Volevo passare un’altra settimana
di avventuroso riposo, ripescando un quartetto di letture “movimentate”.
Andando a rivedere i testi, mi sono però accorto che quasi tutto cominciavano
con una nota dolente. Ed in effetti, solo il testo della spagnola Asensi
raggiunge un discreto livello, di forma e aspettativa. Sotto il minimo invece
la canadese Doody, da cui mi aspettavo di più per il suo nuovo Aristotele, e la
premiata ditta Cussler, con un’avventura in minore del capitano Cabrillo. E
meglio speravo nel libro di Ziedan, vantato come scoperta di un nuovo autore
arabo. Ma lasciamo la parola alle trame.
Youssef Ziedan “Azazel” Beat euro 9
[A: 08/01/2012 – I: 13/07/2012 – T: 19/07/2012]
[titolo: Azazil; lingua: arabo; pagine: 364;
anno 2009]
Sono
rimasto un po’ deluso da questo libro, che pur partiva con tutte le premesse
per essere una piccola scoperta. Purtroppo è rimasto solo “piccolo”. Intanto si
partiva con un autore arabo (primo elemento di interesse), tradotto dall’arabo
(quando ormai ultimamente gli editori italiani comprano direttamente traduzioni
inglesi o francesi). Libro ambientato prima dell’avvento di Maometto, nelle
terre che in quegli anni vedevano, con tutti i problemi connessi, la
nascita ed il radicamento del cristianesimo.
Mi era inoltre ingolosito, scoprendo che il nostro Youssef è un cultore dei
manoscritti antichi (quindi congeniale alla tematica, e viceversa). Insediato e
lavorante in quel di Alessandria, città che ha comunque del suo fascino. E pare
sia reputato un buon scrittore storico, come lo sono in certo grado molti
scrittori arabi, autore di una rinomata storia ambientata tra i nabatei di
Petra. Insomma, mi aspettavo un epigono del libanese Maalouf. Purtroppo tutte
queste premesse hanno prodotto un libro, che ha un certo fascino, non lo nego,
ma è pieno di altro, e di altro pedante. Mi spiego, seguiamo la narrazione,
ricavata da manoscritti antichi in pergamena (collegamento con il lavoro di
Ziedan) delle vicende in prima persona narrate dal monaco Ipa. Se Ipa si
limitasse a narrare di sé, dalla nascita in un paesino verso la Nubia,
attraverso tutte le vicende che da lì lo portano in un monastero tra Antiochia
ed Aleppo, ci sarebbe stato (forse) un livello di agilità nella scrittura che
avrebbe reso (forse) avvincente il narrato. Siamo tra la fine del 300 e
l’inizio del 400. In tutto il Medio - Oriente, ed in Egitto in massimo grado,
infuriano lotte e diatribe varie tra pagani e cristiani, e tra cristiani e
cristiani. Il nostro Ipa, morto trucidamente il padre, decide di entrare in
seminario, e divenuto monaco (non si capisce se al tempo si veniva ordinati in
qualche modo), decide di salire il Nilo e di stabilirsi ad Alessandria. Qui ha
una serie di incontri sconvolgenti. Viene accolto da una bellissima fanciulla
che lo salva dall’annegamento. E passa tre giorni di amore e passione con la
bella Ottavia. Non si capisce bene il rapporto tra sesso e monachesimo, ma
probabilmente all’epoca (e Youssef dovrebbe esserne esperto) vigevano costumi
meno stringenti. Ma quando Ottavia scopre che lui è monaco, lo caccia essendo
vedova di persona massacrata dai cristiani dell’epoca. Il secondo incontro è
con l’affascinante Ipazia, di cui segue qualche lezione, ma che poi abbandona
essendo clausurato dai monaci alessandrini. Ed in particolare dal vescovo
Cirillo, strana figura su cui si tornerà. Ma dopo due anni di isolamento,
assiste impotente al martirio di Ipazia per mano del lettore Pietro istigato da
Cirillo. Sconvolto, fugge da Alessandria, si auto-battezza con il nome di Ipa
(abbreviazione di quello di lei), e si incammina verso Gerusalemme. Dove fa il
secondo incontro fondante della sua vita. Quello con il vescovo Nestorio, che
lo affascina con la sua umanità e con le sue parole. Sul di lui consiglio, si
rinchiude nel monastero di cui all’inizio, dedicandosi alla medicina (piccola
parentesi, una parte felice dello scritto è imbastita di piccoli rimedi
medicali, a far vedere la comunque progredita conoscenza pre-islamica della
materia da parte dei locali). Sarebbe tutto più o meno per il meglio, se non
incappasse nella bella Marta, una donna ripudiata che si rifugia nel convento.
