Una meta citazione dell’ultimissimo libro di Isabel Allende (“Il mio nome è Emilia Del Valle”) per una settimana di trame dedicata alla scrittrice cilena. Quattro testi filologici, dal 1987 al 2003, ed il penultimo libro (che era l’ultimo quando ne scrissi). I quattro testi vanno in allegra discesa, come se quei lunghi anni californiani si incartassero uno dopo l’altro, magari prosciugando una zampillante vena poetica. Che invece risorge, pur con i suoi limiti, nel romanzo del 2023.
Isabel Allende “Eva Luna” Repubblica
Latino-americana 2 euro 9,90
[A: 07/02/2020
– I: 14/02/2024 – T: 16/02/2024] - &&&
[tit.
or.: Eva Luna; ling. or.: spagnolo; pagine: 314; anno 1987]
Non
è certo il primo libro della Allende che leggo, essendo una delle mie
scrittrici preferite in quanto riesce a coniugare un’intesa partecipazione
sociale a scritture che si fanno seguire quasi con andamento avventuroso. Con
una buona dosa di partecipazione amorosa e finali che, quando non sono happy,
sono sempre di notevole apertura.
Tra
l’altro, rispetto ad altri autori sudamericani, benché ci sia nei suoi scritti
una buona dose di “realismo magico”, cioè quella fusione, molto presente in
Garcia Marquez o Amado, di elementi soprannaturali che intersecano il mondo
reale, in Allende rimane sempre un tema sullo sfondo. Una tema che non oscura
le spinte innovatrici dei suoi personaggi. Le spinte contro il potere e la
corruzione dilagante in quei paesi. Contro la modalità di gestire il ruolo
della donna ed il rapporto tra uomo e donna.
Ecco,
quindi, che anche l’eroina di questo romanzo è giustamente donna, e giustamente
lotta per il suo posto nel mondo. Magari lo fa non in maniera apertamente di
rottura, ma di certo Eva usa tutte le armi a sua disposizione per affermare la
sua verità ed affermarsi nel mondo.
La
costruzione, comunque, ha un piglio diadico che se da un lato seguiamo la
storia di Eva, dall’altro vediamo la vita e le opere di Rolf. Con il forte
sospetto che, prima della fine, i due percorsi devono incrociarsi e, magari,
arrivare ad un cammino comune.
Così,
principalmente, seguiamo la narratrice, figlia di Consuelo, una donna allevata
in missione, che la chiama Eva, nome fortemente evocativo (sia della prima
donna sia di quell’icona sudamericana che fu Eva Peron), e non avendo un
cognome anch’esso simbolico, Luna, a simboleggiare il potere matriarcale
femminile. Consuelo dona alla figlia il potere della narrazione, che Eva usa
per modellare la sua realtà in un modo che sia per lei vivibile, nonché, alla
fine, per farne il suo mestiere di sceneggiatrice, cioè di narratrice
“ufficiale” di storie.
Quando
Consuelo muore, Eva ha sei anni e da lì comincia la trafila di posti in cui
viene messa a servizio, a fare la serva. Quelli cattivi, come la zitella dalla
quale scapperà dopo essere stata trattata male, anche se nel servizio con lei
conosce Elvira che diventerà la sua nonna inventata. O quelli buoni, come il
professor Jones, fissato con l’imbalsamazione, ma che le permetterà di crescere
senza aver troppo le ali tarpate. Ma i servizi presso famiglie, per una serie
di dissapori, visto che Eva non si piega mai, finiscono, e lei fugge, ma viene
accolto da uno strano immigrato mediorientale, Riad detto il “turco”. Che
diventerà per lei una figura prima paterna, poi protettiva.
Ci
sono storie nelle storie durante la sua permanenza nella Colonia dove vive il
turco. Con la pigra Zulema, moglie di Riad, con il nipote Hassan, ed altri
rivoli che poco hanno di significativo nel flusso generale dell’opera.
Perché,
fin dalla prima fuga, Eva incontra Huberto, ragazzo di strada più grande di
lei, che se ne prende cura quando è piccola, fornendole appigli, protezioni, ed
introducendola nel mondo irregolare di puttane e travestiti, dove conosce
Melecio-Mimi. Poi i nostri si perdono, ma Huberto fa un suo percorso,
diventando guerrigliero (cosa che accade spesso laggiù) anzi capo di uno dei
movimenti. Per poi, al loro nuovo incontro, diventare l’amante fisso di Eva.
