Una settimana mono-tematica,
tutta dedicata ad alcuni romanzi dell’inglese Elizabeth Peters che continuano a
narrare le vicende dell’archeologa Amelia Peabody nell’Egitto a cavallo del XX
secolo (le prime di cui scrissi cominciano intorno al 1885, le ultime che
verranno si collocano intorno al 1920). Come scrissi e ripeto, scrittura agile,
scorrevole, con qualche punta gradevole e qualche passaggio un po’ stanco. Ma stiamo
in Egitto, amici, e come ci si può tirare indietro?
Elizabeth Peters “L’enigma della piramide nera” TEA euro 8,60 (in
realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 25/01/2013
– T: 30/01/2013]
[tit. or.: Lion in the valley; ling. or.: inglese; pagine: 359; anno 1986]
Sempre
agile, ma mi aspettavo qualcosa di più. A cominciare dalla solita discussione
sui titoli. L’inglese “Lion in the valley” indica uno degli attributi del dio
Sethos, che ha un senso nella storia, come vedremo. I due titoli italiani con
cui questo libro è uscito sono “allucinogeni”. Il primo (al tempo della prima
pubblicazione nei gialli Mondadori) recitava addirittura “Amelia Peabody e il
maestro del crimine”. Questo della TEA fa riferimento alla Piramide Nera, una
delle piramidi in località Dashur non lontano da Il Cairo (quaranta chilometri
a sud, molto vicino a Saqqara). Ma i nostri eroi non entrano mai nella piramide
in questa storia (mentre vi erano rinchiusi nella precedente). Anzi lavorano
alle due Piramidi di Snefru, la rossa e la romboidale. E
l’enigma è tutto altrove. O meglio, di enigmi ne abbiamo pochi, e tutto si
gioca sull’abilità della nostra veterana scrittrice di creare atmosfere ed
intrecci, più o meno plausibili. Intanto abbiamo gli eroi della serie, che per
ora rimangono fedeli a se stessi, come nelle fiction meglio riuscite. Amelia,
la voce narrante, che ci guida lungo i passi della trama, non disdegnando (cosa
quanto mai utile) sia digressioni archeologiche (anche se in questo libro meno
che altrove), sia tirate contro la strapotenza maschile che relega la donna ad
un ruolo di secondo ordine (quando va bene). Questi, in realtà, sono in questo
libro i passi migliori: la donna è intelligente, sa fare il proprio lavoro al
meglio (e sa anche organizzare gli affari domestici), ed altre frecciate che
hanno senso sia all’epoca della vicenda (ricordo che questo romanzo si dovrebbe
collocare tra l’ottobre 1895 e la Pasqua del 1896) ma anche all’epoca della
scrittura, che anche nel 1986 (anno anagrammatico della vicenda quindi) non è
che la donna sia meglio trattata. Poi ci sono i maschi della famiglia: il
marito Emerson, rude all’esterno e tenero verso Amelia, con la quale cerca di
appartarsi appena possibile per indulgere in piaceri privati, che sembrano
essere graditi da entrambi. Ed il figlio Walter detto Ramses, che ad otto anni
parla correntemente arabo ed inglese, legge i geroglifici, ed ha la spiccata
tendenza a mettersi nei guai, per seguire le sue idee di giustizia, innescando
simpatici duetti verbali con i genitori (che salto all’indietro quando chiede
al padre notizie sulla sessualità, ed Emerson comincia dalle amebe…). Purtroppo
nel romanzo precedente, pur sventando le minacce contro di loro, i nostri non
hanno assicurato alla giustizia il colpevole, che qui puntualmente si ripresenta,
sembra con la feroce intenzione di vendicarsi. E si scopre così che
nell’ambiente criminale de Il Cairo è soprannominato Sethos, il dio dai mille
volti. E mille saranno i travestimenti che utilizzerà nel corso della storia.