Bella di bellezza radiosa, ne rimane turbato al massimo grado. Qui scopriamo
(fra le righe) che i monaci non si possono sposare mentre i preti sì. Lei cerca
di convincerlo a farsi prete. Ed arriviamo al culmine della tenzone, con Ipa
dilaniato tra i problemi con Marta (farsi prete o restar monaco), aggravato dal
fatto che Marta sarebbe (in termini attuali) divorziata, quindi per un
cristiano non frequentabile, ed i problemi della fede, che proprio in quei
giorni viene indetto il Concilio di Efeso dove si svolge l’epica battaglia tra
Cirillo e Nestorio. Il dilemma lo prostra, cade nel delirio febbricitante, ha
visioni, e comincia a dialogare con Azazel. Che sarebbe il Satana tentatore del
deserto. Che è quello che troviamo anche citato nella bulgakoviana palla. Come
ben capite, ho rovesciato i termini del racconto, che invece viene sempre
pervaso della lotta interiore tra Ipa e Azazel. Per cui (forse anche per tagli
di lunghezza) alla fine sappiamo che Ipa trova sé stesso. Ma non sappiamo come
finisce con Azazel, né con Marta, né con Nestorio. Già tutto questo faceva
scendere di gradini il piacere del testo. Che poi è anche riempito, con giusta
dovizia di particolari, ma con scarsa partecipazione, della diatriba tra
Cirillo e Nestorio, tra duofisismo e monofisismo, tra Maria madre di Dio e
Maria madre di Cristo. Tra la cacciata solo 100 anni prima di Ario e dei suoi
segaci. E con la vittoria, lì ma anche nel tempo, di Cirillo. Che viene anche
fatto Beato e Padre della Chiesa (non mi pare Santo ma non sono espertissimo).
Per la sua conoscenza e per le sue posizioni. Ma a me pare che nessuno ne abbia
messo in mostra criticamente limiti ed altro. Nel suo isterismo verso gli
avversari, di fede e non. Andate a vedere il bel film “Agorà”, o leggete la
vita di Ipazia. Era tutta una questione politica, che da Roma l’imperatore
appoggiava Alessandria, per bilanciare il peso crescente di Costantinopoli. Ma
tutta questa parte è trattata non proprio in modo accattivante. E ci si
trascina per quasi quattrocento pagine aspettando che Ipa abbia un moto in
positivo, che decida, che prenda una posizione. Mai. Ecco perché alla fine il
libro mi ha deluso. Spero prima o poi di leggere qualcosa di quegli anni che
abbia il sapere romanzato del libro sul profeta Mani di Maalouf ed il sapere storico
dei libri di Barbero sulla caduta dell’impero.