Dopo
una serie di alti e bassi, Eva incontra di nuovo Mimì, ormai travestito
ufficiale e star della televisione. E con il suo aiuto comincia a scrivere di
quei racconti che sempre aveva nella testa e che fungevano da narrazione di
sollievo per tutte le persone a lei vicine.
È in
questa fase che incontra per la prima volta Rolf, di cui noi però già sapevamo
tutto. Della sua infanzia in Europa, in un paese tra Germania e Polonia, con un
padre aguzzino che finirà male. Mentre Rolf cresce nel dopo guerra, matura, ma
ad un certo punto dovrà abbandonare il vecchio continente per il Sud America.
Dove incontra un giornalista che gli fa capire la sua vera strada di narratore
per immagini. Così Rolf comincia a filmare il filmabile, anche le azioni
guerrigliere di Huberto, con il quale diventa non dico amico, ma di certo
sodale.
Tutto
convergente verso quel fine di speranza in cui Eva e Rolf inizieranno qualcosa.
Forse non sarà per sempre, ma è un “ora e lì” pieno di possibilità.
La
consueta abilità della Allende si ripropone anche qui, nella descrizione chiara
e ordinata di tanti avvenimenti, anche complessi, che però non le fanno mai
perdere il filo del racconto. Una narrazione dove vediamo Eva crescere e
maturare in un paese di fantasia, che però po' essere uno qualsiasi dei tanti
stati sudamericani, oppresso dalla dittatura, dove l’ingiustizia la fa da
padrone, e dove i padroni sono sempre gli antagonisti dei nostri eroi. Di Eva,
di Rolf, di Huberto, ma anche dei personaggi minori come Riad o Mimì.
Non
è un messaggio subito forte come nei suoi primi libri, usciti quasi a caldo
dopo la tragedia cilena, ma una costruzione che si tiene, che non ci fa perdere
la speranza. Laddove qualcuno ha ancora e sempre la voglia di trasformare la
realtà, e di intervenire su di essa nella speranza di un mondo migliore.
“La
morte non esiste, figlia. La gente muore solo quando è dimenticata.” (49)
Isabel
Allende “Eva Luna racconta” Repubblica 11 euro 9,90
[A: 12/10/2022
– I: 15/04/2024 – T: 17/04/2024] - &&+
[tit.
or.: Cuentos de Eva Luna; ling. or.: spagnolo; pagine: 252;
anno 1990]
Si parla
tanto nelle descrizioni di eventi seriali, di sequel (cioè di seguiti) o di
prequel (cioè di precedenti), di modo che la trama si arricchisce del prima e
del dopo. In questo mirabile, seppur non eccelso, libro di Isabel Allende
dovremo invece parlare di spin-off. Cioè, se teniamo a mente il romanzo
precedente (“Eva luna”), la fine raccontata da Eva del suo incontro e della
loro decisione di proseguire insieme, era una delle storie che lei raccontava
fin da piccola. Una fiaba dal finale felice.
Legandosi
a quella, in questo volume che ne riprende i toni, si comincia con
un’invocazione di Rolf, che, memore di quanto Eva ha sempre accennato nel
romanzo precedente, chiede ad Eva stessa di raccontargli alcune delle sue
storie. Scegliendo quelle che lo avrebbero sorpreso.
In
effetti, sappiamo dalla scrittura di Eva Luna, che la nostra eroina si lancia
in racconti quando non riesce a trovare un modo diverso di espressione e di
intervento sulla realtà. Così qui vediamo ventitré racconti che spaziano in
tutto l’universo “lunatico”, magari reincontrando personaggi e situazioni che
conosciamo dal precedente. Non ci meravigliamo allora di incontrare di nuovo,
oltre al benamato Rolf, il buon arabo Riad Halabì, la gentile ma inflessibile
Maestra Ines, l’ineffabile Benefattore, intrecciati in storie diverse, che
tuttavia, seguono mentalmente i tempi scanditi da Eva Luna. Non a caso
lasciandoci con un piccolo parallelo che, partendo da quella fine, porta Eva e
Rolf su nuove e complicate dimensioni, non sempre sormontabili.
