Ai nostri montoni, come diceva il
primo testo che la mia vecchia professoressa di francese citava a piè sospinto.
Torniamo cioè ad autori francesi. Anzi, li ritroviamo che già di loro si è
letto. Qui Schmitt l’ho trovato in ribasso, mentre, per diversi motivi, gli
altri tre sono di buon livello. Sia per il ricordo del Mali, o dell’Armenia. O
solo per riflettere sui rapporti umani, come ci fa fare Khadra.
Eric-Emmanuel Schmitt «Ulysse from Bagdad » Livre de Poche euro 7,30
(in realtà, scontato con FNAC BXL 7 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 20/06/2012 – T: 22/06/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 275;
anno 2008]
Sono un poco dispiaciuto di
questa lettura del mio peraltro benvoluto E-E (Eric-Emmanuel). D’altra parte,
come ho rimarcato in altre trame, non sempre un autore a me caro mi rimanda
livelli di godimento come in altri suoi scritti. Qui l’operazione generale di
Schmitt non è formativa come in Monsieur Ibrahim, non è liberatoria come nelle
favole dei suoi racconti brevi, non è ironica come nel teatro dei crimini
coniugali. È una storia che cerca di mettere a fuoco alcuni aspetti delle contraddizioni
odierne, mettendosi (come spesso accade in Schmitt) nei panni di un altro. In
questo caso dell’irakeno Saad Saad. E portandoci in soggettiva nella sua
storia, facendocene passabilmente partecipi, con un breve volo sull’infanzia e
la giovinezza sotto Saddam, ed una lunga disamina del presente post-invasione
(o post-liberazione?). Ma il tutto gestito sulla falsariga del viaggio di ritorno
di Ulisse da Troia verso Itaca. Cerca di metterci molto dello spirito omerico
(gli interventi del padre morto a guisa degli interventi degli dei dell’Olimpo,
i lotofagi, la fuga da Polifemo, Nausicaa, Didone, le sirene, e molto altro).
Con due grosse differenze: non c’è Penelope in fondo al viaggio; non è un
ritorno ma una fuga. E Saad non ha la spigliatezza ulisseide, neanche se rivisto
con gli occhi di chi ha letto Jean Giono e la Nascita dell’Odissea. Intanto, mi
aveva storto dalle prime righe quando l’io narrante si presenta, dicendo di
chiamarsi Saad, che vuole dire Speranza in arabo, ma non Triste in inglese che
fa solo Sad. Giocare con i nomi, facendo qualche piccolo inganno è una cosa che
mi manda fuori di sentimento. Poi c’è quella assurda morte del padre (ma quali
non sono e furono assurde nelle tutt’ora imperversanti guerre mediorientali?). E
soprattutto, quel tornare del fantasma del padre morto, a far da contraltare e
compagno al lungo viaggio di Saad. Certo, ha la sua funzione retorica, ma mi
manca la sua funzione realistica. Infine questo ripercorrere un viaggio
omericamente scandito, certo ha il solito fascino delle costruzioni intellettuali
(quando si riconoscono i passaggi che l’autore cerca di camuffare) ma lascia
perplesso per la sua funzione narrativa. Infatti, se segui Omero, io mi aspetto
ad ogni cambio di scena la riproposizione di un diverso momento omerico,
perdendo di vista quello che mi stai cercando di narrare. Se ne vuoi fare
ironia, questa si perde. Se invece vuoi usare il viaggio come metafora, e
Ulisse come eponimo dei migranti attuali, la costruzione fatta in questo modo
perde di incisività, di spontaneità. Rimane certo quel bel passaggio sugli
emigranti che viaggiano con troppi bagagli o che partono leggeri. Quelli con i bagagli,
in realtà, non partono mai, si spostano ma portano sempre con sé il loro io, il
loro problema, quello che li ha spinti alla partenza. Mentre il buon
viaggiatore parte leggero, pronto ad approfittare del nuovo paesaggio, a
modificarsi, ad adattarsi. Ma dopo questo mini-saggio, il resto naviga da una
città all’altra, da una nazione all’altra. Finendo lì dove Saad voleva
arrivare. Ma sarà giusto essere giunti sino a lì? E ci si è arrivati leggeri,
come si era decisi, o, pur senza bagagli, si è ancora dei cattivi emigranti che
portano tutti i problemi con sé stessi? Anzi dentro sé stessi. Io propendo per
la seconda ipotesi. Dopo anche che ci sono tutta una serie di passi con giuste
invettive su personaggi cattivi e poco affidabili, ma anche su doganieri comprensivi
e disposti all’aiuto. Tutto un mondo, direte voi. Certo, ma poco partecipato e
partecipativo. Tant’è che la fine lascia freddini e dubbiosi sui motivi della scrittura.
