: 30/09/2025] - &&& e ½    

[tit. or.: The Broken Afternoon; ling. or.: inglese; pagine: 397; anno 2023]

Avendo gradito la prima uscita in giallo di Simon Mason, sono passato subito anche al secondo episodio de “I Wilkins”. Sempre gradevole, con qualche spunto, ma forse non così convincente come il primo. Per una serie di motivi: meno ironia, Ray sempre più antipatico, e l’ambiente pedofilia lascia sempre qualche traccia oscura nell’impianto generale, oltre ad alcune pecche minori che scopriremo solo leggendo.

Intanto ho approfondito la conoscenza dell’autore, da sempre inserito, lavorativamente parlando, nel mondo dell’editoria, con un passato familiare interessante: figlio di Cliff Mason, un calciatore professionista, terzino dello Sheffield agli inizi degli anni ’60 (proprio quando nasce Simon, e proprio a Sheffield). Simon, tra l’altro, è anche autore di una serie di libri per ragazzi al di sotto dei 12 anni.

Qui, ovviamente, torniamo nel mondo di Oxford (città dove ora vive Simon e famiglia) a seguire le vicende, in intreccio parallelo, dei nostri Wilkins, Ray e Ryan. Dove, nel solito intreccio tra pubblico e privato, continuiamo a vedere Ryan con il treenne figlio genietto Ryan jr., sempre prodigo di buoni consigli per il padre un po’ troppo fumino. Dall’altro lato, invece, abbiamo Ray che insieme alla moglie Diana, mette in cantiere una prossima prole. Peccato che, primo siano due gemelli, secondo Diana ha una gravidanza problematica, Ray è molto “distratto” dai problemi di lavoro.

Infatti, all’inizio di questo caldo luglio del 2017, la piccola Poppy Clarke, di quattro anni, sparisce nel nulla all’uscita della scuola materna, sfuggendo alla distratta madre che spettegolava con le amiche. Una sparizione completamente priva di indizi. Nessuna ha visto nulla, la madre Rachel era con la mente altrove, anche pensando al problematico divorzio con il padre di Poppy. Padre morbosamente legato alla figlia, sospettato in primis del rapimento, ma presto scagionato da solidi alibi. Così che siamo subito tutti orientati ad un rapimento di matrice pedofila. Ben presto corroborato dal ritrovamento di Poppy morta.

Un rapimento che cade tutto sulle spalle di Ray, che, come detto, doveva (ma poco faceva) pensare alla gravidanza familiare, e che inanella una serie di topiche, dove pensiamo a fondo che la fama di detective bello ed intuitivo sia forse un po’ usurpata. Certo, rimane il fatto che sia alto e di colore, cosa che suscita interessi poco leciti dalle donne che gli girano intorno.

Ryan, al contrario, era stato alla fine sospeso dalla polizia per aver trattato a male parole prima un vescovo poi un rettore universitario. Si trova così a doversi sostentare con infimi lavoretti, tipo guardia notturna. Ed è in questa veste che incontra Mick un suo sodale di gioventù, andato dall’altra parte della giustizia. Amico che si presenta spaventato, proferendo alcune frasi che mettono pulci all’orecchio di Ryan, e morendo poco dopo investito da una macchina.

Il racconto procede a lungo facendoci immaginare una convergenza tra i nostri Wilkins, che però tarda ad arrivare. Alla fine si scopre che: un filantropo, con Jack, un figlio disadattato, che finanzia la scuola di Poppy ed investe soldi per aiutare ex-carcerati, tra Mick nonché un tal Cobb, di pedofili interessi. E tutti, Mick, Jack e Cobb gravitanti nelle scuole della zona, come giardinieri, ed amici del gestore delle maestranze dei giardini.

Non entriamo in tutte le giravolte della trama che il bravo Mason riesce ad imbastire, ingegnose ma che non ci distolgono dall’aver indicato il colpevole ben prima di metà romanzo. Dobbiamo comunque sottolineare che è solo l’intelligenza di Ryan che porta alla soluzione finale. Che però non avrebbe luogo se non con l’aiuto fattivo di Ray, visto che Ryan è sospeso e non può agire da poliziotto. Diciamo anche che, come ci si aspetta, Ryan viene reintegrato e ci si aspetta che escano nuove puntate della coppia.