Certo,
e potete capirmi, non è stato facile entrare nel mondo di Isabel-Eva, per il
modo frammentario in cui i racconti si presentano alla vita, anche se, come
filo rosso immancabile, c’è sempre una presenza femminile che regge le fila del
discorso, muovendone le leve, ed uscendone non sempre vincitrice, ma sempre
protagonista.
Così
abbiamo (“Due parole”) Belisa, l’anziana che vende lettere
d’amore e che lega a sé, con due parole segrete, il destino di un possibile
dittatore. O Elena (“Bimba
perversa”), che da bimba si
innamora dell’amante della madre, lo seduce ma lui si ritrae, lei cresce e
dimentica, lui invecchia e ricorda. O la pia Clarisa (“Clarisa”) che dopo aver fatto due figli tarati con il marito legittimo, ne fa
altri due con un suo amante, per “pareggiare” i conti con il destino. O
Hermelinda (“Bocca di rospo”) che mette in vendita il suo corpo con un
gioco in cui nessuno vince, fino a che soccombe al fascino del bel Pedro e si
arrende. O lo strano ma efficace sodalizio della moglie e dell’amante di Vargas
(“L'oro di Tomás Vargas”), che sottrarranno al loro maltrattatore
l’oro di una vita.
E
poi abbiamo Ortensia (“Se mi
toccassi il cuore”), la vecchia
rimasta prigioniera per cinquant’anni di un governatore geloso che, liberata,
non ricorda neanche il suo nome, Patricia (“Regalo per una fidanzata”)
e la ricerca lunga e fruttuosa del suo amore da parte di un giovane innamorato,
Maurizia (“Tosca”) e la sua fuga d’amore “a mo’ di Tosca” ed
ugualmente fallimentare, Ester (“Ester
Lucero”) ammalata all’ultimo stadio
e salvata dal dottore innamorato con i rimedi della foresta, Maria la folle (“Maria la sciocca”), la puttana più innocente di tutto il Cile ed il racconto della sua
folle ma cosciente fine, l’anziana ballerina (“Piccolo Heidelberg”) della
vecchia balera, Casilda (“La
moglie del giudice”) e la sua
vendetta per la morte del marito giudice, il viaggio di Claveles (“Un sentiero verso il nord”) alla ricerca del figlio venduto,
inconsapevolmente, a trafficanti di organi, il rapporto tra Riad e Ines (“L'ospite dell'insegnante”) per nascondere un giusto crimine, la
rivincita di Abigail (“Con il
dovuto rispetto”), l’amore senza
fine di Marcia (“Il Palazzo
Immaginato”), la lunga trama ordita
da Dulce Rosa (“Una vendetta”) per vendicarsi del suo stupratore, la
forza di Analia (“Lettere d'amore
tradite”) di superare il dolore per
trovare l’autore delle lettere che l’hanno fatta innamorare.
Due
racconti sono visti “al maschile”: ha al centro un ragazzo (“Walimai”) ma è tra i meno riusciti del lotto e l’altro narra la lotta di Michael
(“Un miracolo discreto”) contro la cecità per ottenere un miracolo.
Ed altri due hanno una coppia che agisce: due persone (“Nel profondo dell’oblio”) che subiscono torture sostenendosi a
vicenda, due amanti (“Vita
infinita”) che decidono la morte
quando ad Ana viene diagnosticato un cancro.
Ed
alla fine c’è il raccordo tra Eva, Rolf, il passato ed il futuro, laddove
l’ultimo testo riprende la vicenda di Omarya Sanchez, una bambina colombiana
intrappolata nel fango di un disastro montano, che non riescono a tirare fuori
dalle macerie, e muore sorridendo ai suoi inutili soccorritori. La vicenda (“Di polvere siamo fatti”) viene immortalata dalla foto di un
fotografo francese, Frank Fournier, che farà il giro del mondo per la sua
crudele bellezza. Isabel ripercorre la storia, ponendo Rolf al posto di Frank,
ma soprattutto entrando non tanto nella tragedia di Omarya, quanto nei tormenti
di Rolf per la sua impotenza, e nelle conseguenze di tristezza ed inutilità di
vivere che perseguiteranno Rolf negli anni a venire.