Hai scritto di meglio. E di meglio di tuo leggerò, senza dubbio. Alla prossima E-E.
“Le plus difficile dans une
discussion, ce n’est pas de défendre une opinion, c’est d’en avoir une.” [La
cosa più difficile in una discussione, non è difendere un’opinione, ma averne
una] (43)
« Le passé n’est pas un
pays qu’on laisse facilement derrière soi. » [Il passato non è un
paese che si lascia facilmente dietro di sé.] (194)
« L’homme n’aurait
jamais dû devenir sédentaire, il aurait dû rester nomade, ainsi il n’y aurait
pas de frontières. » [L’uomo non sarebbe ma dovuto diventare
sedentario, sarebbe dovuto rimanere nomade, così non ci sarebbero state le
frontiere.] (242)
« Les rêves ne nous
apprennent pas ce qui va se passer mais ce qui se passe. » [I sogni
non ci insegnano del futuro ma ci parlano del presente.] (175)
Gilbert Sinoué “Erevan” J’ai lu euro 7,60 (in realtà, scontato con FNAC
BXL 7,30 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 08/07/2012 – T: 11/06/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 376;
anno 2009]
Un libro almeno da meditare. Dopo
“La masseria delle allodole” di Antonia Arslan (e lo struggente film che ne
hanno tratto i fratelli Taviani), dopo un viaggio in Armenia finito in
Provenza, dopo un trekking sul monte Ararat mai cominciato, dopo una
commemorazione del genocidio armeno cui ho assistito una Pasqua tardiva a
Gerusalemme, torniamo a concentrarci sull’Armenia, e, visto che siamo qui per
questo, sulla scrittura. Che qui affrontiamo due corni del problema: da un lato
il fatto in sé e dall’altro la scrittura di Gilbert Sinoué, di cui si è letto
(e con gusto) la storia di Avicenna e quella del ragazzo di Bruges sulla
nascita della pittura ad olio. Lo strano scrittore casualmente nato al Cairo,
ha scritto poi anche altre cose che mi incuriosiscono (e prima o poi troverò la
storia del papa Callisto I°), avendo sempre (o spesso) questa cifra di
scrittura tra il vero, il verosimile ed il romanzesco, quasi che dovesse
partire da basi solide prima di spiccare il volo. E certo, qui di basi solide
ce ne sono. Che appunto la storia armena degli ultimi 150 anni ne è piena. Come
immaginabile, si concentra giustamente sul periodo centrale, sul periodo turco.
Con un inizio una ventina d’anni prima, sempre ad Istanbul, ed un’appendice
qualche anno dopo, in una Berlino non ancora nazistizzata. Non vi complico la vita
con gli impronunciabili nomi armeni (dove per fortuna i cognomi finiscono tutti
in –ian), ma giocando sui due registri Sinoué narra l’epopea di una famiglia,
che prima partecipa alla rivolta del 1896 con l’occupazione della Banca
Ottomana, poi prosegue con l’appoggio alla rivolta dei Giovani Turchi del 1909,
che sembrava annunciare aree di liberalizzazione. Infine si incentra sui due
nipoti del rivoluzionario, che all’epoca dei fatti sono tra 13, lui, ed i 17,
lei. Dell’amorazzo di lei per il bel giovane in partenza per la Germania. E da
lì, dalla periferia dell’Impero, seguiamo il precipitarsi degli avvenimenti. La
costituzione delle bande armate anti-armene. Fino al grande massacro iniziato
il 24 aprile del 1915. Tutti gli uomini della borghesia turca vengono
imprigionati in Costantinopoli e poi barbaramente uccisi. Le popolazioni rurali,
per fittizi motivi di sicurezza, vengono deportate e cominciano a vagare
scortate da Erzegoum a Urfa ad Aleppo al deserto siriano. Ogni volta sempre di
meno. Anche la nostra famiglia viene deportata, salvandosi solo il più giovane
che, nell’appendice berlinese, ritrova il bel giovane innamorato della sorella.
Fanno parte di una setta segreta chiamata Nemesis, che si occuperà di uccidere
i vari responsabili dei massacri, lasciati impuniti dalla giustizia turca.
