Non perché non ci sia sempre una
buona ragione per leggere, ma questa quartina di lettura nasce, appunto, per
caso, assonando elementi diversi e dispersi. Un libro che si vuole ironico, ma
che poteva essere meglio, la rivisitazione su carta dello show di Fazio &
Saviano (con una micro-provocazione), un testo teatrale, una graphic novel.
Insomma, c’è tanto, e di diverso genere. Vediamo che ne pensate.
Massimo Vitali “L’amore non si dice” Fernandel euro 13
[A: 31/01/2012 – I: 09/05/2012 – T: 11/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 172;
anno: 2010]
Stimolato dal regalo ricevuto a
Natale di questo allora sconosciuto autore bolognese (e che ho già tramato),
decido di cercare, acquistare e leggere questa sua prima fatica. Prima di
tutto, continuo a fare i complimenti alla casa editrice Fernandel, meritevole
di pubblicare autori italiani ed interessanti. Ed anche sentiti auguri al buon
Massimo che anche qui (o qui per la prima volta) ha un’idea carina per
sviluppare una narrazione. Tal Edoardo, benché non sappia nuotare, decide di
fare un corso di sub. E mentre affoga, viene salvato dalla bella Teresa, di cui
diventa perdutamente innamorato, tanto da riempirla di lettere d’amore. Sarebbe
il meno ma, preso da certe sue (s)manie interiori, Edoardo decide di inviare
soltanto raccomandate. Teresa, giustamente alterata, gli impone di non scrivere
più né raccomandate né lettere d’amore. Non esclude lettere tout court. E qui
nasce il racconto, che si snoda quindi in 100 lettere di non-amore inviate a
Teresa, in cui Edoardo parla di tutto, ma mai (direttamente) d’amore. Leggendone
mi nasce anche un’idea di romanzo, che suggerisco al mio amico Roberto il
mini-raccontista: prendere i mini e micro racconti (che a lui ben riescono) e
collegarli con una sovrastruttura collante (tipo questa delle lettere o similia).
Questo (se ben gestito) consente di utilizzare al meglio quanto uno sa fare.
Così come fa il buon Massimo (che chiamiamo per nome onde non confonderlo con
il Vitali della saga di Bellano). Che in queste 100 lettere passa in rassegna
tutta una serie di episodi, centrali o marginali, della sua vita. Facendoci
intuire, più che vedere, il suo “disadattamento” alla vita stessa: il rapporto
di amore-odio (ma forse solo il secondo) con la sorella, la vita solitaria, il
lavoro alienante, tutti i piccoli guasti quotidiani di chi (sembra) abbia paura
di vivere. Eppure è anche pieno di slanci, e di colori. L’immagine degli alberi
che vede dal letto di casa sono poetici. Ma anche pieno di dolcezza come nel
ritratto ironico della nonna ingorda, che mangia pochissimo ma spazzola gli
avanzi. E i ricci che attraversano pericolosamente le strade. E le donne del
Sud. E il gommista. E i guanti di pelle ricevuti per errore un Natale. E tanti
alti piccoli tasselli di vita quotidiana. Ma tutti questi spunti (o spuntini)
rimangono sospesi per aria. Non si concretizzano in narrazioni. Non si
concretizzano in sensazioni verso Teresa, verso cui c’è sempre un sentimento
acritico di amore infinito. Perché? E dove porta? Insomma, vanno bene i piccoli
haiku, ma poi deve scattare qualche cosa. Che qui, come in “Se son rose” poi
non scatta. Non si traduce in ritmo narrativo pieno, in sostanza, in
dibattimento. Rimane tutto sempre sospeso sul filo della battuta, come quei
personaggi, bravissimi e utili, sempre pronti a volgere tutto sul ridere, e che
non riescono a trovare mai il momento, il ritmo, per infilare un discorso di
serietà. Questo fa anche il nostro Massimo, e quindi, benché visto di buon
occhio, non riesce a raggiungere quella maturità che potrebbe. Per terminare
qualche altro elemento che mi ha sversato: mi aspettavo più ironia
nell’introduzione di Bergonzoni, che gioco al solito con le parole, ma sembrano
passati secoli dalle sue balene sedute. E certo meritava una riuscita migliore
la lettera di San Valentino, che poteva raggiungere il massimo dell’efficacia
in un contesto di non-amore, ed invece risulta una brutta copia di una pagina
di wikipedia, dove si citano le persone morte il 14 febbraio, o altre stragi
personali o di massa di questa (dato il contesto) funesta data.