“Le lingue non esprimono nulla di per se
stesse, ma sono espressione della gente che le parla. E se la gente cambia,
anche la lingua cambia.” (34)
“Ogni ricordo contiene dolore. Anche i
ricordi dei momenti felici sono in qualche modo dolorosi, perché sono tracce di
cose passate.” (123)
“Posso offrire [venti anni della mia vita]
in dono a una ragazza di vent’anni quando fra dieci anni sarò un decrepito
cinquantenne e lei una bella trentenne?” (332)
“Scrivi …
chi scrive non muore mai.” (358)
Clive Cussler & Jack du Brul “La nave dei morti” TEA euro 8,90
[A: 15/04/2012 – I: 22/07/2012 – T: 27/07/2012]
[titolo: Plague Ship; lingua: inglese; pagine: 502;
anno: 2008]
Sono rimasto un po’ deluso da
questo nuovo romanzo del vecchio Clive. Forse perde qualche colpo (e ci può
stare dopo gli ottanta) o forse (anzi più probabilmente) il sodalizio con Jack
du Brul sta arrivando al capolinea (anche se mi risulta che continuano a
scrivere a quattro mani, pur se Jack comincia ad essere letto e pubblicato
anche da solo). Comunque, veniamo alla delusione. Pur avendo un ritmo decente,
ricalca un po’ troppo alcuni stereotipi delle saghe di Cussler, prendendo però
le parti meno riuscite. C’è un prologo, al solito collocato nel passato. Ma
questa volta è un passato molto vicino (si colloca in Norvegia nel 1943), e non
è molto avvincente, se non nella simpatia verso il mitragliere del bombardiere
tedesco. Simpatia che svanirà completamente nell’epilogo che, molto
velocemente, cerca di collegare tutte gli avvenimenti descritti nel corpo del
romanzo. Secondo elemento poco simpatico è il “rilascio” di personaggi senza spiegazioni.
Ora, nel precedente romanzo ambientato in Namibia, c’era una possibile storia
tra il capitano Juan Cabrillo e la bella Sloane. Bella che qui scompare
miseramente. Anche Dirk aveva avventure in ogni porto (d’altra parte i marinai
si sa). Ma se la storia non terminava nel romanzo, il romanzo seguente, prima o
poi, dava qualche spiegazione degli avvenimenti intercorsi. Qui si accenna ad
alcuni temi, ma della bella nulla. Come in tutte le avventure della Oregon,
poi, si segue (dopo il prologo mutuato dalle altre serie), una trafila standard.
C’è una missione dei nostri che, per conto della CIA, si occupano di
“bastonare” qualche cattivo. Nella fattispecie, rubano due missili nucleari che
la Russia ha venduto all’Iran. Durante la fuga, si imbattono nel mistero che
poi sarà il centro del romanzo stesso. Una nave piena di morti, dove solo una
signorina asmatica si salva. Detta signorina non sarà presa da folle amore per
Cabrillo (che qui, abbiamo detto, non si occupa dell’altro sesso), anche se
marginalmente coinvolgerà qualche membro della squadra. Da qui in poi (ma anche
prima, devo dire) le cinquecento pagine sono praticamente una lunga e
pluriepisodica battaglia. Che alla fine si focalizza in un duello tra il gruppo
di Oregon ed una non meglio identificata setta dei responsivisti. Una setta
para-ambientalista New age, che, preoccupata del sovraffollamento della terra,
predica l’astinenza sessuale come metodo per la regolazione delle nascite. Ma,
siccome sono cattivi e molto, decidono che la predica non basta. E con i soldi
del fondatore, stra-pluri-miliardario, ricercano e mettono a frutto un virus
che, se ben coltivato, provoca la sterilità. L’idea è che per far risorgere il
genere umano dagli abissi attuali c’è bisogno di una bella scossa: visto che non
c’è la possibilità di una guerra, proviamo con qualcosa di simile alla peste. E
quindi, inseguimenti, rapimenti, sparatorie, ruberie a fin di bene, catarsi ed
altro. Ma senza una partecipazione come in altre vicende della ditta Cussler & Co. Ci sono solo lunghe sparate contro la setta, giuste
si dirà, ma quasi che fossero rivolte ad altro. Sembra come se Cussler voglia
mettere in guardia dalle sette in generale e da Scientology in particolare (non
a caso i responsivisti reclutano divi ad Hollywood per l’immagine, non a caso
chi si unisce dona tutti i suoi beni alla causa, ed altre abbastanza smaccate
similitudini). Son tuttavia sparate un po’ sterili e (lo posso dire?) pallose.
