domenica 26 maggio 2013

Saggi(a)mente - 26 maggio 2013

Perché è una domenica strana in cui bisogna tenere a mente di essere saggi. Perché dopo qualche settimana di relax e dopo aver smaltito felicità (tante) e tristezze (poche) della grande festa, bisogna a volte tornare a pensare. Secondo direttrici consolidate ma non banali. Libri non facili, ma che vi segnalo assolutamente: la trasformazione delle idee in valori nel saggio del giurista Schmitt, due saggi sull’etica della morte e della vecchiaia, con lo spagnolo Savater che mi ha impegnato ma non convinto e con Marco Tullio Cicerone che mi ha sedotto con la sua semplicità, passando per un libro di Trevi che mi ha innamorato basandosi sull’assunto che nei libri ci può essere di tutto, basta saper scavare. E se non avete la pazienza né di leggere i libri, né di leggere queste trame, vi consiglio con forza ed amicizia di leggere le frasi che riporto. Già bastano per riflettere, magari insieme, su questi temi.
Carl Schmitt “La tirannia dei valori” Adelphi euro 5,50 (in realtà, scontato 4,40 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 21/01/2013 – T: 23/01/2013]
[titolo: Die Tyrannei der Werte; lingua: tedesco; pagine: 107; anno: 2008]
Anche questo libretto è uscito dal gran calderone dei miei autoregali di Natale: approfittando di un maxi sconto su Feltrinelli online, ho preso una quindicina di titoli poco reperibili pescando dalle mie lunghe e variegate liste. Così anche Carl Schmitt vi è entrato, provenendo dai suggerimenti della “Seconda” pagina dei Libri di Repubblica. Pur sperando che ci fosse qualche affinità con il mio amato Schmitt (che però è francese, e si chiama Eric-Emanuel, anche se entrambi sono alsaziani), immaginavo già fosse un libretto non facile. Tra l’altro nasce come contributo ad una serie di seminari su “Virtù e valore nella dottrina dello Stato” tenutisi ad Ebrach in Germania nel ’59, poi assemblati e prefati da Schmitt nel ’67 e solo in questa edizione accompagnati da un bel saggio didascalico esplicativo di Franco Volpi. Confermo, dopo la lettura, l’impressione della difficoltà avuta nel comprenderne i passaggi, dove si utilizzano categorie filosofiche e loro applicazioni ed implicazioni nella teoria dello Stato (non a caso Schmitt è eminentemente un giurista). Cosa mi rimane, a mo’ di riflessione sparsa dalle dense parole del pensatore tedesco? Innanzi tutto l’affermazione che coll’elevare un’idea o una convinzione a valore si finisce col giustificare qualunque mezzo e alla fine qualunque pretesa. Emerge con chiarezza sopratutto dal commento di Franco Volpi - nel quale è tracciata anche una puntuale e questa sì facilmente seguibile ricostruzione storica del concetto di valore - come il “valore”, sconfinando dalla sua sfera originaria - l'economia - e invadendo ogni ambito dell'esistenza sociale e politica, abbia prodotto, per Schmitt, una moralizzazione non scevra di pericoli. Perché il valore non è mai oggettivo, bensì solo soggettivamente riferito alla realtà; ciò significa, che "il valore non è, ma vale" e ciò che vale, sottolinea Schmitt, "aspira apertamente a essere posto in atto". È dunque l'uomo che definisce i valori ed è proprio il soggettivismo - sotteso ad ogni valore - a rendere pericolosa, agli occhi di Schmitt, ogni filosofia dei valori e ancor più ogni tentativo di "oggettivazione" degli stessi. Ma è sul terreno giuridico – politico, sostiene Schmitt e qui lo seguo con difficoltà, che gli esiti inquietanti di ogni valutazione evidenziano il portato discriminatorio di un pensare per valori. In quest'ambito - più che in ogni altro - l'appello ai valori rievoca elementi non condivisibili come la guerra giusta, mostrando i suoi tirannici effetti. Consapevole, nonché