Tanto che il Thelirian diventerà un eroe per il popolo armeno. Lo scritto non
ha la crudezza della Arslan, anche se non mancano scene forti. Ha però il
merito di cercare di spiegare (o di cercare di comprendere) motivi ed
atteggiamenti del genocidio. Perché il triumvirato uscito dalla rivoluzione dei
Giovani Turchi diventa poi artefice ed organizzatore del massacro? In nome di
un ideale pan-turco, che voleva vedere fuori dai piedi prima gli armeni, poi i
curdi, i circassi e via discorrendo? E quale fu anche il ruolo dei curdi,
all’epoca sodali e solidali con il potere e poi anche loro in via di sterminio?
Questa la parte migliore, la descrizione della mollezza dei costumi dei
governanti (mi ricorda qualcosa…) che porta popoli alla rovina. C’è da chiedersi,
tornando al primo corno del dilemma sopra esposto, perché poi questo massacro
sia stato ignorato per decenni. Solo recentemente alcune nazioni parlano di
genocidio (e solo 21 paesi lo hanno bollato così ufficialmente), ed i governi
turchi ancora lo tengono nel cassetto. Tento che, per un’incauta frase, anche
il Nobel Pahmuk ha rischiato di venir imprigionato. Certo non si può pensare
che sia stata solo la follia di tre ufficiali anche se di alto grado, che abbia
permesso lo sterminio di un milione e trecentomila persone (e come suggerisce
altrove De Luca, utilizzo le lettere perché si tratta di persone). E certo non
siamo sui sei milioni di ebrei, ma il numero è impressionante. Una ferita
ancora aperta, che spero porti, almeno in occasione del vicino centenario ad un
ripensamento generale e mondiale. Un solo unico appunto alla pur sempre fedele
descrizione del nostro amico storico francese: la Manon che il vecchio nonno
ascolta a ripetizione è cantata da Tito Schipa e non da un certo Tito Schippa!!
Erik Orsenna “Madame Bâ” Le livre de poche euro 8,40 (in realtà,
scontato con FNAC BXL 8,10 euro)
[A: 22/06/2011 – I: 27/07/2012 – T: 04/08/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 503;
anno 2003]
Premesso che sono sempre
affezionato ad Orsenna (e dopo vi ricordo perché) questo libro mi è piaciuto
diciamo all’80% (ma già fin d’ora ne consiglio la lettura anche in italiano,
essendo uscito da TEA a 8,60 euro). L’affezione avvenne per quella serie di
libri scritti per la grammatica, con molta poesia ma anche con molta precisione
(e tra un po’ ne cercherò un altro se ne ha scritto). E questo libro me lo ha
riconfermato, riuscendo in una doppia operazione: scrivere un libro interessante
sulla condizione della donna in Africa (ed anche se scritto da un uomo va bene)
e scrivere sui guasti della colonizzazione (sia per i colonizzati che per i
colonizzatori, a valle delle sue personali esperienze nel campo). Infine perché
si svolge nel Mali. E mi ha dato finalmente un modo di guardare correttamente
le diverse etnie: i peul, i bambara, i soninke, i Dogon e tutti gli altri che
forse non ricordo. L’idea di partenza, che con maestria Orsenna sviluppa per
almeno ¾ del romanzo, è questa: una donna, Marguerite Dyumasi sposata Bâ, si è vista rifiutare il visto per la Francia
(e poi scopriremo perché), e per fare ricorso, analizza casella dopo casella,
le risposte che le vengono chieste nel formulario standard. E per ognuna, apre
un piccolo racconto, che alla fine ricostruisce la vita di una comunità
maliana, che si trova tra Bamako e il Senegal. E la sua vita, figlia di un
ingegnere delle acque con otto tra fratelli e sorelle, studiosa, poi
innamoratasi di un nomade peul. Bella la pagina in cui il padre convince il
futuro genere a sposare il nomadismo con la modernità, diventando macchinista
per le locomotive della linea Bamako – Dakar. L’amore per il signor Bâ, la nascita
e la crescita dei suoi otto figli, l’amore per il nipote Michel (chiamato così
in onore di Platini). Ma anche i dolori e le morti: dei genitori, del marito.
Il doversi ricostruire la vita. Rimboccarsi le maniche e diventare insegnante.