Si arriva alla fine con qualche bella chiusa, con tutto che torna a posto, ma
senza un vero rilassamento del cervello (che a questo doveva servire). Speriamo
nella prossima, Clive!
“Se fosse nato in un’epoca diversa e in un posto diverso … si sarebbe
visto alla guida di una carovana di cammelli nel Sahara privo di piste … ad
attrarlo era il mistero di ciò che era in serbo dietro … la prossima duna.”
(167)
“Quando perdi qualcosa la trovi sempre nell’ultimo posto in cui la
cerchi … perché smetti di cercarla quando la trovi.” (409)
Margaret Doody “Aristotele e la favola dei due corvi bianchi” Sellerio
euro 11
[A: 15/04/2012 – I: 30/07/2012 – T: 31/07/2012]
[titolo: Aristotle and the
fable of two white crows; lingua: inglese; pagine: 95; anno:
2011]
Questa volta sono rimasto un po’
deluso, ma in maniera inversa rispetto all’ultimo, un po’ prolisso romanzo su
Aristotele in Egitto. Lì, in un profluvio di pagine, si svolgeva un romanzo che
poco aveva delle brillanti idee della Doody di inizio carriera, con quella
frammistione tra fiction e filosofia, che, se non altro, era innovativa rispetto
a romanzi che prevedevano solo l’uso di personaggi famosi, per farli diventare
improbabili detective (da Dante a Oscar Wilde, passando per tutta una sfilza di
primari e comprimari). Qui c’è un racconto, più che un romanzo, tutto
incentrato, se ben guardiamo, su di un paio di libri della Politica di
Aristotele, e la parte di fiction non solo è rilegata al contorno, ma quasi non
si vede, quasi non viene neanche scritta. Ha un bel dire il notista che c’è un
furto, un assassinio, ed altre attività di ricerca da para – detective, ma sono
veramente esauribili in tre pagine e con poco sforzo. Certo sono di rinforzo
all’idea che sottende il racconto, e che è esemplificata dalla lunga parabola
(la favola del titolo) dei due corvi bianchi. Corvi antagonisti, che rubano,
che si fanno i dispetti, e che alla fine faranno una diversa fine, proprio
seguendo i detti della parabola sul governo della città del Secondo libro della
Politica. Ha buon gioco poi, la nostra filosofa a scrivere una bella
post-fazione che, per i pochi che non lo avessero capito, fa vedere quanto
questa favola (mutuata dall’antichità) sia attuale proprio nel momento di crisi
che attraversa la politica ed il buon governo. Ci sono tutti i soliti
personaggi della Doody (Stefanos l’io narrante, Aristotele, Teofrastos e gli
altri dell’Accademia) e poi i cittadini ateniesi emblemi (totemici?) delle
categorie narrate. Simmaco che a parole si professa buon cittadino, ma che
cerca di frodare il fisco con commerci illegali (diremmo oggi mazzette ed
appalti). E sarà il secondo corvo bianco a rappresentarlo. C’è il cugino
Caronide che accumula beni nascostamente professandosi povero, e nel suo
solipsismo si isola dalla vita cittadina, immaginandosi nemici ad ogni dove. Ed
è lui il primo corvo bianco. E la favola direte voi? Un corvo ruba pietre
preziose (a mo’ di gazza ladra) ed un uomo (la polis) lo prende a ben volere,
gli apre le porte del suo giardino e gli dà la sua acqua. A patto di continuare
ad avere altre pietre preziose. Ed il corvo continua a rubare; ma ruba troppo,
ed allora comincia anche ad accumulare e nascondere. Arriva il secondo corvo,