“Il dentista è un uomo che mangia con i denti degli altri.” (33)
“E allora io ti suggerisco di venire a casa mia o al limite vengo io
nella tua. Altrimenti che ne dici del Portogallo?” (129)
Roberto Saviano “Vieni via con me” Feltrinelli s.p. (prestito di A)
[A: 01/05/2012 – I: 14/05/2012 – T: 16/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 155;
anno: 2010]
Non ho la televisione, quindi non
ho seguito “Quello che (non) ho”, così come non ho visto “Vieni via con me”. Ma
ho letto, con piacere e rabbia, queste pagine che vengono dal fortunato
spettacolo di Fazio e Saviano (e ne leggerò se qualcosa uscirà da questa nuova
serie). Intanto, da quel poco che ho visto, tra spot e immagini rubate su
televisori genitoriali, devo ribadire che leggo e rileggo Saviano quando
scrive, ma non riesco a guardarlo in video. Si muove troppo, ondeggia che
sembra la torre di Pisa, ed altre piccole manie inguardabili. Insomma, buca lo
schermo. Se andasse a ripetizione da Baricco, sarebbe perfetto. Per ora, ed
ancora, accontentiamoci di leggerne. E soprattutto di leggerne le pagine
arrabbiate, quelle dove parte da piccole vicende, anche pubbliche a volte, ma
spesso private, per arrivare a temi sociali, denunce, ed altre gomorreidi. Come
in alcune di queste otto storie. Soprattutto in quella sulla macchina del
fango, che ripercorre la vicenda del progressivo isolamento e quindi
dell’uccisione di Giovanni Falcone. O quella della storia d’amore dei coniugi
Welby, amore fino all’ultima goccia, amore fino a soffrire per tutto il resto
della propria vita dovendo staccare, e non può esservi altra decisione, una
spina fatale. Ma anche bellissima e terribile quella sul terremoto a L’Aquila e
sul crollo della Casa dello Studente, con la storia di tutte le vite spezzate
dei giovani, e non sulla fatalità di una scossa sismica, ma sulla pervicacia di
chi continua a costruire in barba alla legge. E lieve e toccante, come una
storia di Gomorra messa un po’ da parte, quella di Don Giacomo e delle case
strappate alla camorra. Altre sono più lievi, meno incisive, anche se e quando
toccano temi forti: l’infiltrazione mafiosa verso il Nord o l’annoso ed
irrisolvibile problema dei rifiuti. Altre sono non mancabili, perché ci vuole
un riconoscimento alla propria patria ed alle proprie radici (con quell’inizio
dedicato a Mazzini e quella fine dedicata a Calamandrei ed alla Costituzione).
Ma sono un poco appese, appunto come se se ne dovesse parlare, perché è giusto,
non perché se ne senta dentro l’urgenza e la necessità. Non torno, né qui né
altrove, sulle sterili discussioni su Saviano scrittore, giornalista, ed altre
amenità che lascio agli amanti di Vespa e dintorni. Io, qui, come in Gomorra,
come negli articoli, ne apprezzo, sempre e comunque l’intelligenza, la
lucidità, lo sforzo di denuncia e la coerenza. In lui, come in Travaglio, ed in
altri giornalisti della scuola dei Bocca e dei Montanelli (con tutto il
distinguo ed il rispetto delle eventuali diversità di posizione). Forse manca solo una considerazione finale. È
coinvolgente l’inizio con tutte le cose per cui vale la pena di vivere e di
lottare. Adottiamo anche noi il gioco di Saviano, ma poiché siamo un po’ fuori
allenamento, invece di una TOP10, ci accontentiamo di una TOP3 delle cose che a
me danno il piacere (e la voglia) di vivere. Se volete dire la vostra, io vi
condivido intanto la mia:
1) Salire
su un aereo che comincia un nuovo viaggio.