Ed ogni volta scontrarsi con la burocrazia coloniale. Dice ad un tratto Orsenna
che la corruzione dei funzionari francesi è anche dovuta alla connivenza con
gli africani (così come gli schiavi venivano portati via dall’Africa con
l’aiuto di capi tribù corrotti). Sono bruciature le pagine sulla costruzione di
duecento metri di strada asfaltata nel deserto, che servono solo a riempire di
mazzette francesi e maliani. Ma tante sono le pagine degne di essere
sottolineate: tutte quelle in cui si fa vedere ad esempio, come poter dire
quale sia il paese di nascita, per gente abituata a grandi spazi senza confini.
O lo stato sociale, sposata, sola, vedova, quando i morti rimangono sempre
vicino, prima e dopo la morte nel sincretismo africano. O la professione di
questa donna di cinquanta anni, che ha dovuto cambiare stato sociale e lavoro e
tanto altro prima di ritrovarsi ad essere tante cose senza riuscire a definirne
una. Tutta la parte finale, di molto incentrata sul rapporto tra la Francia che
attira come una forte luce le falene africane per farle bruciare nei miraggi di
belle città, di soldi facili, di sfondare in poco tempo come divi del pallone.
Tutta questa parte è di un dolore unico. Come dolore ha il ritrovare la corruzione
tra i suoi stessi parenti: e sarà un fratello del marito, gran trafficone, che
le farà rifiutare il visto dopo che lei non accetta le sue profferte sessuali.
Ma la positività dell’africanismo della nostra signora non potrà che portarci
del sorriso anche nelle situazioni difficili. E ci farà riconciliare con
quelli, pochi ma esistenti, che sono corretti ed onesti. Non vi dirò come va a
finire, che è bello tutto il percorso per partire dal grande nonno Osmane per
arrivare al nipotino Michel. Ripeto, un bel libro e interessante, che noi
reduci dal Mali si deve assolutamente leggere.
“Le
savoir nous cache la vérité !” [Il sapere ci nasconde la verità!] (108)
“N’oublie
jamais qu’un amour immobile est un amour mort.” [Non dimenticare mai che un amore fermo è un amore morto.] (148)
“[après
du sexe sauvage] Tu t’imagines un enfant conçu dans cette position ?
Forcément mal formé, les jambes au-dessus de la tête, un vrai Picasso !” [dopo aver fatto sesso selvaggio… Ti immagini
un bimbo concepito in questa posizione? Sicuramente mal formato, le gambe sopra
la testa, un vero Picasso!] (177)
“La
boussole et la télévision étaient de la même famille néfaste … Un piège qui
vous force à regarder loin de vos racines, toujours vers le Nord, au-delà du
bout du monde.” [La bussola e la
televisione erano della stessa famiglia nefasta … Una trappola che costringe a
guardare lontano dalle vostre radici, sempre verso il Nord, oltre la fine del
mondo.] (350)
“Celui
qui n’a pas compris la différence entre nomades et voyageurs, celui-là est un
imbécile.” [Chi non comprende la
differenza tra nomadi e viaggiatori è un imbecille.] (433)
“Aman
Iman : l’eau c’est la vie, en bambara.” [l’acqua è vita, in dialetto bambara.] (482)
Yasmina Khadra « Ce que le jour doit à la nuit » Pocket euro 8,75 (in
realtà, scontato con FNAC BXL a 8,45
euro)
[A: 22/06/2011 – I: 02/09/2012 – T: 13/09/2012]
[titolo: originale; lingua: francese; pagine: 441;
anno 200x]
Dopo più di un anno di riposo
dall’ultimo Khadra, quello del commissario, che alla fine mi aveva lasciato
delle perplessità, riprendo in mano un libro dello scrittore algerino. Benché
ormai allontanatosi dalla polizia, ed a tempo pieno dedito alla scrittura,
mantiene il suo nom de plume, con il quale è ben conosciuto. Mi sono accostato
allo scritto un po’ titubante. Non sapevo se la mancanza dell’eroe commissario
mi avrebbe portato a sottostimare il libro. Non sapevo anche se la trama che
elaborava mi avrebbe tenuto sulla pagina e fatto riflettere, come le sue prove
cui ormai ero abituato. E di cui conoscevo meglio pregi e difetti. Alla resa
dei conti, devo dire che il risultato, pur altalenante, non mi ha deluso. Un
libro non tutto alla stessa altezza, con qualche punto in cui, pur conoscendo
il mondo arabo, le sue ritrosie ed i suoi tabu, sono rimasto dubbioso (sarà