Pur
con qualche puntata sul maschile, quindi, l’occhio indagatore di Isabel non può
che puntarsi sulle donne, sulla loro forza di fronte a qualsiasi tragedia,
sulla loro capacità di inserirsi fattivamente in qualsiasi commedia. Con quel
tocco d’amore, sempre presente in lei. Un amore sempre manifesto, pur se a
volte non palese, che ne rinsalda la capacità di amare, anche al di là di
quella frontiera di reciprocità. Amano superando anche il bisogno di essere
amate.
Isabel
Allende “Il vento conosce il mio nome” Feltrinelli s.p. (prestito di
Alessandra)
[A: 16/03/2024
– I: 28/05/2024 – T: 30/05/2024] - &&&+
[tit.
or.: El Viento conoce mi nombre; ling. or.: spagnolo; pagine: 318;
anno 2023]
Interrompendo
il flusso della lettura cronologica dell’opera della Allende, ho letto con
interesse, anche senza raggiungere l’alto livello delle sue prime opere, questa
sua ultima fatica letteraria. Un libro che arieggia, scusate il gioco di
parole, alcune tematiche care da sempre alla scrittrice cilena, ma che in
alcuni punti non riesce a farle emergere con la forza della denuncia.
Quindi
certo un libro di interesse nella lettura, di pacato coinvolgimento in alcuni
punti, ma anche di ferma insofferenza in altri. Perché sempre più spesso mi
capita con scrittore sudamericani di trovare dei punti in cui, per la mia
cultura, sembrano partire per la tangente, una strada per me di difficile
percorrenza.
Dicevo
che riprende alcuni suoi temi classici, intanto nell’andamento corale delle
vicende. Anche se non fa “parlare” in prima persona le varie avventure corali
che si distendono lungo le linee del romanzo. Linee corali che, con la sua
solita magica intersezione dei casi della vita, non possono che convergere alla
fine. Convergenza forzata, forse. Ma d’altra parte che senso avrebbe altrimenti
parlare di tante vite lungo i percorsi della storia (con la “s” sia minuscola
che maiuscola).
Come
impariamo a comprendere ben presto, ci sono i protagonisti primari, e i
co-protagonisti, anche con compiti non banali. Nei primi, seguiremo nel corso
dei decenni, la storia di Samuel Adler, quella di Letizia Cordero e di Anita
Diaz. Nei secondi, hanno un posto importante Selena, Frank e Nadine.
Samuel
fa un po’ da ossatura del testo. Lo
incontriamo bambino a Vienna, durante la “Notte dei cristalli” (che ricordo fu
l’inizio dello sterminio ebraico in Vienna, con forse più di mille morti nei
giorni 9 e 10 novembre del ’38). Allende ben descrive l’orrore di quelle ore
(d’altra parte la scrittrice ha una mano felice, in scrittura, e dolente, in
ricordo, quando parla di massacri ed altre atrocità), con la dispersione della
famiglia Adler, ed il rifugiarsi di Samuel, prima in Inghilterra, poi in California.
Ma lì solo dopo aver incontrato a New Orleans, dove andò, lui violinista, a
cercare di capire il jazz a metà degli anni Cinquanta, la bella Nadine. Donna
affascinante, libera, subito presa dal fascino dolente e dalla dirittura di
“mister Bogart” (come chiamava Samuel, per via della somiglianza con il grande
Humphrey).
Sarà
un rapporto lungo tutta la vita, con momenti di rottura e di congiungimento
(alla fine si sposeranno tre volte dopo due divorzi), con Samuel sempre fedele
alla sua Nadine, e lei libera come sempre stata, con tante storie, ma anche
tante iniziative. In fondo, lei era il sale della sua vita, lui era l boa di
sicurezza cui sempre tornare. Hippies, bohemien, girovaghi, e quando finalmente
fermi a Berkley, lui in prestigiose orchestre, lei in mille iniziative, spesso
in favore degli immigrati irregolari dal Sud America.
