domenica 12 maggio 2013

Avventure in Egitto - 12 maggio 2013


Una settimana mono-tematica, tutta dedicata ad alcuni romanzi dell’inglese Elizabeth Peters che continuano a narrare le vicende dell’archeologa Amelia Peabody nell’Egitto a cavallo del XX secolo (le prime di cui scrissi cominciano intorno al 1885, le ultime che verranno si collocano intorno al 1920). Come scrissi e ripeto, scrittura agile, scorrevole, con qualche punta gradevole e qualche passaggio un po’ stanco. Ma stiamo in Egitto, amici, e come ci si può tirare indietro?
Elizabeth Peters “L’enigma della piramide nera” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 25/01/2013 – T: 30/01/2013]
[tit. or.: Lion in the valley; ling. or.: inglese; pagine: 359; anno 1986]
Sempre agile, ma mi aspettavo qualcosa di più. A cominciare dalla solita discussione sui titoli. L’inglese “Lion in the valley” indica uno degli attributi del dio Sethos, che ha un senso nella storia, come vedremo. I due titoli italiani con cui questo libro è uscito sono “allucinogeni”. Il primo (al tempo della prima pubblicazione nei gialli Mondadori) recitava addirittura “Amelia Peabody e il maestro del crimine”. Questo della TEA fa riferimento alla Piramide Nera, una delle piramidi in località Dashur non lontano da Il Cairo (quaranta chilometri a sud, molto vicino a Saqqara). Ma i nostri eroi non entrano mai nella piramide in questa storia (mentre vi erano rinchiusi nella precedente). Anzi lavorano alle due Piramidi di Snefru, la rossa e la romboidale. E l’enigma è tutto altrove. O meglio, di enigmi ne abbiamo pochi, e tutto si gioca sull’abilità della nostra veterana scrittrice di creare atmosfere ed intrecci, più o meno plausibili. Intanto abbiamo gli eroi della serie, che per ora rimangono fedeli a se stessi, come nelle fiction meglio riuscite. Amelia, la voce narrante, che ci guida lungo i passi della trama, non disdegnando (cosa quanto mai utile) sia digressioni archeologiche (anche se in questo libro meno che altrove), sia tirate contro la strapotenza maschile che relega la donna ad un ruolo di secondo ordine (quando va bene). Questi, in realtà, sono in questo libro i passi migliori: la donna è intelligente, sa fare il proprio lavoro al meglio (e sa anche organizzare gli affari domestici), ed altre frecciate che hanno senso sia all’epoca della vicenda (ricordo che questo romanzo si dovrebbe collocare tra l’ottobre 1895 e la Pasqua del 1896) ma anche all’epoca della scrittura, che anche nel 1986 (anno anagrammatico della vicenda quindi) non è che la donna sia meglio trattata. Poi ci sono i maschi della famiglia: il marito Emerson, rude all’esterno e tenero verso Amelia, con la quale cerca di appartarsi appena possibile per indulgere in piaceri privati, che sembrano essere graditi da entrambi. Ed il figlio Walter detto Ramses, che ad otto anni parla correntemente arabo ed inglese, legge i geroglifici, ed ha la spiccata tendenza a mettersi nei guai, per seguire le sue idee di giustizia, innescando simpatici duetti verbali con i genitori (che salto all’indietro quando chiede al padre notizie sulla sessualità, ed Emerson comincia dalle amebe…). Purtroppo nel romanzo precedente, pur sventando le minacce contro di loro, i nostri non hanno assicurato alla giustizia il colpevole, che qui puntualmente si ripresenta, sembra con la feroce intenzione di vendicarsi. E si scopre così che nell’ambiente criminale de Il Cairo è soprannominato Sethos, il dio dai mille volti. E mille saranno i travestimenti che utilizzerà nel corso della storia. La quale, al solito, viene allietata da Enid, una signorina ambiguamente in pericolo, che Amelia non potrà fare a meno di soccorrere. E da un ufficiale dell’esercito radiato dal corpo, che si sta perdendo in Egitto, ma che ben presto scopriamo che è innamorato di Enid e che è stato allontanato perché non ha voluto accusare il fratello cadetto, che tenta di proteggere benché questi non sia niente di buono. La vicenda si dipana così lungo binari un po’ statici: pericoli, agnizioni, scoperte, buoni che sembrano cattivi e viceversa, con Sethos il cattivo che imperversa. Non manca la solita scommessa tra Amelia ed Emerson su chi riuscirà a smascherare il cattivo. Tutto si risolverà, anche se non tutto sarà risolto. Con questo piccolo enigma lascio la storia, e passo a sottolineare l’altro aspetto che mi fa cari questi libri: le descrizioni egiziane e cairote, l’albergo Shepheard, piazza Tahir, il caffè arabo ed i vicoli di Muski. Ahi perché non siamo di ritorno a passeggiare lungo il Nilo, verso Zamalek? Bisognerà tornarci, e presto (primavere arabe permettendo).