2) Il
suo sorriso negli occhi quando guardano il mondo che condividiamo.
3) L’attacco
del sax di Jan Garbarek dopo l’introduzione al piano di Keith Jarrett in “My
Song”
“Tolstoj: Non si può asciugare l’acqua con l’acqua, non si può spegnere
il fuoco con il fuoco, quindi non si può combattere il male con il male.” (77)
Alan Bennett “La pazzia di Re Giorgio” Adelphi euro 11 (in realtà,
scontato 9,35 euro)
[A: 19/01/2012 – I: 16/05/2012 – T: 20/05/2012]
[titolo: The Madness of
George III; lingua: inglese; pagine: 153; anno:
1992]
Mi ero abituato agli agili
volumetti della Adelphi, dove Alan Bennett, a guisa più di racconto lungo che
di romanzo, trattava argomenti vari con umorismo ed ironia. Sapevo anche, che
il nostro nasce storico (avendo studiato e non ricordo se diplomato anche tra
Oxford e Cambridge), tant’è che da poco calca le scene italiane un suo testo
teatrale che riscuote molto successo, e si intitola “Lezioni di storia” (da
consigliare a Luciano?). E sapevo anche che aveva ottenuto grandi onori con la
trasposizione cinematografica della sua prima opera teatrale. Fatti due più
due, mi sono detto: dedichiamoci allora a questa pur lontana prova (che ormai
ha circa venti anni). Devo dire che ne esco piuttosto deluso. Non tanto per il
testo in sé. Un buon testo teatrale, con anche difficoltà di messa in scena,
dovuta a continui cambiamenti di scena (e credo sia questo uno degli elementi
che ne favorì la cinematografica resa). Difficoltà che pare lo scenografo abbia
risolto con una grande scalinata che si apre e si chiude, consentendo, in poche
battute di dialogo, ai lavoranti dietro le quinte, di spostare, mettere, fare,
dire, insomma consentire i cambi necessari. Ma proprio la materia, che, seppur
interessante nel traslato moderno, mi lascia più freddo che freddo non si può.
Cioè, la storia in sé, mi sia consentito affermarlo, è la “solita” storia: il
potere ed i suoi risvolti. Chi ce l’ha tende a tenerlo. Chi non ce l’ha fa di
tutto per ottenerlo. Ed in quel di fine Settecento, mentre di la della Manica,
Robespierre e compagni facevano fuoco e fiamme, intorno al Tamigi si stava
cercando di evitare la bancarotta del potere. Per questo il re chiama a reggere
il governo un uomo dal polso di ferro. Il buon Pitt (anche se non Brad), che
taglia, riduce, fa stringere la cinghia e, bene o male, risana. Ma lì dietro
l’angolo, gli altri, capeggiati da Fox (da cui il facile gioco di parole sul
Gatto e la Volpe) cercano di ostacolarlo, perché vedono sparire ad uno ad uno
tutti i loro privilegi. Su questa storia, un po’ piatta, un po’ banale, si innesta
il problema “RE”. Perché in Inghilterra allora il re era veramente l’ago della
bilancia. Era lui che faceva e disfaceva. Ed il re appoggia Pitt. Ma… ma il re
mostra strani segni, che fanno gridare alla pazzia. Straparla, stra-agisce, si
gratta in pubblico. Pensate, da pure la mano al suo valletto per scendere le
scale. Inaudito! Allora si cerca di internarlo, di modo che si possa nominare
Reggente il figlio, il buon Principe di Galles. Che odia Pitt e appoggia Fox.