religione, costume o idiosincrasia del personaggio, a farlo agire così?). La
storia di quello di cui il giorno è debitore alla notte, è la storia di Younes
detto Jonas, che seguiamo dalla nascita negli anni ’30 ad un epilogo, bello,
dolente e necessario ai giorni nostri. La prima parte è molto forte sul piano
personale, mi ha coinvolto e addolorato. La storia della caduta della famiglia
di Younes, dovuta all’intransigenza del padre, che, pur di non piegarsi, di non
scendere a nessun compromesso, fa una profonda discesa negli abissi della
povertà sempre più povera. Younes guarda il padre dannarsi, e non sa come
aiutarlo, cosa fare. In fondo, come può un ragazzo sui dieci anni trovare i
modi? Il padre, tuttavia, dopo aver perso la campagna, poi la casa di campagna,
e poi tutto, non può che arrendersi, e confidare il figlio al fratello
farmacista, cercando (ma senza riuscirci) di salvare sé stesso, con moglie e
figlia piccola. Da qui partono i brani centrali, quelli più “leggeri”, che ci
portano via dalla brulicante periferia di Orano, per la piccola cittadina di
Rio Salado, che sarà l’orizzonte di tutto il resto della vita del nostro. In
questa parte c’è tutta la doppiezza del mondo algerino negli anni quaranta fino
a metà dei cinquanta. Quando i francesi erano sull’onda vincente, erano i
gestori del territorio. E qui Younes diventa Jonas. Frequenta scuole e compagni
e ragazze per la maggior parte francesi. Ha anche qui dei piccoli drammi, tra
amore e rifiuto. E l’incontro che sarà il perno di tutta la sua vita. Con
Èmilie, la bella, la dolce, di cui si invaghisce, forse ricambiato, ma di cui
ben presto perde le tracce. Passano anni spensierati, Younes sempre più
impegnato nella farmacia dello zio, con una grande iniziazione all’amore dalla
bella signora misteriosa incontrata sulla spiaggia. Peccato che (ma si scoprirà
dopo) la signora sia anche la madre della bella Èmilie. Che quando torna a Rio
Salado farà strage di cuori nel cerchio dei 3 amici di Younes. Ma lei ha gli
occhi solo per lui. E lui (questa è la parte che mi lascia dubbioso) per un
sentimento di rispetto per quell’infatuazione, la rifiuta, soffrendone per
tutta la vita. Sì, ha fatto l’amore con la madre, ma… Non so, discutiamone i
risvolti etici. Khadra sfrutta questo elemento per impostare tutta la storia di
Younes, che non si rimetterà mai, anche se avrà altri momenti, avrà storie, e
mogli e nipoti. Ed in fondo sarà partecipe di una sua parte di felicità. Ma
quella storia che il giorno non saprà mai lo costringerà, sempre e comunque, a
rimanere sempre vivo nelle sensazioni. Qui comincia, anche se sviluppata in
poche pagine, la rivisitazione dei momenti di lotta algerini, tra le prime
rivolte della fine dei cinquanta, sino alla rivoluzione ed alla riconquista del
territorio (quella che mi rimane immortalata nel bellissimo film ‘La battaglia
d’Algeri’) nella prima metà di sessanta. Younes farà la sua parte. Ed i suoi
amici, francesi, saranno invece costretti all’esilio. Ci saranno anche drammi
ed altro, che non vengo a svelare. Trovatelo in italiano, c’è e si legge bene.
Sarà solo l’epilogo sulla tomba di Èmilie ad Aix-en-Provence che cercherà di
ricucire tutto un mondo che si sgretolò. Khadra, nella parte politica, cerca (e
sono con lui) anche di trovare parole di descrizione rispettose delle bontà di
alcune posizioni, anche contrapposte. Non tutti i francesi occupanti sono
assassini, come non tutti i ribelli sono puri di cuore. Il grigio c’è ed
impera. Nel complesso, un bel libro, che non concede nulla al facile ottimismo,
all’happy end ed altro. Riuscendo in quell’operazione che solo i buoni libri
riescono a portare avanti. Descrivere un pezzo della vita. E darci modo di
rifletterci su.
In fondo, una bella proposta di
lettura. Dopo una bella settimana illuminata da una candela sopra una bilancia.
Ed programmando una nuova settimana per festeggiare il compleanno della mamma.
Intanto, come si diceva anni ed anni fa con il mio amico Agostino, 50 giorni
all’alba.
Un
bacio
Giovanni
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