Tra
questi, ma ovvio che lo sapremo molto più in là, c’è la gioiosa Letizia, anche
lei sfuggita ad un massacro. Quello del 10 dicembre 1981, dove l’armata
regolare salvadoregna assale il villaggio di El Motoze, uccidendo
immotivatamente un migliaio di civili, per lo più donne e bambini. Letizia
riesce a fuggire in America, dove si ricostruisce una vita, ed alla fine la
ritroviamo, nel 2020, governante da vent’anni nella casa degli Adler.
Poi
c’è Anita, bimba di otto anni, ipovedente dopo un incidente, che ripara in
Arizona fuggendo con la madre alla persecuzione di un macho salvadoregno. In
America, essendo illegali, vengono separati, la madre rimandata in Messico,
Anita sballottolata in vari istituti e case famiglia. Certo, seguiamo
dolentemente le sue vicissitudini, anche se, essendo quelli più permeati da un
qualche rimasuglio del realismo magico latino-americano, rimangono per me un
po’ più di difficile empatia.
Ovvio
che Anita viene presa sotto la protezione del progetto Magnolia (ricordo che la
magnolia è il fiore simbolo di New Orleans), dove in particolare si troverà
sotto le ali amichevoli di Selena, che farà di tutto per ritrovare la madre di
Anita, che coinvolgerà l’avvocato in carriera Frank ad aiutarla dal punto di
vista legale. Con tutta una serie di piccole storie di contorno, di bella
lettura, e di accompagnamento per addolcire una storia di fondo cruda.
Senza
arrivare alla descrizione pur semplice delle convergenze finali, in varie
forme, il messaggio grande di Isabel è la descrizione degli orrori, sempre
uguali in tutte le latitudini. Abbiamo gli orrori forti, come in quel di Vienna
durante il nazismo o in Salvador nella Guerra Civile. Ma abbiamo anche, e forse
ancor più forti, gli orrori sottili del mondo odierno. I respingimenti in
America, in particolare durante il governo Trump (e non è un caso la
coincidenza temporale), dove, senza nessun discernimento, gli irregolari che
attraversano il Rio Grande, vengono in principio rimandati in Messico. Spesso,
come nel caso di Anita, separando genitori e figli ed immettendo i bambini in
circuiti assistenziali molte volte poco adeguati.
Una
denuncia, da parte della scrittrice, forte e circostanziata. Dove forse
qualcuno si salva, ma dove molti periscono, anche non solo fisicamente. E
quando si torna a girare per le strade americane, come ho fatto in questo
periodo, se ne capisce l’emarginazione di chi non ha o non riesce ad integrarsi
nel “sogno americano”. Forse un discorso anche più lungo, ma che vale la pena
aver qui accennato.
Per
fortuna, nel fondo, la settantenne cilena è sempre permeata dalla felicità che
alla fine, anche nel male, qualcosa di buona si riesce ad ottenere. E la sua
allegria di fondo, nonostante tutto (e noi si sa quanto sia grande questo
nonostante), mi ha accompagnato in lettura, e lasciato felicemente consapevole
di tutto quello che sto e stiamo vivendo. Forse anch’io, sono gramscianamente
ottimista.
“Mi
ricordo quello che voglio ricordare e non quello che gli altri vogliono che io
ricordi.” (160)
Isabel
Allende “Ritratto in seppia” Repubblica 13 euro 9,90
[A: 24/10/2022
– I: 17/09/2025 – T: 19/05/2025] - &&
e ½
[tit.
or.: Retrato en sepia; ling. or.: spagnolo; pagine: 265;
anno 2000]
Dopo
aver letto l’ultimo di Isabel, ancora incentrato sui della Valle (ma recensito
in altra sede), anche se in maniera sghemba rispetto alla trilogia classica,
faccio un salto indietro nella scrittura di venticinque anni, quando esce
questo ritratto, lungo monologo di Aurora della Valle. Con una scrittura sempre
fedele ai suoi caratteri distintivi, ma che qui non riesce ad emozionare e
coinvolgere come nelle prove migliori, come il terzo capitolo della saga,
quella “casa degli spiriti” che ritengo la migliore scrittura della scrittrice
cilena.