testimone, che il richiamo a ragioni morali - e la loro pretesa di universalità - conduce all'annientamento, Schmitt conclude esortando "Non usiamo con leggerezza le nostre parole", in particolar modo quando si parla di valori. Sia cauto, dunque, quel legislatore che fa ricorso ad essi, perché nulla più del valore necessita di mediazione. Di fronte al dilagante processo di valorizzazione "è compito del legislatore e delle leggi da lui decretate stabilire la mediazione tramite regole misurabili e applicabili e impedire il terrore dell'attuazione immediata e automatica dei valori" (p. 67). La logica di affermazione dei valori nello scenario globale attuale - magistralmente rappresentata dall'etica neocon della "lotta del bene contro l'asse del male" - mostra con evidenza quanto il messaggio schmittiano sia stato disatteso. Che cosa sono le guerre odierne - malgrado le "bombe intelligenti" e i loro inevitabili "effetti collaterali" - se non gli strumenti per l'attuazione dei propri valori, al prezzo dell'annientamento di quelli altrui? Una difficile lezione, questa di Schmitt, che ho letto (inconsapevolmente) come suggerisce il saggio di Volpi, senza sapere nulla dell’autore e badando alle parole. Che Schmitt, nella sua prima fase di vita pubblica, fu uno strenuo sostenitore dello stato forte contro lo stato liberale, dando anche elementi teorici giustificativi alla prima ascesa del nazismo. Per questo, e giustamente, fu emarginato dopo la Guerra. Ma non per questo le sue parole vanno solo bollate come “indifendibili”. Che queste conclusioni sono invece condivisibili, come poi mostrarono studi sul pensiero di Schmitt da parte di persone non sospettabili di compiacimenti, come Giorgio Agamben o Giacomo Marramao o Massimo Cacciari. Da qui, per noi, dovrebbe cominciare un percorso di riflessione che possa portare dalla critica dei valori verso la definizione di un comportamento etico, verso gli scritti di Baumann, ad esempio. Chissà. Un sottoprodotto della lettura è anche la riflessione di come sia difficile tradurre i linguaggi da un idioma all’altro. Chissà se “Werte” in tedesco ha la stessa valenza di “valore” in italiano? E da dove deriva questo, che in latino non veniva usato (si dice venga da “valere”, ma l’accezione è diversa)? Che abisso si apre…
"Non usiamo con leggerezza le nostre parole." (66)
“Quanto è più grave la crisi, tanto più grande è il numero di incapaci che si sentono chiamati a risolverla scrivendo di valori." (97)
Emanuele Trevi “Musica distante” Ponte alle Grazie s.p. (natalino dell’arabista di Rosanna, anche se poi era il mio regalo e non ci siamo visti ed allora l’ho letto io)
[A: 01/01/2013 – I: 27/01/2013 – T: 04/02/2013]
[titolo: originale; lingua: italiano; pagine: 149; anno: 1997-2012]
Entrato di soppiatto nella mia libreria, come natalino di ritorno, ha fatto un’ottima riuscita, libro di contenuti e di riflessioni. Doppia la data di riferimento, che questa edizione è sì del 2012, ma il nostro simpatico autore l’ha scritto nel lontano 1997. Nel compimento del quindicesimo anno, quasi un’uscita dall’adolescenza per affacciarsi al mondo adulto, Ponte alle Grazie ce lo ripropone, con una nuova introduzione dello stesso Emanuele, che tuttavia, non toglie né aggiunge molto al fascino del libro. Un fascino che si basa sull’assunto che nei libri ci può essere tanto, basta avere la pazienza di scavare, sempre con occhi attenti ed aperti. Si parlava, poco sopra, di valori e della loro tirannia (cui rimando per non ripetermi). Qui si parla dell’altro corno del dilemma, delle virtù, anche se non affrontandone nella loro accezione etica (anche se immancabile), quanto nel modo che le suddette virtù vengono esemplificate e spiegate attraverso una