Fortunatamente si trova un medico di campagna, che intuisce una possibile via
di guarigione. E giusto prima del crollo finale, Giorgio III guarisce (da una malattia
che i moderni classificherebbero come porfiria, la cui forma più acuta diede
origine, a fine ottocento, agli estremismi nictalopi di Briam Stoker). Pitt
rimane in sella e tutto prosegue. Detto così quasi sembra interessante. Ma come
districarsi tra tutti gli anglicismi di maniera. Il re quasi “deificato”. I
rapporti formali. I medici che non visitano il paziente regale, perché dovrebbero
“toccarlo”. I signorotti che portano voti per una manciata di favoritismi
(questa l’ho già sentita, anche recentemente). Cioè, Bennett fa un notevole ed
encomiabile sforzo per calare la vicenda nell’atmosfera dell’epoca (ed è una
vicenda esemplare, che Giorgio III regnò per 60 anni dal 1760 al 1820, e ben
sappiamo quante cose son successe a cavallo di quel secolo, come ad esempio
l’indipendenza americana, che il re non digerì mai), pur rimanendo legato
(allora come ora) ai manierismi inglesi dei rapporti e delle cose (questo si
dice, questo si fa, e via discorrendo). E quindi, pur apprezzando lo sforzo, ho
faticato non poco a sentirlo vicino, a finirne le pur non innumerevoli pagine.
Sforzo intellettuale - premio intellettuale: poco cuore e poca passione.
“Conoscere bene un libro è meglio che avere un’infarinatura di
parecchi.” (13)
Francesco Matteuzzi & Pierluigi Ongarato “Philip K. Dick”
Beccogiallo s.p. (regalo di Silvia)
[A: 07/05/2012 – I: 30/05/2012 – T: 31/05/2012]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 127;
anno: 2012]
Tante luci ma anche tante ombre
in questa pur pregevole “graphic novel”. Intanto, sempre meritoria è l’opera
della casa editrice Beccogiallo, che con fatica, insieme a poche altre, tenta
di far fruire in Italia questo tipo di letteratura che tanti fasti ha per il
mondo intero (tant’è che la mia amica Luana è dovuta emigrare in Francia per
poter tentare di vivere con la sua arte di sceneggiatrice di novelle). Altre
luci me l’ha portate il connubio in sé: da un lato una “graphic” che riprende
tematiche narrative e stili da me a lungo frequentati negli anni Ottanta (da
Comic Art a Orient Express, da AlterLinus a Frigidaire) unita a quella passione
giovanile (esplosami nel decennio precedente) verso quella forma di letteratura
popolare erroneamente etichettata “tout court” come fantascienza. Quando in
realtà era tante cose assieme: ucronia, (pre-)visioni scientifiche,
fanta-sociologia. Era in realtà (come spesso accade) il modo di alcuni
scrittori di tirare fuori tematiche con degli stili narrativi che potevano
raggiungere larghe fette di pubblico. Ma sempre per parlare della realtà e
della vita. Faceva lo stesso Simenon in alcune fette dei suoi Maigret. O più
prosaicamente Scerbanenco nella sua Milano violenta (o poi Machiavelli nella
Bologna anni settanta). E lì, nella letteratura di genere, spaziavano gli
Asimov, con le mitiche “Cronache della Galassia”, o i Bradbury, con le
“Cronache marziane” tanto per citarne una. O i J. G. Ballard degli
automobilisti assassini di “Crash”. O la reinvenzione delle vicende di Phileas
Fogg e del suo giro del mondo, nella parodia di P. J. Farmer. E i tanti,
tantissimi altri che in quegli anni fluirono nella mia poderosa libreria
fantastica (che non è stata ancora inclusa nella libreria attuale, per
oggettiva mancanza di tempo). Dove un bel posto d’onore avevano le opere di
Dick, da “La svastica sul sole” a “Ubik”, da “Il mondo di Jones” a “Cacciatore
di androidi” (quello da cui fu poi tratto il mitico “Blade Runner”). Per
tornare al tema, ed alla trama, queste cento pagine scarne, tratteggiano con la
bella penna di Ongarato, il testo che Matteuzzi ha elaborato sulla biografia di
Dick. Riportandomene alla mente brani dimenticati. Il fatto di essere nato
gemello un 16 dicembre (anche se nel ’28, e con il trauma della morte prematura
della gemella Jane). Il pacifismo che lo portò a lasciare l’Università per non
fare il militare nella Guerra di Corea. I cinque matrimoni. La vita
sbandatissima tutta percorsa da una sempre più forte dipendenza dalle
anfetamine (che riempiranno di visioni anche molte sue opere). Le prese di
posizione anti-governative, che lo fecero oggetto di attenzione (o
persecuzione?) da parte dell’FBI. Ma soprattutto quella sua mente fertile ed
inquieta, sempre lì a domandarsi, e poi a scrivere, del rapporto tra mente e
realtà. Tra quello che vediamo e quello che “è”. Temi che gli faranno un ben
dovuto omaggio nel film “Matrix”, che non si basa su nessuna opera, ma sul
fondamento della sua cosmogonia. Forse non siamo altro che oggetti che vivono
vive altre, perché la vita vera è misera o invivibile. Ne assistiamo, in pochi
tratti, anche alla decadenza mentale, che lo porta negli ultimi anni (seppur
disintossicato) ad immaginarsi di essere una reincarnazione di un martire
cristiano. Fino alla morte, di un fisico ormai troppo minato, a soli 54 anni,
nel ’82 (e notiamo la simmetria tra le due date di nascita e morte 28-82).