Qui,
come detto, ci inseriamo nel filone principale della storia, dove seguiamo
dalle parole di Aurora, un percorso che va dal 1862 al 1910. Cioè dalla nascita
di Lynn sino al presente narrato dalla protagonista. Che certo racconta, ma che
rimane un po’ in ombra. Vediamo i parenti, sodali e antagonisti, ma poco
vediamo di lei. Se non il ricordo vivo di aggrapparsi a quell’apparecchio
fotografico che le consente di ripassare volti e figure della sua vita, magari,
come dice il titolo, con le foto virate in seppia, dove appunto, come sanno i
miei valenti cugini, l’argento metallico della foto si converte in un più
stabile e duraturo solfuro d’argento, assumendo le calde tonalità “seppia”.
Aurora,
nella prima parte, si ricollega agli avvenimenti de “La figlia della fortuna”,
dove Eliza Sommers e Tao Chi'en alla fine avevano coronato la loro vicinanza
nella California della Corsa all’Oro, soprattutto nella cura della bellissima
figlia di lei, Lynn. Tanto bella e tanto ingenua da cadere nelle trappole
verbali del fatuo Matias Rodriguez de Santa Cruz della Valle, senza comprendere
invece il sentimento d’amore vero del di lui fratello, Severo. Entrambi, come
dice il nome, figli di quella Paulina della Valle, che abbiamo incontrato anche
nell’ultimo scritto di Isabel.
Matias,
in realtà, è spesso attratto più dagli uomini, e presto se ne andrà a vivere in
Europa, tornando in patria solo per morire. Severo sarebbe fidanzato con Nivea,
ma la lascia per sposare Lynn e fare in modo che non nasca una figlia
“bastarda”. Ovvio che invece Lynn muoia di parto, ed Aurora venga, per i primi
anni, allevata dai nonni anglo-cinesi. Mentre Severo torna in Cile e sposa
Nivea mettendo al mondo un numero sterminato di figli.
Ma
Tao muore ai cinque anni di Aurora, Eliza scompare e la piccola viene affidata
a nonna Paulina, che, nella sua dirittura non convenzionale, la educherà
lontano dai canoni buddisti della prima infanzia, e tuttavia in modi sempre
anticonformisti, come sarà sempre la sua vita. Ad esempio, allontanandosi dal
marito Feliciano, non sopportando di farsi vedere grassa, ma consentendo la
vicinanza con il maggiordomo Frederick Williams. Tant’è che, alla morte del
marito, e dovendo tornare in Cile, decide di sposare Frederick, che è sempre
bene avere un uomo accanto, in special modo in società arretrate come la
cilena.
Lì a
Valparaiso, Aurora cresce con l’unica consolazione, come detto, della
fotografia. Ma ha anche ereditato l’ingenua immediatezza della madre, tanto da
innamorarsi di Diego, un bellimbusto che pensa solo alla bella vita, avendo una
ricca famiglia alle spalle. E lo sposa anche, pentendosene ben presto, che
Diego aveva consentito al grande passo solo per star vicino alla cognata e
continuare con lei una lunga storia di adulteri.
Nel
mentre, Aurora ha finalmente due sprazzi di positività. Conosce un medico
dedito alla cura dei poveri, oriundo slavo, il dottor Ivan Radovic (dove
abbiamo una specie di insight verso il futuro, che ora, venticinque anni dopo
la scrittura e più di cento dagli avvenimenti, l’attuale presidente cileno è
proprio un oriundo croato, Gabriel Boric) e finalmente si ricongiunge con nonna
Eliza.
Il
tutto dovuto, purtroppo, alla morte di Paulina. Con Ivan si spera in un futuro
più sereno. Con Eliza, finalmente, ripercorre i momenti della giovinezza, la
dirittura morale di nonno Tao ed i motivi che ne hanno portato alla morte, in
seguito ad un losco attacco di cinesi prosseneti.
C’è
una piccola ambivalenza nel denso scritto che stiamo tramando. Da un lato, come
suo costume, Isabel ci presenta forti personaggi femminili, indipendenti,
positivi. Dall’altro, la maggior parte dei personaggi che entrano in questa
storia, sembra lo facciano solo per interpretare un carattere da ammirare o da
esecrare: c’è lo spendaccione Matias ed il virtuoso Severo, c’è la bella ed
ingenua Lynn e la determinata Nivea. E si potrebbe continuare, ma rimarchiamo
solo che, in questo modo, non esce fuori bene il narratore Aurora, che non
riesce ad avere una sua forte distinzione, rimanendo un po’ sbiadita (quasi
come una vecchia foto).