Elizabeth Peters “Indagine nel museo Egizio” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 30/01/2013 – T: 03/02/2013]
[tit. or.: The Deeds of the Disturber; ling. or.: inglese; pagine: 408; anno 1988]
Continuiamo con il quinto episodio della serie che ha per protagonista la nostra eroina, Amelia Peabody Emerson, e le gesta del suo gruppo familiare di archeologi dediti alla scoperta dei misteri affascinanti dell’Antico Egitto. Questo episodio, purtroppo, continua la tendenza al ribasso delle storie narrate dalla Peters. Sono momenti che passano in tutte le avventure seriali, dove, appunto, non sempre si riesce a mantenere per libri e libri la stessa tensione. Intanto, visto che questa è una recensione abbastanza critica, cominciamo con la solita mania italiana di sostituire senza un vero perché i titoli originali. Che non a caso, recitava nell’originale, “Le gesta del disturbatore”, incentrando l’attenzione del lettore su un misterioso personaggio, che, per l’appunto, “disturba” la quiete del Museo Egizio di Londra, e non solo quello. Già la prima traduzione andava fuori le righe, forse perché il romanzo venne pubblicato nei Gialli Mondadori, e divenne subito “I delitti del Museo Egizio”. Fortunatamente, il tiro viene corretto in queste edizioni tascabili, visto che di delitti, nel Museo Egizio, non se ne verificano affatto, con il più soft “Indagine al Museo Egizio”. L’unico elemento che serve al lettore, ma lo si sarebbe scoperto leggendo, è appunto che questo episodio si svolge tutto a Londra, avendo come epicentro dei ragionamenti deduttivi, non tanto il Museo Egizio, quanto l’archeologia egizia ed i suoi eponimi presenti sulla piazza londinese. La famiglia Emerson, di ritorno dalla spedizione di cui narrata sopra, si appresta a passare un’estate inglese, per mettere a posto quanto scoperto e dedotto in Egitto (un libro per Radcliffe, un’analisi della Piramide romboidale per Amelia e gli esperimenti sulla mummificazione del piccolo Ramses). Questa routine è ben presto sconvolta da avvenimenti familiari (ad Amelia vengono lasciati per l’estate i suoi due nipotini, il perfido Percy e la piccola e bulimica Violet) e da avvenimenti “delittuosi”. C’è un morto nel Museo (ma si scoprirà che non è stato ucciso, bensì…), e c’è la stampa che (per aumentare le tirature) ci gioca sopra facendone nascere un caso. Soprattutto da parte di Kevin (che conosciamo per essere stato presente un paio di episodi fa) e della sua rivale miss Minton (nobile decaduta, ma di buona penna, che cerca in tutti i modi di entrare a suon di scoop in un mondo maschile). La bella è inoltre concupita, con discrezione, da Eugene, un archeologo del museo, che non si capisce se imbranato o furbo. Poi muore un archeologo legato al museo, ma viene ucciso sulle rive del Tamigi, vicino all’obelisco egizio. Amelia entra potentemente in azione, e, anche se non pienamente in accordo, ma sostenuta dal marito, scopre alcune possibili piste. Tutte legate appunto all’apparizione di un disturbatore, che si mette a recitare versi in antico egizio, davanti ad una mummia da poco arrivata a Londra. Mummia donata da un parente cadetto della regina Vittoria. Parente dedito sicuramente all’oppio, che va a fumare nella casa del fumo della bella Aysha. La quale poi non era altro che una vecchia (temporalmente) amante dello stesso mr. Emerson, prima che questi passasse (e definitivamente) ad Amelia. Ma la tresca scatena anche la gelosia della nostra. Si avviluppano