Molti i ricordi che velocemente pervadevano lo scorrere della grafica. Pur
tuttavia, al fine, il libro non riesce a dare tutte le dimensioni e le
sfaccettature del personaggio Dick. Questo il suo limite, ed il motivo per cui,
alla fine, lo ritengo un’onesta prova, foriera di buone sensazioni, ma non
completamente riuscita. Ma finisco plaudendo all’iniziativa (e re-inverdendo
ricordi).
“Tutte le cose sono destinate a finire. Sta a noi capire quando è il
momento giusto di chiudere un capitolo della nostra vita per dare inizio al
successivo.” (38)
Ecco al fine i libri di giugno,
un mese di letture un poco piatte, oscillanti tra il discreto ed il così così,
senza nessun acuto, né alto né basso. Capita.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Giuseppina Torregrossa
|
Manna e miele, ferro e fuoco
|
Mondadori
|
10
|
3
|
2
|
Flavio Soriga
|
Sardinia blues
|
Bompiani
|
8,90
|
3
|
3
|
Edoardo Nesi
|
Storia della mia gente
|
Bompiani
|
14
|
3
|
4
|
Marcello Fois
|
L’altro mondo
|
Einaudi
|
10
|
3
|
5
|
Nick Hornby
|
È nata una star?
|
Guanda
|
10
|
2
|
6
|
Elizabeth George
|
Un pugno di cenere
|
TEA
|
9,80
|
3
|
7
|
Giovanni Ricciardi
|
I gatti lo sapranno
|
Fazi
|
9,50
|
3
|
8
|
Diego De Silva
|
Voglio guardare
|
Einaudi
|
9,50
|
2
|
9
|
Erri De Luca
|
Il contrario di uno
|
Feltrinelli
|
6,50
|
2
|
10
|
Clive Cussler & Paul Kemprecos
|
La stirpe di Salomone
|
TEA
|
8,90
|
2
|
11
|
Nick Hornby
|
Tutto per una ragazza
|
Guanda
|
12
|
2
|
12
|
Pino Cacucci
|
Outland Rock
|
Feltrinelli
|
7,50
|
3
|
13
|
Eric-Emmanuel Schmitt
|
Ulysse from Bagdad
|
Le livre de poche
|
7,30
|
2
|
14
|
Luis Sepulveda
|
Ritratto di gruppo con assenza
|
TEA
|
8
|
2
|
15
|
Elizabeth George
|
Agguato sull’isola
|
TEA
|
10
|
3
|
16
|
Anne Holt
|
La porta chiusa
|
Repubblica Noir
|
6,90
|
3
|
17
|
Elizabeth George
|
La donna che vestiva di rosso
|
TEA
|
9
|
3
|
E siamo alla grande ripresa.
Vorrei poter dire con il poeta, settembre andiamo è tempo di migrare. Invece
siamo costretti a ripetere, come i sette piccoli nanetti (e sette, ricordo, è
sempre un bel numero, anche se ricorda questo sette-mbre, non a caso allora
settimo mese dell’anno), andiam andiam andiamo a lavorar…
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