domenica 20 aprile 2008

Ripensiamo

A quello che accade, a quello che accadrà, a chi si è in fondo in questo scampolo di tempo che chiamiamo vita. Per una riflessione complessa, questa settimana parto da tre saggi, di cui parlo in ordine cronologico (e c’è un perché), che affronto tanti temi, ma, per me, sempre con la domanda finale, quanto mai di attualità: che mondo contribuiamo a costruire e che lasceremo a chi ci sarà dopo di noi? Certo l’ultimo libro è forse il più fondato intorno a questo tema, ma gli altri, per vie traverse, ci arrivano e comunque le domande me le hanno poste.

Cominciamo dal più lontano nel tempo, regalo dell’ultimo temporalmente natale arabista.

Doris Lessing “Le prigioni che abbiamo dentro” Minimum Fax s.p. (in quanto regalo di Rosanna)

Libretto interessante, anche se molto datato. Si sentono i quasi venticinque anni dalla sua elaborazione. Il Muro di Berlino è crollato, c’è stata la guerra in Iraq e tanto altro. Il libro, infatti, raccoglie un ciclo di lezioni che vennero trasmesse per la prima volta nel programma radiofonico canadese "Ideas", nel 1985. La scrittrice rivela in questi brevi saggi le sue capacità di analisi socio-antropologiche. Dove finisce la nostra libertà e dove comincia quella del vicino? Passando dal ricordo delle sue esperienze di bambina nella Rhodesia del Sud alle riflessioni sulle dinamiche di gruppo nell'era della comunicazione di massa, la Lessing ci racconta del sottile filo che separa l'esercizio della libertà da quello della brutalità, di un pericoloso ritorno al primitivo che caratterizza i rapporti individuali, il dibattito politico e le relazioni internazionali nella nostra epoca. Ma l’idea di fondo rimane, forte, siamo sempre noi i primi a costruirci dentro di noi le prigioni che ci porteremo appresso tutta la vita.

Due parole sul premio Nobel, ormai quasi novantenne: Doris Lessing all'anagrafe Doris May Tayler (Kermanshah - Iran, 22 ottobre 1919) scrittrice inglese, ha infatti vinto il premio Nobel per la letteratura 2007 con la seguente motivazione: «cantrice dell'esperienza femminile, con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa». Il padre, un ufficiale britannico reduce della prima guerra mondiale, dove aveva sofferto diverse amputazioni, aveva sposato la madre di Doris, un’infermiera, e si era trasferito in Persia, l'attuale Iran, dove lavorava come impiegato di banca. La sua famiglia si trasferì nella colonia britannica della Rhodesia del Sud (l'odierno Zimbabwe) nel 1925, conducendo la difficile vita dei coltivatori di mais. Sfortunatamente i mille acri di bush africano non divennero mai sufficientemente fecondi, ostacolando il desiderio della madre di vivere il sogno vittoriano delle "terre selvagge". Doris Lessing frequentò una scuola cattolica femminile, sebbene la sua famiglia non fosse cattolica. Anche come manifestazione del suo conflitto con la severità materna, lasciò la scuola all'età di quindici anni, divenendo da quel momento autodidatta. Nonostante le difficoltà e un'infanzia infelice, le opere della Lessing sulla vita nell'Africa Inglese sono piene di compassione sia per le infruttuose vite dei coloni britannici sia per le sfortune degli indigeni. Si è sposata due volte (entrambe seguite dal divorzio) e ha tre figli. Il secondo marito fu Gottfried Lessing, un emigrante tedesco. Il suo primo romanzo, L'erba canta, fu pubblicato a Londra nel 1949 (anno del secondo divorzio), dopo il suo trasferimento in Europa, dove ha vissuto da allora.

Continuiamo facendo un balzo di almeno quindici anni, toccando (anche se di lato) il punto nodale del nuovo millennio. E lo si fa con un italiano:

Andrea Canobbio “Presentimento” Nottetempo euro 7

In sé un po’ irrisolto, si intuisce qualcosa. Può accadere, nella vita, che i desideri e le paure più nascoste prendano all'improvviso corpo nel mondo. Hai paura di volare, e la gente che ti sta intorno, con cui era impossibile condividere la pena, di colpo ti capisce fin troppo bene. Il narratore di questa storia è partito un giorno per Londra ed è tornato qualche mese dopo da New York. Siamo nel settembre 2001. La cosa più bella per me, tuttavia, è l’articolo scritto a caldo su Ground Zero, ed i commenti che ne fa l’autore 4-5 anni dopo. E già l’articolo era di per sé bello. Si, forse Canobbio non sa se essere scrittore o editor, ma si legge, è comunicativo. Se facesse l’editor di sé stesso, tuttavia, troverebbe che in queste novanta paginette c’è qualcosa che manca. Il panico da viaggio, che aleggia quindi ovunque, poi non viene “catartizzato”: non se ne sa più nulla. Sarebbe utile ritornarci (e far un raffronto con l’epico “Un indovino mi disse” di Terzani).

Il quarantacinquenne Andrea Canobbio nasce a Torino e fa il redattore per Einaudi dove si occupa, ma non è da solo, di narrativa in lingua inglese e francese. Ha pubblicato da Einaudi Vasi cinesi (1989), Traslochi (1992), Padri di padri (1997) e Il naturale disordine delle cose (2004). Nel 2000 è uscito da Rizzoli Indivisibili.