lettura attenta di testi esimi. Per restringere il campo, Trevi fa riferimento a quelle che vengono etichettate come virtù “classiche”, cioè bibliche: le tre teologali e le quattro cardinali. Facendo un piccolo sforzo di memoria (dai che ce la potete fare), quindi, fede, speranza, carità, prudenza, giustizia, forza e temperanza. Senza cadere nel giacobinismo della rivoluzione francese (il famoso “terrorismo delle virtù”), lo scrittore ne abbozza i tratti concreti, perché ne vuole condividere la comprensione. E poiché comprendere significa anche poterne spiegare, si avvale dei mezzi a lui consoni per poterne parlare: testi letterari. Certo la fede è quella che più potrebbe tormentare l’orecchio attento alle disquisizioni attuali su relativismi ed altro, ma come non seguirne le mosse se la traguardiamo attraverso la “Gita al faro” di Virginia Woolf. Attraverso cioè tutto il percorso di Lilly e del suo ritratto della signora Ramsey, attraverso l’amore non dichiarato e la difficoltà del vedere in mezzo alle lacrime. Ma ancor di più seguiamo il percorso della speranza, con la Balena Bianca di Melville o “Il grande Meaulnes” del troppo presto dipartito Alain-Fournier. O ancor di più, nell’unico testo che, ad ora, mi trovo a gustare con piacere, di Conrad, quella “Linea d’ombra”, nella grande attesa di speranza della bava di vento da parte del neo-capitano. D’altra parte, la speranza (per Trevi e per me) è sempre legata ai viaggi, così come la carità al rapporto con il prossimo (ed andiamo a rileggere le brevi note che scrissi sul libro di Sofri, o sulle prediche di Enzo Bianchi o del cardinale Martini). Come non restare incollati alla pagina che ci descrive il San Martino di Simone Martini, o che ci porta, lettino dopo lettino, a visitare infermi e malati con Kafka, Flaubert e Bulgakov. Falsamente più semplici, perché sembrano più vicine al quotidiano di ognuno, la prudenza e la giustizia. Ma prudente è colui che si ferma prima di agire, per poi agire, o si ferma per poi non agire per nulla (l’immenso Bartleby di Melville con il magnifico “preferirei di no”)? O la giustizia che dopo un lungo giro per le strade del mondo, torna per esigere il suo tributo, utilizzando quel bellissimo racconto di Joyce “I morti”, ultimo della raccolta “Gente di Dublino”? Se la mia penna elettronica fosse capace di esprimersi al meglio, vorrei potervi portare a riguardare la teoria di sguardi e suoni che ci avvolge nell’immagine di Joyce attraverso lui che guarda lei che ascolta la ballata che riporta entrambi, anche se in modo diverso, a punti dolenti ed “ingiusti” del loro passato. Le ultime due virtù terroristiche vengono, e con ragione, accumulate dall’autore in un unico passo: laddove sono complementari, e la forza (o meglio fortezza, come dice il testo originario) è mitigata dalla temperanza, e questa è corroborata dalla fortezza. In questo caso, meglio che le parole, vedo i due quadri del Botticelli che si specchiano l’uno nell’altro, con la forza visione di donna con corazza e sguardo mitigato, e la temperanza, con una faccia similare (anche se dovrebbe essere Pallade Atena) che tempera la brutalità del centauro, assoggettandone la forza. Insomma, per finire con quel lato etico che a me sarebbe caro, le virtù possono far parte del nostro incidere giorno dopo giorno, guidandoci i passi con il loro sapiente utilizzo. Unico elemento, forse per me, è la mancanza (a volte) della parola scardinante, che trasforma (trasformerebbe?) ognuna di queste virtù in momenti (anche) di felicità. Per Lilly, per Achab, per Mikail, per Lord Chandos, per Gregory, e via citando. Perché (come diceva la mia mentore) le domande è sempre bene farle. Meglio affrontare un No espresso che un Si non detto.