così tutta una serie di storie. Percy che cerca di “mettere in cattiva luce” Ramses per entrare lui nelle grazie dei ricchi Emerson (con tentativi miserelli e fallimentari). Ramses che continua a fare il saccente (ed un po’ stufa), ma anche a divertirsi con i travestimenti trafugati al cattivo Sethos della puntata precedente (e stranamente Sethos non compare in questo libro), e ad utilizzarli per salvare la situazione finale. Poi c’è il possibile scandalo del coinvolgimento della famiglia reale nelle tresche, anche se i gaudenti aristocratici hanno sicuramente qualche colpa ed organizzano qualche festino di troppo. Poi ci sono i giornalisti, le possibili storie d’amore, e la scoperta dell’insospettabile cattivo, questa volta preso ed arrestato, così che almeno questa parte di storia possa avere un punto fermo. Ma come detto è tutto un po’ lento, un po’ macchinoso, troppo “inutilmente fumoso” per dare qualche area di mistero alla vicenda. E non c’è (cosa che almeno aveva un suo fascino) l’aggirarsi per le vie polverose del Cairo, tra caffè e vecchi bazar. Insomma, una lettura minore, giusta solo per distrarsi in un momento di difficile organizzazione di vita, tra lavori ed impegni. E per finire ancora con qualche tirata d’orecchi agli editor della TEA, che iniziano la quarta chiedendosi se la paura può uccidere, e sviando l’attenzione del lettore su un terreno che non verrà mai toccato durante la narrazione. Rimane qualche nebbia londinese, ma Londra non è una città che ami troppo, quindi rimane nebbia e non si dirada.
“Non ho mai creduto che la casualità della nascita comporti obblighi per le parti interessate, neppure tra genitore e figlio, una volta superato il periodo di dipendenza, quando la prole ormai adulta, cui è stato garantito ogni vantaggio in termini di salute e istruzione, è ormai in grado di reggersi per conto suo. L’affetto, invece, va guadagnato. Per quelli che mi stanno a cuore darei la vita, il mio onore e tutti i miei beni terreni … e do per scontato che loro farebbero lo stesso per me.” (66)
Elizabeth Peters “Il mistero della città perduta” TEA euro 9 (in realtà, scontato 8,65 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 15/02/2013 – T: 19/02/2013]
[tit. or.: Last Camel died at Noon; ling. or.: inglese; pagine: 446; anno 1991]
Sono rimasto un po’ deluso da questo nuovo episodio delle storie della famiglia Peabody-Emerson nelle lande egizie. Già il precedente era risultato un po’ moscio, tutto ambientato a Londra sulla scia di misteri “da cartolina”, del tipo di quelli che anni dopo hanno regalato al cinema le ignobili serie de “La Mummia”. Questo, come la stessa autrice confessa nel finale, a mo’ di ringraziamenti e note autorali, è in realtà un piccolo omaggio alla letteratura inglese dell’Ottocento. Quella dedicata ai Mondi Perduti, per intenderci, che ebbe come capostipite Rider Haggard e i sui romanzi “Lei o La donna eterna” e “Le miniere di Re Salomone”. Intanto, e fortunatamente, siamo ormai lontani dal Kent e dalla piovosa Albione. Amelia, con il marito Radcliffe ed il figlio Ramses, sono di nuovo in Egitto, e per di più, non nei dintorni de Il Cairo. Questa volta hanno ottenuto un firmano (ebbene sì, questo è il nome giusto e corretto, un decreto che consente all’archeologo di svolgere lavori sotto l’egida dei governatori egiziani) per scavare al confine tra Egitto e Sudan, nel pieno della zona nota come Nubia. Incidentalmente, è la stessa zona, che, prima di partire, un lord