Il bravo Mason riesce a mantenere vivo il dualismo tra il ricco di colore ed il povero bianco, anche se, come detto, Ray si arena un po’. Non si comprende il distacco emozionale con la gravidanza della moglie, e le sue uscite hanno meno presa del primo libro. Si mantiene invece su di un buon livello di ironia ed intelligenza Ryan con tutta la famiglia (figlio jr., sorella Jade e nipote Mylee). Ed in fondo è proprio il dualismo della dimensione privata che riesce a trasformare la semplice indagine poliziesca in una ricerca ad ampio raggio per dare un senso allo sviluppo della vita in questo mondo confuso.

Unica pecca, oltre al fatto che Simon avrebbe dovuto chiamarsi Perry, è l’anodina traduzione italiana del titolo. L’originale parla di un pomeriggio spezzato, colpito proprio dal rapimento di Poppy che spezza la vita di molti (e quel pomeriggio) in due: prima e dopo il rapimento. In Italia si decide di mettere in copertina il nome della rapita, aggiungendo l’attraente termine “caso”, visto che così i distratti siano attirati alla lettura meglio che se si fosse lasciato il primo titolo proposto (che era “Un pomeriggio difficile).

Poiché non abbiamo oggi nessun giallista francese, mi piace riportarvi alcune frasi rimaste nella mente dopo letture di testi originali. Tra l’altro di tre autori che ammiro moltissimo: il poliedrico enigmista Georges Perec, il franco-libanese Amin Maalouf e l’accademico di Francia Èrik Orsenna.

Del primo traduce alcune frasi tratte da “Les choses”:

Nel loro mondo, era praticamente una regola desiderare sempre più di quanto si potesse comperare.” (50)

“La loro vita era come una abitudine troppo lunga, come una noia quasi serena : una vita senza nulla.” (139)

Il mezzo è parte della verità, così come il risultato. Bisogna che la ricerca della verità sia di per sé vera; la vera ricerca è la verità svelata, dove le parti separate si riuniscono nel risultato. (citazione da Karl Marx)(158)

Il secondo, nel profetico “Le Premier Siècle après Béatrice” (che più di trent’anni fa parlava della grande spaccatura tra Nord e Sud del mondo, e leggete con attenzione l’ultima frase) ci parla di amori profondi:

“ So, per aver osservato gli esseri viventi, che l’amore non è che un trucco per sopravvivere, ma è piacevole ignorare di saperlo.” (25) “

“Beatrice è nata l'ultima notte di agosto … con dei piedi in movimento che disegnavano indecifrabili semafori.” (66)  “”

“Gli ho detto che ero nostalgico dei tempi in cui gli accordi più importanti si firmavano con una stretta di mano, e duravano tutta la vita, anche dopo che tutti i pezzetti di carta erano ingialliti. Tra Clarence e me, si era trattato di una stretta di mano un po’ speciale, più sofisticata, più avvolgente, più prolungata; ma nella mia mente, era comunque una stretta di mano. Saremmo rimasti insieme finché fosse durato il nostro amore.” (74)

Un lavoratore del Sud che va al Nord è chiamato ‘immigrato’; un lavoratore del Nord che va al Sud viene detto ‘espatriato’.” (136)

Infine l’ultimo usa la grammatica per parlare dei sentimenti e della vita. Come in questo “Les Chevaliers du Subjonctif”:

L'amore è una conversazione ... L'amore è quando non si parla che all’altro. E quando l’altro non parla che a te. ” (31)

Io e te soffriamo della stessa malattia: la curiosità. Sai la parola ‘curioso’ deriva dal latino 'cura'. Dobbiamo essere fieri del nostro difetto: essere curiosi significa prendersi cura. Cura del mondo e dei suoi abitanti.(42)

Ho sempre pensato che più ami qualcuno, più lo si dovrebbe lasciare in pace.(87)

Nessun amore, nemmeno il più grande, mi impedirà di sognare.(101)

Che cos'è l'amore se non dubbio, attesa, desiderio, speranza? Quindi l'amore è una variante del congiuntivo.(108)

Abbiamo iniziato questo mese la massiccia dose di compleanni che di settimana in settimana ci porteranno fino a Natale. Per cui intanto facciamo gli auguri ai primi “bilancini” sperando che ci aiutino anche nei viaggi, per ora purtroppo ancora nella mente degli Dei. Quindi sperando che i guasti e le fuoriuscite economiche si fermino presto, vi saluto con un grande abbraccio.