In fondo si torna alla domanda della Lessing: io, la mia libertà, il mio vicino, l’uso della comunicazione. Ed allora finisco con un regalo, quasi un lascito fatto per il mio allontanarmi dal gruppo che per trentanni mi ha visto lavorare.

Adriano Sofri “Chi è il mio prossimo” Sellerio s.p. (regalo di Peppe)

Dopo circa 30 anni rileggo organicamente uno scritto di Sofri, e, cambiato lui, cambiato io, lo trovo leggibile. È vero a volte ho leggiucchiato alcuni suoi articoli, ma è la prima volta che mi immergo in una trattazione quanto meno organica. Non direi proprio del Sofri-pensiero, ma delle sue attuali riflessioni. Mi ha fatto bene leggerlo, per ritrovare percorsi similari, ma anche diversità. Di scelte, di comportamenti. Non che voglia paragonare le nostre viti, ma come due lenti all’estremità di un cannocchiale, qualcosa rimane di parallelo. Mi è piaciuto soprattutto il primo attacco, quella scrittura sul filo della parabola del buon samaritano, che, da sola, varrebbe la lettura del libro (anche perché alla fine so’ quasi 400 pagine!). Un buon filo di partenza, dove unire, tassello a tassello, fili futuri e nuovi. Soprattutto la parte riflessiva sul mondo che lasceremo (che lasciamo) ai nostri posteri. Senza ecologismi di bandiera. E senza aver paura di dire cose sgradevoli. In ogni caso, le dice. Si sente anche il sentimento che c’è dietro (dire per credere non per aprire bocca e fare “vetrina”). Ma poi la mente ritorna lì, al buon samaritano, ed a quel prossimo che non dobbiamo andare a cercare chissà dove, e che forse non è detto che sia sempre “altro da noi”. Quante volte andiamo avanti senza vedere quello che capita nel nostro condominio! Come fa notare Sofri, all’inizio del libro, la prospettiva corretta, quella, che sorprendendo il suo interlocutore, propone Gesù, è quella della persona che soffre, che subisce un danno o un’ingiustizia e che si trova in difficoltà. Gesù non chiede chi è il prossimo tuo, ma chiede chi è stato il prossimo per colui che soffre? E’ per la vittima che si pone con particolare urgenza e necessità il problema della ricerca del prossimo. E vittima di volta in volta siamo tutti. Un capitolo del libro parla della “eterogenesi dei fini” e di come influenzi il modo di pensare e di agire di chi fa politica il rendersi conto che i risultati delle azioni umane spesso non corrispondono agli scopi per i quali ci si era attivati. Perché, si chiede Sofri, nonostante le migliori intenzioni, poi “va tutto storto”?  Perchè siamo sostanzialmente indifferenti agli eventi tragici che si svolgono lontano da noi? E’ancora vero quello che sosteneva Adam Smith duecento anni fa? Che un terremoto in Cina, anche quando risultasse fatale per migliaia di persone non ci toglierebbe il sonno, mentre un evento infinitamente meno importante, ma a noi vicino, ci turberebbe infinitamente di più? Certo che è vero, sostiene Sofri. Con una terribile aggravante: quando Smith faceva questo esempio, era padrone di attribuire la nostra freddezza al verificarsi di tragici eventi remoti all’impossibilità di vederli con i nostri occhi, mentre oggi, che possiamo dire di assistere a questi eventi quasi in tempo reale, non abbiamo più alcun alibi dietro al quale ripararci. Un gusto Zibaldone di un Leopardi del XXI secolo? Un solo appunto: come ogni testo complesso è giusto corredarlo di note (servono ad aprire parentesi senza interrompere il discorso). Tuttavia il modo di incrociare riferimenti è talmente contorto (o almeno lo è per me che non l’ho capito), che alla fine le note stesse risultavano più di peso che di approfondimento. Magari usare qualche puntamento meno labile? Le note sono messe a fine capitolo, ed iniziano con una frase in corsivo che dovrebbe rimandare al testo; ma dato che non lo si apprende a memoria, bisogna ripercorrerlo per trovare il riferimento. Ed a volte, il corsivo è diverso tra testo e nota. Per me un guazzabuglio!!

Una sola frase, a lapide di tutto

“è difficile smettere, e smettere bene”

Anche se nota, riporto brevi righe della biografia del giornalista, scrittore, politico e carcerato Adriano Sofri nato a Trieste il 1 agosto 1942. Attivo nella sinistra operaista italiana sin dai primi anni '60 (collaborò alla rivista Classe operaia), fu tra i fondatori di “Potere operaio” a Pisa per divenire poi leader della formazione extraparlamentare comunista Lotta continua, fino al suo scioglimento nel 1976. Dagli anni Ottanta, abbandonata la militanza politica, si è dato all'attività di studio e pubblicistica in campo storico, politico con numerosi articoli e saggi. Collabora con La Repubblica e il Foglio. È stato al centro di una complessa e controversa storia giudiziaria, che in seguito alla confessione di Leonardo Marino, che lo ha chiamato in correità, lo ha visto condannato assieme a Giorgio Pietrostefani come mandante e ad Ovidio Bompressi e Leonardo Marino come esecutori materiali del delitto - per l'omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, avvenuto il 17 maggio del 1972.

Pensiamoci al nostro prossimo, ma tutte queste righe mi fanno pensare più che altro a me (come si diceva all’inizio) cioè all’io ed a cosa siamo/facciamo qui ed ora.

Un abbraccio

Gio.

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