inglese aveva loro nominato come luogo della scomparsa del figlio e della nuora. Ed in quella zona verranno visitati ben presto dal fratello dello scomparso, per il momento unico erede del venerando Lord. Si susseguono avvenimenti poco significativi (almeno come presa per il pubblico che già conosce i nostri eroi). Piccole avventure, il solito affaccendarsi del piccolo Ramses (che credo ormai vada per i 12 anni), il contrasto tra inglesi archeologici, scavatori locali e truffatori che si aggirano per quel mondo ancora da scoprire (dovremmo essere, infatti, intorno al 1897). C’è la mappa dello scomparso Mr. Forth, ma non sembra che i nostri abbiano intenzione di agire. Sarà Reggie, allora, che comincerà a muovere le acque, decidendo di partire con uno sparuto gruppo di cammellieri. Al suo mancato ritorno, Amelia & Co vedono che non c’è altro da fare, se non partire a loro volta. Qui si consuma la prima parte un po’ neutra, come dice poi il titolo originale, che recita letteralmente come l’ultimo cammello sia morto a mezzogiorno. Vedremo anche noi morire i nostri eroi? Sicuramente no! Ed ecco venire in soccorso i Mondi Perduti di Rider Haggard. Perché è una tribù ignota, che vive all’interno di una non meglio (e mai più) identificata Oasi Perduta. Vive isolata, senza contatti con l’esterno, in un mondo mutuato dall’Antico Egitto, con rigide caste sociali. Da un lato i nobili, dall’altro la plebe che lavora. Sono loro che salvano i nostri dalla morte. Ma, ed è ovvio e non si può immaginare sviluppi differenti, è anche la tribù che non li lascerà mai andare via vivi. Così come aveva fatto con i coniugi Forth una dozzina di anni prima. Tribù che ha anche preso prigioniero Reggie. Tribù che si trova in un grande conflitto dinastico, essendo morto il re padre padrone, e vedendo ora contendersi il trono i due fratellastri: Tarik e Nastas. Anche tutti i nobili, e le guardie si schierano (non apertamente, è ovvio). Si costruisce così un castello di inganni e di doppi giochi, abbastanza semplici (se letti con l’occhio alla scrittura) o molto complicati (se letti con l’occhio al tempo della trama). Unica costante, le strizzatine d’occhio che ci fa la nostra Amelia - narratrice quando riesce ad appartarsi con il suo bel marito, per fare cose che poi (sfortunatamente) non ci descrive, ma che ben capiamo. Tarik, scopriamo presto, è stato anche allievo di mr. Forth, che gli ha inculcato alcuni cosiddetti valori occidentali che poco si adattano alla cultura, ferma a mille anni prima di Cristo, in cui vive la tribù perduta. I nostri scoprono inoltre che i coniugi, lì nel mondo perduto, hanno anche messo al mondo una figlia, la bella Nefer, più o meno coetanea di Ramses. Immaginate bene che ci sarà, nel più puro stile ottocentesco, una catarsi finale, in cui ognuno troverà il suo posto, e dove, ovviamente (altrimenti non ci sarebbero altri libri da scrivere), Amelia ed i suoi riusciranno a fuggire portando con sé solo Nefer. E già mi immagino che la bella verrà adottata nei prossimi romanzi (vedremo se vincerò la scommessa). Detto che ci fa piacere vedere le birichinate di Ramses, che a poco a poco si rivela la persona più saggia del trio, poco altro resta del romanzo. Che, ripeto, sarà un sentito omaggio, ma scorre via senza dare molti altri piaceri. Certo, non mi tiro indietro quando si sente parlare di luoghi del deserto. E la nonnetta Peters non solo sa scrivere, ma è ben documentata su luoghi e situazioni. Però, questo è in minore.