invidioso. Che scopre il nascondiglio, ruba al ladro e si sostituisce nel ben
volere della polis. Avendo perso tutti i suoi beni, il primo corvo viene
scacciato. Ma si redimerà e diventerà un onesto cittadino. Il secondo corvo
continuerà a rubare ed anche lui ad accumulare. Fino a decidere che preferisce
i beni per sé che per la polis. Ma come chi troppo sale, spesso scende
precipitevolissimevolmente, così… E non ve lo dico. Che poco più di 90 pagine
in ottavo si possono far leggere anche da sfaticati lettori (e voi non lo
siete). Dicevo: senz’altro è un buon sunto dell’idea di città e comunità di
Aristotele, dove tutti (anche gli stranieri, i meticci) convergono al bene
comune, pagando per i servizi comuni. Questa comunità non disdegna la proprietà
privata (non siamo ai prodromi di comunismo, suvvia), ma il bene di tutti è
comunque il fine della condivisione. Che non a caso nasce (Libro Primo) nella
prima idea di “polis” quella dell’unione tra uomo e donna, nella famiglia. È lì
che il bene comune della famiglia è garantito dal bene individuale dei
componenti della stessa. Ma stiamo andando un po’ troppo sul filosofico (mi
faccio prendere la mano). Certo che vedendo il gretto utilitarismo personale di
molti nostri politici, questi trattati sul buon governo andrebbero letti e
commentati in ogni piazza. Ringrazio la Doody di avercelo ricordato, ma spero
che torni presto ad allungare i brodi filosofici con qualche sapore più deciso,
con qualche “mistero”, e con quel po’ di peperoncino che ci davano il
giavellotto o la poetica, ed altro. Minore, forse estivo (anche perché chi
conosce la Doody si aspettava di più e chi non la conosce mi sa che lo salta a
piè pari).
“È un modo per offrire il mio contributo ad
una città che amo e in cui ho scelto di vivere … Non possiamo dispiacerci di
pagare le tasse per sostenere la comunità che amiamo.” (21)
Matilde Asensi “L’origine perduta” BUR euro 10,90 (in realtà, scontato
8,17 euro)
[A: 15/07/2012 – I: 29/08/2012 – T: 03/09/2012]
[tit. or.: El origen perdido; ling. or.: spagnolo; pagine: 502;
anno 2003]
Dopo un paio di prove in minore,
con questo libro, la scrittrice spagnola mi ha riportato ad un discreto
livello, di fattura e di interesse, verso un romanzo storico – avventuroso.
Ritorna a muoversi nel presente (come aveva fatto nel primo “La casa d’ambra”)
con qualche mistero che viene da lontano. Anche la compagine che si muove su e
tra i misteri è più interessante delle ultime prove lette, creando un bel
connubio di interesse e conflitto tra informatici ed hacker da una parte ed
umanisti e archeologi dall’altra. Il tutto condito con la salsa di qualche
sorgente primigenia perduta, che mi ha subito riportato all’inizio dei miei
viaggi per il mondo. Di quelli intenzionali, ovviamente, quando si decise di
affrontare le sorgenti del pensiero extra-europeo, facendo uno di seguito
all’altro i viaggi in Egitto, in Cina ed in Perù. Il filone avventuroso della
trama si snoda attraverso le vicende narrate in prima persona da Arnau, un
(ormai) ricco informatico, che, partendo da una sua natura ribelle ed
anti-relazionale di hacker, ha fatto bei soldini con società “.com”. Ed ora si
trova ad affrontare il mistero dell’apparente agnosia del fratello archeologo.