L’altro
elemento che segue sempre gli scritti di Isabel è l’attenzione alla storia
patria, che qui vediamo narrata, forse anche troppo, attraverso le vicende sia
della Guerra del Pacifico (1879 – 1884, quella che portò all’occupazione, da
parte del Cile, dello sbocco marino della Bolivia) sia della Guerra Civile del
1891 (che abbiamo visto a lungo anche in Emilia della Valle).
Insomma,
un recupero del filo narrativo della scrittrice cilena, ma con risvolti più
filologici che partecipativi.
“Sai
quanti anni ho…? Settantaquattro. Pochi vivono così a lungo … Ma lei è
immortale! … No, figliola, lo sembro e basta.” (193) [dove mettere la firma per
l’immortalità?]
Isabel
Allende “Il mio paese inventato” Repubblica 14 euro 9,90 (in realtà, scontato a
9 euro)
[A:
12/10/2022 – I: 14/10/2025 – T: 16/10/2025] - &&
[tit.
or.: Mi pais inventado; ling. or.: spagnolo; pagine: 184;
anno 2003]
Proseguendo,
con alterna periodicità, nella lettura “All Allende”, facciamo un piccolo salto
in avanti di tre anni, e andiamo a seguire uno dei libri più sentiti da Isabel,
anche perché è in pratica una lunga autobiografia, intervallata da alcune
considerazioni antropologiche sui sudamericani in generale e sui cileni in
particolare. Quello che fa rimanere un po’ fuori centro è il fatto di leggerne
ora, quando alcune cose fondamentali della vita della scrittrice sono cambiate.
I
suoi ricordi, prima o poi, non possono che intrecciarsi con la storia cilena.
Ma prima di quella, dobbiamo passare attraverso alcune forche caudine della
“casa Allende”. In primis, Isabel ci ricorda che lei nasce a Lima, dove in quel
periodo lavorava il padre. Ma la storia d’amore dei suoi genitori finisce
presto, il padre sparisce, e la madre trona in Cile, nella casa vita. È lì che
nascono i ricordi di fondo che poi saranno esorcizzati nella scrittura.
L’immagine strabordante della bisnonna ma soprattutto, il nonno, con la sua
imponente presenza, che ben ritroveremo nel suo primo libro “La casa degli
spiriti”.
Fortunatamente
la madre troverà ben presto un nuovo equilibrio con “lo zio Ramon”, e dopo i
primi anni cileni dell’infanzia, ecco nascere un turbine di iniziative e di
vita al seguito del patrigno, diplomatico di carriera, e spesso in giro per il
mondo, prima in Bolivia, poi in Europa, infine in Libano, dove rimarrà fino ai
diciassette anni. Isabel ci mostra la sua adolescenza ribelle, ma anche alcune
scelte “in coerenza” direbbe lei con la grande e protettiva famiglia Allende.
Così
si sposa nel ’62 con Miguel Frìas, con cui ha due figli (Paula, di cui sappiamo
tutto nei suoi dolenti libri di madre sulla malattia e la morte della figlia, e
Nicolas), ma non rinuncia mai alla vita attiva: è giornalista sempre pronta
alle battaglie, attivista politica, femminista, ma anche, e pienamente, madre e
moglie. Sino alla grande cesura dell’11 settembre 1973. C’è il colpo di stato
che porterà al potere il generale Pinochet ed alla morte il presidente eletto
Salvator Allende (cugino del padre di Isabel).
Per
rievocare i fatti del ’73, Isabel fa anche un interessante viaggio nel passato
cileno, nelle sue lotte durante tutto l’Ottocento. Ed è un bagaglio che già è
presente in alcune parti di “Ritratto in seppia”, e che poi sarà anche
potentemente esplorato in “Lungo petalo di mare” e in “Il mio nome è Emilia del
Valle”. Ovvio che molta storia cilena è presente nel suo primo libro, “La casa
degli spiriti”, ma quella è la storia contemporanea sua personale, i giorni
dell’attesa, l’inizio della scomparsa delle persone care e vicine, sino a
decide nel ’75 di lasciare per sempre il Cile. Prima tappa, il Venezuela, dove
si consumerà il lungo periodo di allontanamento con Miguel, sino al divorzio
nell’87. E poi l’incontro con William Gordon, per amore del quale l’anno
successivo si trasferisce in California.