“[Il medico] porta in sé senza troppe parole […] il confluire di innumerevoli patimenti.” (64)
“Un simbolo vale per l’interrogazione che produce, non per le risposte che consente.” (109)
“Non preoccupatevi del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso; a ciascun giorno basta la sua pena.” (137)
Fernando Savater “La vita eterna” Laterza euro 6,90 (in realtà, scontato 5,52 euro)
[A: 01/01/2013 – I: 21/02/2013 – T: 22/04/2013]
[tit. or.: La vida eterna; ling. or.: spagnolo; pagine: 248; anno 2007]
Ci sono voluti due mesi per leggere questo denso libro, suggerito da “Filosofia e Idee di Repubblica”. Un Libro difficile, con alcune parti (soprattutto l’inizio) che ho dovuto affrontare più volte, non cerco capendo tutto (in fondo Savater è un fine filosofo, ed io un puro lettore), ma almeno (credo) dando una mia interpretazione allo scritto. Che, riassumendo per mia comodità, affronta tre argomenti: l’ateismo e la fede, la vita e la morte, il significato di laico nel mondo attuale. Certamente nelle parole di Savater questi argomenti sono anche (come pare ovvio) correlati, discussi in modo trasversale, e tante altre costruzioni (non solo filosofiche, ma anche morali, etiche, e chi più ne ha). Il primo argomento è, come si può capire, quello che mi ha impegnato di più, e da cui sono uscito senza credo comprendere a fondo le tesi di Savater. Mi ha dato solo un po’ fastidio una certa aria di, mi verrebbe da dire, irrisione verso credenze ed incredulità. E non riuscendo a confrontarmi con il filosofo, direi che ometto un confronto su questa parte. Più fertile mi è sembrato invece il discorso sulla vita e sulla morte. Sarà un retaggio dell’età attuale, ma sono riflessioni che mi accompagnano. Non a caso, ne ho estratte molte sentenze, che mi sono rimaste impresse durante la lettura. Sono, infatti, convinto che solo comprendendo realmente la nostra mortalità, possiamo fare qualcosa che abbia un senso, qui ed ora. Dobbiamo andare oltre la battuta di Duchamp (“a morire sono sempre gli altri”), rifiutando l’immortalità immanente, altrimenti nulla avrebbe senso. Niente utilità nel fare se, data l’eternità, prima o poi succederà. È quanto mi rimanda ad esempio la mia frequentazione con i popoli asiatici, dove invece vedo presente questo senso dell’infinto. Talmente presente che spesso mi sembrano immobili nell’accettare quanto di peggio esista ora. Ed è un discorso che, nel mio intimo, collego a quel bellissimo scritto di Hilmann sull’invecchiamento e sul compimento del proprio carattere giustamente in quella che viene definita “ultima fase della vita”. Altrettanto convincente, per me, il discorso sul bisogno di laicità nella vita pubblica. Come sottolineo più in basso, nessuno mi deve imporre un’adesione ad un credo, eppur tuttavia io, personaggio pubblico, io, Stato, devo vigilare che ognuno possa aderire a quella che ritiene vicina al proprio essere. Ma, ed è molto più importante, le leggi di uno Stato NON devono sottomettersi ad alcun precetto religioso. Ed è questa legge morale imperativa che mi disturba quanto visito molti posti dove invece viene rovesciata. Mi rendo conto che non sono queste umili righe che possono sviscerare una materia così ampia. E sono altrettanto convinto che però ne possiamo tutti trarre degli spunti. Lo scritto di Savater è mirabile, argomentato, pieno di citazioni utili per approfondirne aspetti. Non ultima, ad esempio, la scoperta dell’a me ignoto filosofo russo Lev Šestov, che già nel ’36 scriveva mirabili pagine su “Atene e Gerusalemme”, viste come i due corni della problematica politica e religiosa. Ma prendiamo infine questo scritto per i suoi spunti, e, spero, per quello che da me ne viene come stimolo a voi, amati lettori. Chissà se avremo spazio e tempo per poterci tornare su. Senza mascheramenti e con onestà. Confesso che il libro avrebbe molto altro da dire, ma per la densità di quanto scritto, e per la difficoltà di riuscire a farne un discorso che abbia un senso, credo che non posso che fermarmi qui. Che il dibattito (con buona pace del mio coevo Nanni) abbia inizio.