La quale, al solito, viene allietata da Enid, una signorina ambiguamente in
pericolo, che Amelia non potrà fare a meno di soccorrere. E da un ufficiale
dell’esercito radiato dal corpo, che si sta perdendo in Egitto, ma che ben
presto scopriamo che è innamorato di Enid e che è stato allontanato perché non
ha voluto accusare il fratello cadetto, che tenta di proteggere benché questi
non sia niente di buono. La vicenda si dipana così lungo binari un po’ statici:
pericoli, agnizioni, scoperte, buoni che sembrano cattivi e viceversa, con
Sethos il cattivo che imperversa. Non manca la solita scommessa tra Amelia ed
Emerson su chi riuscirà a smascherare il cattivo. Tutto si risolverà, anche se
non tutto sarà risolto. Con questo piccolo enigma lascio la storia, e passo a
sottolineare l’altro aspetto che mi fa cari questi libri: le descrizioni
egiziane e cairote, l’albergo Shepheard, piazza Tahir, il caffè arabo ed i
vicoli di Muski. Ahi perché non siamo di ritorno a passeggiare lungo il Nilo,
verso Zamalek? Bisognerà tornarci, e presto (primavere arabe permettendo).
Elizabeth Peters “Indagine nel museo Egizio” TEA euro 8,60 (in realtà,
scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 30/01/2013
– T: 03/02/2013]
[tit. or.: The Deeds of the Disturber; ling. or.: inglese; pagine: 408; anno 1988]
Continuiamo
con il quinto episodio della serie che ha per protagonista la nostra eroina,
Amelia Peabody Emerson, e le gesta del suo gruppo familiare di archeologi
dediti alla scoperta dei misteri affascinanti dell’Antico Egitto. Questo
episodio, purtroppo, continua la tendenza al ribasso delle storie narrate dalla
Peters. Sono momenti che passano in tutte le avventure seriali, dove, appunto,
non sempre si riesce a mantenere per libri e libri la stessa tensione. Intanto,
visto che questa è una recensione abbastanza critica, cominciamo con la solita
mania italiana di sostituire senza un vero perché i titoli originali. Che non a
caso, recitava nell’originale, “Le gesta del disturbatore”, incentrando
l’attenzione del lettore su un misterioso personaggio, che, per l’appunto, “disturba”
la quiete del Museo Egizio di Londra, e non solo quello. Già la prima traduzione
andava fuori le righe, forse perché il romanzo venne pubblicato nei Gialli
Mondadori, e divenne subito “I delitti del Museo Egizio”. Fortunatamente, il
tiro viene corretto in queste edizioni tascabili, visto che di delitti, nel
Museo Egizio, non se ne verificano affatto, con il più soft “Indagine al Museo
Egizio”. L’unico elemento che serve al lettore, ma lo si sarebbe scoperto
leggendo, è appunto che questo episodio si svolge tutto a Londra, avendo come
epicentro dei ragionamenti deduttivi, non tanto il Museo Egizio, quanto
l’archeologia egizia ed i suoi eponimi presenti sulla piazza londinese. La famiglia Emerson ,
di ritorno dalla spedizione di cui narrata sopra, si appresta a passare
un’estate inglese, per mettere a posto quanto scoperto e dedotto in Egitto (un
libro per Radcliffe, un’analisi della Piramide romboidale per Amelia e gli
esperimenti sulla mummificazione del piccolo Ramses). Questa routine è ben
presto sconvolta da avvenimenti familiari (ad Amelia vengono lasciati per
l’estate i suoi due nipotini, il perfido Percy e la piccola e bulimica Violet)
e da avvenimenti “delittuosi”. C’è un morto nel Museo (ma si scoprirà che non è
stato ucciso, bensì…), e c’è la stampa che (per aumentare le tirature) ci gioca
sopra facendone nascere un caso. Soprattutto da parte di Kevin (che conosciamo
per essere stato presente un paio di episodi fa) e della sua rivale miss Minton
(nobile decaduta, ma di buona penna, che cerca in tutti i modi di entrare a
suon di scoop in un mondo maschile). La bella è inoltre concupita, con
discrezione, da Eugene, un archeologo del museo, che non si capisce se
imbranato o furbo. Poi muore un archeologo legato al museo, ma viene ucciso
sulle rive del Tamigi, vicino all’obelisco egizio. Amelia entra potentemente in
azione, e, anche se non pienamente in accordo, ma sostenuta dal marito, scopre
alcune possibili piste. Tutte legate appunto all’apparizione di un
disturbatore, che si mette a recitare versi in antico egizio, davanti ad una
mummia da poco arrivata a Londra. Mummia donata da un parente cadetto della
regina Vittoria. Parente dedito sicuramente all’oppio, che va a fumare nella
casa del fumo della bella Aysha. La quale poi non era altro che una vecchia
(temporalmente) amante dello stesso mr. Emerson, prima che questi passasse (e
definitivamente) ad Amelia. Ma la tresca scatena anche la gelosia della nostra.