“Gran parte dei ragazzini sono autentici barbari. È un miracolo che riescano a sopravvivere quanto basta per diventare adulti.” (63)
Elizabeth Peters “La maledizione di Nefertiti” TEA euro 8,60 (in realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 24/02/2013 – T: 28/02/2013]
[tit. or.: The Snake, The Crocodile and the Dog; ling. or.: inglese; pagine: 455; anno 1992]
Purtroppo, e con dispiacere, noto che stiamo scendendo sempre più in basso, cara Barbara Meltz (questo il vero nome della nostra quasi novantenne scrittrice). Dopo aver tentato di innervare il filone dell’egittologa Amelia Peabody in Emerson facendo il filo a libri d’epoca come quelli di Rider Haggard (vedi commento precedente), qui cerca di tornare in un solco più consono alla serie così come era iniziata: scavi, archeologia e misteri egiziani. Purtroppo, però, decide di far tornare in campo, proprio per riprendere le tematiche iniziali, il vecchio antagonista dei primi libri, il criminale di cui non si conosce il volto e che risponde al nome di Sethos. Peccato che, invece, l’inizio sembrava promettente: il figlio so-tutto-io Ramses rimane in Inghilterra perché, dodicenne, comincia ad invaghirsi della bella quattordicenne Nefer che gli Emerson sembrano aver adottato, e l’azione si svolge nella piana di Amarna, teatro delle gesta del cosiddetto faraone eretico, Akhenaton, sostenitore del dio unico, sposo della bella Nefertiti, nonché padre del più noto (ma solo per la famosa tomba) Tutankhamon (che però, secondo recenti teorie, non è figlio di Nefertiti ma della concubina Kiya). Su questa base, che sembrava promettente, la nostra scrittrice mette su un guazzabuglio un po’ intricato. Qualcuno rapisce il baldo Radcliffe Emerson, per carpirgli chissà quale segreto. Con l’aiuto di Abdullah, Amelia libera il marito, che però rimane “senza memoria”. Ora questa tipologia di finzione avrebbe avuto una sua valenza se fosse (come poteva essere) un espediente di Radcliffe per proteggere la sua famiglia. Invece la nostra sostiene che l’uso massiccio di oppio ha sconvolto la mente del noto archeologo, imbastendo su questo alcune scene, gustose ma poco in linea con l’andamento generale. Perché poi si viene a scoprire che il segreto che si vuole dai nostri è l’ubicazione del mondo perduto del romanzo precedente. E mentre Radcliffe si espone in tutti i modi per far uscire i cattivi allo scoperto, il codazzo di persone che si reca ad Amarna con Amelia & co è tra i più eterogenei. C’è la bella Bertha, mezzo sangue salvata insieme a Radcliffe dalle grinfie di un cattivo, c’è Vincey, un avventuriero già noto per tristi commerci di reliquie egizie, e c’è Cyrus Vandergelt, milionario americano, molto (forse troppo) preso dalle grazie di Amelia ma che Amelia tiene a freno. Il tutto si snoda, però, secondo un’antica leggenda egiziana, quella del principe sfortunato, che, in pericolo per sorti strane, viene salvato dalla sua bella da tre trappole micidiali costituite da un serpente, un coccodrillo ed un cane. Che guarda caso è il titolo originale, e ben più pregnante delle malaugurate traduzioni italiane, non ultima quella con cui ci viene presentato qui, che Nefertiti non pare abbia fatto nessuna maledizione, se non qualche improperio per la follia del marito Akhenaton che si alienò la casta sacerdotale e che per questo fu ucciso. Lei, la bella tra le belle, pare prendesse la reggenza, riportando la capitale da Amarna a Tebe. Motivo per cui (all’epoca dei fatti) non si sapeva l’esatta ubicazione della sua tomba. E questo succede, che i nostri si salvano dagli attacchi dei tre animali, il veleno del serpente, la palude dei coccodrilli e l’idrofobia del cane (anche se poi, sembrano tutti un po’ caricati, come se, in realtà, si volesse spaventare i nostri e non farli fuori). Ed alla fine si scopre che, proprio come si sospettava da tempo, i cattivi sono in realtà due schiere entrambe alla ricerca del Mondo Perduto, ma in gara tra loro. Una con appendici in Inghilterra, dove da gustose lettere di Ramses apprendiamo alcuni degli avvenimenti colà svoltosi. L’altra solo egizia, ma con una propensione (che sappiamo propria di Sethos, così come l’aveva annunciato in un romanzo precedente) a fare di tutto, eccetto che del male alla bella Amelia. In un finale catartico, muoiono tutti (e non vi diciamo di che cattivi si tratta), Radcliffe riacquista la memoria, ed uno dei “morti” riappare poi nella capitale, che il morto lo aveva rapito e sostituito in quanto maestro dei travestimenti. Ma tutto è un po’ monotono, un po’ confuso, ed alla fine anche il momento finale (che nella scrittrice in genere era il momento chiarificatore) rimane un po’ oscuro, come se non si vedesse l’ora di chiudere una storia poca riuscita, per dedicarsi ad altre avventure. Che speriamo siano migliori!
E quando si parla di viaggi io sono sempre in prima linea. Anche se oggi avrei potuto parlare dei miei viaggi, reali e immaginari. Ed anche vicini e lontani. Che a volte, come tutti i miei amici sanno, un viaggio di sessanta chilometri è ben più duro di viaggi con molti zeri in più. Ma questa è una storia che verrà forse narrata altrove. 

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