“Dobbiamo accettare la fede degli altri in Dio e nell’aldilà, nonostante non la si condivida, e prenderla sul serio.” (XIII)
“Noi esseri umani mentiamo con la stessa naturalezza con la quale respiriamo. Mentiamo per nascondere le nostre insicurezze, per far sentire migliori gli altri, per sentirci noi stessi migliori, perché la gente ci ami, per proteggere i bambini, per liberarci dal pericolo, per occultare le nostre cattive azioni o per puro divertimento.” (5)
“La psicologia … per quanto non dia la felicità, se non altro calma i nervi.” (31)
“Tutti gli uomini muoiono, io sono un uomo, quindi io devo morire.” (35)
“Borges: Morirono altri uomini, ma ciò accadde nel passato / che è la stagione … più propizia alla morte.” (35)
Sappiamo che moriremo, ma non ci crediamo.” (35)
“Come insegna Epicuro … la morte non ci raggiungerà mai, perché quando noi siamo essa non è, e quando arriva noi ormai non siamo più.” (43)
“È conveniente la verità o dev’essere vero quel che conviene?” (82)
“Agire come immortali … ma sapendo che siamo mortali … per questo dobbiamo comportarci eticamente nei confronti dei nostri simili.” (105)
“Kant disse che quanto è eticamente importante per i mortali non è riuscire ad essere felici, ma meritare la felicità.” (105)
“Libertà, altruismo, rispetto, eguaglianza, fraternità sono valori che si trovano in maggiore o minor misura in tutte le culture e che non sono affatto esclusivi della nostra civiltà occidentale.” (121)
“Le caratteristiche fondamentali della laicità … sono due: primo, lo Stato deve vigilare che a nessun cittadino venga imposta un’affiliazione religiosa o venga impedito di professare quella che ha scelto; secondo, il rispetto delle leggi del paese deve precedere i particolari precetti di ogni religione.” (134)
“Non è la nostra civiltà a essere tecnologica, è la tecnologia a essere la nostra civiltà.” (148)
“Sapere che siamo mortali ci trasforma in uomini, rifiutarci di ammetterlo conferma che lo siamo.” (170)
“La sua ispirazione… lascia a desiderare … è stato profondo come un posacenere e sottile come una mattonata.” (225)
“Per negarsi alla morte, bisogna scegliere un’impresa, una crociata, un obiettivo che si voglia invulnerabile e ci faccia vagare sulla faccia della terra – a noi che ci sappiamo mortali … – come se fossimo inaccessibili alla morte.” (232)
Cicerone “La vecchiaia” Feltrinelli s.p. (regalo collettivo “Almaviva”)
[A: 07/05/2013 – I: 15/05/2013 – T: 22/05/2013]
[tit. or.: Cato Maior De Senectute; ling. or.: latino; pagine: 174; anno 2008]
Ho affrontato subito, con l’opportuna precedenza, questo esiguo ma corposo libretto, frutto di una componente di regalo nel corso della mia celebrata festa sorianese, a merito di un collettivo regalante composto da ex-colleghi (come riporto in testa accumulandoli in un’etichetta che alcuni più non hanno). Non sono certo io che posso entrare nel merito della scrittura dell’arpinate, sia per la mia basica cultura classica, sia per i fiumi di inchiostro che i suoi scritti hanno fatto scorrere nel corso dei secoli. Devo però fare i complimenti con la fattura di questo libro. Un’ottima introduzione di Oscar Fuà, che chiarisce i termini ed i contorni del testo. Un’edizione con testo a fronte, dove (anche chi come me poco sa di latino) si può apprezzare la facilità dei passaggi maggiori del testo (scritto, tanto per collocarlo nel tempo, pochi mesi prima dell’uccisione di Giulio Cesare). Ed un corredo di note esaustive e stimolanti. Nello specifico, poi, tre sono gli elementi di riflessione che la lettura mi ha suscitato. Il primo, ovvio, dipende