Si avviluppano così tutta una serie di storie. Percy che cerca di “mettere in
cattiva luce” Ramses per entrare lui nelle grazie dei ricchi Emerson (con
tentativi miserelli e fallimentari). Ramses che continua a fare il saccente (ed
un po’ stufa), ma anche a divertirsi con i travestimenti trafugati al cattivo
Sethos della puntata precedente (e stranamente Sethos non compare in questo
libro), e ad utilizzarli per salvare la situazione finale. Poi c’è il possibile
scandalo del coinvolgimento della famiglia reale nelle tresche, anche se i
gaudenti aristocratici hanno sicuramente qualche colpa ed organizzano qualche
festino di troppo. Poi ci sono i giornalisti, le possibili storie d’amore, e la
scoperta dell’insospettabile cattivo, questa volta preso ed arrestato, così che
almeno questa parte di storia possa avere un punto fermo. Ma come detto è tutto
un po’ lento, un po’ macchinoso, troppo “inutilmente fumoso” per dare qualche
area di mistero alla vicenda. E non c’è (cosa che almeno aveva un suo fascino)
l’aggirarsi per le vie polverose del Cairo, tra caffè e vecchi bazar. Insomma,
una lettura minore, giusta solo per distrarsi in un momento di difficile
organizzazione di vita, tra lavori ed impegni. E per finire ancora con qualche
tirata d’orecchi agli editor della TEA, che iniziano la quarta chiedendosi se
la paura può uccidere, e sviando l’attenzione del lettore su un terreno che non
verrà mai toccato durante la narrazione. Rimane qualche nebbia londinese, ma
Londra non è una città che ami troppo, quindi rimane nebbia e non si dirada.
“Non ho mai creduto che la casualità della
nascita comporti obblighi per le parti interessate, neppure tra genitore e
figlio, una volta superato il periodo di dipendenza, quando la prole ormai adulta,
cui è stato garantito ogni vantaggio in termini di salute e istruzione, è ormai
in grado di reggersi per conto suo. L’affetto, invece, va guadagnato. Per
quelli che mi stanno a cuore darei la vita, il mio onore e tutti i miei beni
terreni … e do per scontato che loro farebbero lo stesso per me.” (66)
Elizabeth Peters “Il mistero della città perduta” TEA euro 9 (in
realtà, scontato 8,65 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 15/02/2013
– T: 19/02/2013]
[tit. or.: Last Camel died at Noon; ling. or.: inglese; pagine: 446; anno 1991]
Sono
rimasto un po’ deluso da questo nuovo episodio delle storie della famiglia Peabody-Emerson
nelle lande egizie. Già il precedente era risultato un po’ moscio, tutto
ambientato a Londra sulla scia di misteri “da cartolina”, del tipo di quelli
che anni dopo hanno regalato al cinema le ignobili serie de “La Mummia”.
Questo, come la stessa autrice confessa nel finale, a mo’ di ringraziamenti e
note autorali, è in realtà un piccolo omaggio alla letteratura inglese
dell’Ottocento. Quella dedicata ai Mondi Perduti, per intenderci, che ebbe come
capostipite Rider Haggard e i sui romanzi “Lei o La donna eterna” e “Le miniere
di Re Salomone”. Intanto, e fortunatamente, siamo ormai lontani dal Kent e
dalla piovosa Albione. Amelia, con il marito Radcliffe ed il figlio Ramses,
sono di nuovo in Egitto, e per di più, non nei dintorni de Il Cairo. Questa
volta hanno ottenuto un firmano (ebbene sì, questo è il nome giusto e corretto,
un decreto che consente all’archeologo di svolgere lavori sotto l’egida dei
governatori egiziani) per scavare al confine tra Egitto e Sudan, nel pieno
della zona nota come Nubia. Incidentalmente, è la stessa zona, che, prima di
partire, un lord inglese aveva loro nominato come luogo della scomparsa del
figlio e della nuora. Ed in quella zona verranno visitati ben presto dal
fratello dello scomparso, per il momento unico erede del venerando Lord. Si
susseguono avvenimenti poco significativi (almeno come presa per il pubblico
che già conosce i nostri eroi). Piccole avventure, il solito affaccendarsi del
piccolo Ramses (che credo ormai vada per i 12 anni), il contrasto tra inglesi
archeologici, scavatori locali e truffatori che si aggirano per quel mondo ancora
da scoprire (dovremmo essere, infatti, intorno al 1897). C’è la mappa dello
scomparso Mr. Forth, ma non sembra che i nostri abbiano intenzione di agire.