Ci
sono lunghi passaggi, nel libro, dedicate a William, compresa l’accenno alla
costruzione del libro “Il piano infinito” che cerca di ricostruire la storia
della sua famiglia. Ma la scrittura è del 2003, e Isabel è solo uscita fuori,
seppur con fatica, dai lunghi anni di difficile lutto per la morte della
figlia. Ed è ancora pienamente convinta del suo ruolo americano e del suo
rapporto con William (avendolo sposato, ha anche la doppia cittadinanza).
Isabel
non è più tornata stabilmente in Cile, che, dalle ferite della dittatura, è
risorto, ma è diventato altro dal “suo” Cile. Così che, ad un certo punto
afferma “Da quando attraversai le Ande
ho cominciato inconsapevolmente a inventarmi un paese.” Ed è di questo paese
inventato questo Cile solo suo che qui ci narra. Che potrebbe avere confluenze
con il Cile reale, forse vere, forse soltanto casuali. Anche se, come riflette
lei stessa a valle di incontri per parlare di letteratura, è un Cile velato di
nostalgia. Nostalgia che secondo il dizionario è “la tristezza di trovarsi
lontano dalla propria terra, la malinconia causata dal ricordo di una gioia
perduta”. E che, di riflesso, potrebbe essere la cifra di tutta la sua opera
letteraria.
Finisco
con due sole notazioni. In esilio in Venezuela, riceve la notizia della
malattia forse mortale del tanto amato nonno. Comincia allora a scrivergli una
lettera, l’8 gennaio 1981. Una lettera che si gonfia a poco a poco fino a
diventare il suo primo libro. Per questo motivo scaramantico, da allora, Isabel
inizia a scrivere i suoi libri sempre l’8 di gennaio.
Guardando
poi nel futuro, una dozzina di anni dopo questo libro, anche il rapporto con
William si esaurisce. Lei rimane nella casa californiana, e poco tempo dopo
conosce un avvocato newyorchese, Roger Cukras, che per amore di Isabel si
trasferisce in California. E sempre per amore, i due si sposano.
Non
è un libro che mi ha attratto come altre scritture di Isabel, ma è un libro
necessario per capire un certo suo modo di essere (ho volutamente sorvolato e/o
ignorato le descrizioni ed i giudizi sui cileni, che vedrò di riprendere e
commentare quando finalmente sarò riuscito ad andare in Cile).
“Se si vive abbastanza a lungo e si
guarda al passato, ci si rende conto che non si è fatto altro che girare in
tondo.” (173)
A
contraltare di una letteratura pura, prendiamo qualche citazioni da giallisti
puri, sparsi per il mondo. C’è il fiammingo Pieter Aspe che in “Caos a Bruges” mi dà la ricetta
della mia vita (magari): “Alcuni hanno un fisico perfetto, altri si
devono accontentare del cervello.” (24)
C’è
l’italiano Alex B. Di Giacomo (pseudonimo nei gialli di Alessio Billi) che
in “Punto di rottura” stigmatizza in due righe il comportamento
degli uomini: “La formazione dei sentimenti è più banale di quello che
si crede. Un bel giorno la memoria cancella spietate pene come il segno del
gesso da una lavagna, e si comincia a pensare a un’altra.” (171)
Infine,
il sino-americano Qiu Xiaolong che
ne “La misteriosa morte della
compagna Guan” ci dà consigli, ed
una frase che mi ritrae in pieno: “Come può riconoscermi da una foto del
liceo? … La mia lingua non è mutata, ma i miei capelli sono diventati grigi.”
(11)
“Decise di tornare a casa a piedi. A volte
riusciva a pensare meglio mentre camminava.” (127)
“Dopotutto un uomo è solamente quello che
decide di fare o di non fare.” (246)
Non tutte le settimane hanno sempre cose da ricordare, pubbliche o private. Per casualità degli scritti, fu proprio in questa settimana, cinquantacinque anni fa, che venne eletto Presidente del Cile lo zio di Isabel, Salvador Allende. Noi invece si continua il periodo di riposo, letture e progettazioni. Tutte piccole cose personali che condivido abbracciandovi.