dall’esposizione del problema che ne fa Cicerone, dove con sapiente uso oratorio, pone quattro domande alla vecchiaia. Quattro accuse, che ribatte e confuta con stile e larghezza. Il secondo è uno stimolo, una curiosità derivante dai tanti uomini illustri citati. Illustri per Cicerone ed il suo tempo, non sempre, non tutti, rimasti tali negli anni. Ma vederne i nomi mi ha spinto, mi spinge a cercarne notizie anche altrove. Il terzo è una conseguenza della parte maggiore del testo, dedicata ai piaceri della campagna e della vita ritirata, dopo una vita ben vissuta (e vedremo cosa possa voler dire). E domandandomi come io, coevo allo scrittore mentre ne scrive, mi pongo verso la vita “quieta e contemplativa”. E rispondendomi che non è il prosieguo dei miei anni, quello. Posso restare del tempo in quiete, ma sarò presto rimesso in moto dai miei stimoli interiori. E riprenderò, finché ne avrò le forze, il viaggio per i luoghi del mondo. Dove anche con la quiete, e non più con l’irrequietezza giovanile, continuo ad accrescere il mio interiore bisogno di conoscenza. Risposto all’ultimo quesito, torno al primo, ed alle quattro accuse che retoricamente Cicerone porta alla vecchiaia: la vecchiaia distoglie dalle attività, rende il corpo debole, priva di quasi tutti i piaceri ed è troppo vicino alla morte. Se distoglie dalle attività, se rende l’uomo inattivo, questi non è più capace di grandi imprese. Che però (ed io con lui) non si compiono solo per forza o agilità, ma spesso e ben più grandi per saggezza ed autorità. Il secondo punto è quasi un corollario del primo. Possono venir meno le forze, ma l’intelletto progredisce e matura, tanto che, pur avanti con gli anni, una sua orazione riesce a tenere l’uditorio in ascolto più e quanto di un concione giovanile ed arrogante (a meno di non usare i mezzi vocali sopraffattori come spesso si usa nel mondo odierno). Di modo che gli anziani possono e debbono guidare il percorso formativo ed intellettivo dei giovani. Certo, volevamo tutto e subito un dì. Ma ora riconosco che il tutto bisogna poterlo capire. E sarò sempre grato a chi nel corso degli anni me lo ha spiegato. Il terzo, pur riconoscendo l’autore che alcuni piaceri non sono propri della sua età, spiega ed argomenta che quelli che restano (vuoi anche le soddisfazioni sessuali) pur diminuite nel numero aumentano nell’intensità, essendo accompagnate dall’intelletto. E poi si aumentano i piaceri meditativi e di condivisione, punto che mi trova completamente in accordo con Cicerone. Qui parte la sua digressione sulla campagna, di cui ho già espresso il mio sentire. L’ultima è la più forte, la più sentita dagli anziani. La morte si avvicina. Ma come già espresso nel commento ad altri saggi, solo l’esistenza della morte fa si che abbia senso quello di cui si è vissuto. Il termine, anche se non ne conosciamo la tempistica, implica una riflessione (che più si comincia per tempo meglio è) sulla futilità di certi comportamenti e certe mete. E sulla necessità di concentrare la propria attenzione sulla riflessione di cosa abbia un sé per il proprio io. Noi, a prescindere dai credi personali, rimarremmo comunque presenti al di là dello spazio fisico, con quanto abbiamo fatto, e con quanto abbiamo lasciato. Tanti sono gli esempi che Cicerone fa per questo punto, punto forte ovviamente. E come non dargli ragione, nel mio piccolo e personale pantheon, dove ci sono persone e personaggi, pubblici e privati, che purtroppo non frequento più fisicamente, ma con i quali continuo a ragionare internamente. E per sempre (almeno per il mio sempre). Sperando