Sarà Reggie, allora, che comincerà a muovere le acque, decidendo di partire con
uno sparuto gruppo di cammellieri. Al suo mancato ritorno, Amelia & Co
vedono che non c’è altro da fare, se non partire a loro volta. Qui si consuma
la prima parte un po’ neutra, come dice poi il titolo originale, che recita
letteralmente come l’ultimo cammello sia morto a mezzogiorno. Vedremo anche noi
morire i nostri eroi? Sicuramente no! Ed ecco venire in soccorso i Mondi
Perduti di Rider Haggard. Perché è una tribù ignota, che vive all’interno di
una non meglio (e mai più) identificata Oasi Perduta. Vive isolata, senza
contatti con l’esterno, in un mondo mutuato dall’Antico Egitto, con rigide
caste sociali. Da un lato i nobili, dall’altro la plebe che lavora. Sono loro
che salvano i nostri dalla morte. Ma, ed è ovvio e non si può immaginare
sviluppi differenti, è anche la tribù che non li lascerà mai andare via vivi.
Così come aveva fatto con i coniugi Forth una dozzina di anni prima. Tribù che
ha anche preso prigioniero Reggie. Tribù che si trova in un grande conflitto
dinastico, essendo morto il re padre padrone, e vedendo ora contendersi il
trono i due fratellastri: Tarik e Nastas. Anche tutti i nobili, e le guardie si
schierano (non apertamente, è ovvio). Si costruisce così un castello di inganni
e di doppi giochi, abbastanza semplici (se letti con l’occhio alla scrittura) o
molto complicati (se letti con l’occhio al tempo della trama). Unica costante,
le strizzatine d’occhio che ci fa la nostra Amelia - narratrice quando riesce
ad appartarsi con il suo bel marito, per fare cose che poi (sfortunatamente)
non ci descrive, ma che ben capiamo. Tarik, scopriamo presto, è stato anche
allievo di mr. Forth, che gli ha inculcato alcuni cosiddetti valori occidentali
che poco si adattano alla cultura, ferma a mille anni prima di Cristo, in cui vive
la tribù perduta. I nostri scoprono inoltre che i coniugi, lì nel mondo
perduto, hanno anche messo al mondo una figlia, la bella Nefer, più o meno
coetanea di Ramses. Immaginate bene che ci sarà, nel più puro stile
ottocentesco, una catarsi finale, in cui ognuno troverà il suo posto, e dove,
ovviamente (altrimenti non ci sarebbero altri libri da scrivere), Amelia ed i
suoi riusciranno a fuggire portando con sé solo Nefer. E già mi immagino che la
bella verrà adottata nei prossimi romanzi (vedremo se vincerò la scommessa).
Detto che ci fa piacere vedere le birichinate di Ramses, che a poco a poco si
rivela la persona più saggia del trio, poco altro resta del romanzo. Che,
ripeto, sarà un sentito omaggio, ma scorre via senza dare molti altri piaceri.
Certo, non mi tiro indietro quando si sente parlare di luoghi del deserto. E la
nonnetta Peters non solo sa scrivere, ma è ben documentata su luoghi e
situazioni. Però, questo è in minore.