Per capire la natura della malattia, Arnau, aiutato dai suoi fidi alter-ego
Marc e Lola, decide di buttarsi a capofitto nelle ricerche di Daniel,
ipotizzando (abbastanza facilmente) che siano correlate con quanto sta
avvenendo. I tre si imbattano quindi nella cosmogonia Inca e nella lingua
aymara, da subito individuata (anche sulla scorta di una conferenza di un tale
Umberto Eco in America nel 1996) come possibile lingua perfetta. Lingua duttile
e non binariamente aristotelica (non la conosco ma pare che in essa non valga
il principio “tertium non datur” e, in maniera rovesciata rispetto alle lingue
occidentali, si pone il futuro dietro alle spalle ed il passato davanti), che
pare non aver lasciato testimonianze scritte. Ben presto (ma noi visitatori del
Sud America già lo sapevamo) si scopre invece l’esistenza di tessuti e trame di
lana che non sono altro che modalità di scrittura. Scontrandosi, e poi
alleandosi, con l’equipe archeologica del capo di Daniel, guidata dall’interes-sante
Marta, un gruppo ristretto di 3 informatici e 3 archeo-antropologi, decide di
buttarsi nella foresta amazzonica alla ricerca della radice del mistero. Non
prima di aver passato pagine e pagine, che ho letto con immagini e immagini che
passano dietro agli occhi, in Bolivia a La Paz e poi a Tiwanacho, un sito che
ho esplorato a fondo nella penultima visita boliviana. Un sito all’apparenza
povero, ma in realtà (ed il libro ne dà una spiegazione interessante) denso e
fondante. Anche perché sulle rive del lago considerato uno di quelli primigeni
(il Titicaca) e perché teatro delle gesta sia del mito “Viracocha”, il
Viaggiatore venuto dall’altrove (non si sa se altrove dall’America o dalla
Terra) sia del primo imperatore, il grande Inca Manco Capac. Ho ritrovato miti
e leggende, ma anche testimonianze di quanto visto nelle scorribande andine (ed
è stato un piacere sottile). Il gruppo, tra peripezie ed agnizioni, riesce a
trovare il bandolo della matassa, sia della scomparsa della stirpe dei Capac,
sia delle possibilità della lingua aymara, sia di una possibile cura per Daniel
(e non vi dirò se funzionerà o no). Alla fine, in ogni caso, dall’Inferno
Verde, si ritorna alla natia Barcellona. I nostri avranno soprassalti di
saggezza, laddove il mondo non è ancora in grado di apprezzare un utilizzo
superiore al 5% degli emisferi cerebrali. Ma soprattutto il nostro Arnau scoprirà
le connessioni tra informatica, cervello e scoperte, riuscendo a creare un
ponte fra mondo scientifico ed umanistico (ognuno dei due è migliore se
collabora con l’altro). Decidendo di dedicarsi alla radice dei problemi:
l’evoluzione. Perché poi tutto il discorso, inventato e para-scientifico, si
riduce alla ricerca della comprensione di come siamo arrivati ad essere quello
che siamo. Non tanto per entrare, in modo errato, in una battaglia tra
evoluzionismo e creazionismo, quanto per raccogliere tutte le testimonianze al
fine di poter interpretare meglio quanto ci circonda. Certo, ho caricato un po’
qualche aspetto dello scritto che mi ha stimolato, e che consiglio come libro
di avventura piuttosto che come saggio antropologico. Ma a me, è piaciuto. Una
buona risalita, dopo alcune letture non troppo esaltanti.
“Nella vita si impara, si sperimenta, si matura, ma cambiare, in
effetti, non si cambia molto.” (23)
A chi (e non sono pochi) sostiene
che qui si legga soltanto (fatto salvo che negli ultimi mesi poco tempo per
fare altro mi rimane), consiglio anche l’ultimo film che ho visto. Non
eccezionale, ma dignitoso. “Il comandante e la cicogna” di Soldini, con alcuni
intarsi garibaldini ben curati. Intanto si avvicina anche il ponte dei morti e
forse una nuova gita in campagna (nonché un saluto a chi ho finalmente
aggiornato la rubrica).
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