che altrettanto sia dopo di me. Idealmente, il breve scritto, mi si ricollega al da non molto citato libro di Hilmann sul completamento del carattere e della propria personalità giustamente nel tempo cosiddetto della vecchiaia. Il punto centrale poi, cui accenno solo per non allungare troppo lo scritto, meriterebbe un trattamento a sé, forse un saggio, dove poter citare ed elencare le gesta ed i comportamenti quotidiani di Fabrizio Luscino, di Curio Dentato, di Tiberio Coruncanio, di Marco Valerio Corvino, di Lucio Flaminino. Solo a sentirne i nomi, mi vien quasi voglia di farlo presto. Si torni però al testo, ricordando le molte metafore della vita come un’opera di teatro, dove tu attore potrai avere applausi, anche se non comparirai nell’ultima scena. Ma più ancora, a quell’immagine del vecchio che guida la nave usando senza sforzo il timone. La sua conoscenza (la mia?) della vita varrà più a tener ferma la barra sulla retta andatura, meglio del correre a destra e manca in preda alla paura. Paura che c’è e rimane, sempre, in ogni istante della vita, ma che va guidata dalla consapevolezza della finitezza terrena. Riflessione che è bene cominciare sin da giovani. Grazie Cicerone! (ed anche ai donatori.)
“I vecchi … devono diminuire le fatiche fisiche e aumentare invece l’attività della mente … La dissipatezza, se vergognosa in ogni età, nella vecchiaia specialmente è turpe. Se poi si aggiunge anche l’intemperanza dei piaceri, duplice è il male che ne deriva, poiché la vecchiaia riceve disonore per sé e rende più spudorata la sfrenatezza dei giovani.” (27) [da Cicerone ‘Sui doveri’ dedicato a SB]
“Seneca: ogni genere di piacere trova lo stadio più allettante nel momento finale.” (36)
“Ogni età della vita è gravosa per quelli che non trovano in se stessi un aiuto che li faccia vivere felicemente.” (55)
“Gorgia da Leontini [per i suoi cento anni]: Non ho nulla da rinfacciare alla vecchiaia.” (65)
“Solone si vanta nei suoi versi di invecchiare imparando sempre qualcosa.” (75)
“Ogni parte della vita possiede un che di naturale da cogliersi al tempo giusto.” (81)
“Non vi è delitto o atto disonorevole che non trovi spinta nella brama del piacere … dove esso regna… non può abitare la virtù.” (87)[sempre per SB]
“Ringrazio di cuore la vecchiaia che mi ha accresciuto il desiderio di conversare.” (93)
“I vecchi sono uggiosi, sospettosi, intrattabili e difficili: e se vogliamo anche avari. Codesti però sono difetti del carattere, non della vecchiaia!” (109)
“Non mi pento di aver vissuto perché l’ho fatto in maniera tale da non ritenere di essere nato invano.” (123)
“La vecchiaia è l’ultimo atto della vita … del quale dobbiamo evitare la stanchezza, specie quando sopraggiunga la sazietà.” (125)
“Seneca: ogni giorno ritienilo una vita; chi si prepara in questo modo e vive ogni giorno nella sua pienezza, è tranquillo.” (139)
“Temistocle, a chi gli voleva insegnare l’arte di ricordare, rispose di desiderare maggiormente l’arte di dimenticare.” (151)
“La qualità della vecchiaia è legata strettamente al tenore della vita trascorsa da giovani.” (154)
“Dalla nota sui convivi: i commensali devono essere non meno che le Grazie, non più che le Muse; cioè in numero non inferiore a tre e non superiore a nove.” (161)
“Il vecchio è in condizioni migliori rispetto al giovane, in quanto ha già conseguito ciò che l’altro può solo augurarsi.” (169)

Ed ancora più saggiamente dobbiamo riflettere in questa giornata che ci porterà un sindaco, speriamo nuovo, a Roma, speriamo … speriamo … speriamo… 

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