“Gran parte dei ragazzini sono autentici
barbari. È un miracolo che riescano a sopravvivere quanto basta per diventare
adulti.” (63)
Elizabeth Peters “La maledizione di Nefertiti” TEA euro 8,60 (in
realtà, scontato 7,31 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 24/02/2013
– T: 28/02/2013]
[tit. or.: The Snake, The Crocodile and the Dog; ling. or.: inglese; pagine: 455; anno 1992]
Purtroppo,
e con dispiacere, noto che stiamo scendendo sempre più in basso, cara Barbara
Meltz (questo il vero nome della nostra quasi novantenne scrittrice). Dopo aver
tentato di innervare il filone dell’egittologa Amelia Peabody in Emerson
facendo il filo a libri d’epoca come quelli di Rider Haggard (vedi commento
precedente), qui cerca di tornare in un solco più consono alla serie così come
era iniziata: scavi, archeologia e misteri egiziani. Purtroppo, però, decide di
far tornare in campo, proprio per riprendere le tematiche iniziali, il vecchio
antagonista dei primi libri, il criminale di cui non si conosce il volto e che
risponde al nome di Sethos. Peccato che, invece, l’inizio sembrava promettente:
il figlio so-tutto-io Ramses rimane in Inghilterra perché, dodicenne, comincia
ad invaghirsi della bella quattordicenne Nefer che gli Emerson sembrano aver
adottato, e l’azione si svolge nella piana di Amarna, teatro delle gesta del
cosiddetto faraone eretico, Akhenaton, sostenitore del dio unico, sposo della
bella Nefertiti, nonché padre del più noto (ma solo per la famosa tomba)
Tutankhamon (che però, secondo recenti teorie, non è figlio di Nefertiti ma
della concubina Kiya). Su questa base, che sembrava promettente, la nostra
scrittrice mette su un guazzabuglio un po’ intricato. Qualcuno rapisce il baldo
Radcliffe Emerson, per carpirgli chissà quale segreto. Con l’aiuto di Abdullah,
Amelia libera il marito, che però rimane “senza memoria”. Ora questa tipologia
di finzione avrebbe avuto una sua valenza se fosse (come poteva essere) un
espediente di Radcliffe per proteggere la sua famiglia. Invece la nostra
sostiene che l’uso massiccio di oppio ha sconvolto la mente del noto
archeologo, imbastendo su questo alcune scene, gustose ma poco in linea con
l’andamento generale. Perché poi si viene a scoprire che il segreto che si
vuole dai nostri è l’ubicazione del mondo perduto del romanzo precedente. E
mentre Radcliffe si espone in tutti i modi per far uscire i cattivi allo
scoperto, il codazzo di persone che si reca ad Amarna con Amelia & co è tra
i più eterogenei. C’è la bella Bertha, mezzo sangue salvata insieme a Radcliffe
dalle grinfie di un cattivo, c’è Vincey, un avventuriero già noto per tristi
commerci di reliquie egizie, e c’è Cyrus Vandergelt, milionario americano,
molto (forse troppo) preso dalle grazie di Amelia ma che Amelia tiene a freno.
Il tutto si snoda, però, secondo un’antica leggenda egiziana, quella del
principe sfortunato, che, in pericolo per sorti strane, viene salvato dalla sua
bella da tre trappole micidiali costituite da un serpente, un coccodrillo ed un
cane. Che guarda caso è il titolo originale, e ben più pregnante delle
malaugurate traduzioni italiane, non ultima quella con cui ci viene presentato
qui, che Nefertiti non pare abbia fatto nessuna maledizione, se non qualche
improperio per la follia del marito Akhenaton che si alienò la casta
sacerdotale e che per questo fu ucciso. Lei, la bella tra le belle, pare
prendesse la reggenza, riportando la capitale da Amarna a Tebe. Motivo per cui
(all’epoca dei fatti) non si sapeva l’esatta ubicazione della sua tomba. E questo
succede, che i nostri si salvano dagli attacchi dei tre animali, il veleno del
serpente, la palude dei coccodrilli e l’idrofobia del cane (anche se poi,
sembrano tutti un po’ caricati, come se, in realtà, si volesse spaventare i
nostri e non farli fuori). Ed alla fine si scopre che, proprio come si sospettava
da tempo, i cattivi sono in realtà due schiere entrambe alla ricerca del Mondo
Perduto, ma in gara tra loro. Una con appendici in Inghilterra, dove da gustose
lettere di Ramses apprendiamo alcuni degli avvenimenti colà svoltosi. L’altra
solo egizia, ma con una propensione (che sappiamo propria di Sethos, così come
l’aveva annunciato in un romanzo precedente) a fare di tutto, eccetto che del
male alla bella Amelia. In un finale catartico, muoiono tutti (e non vi diciamo
di che cattivi si tratta), Radcliffe riacquista la memoria, ed uno dei “morti”
riappare poi nella capitale, che il morto lo aveva rapito e sostituito in
quanto maestro dei travestimenti. Ma tutto è un po’ monotono, un po’ confuso,
ed alla fine anche il momento finale (che nella scrittrice in genere era il
momento chiarificatore) rimane un po’ oscuro, come se non si vedesse l’ora di
chiudere una storia poca riuscita, per dedicarsi ad altre avventure. Che
speriamo siano migliori!
E quando si parla di viaggi io
sono sempre in prima linea. Anche se oggi avrei potuto parlare dei miei viaggi,
reali e immaginari. Ed anche vicini e lontani. Che a volte, come tutti i miei
amici sanno, un viaggio di sessanta chilometri è ben più duro di viaggi con
molti zeri in più. Ma questa è una storia che verrà forse narrata altrove.
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