domenica 9 febbraio 2014

Leggete saggi - 09 febbraio 2014

Un grido che erompe dal più profondo. Bene i romanzi, benissimo le divagazioni. Pur tuttavia, mai scordarsi di tornare alle fonti. E di affrontare i problemi alle radici, con tutti i saggi possibili. E qui ne abbiamo a iosa per discuterne. Quindi, oltre che leggere i saggi, provate a leggere questa trama, forse una delle più complesse che abbia elaborato sin qui. Che spazia dall’analisi della formazione del proprio essere nel bel libro di Hillman, all’incapacità (impossibilità) di scrivere dello stupendo Vila-Matas, finendo nei meandri della storia che ci consentono di essere quello che siamo nelle pagine in punta di lingua di Le Goff. Transitando nel mai sopito e/o dimenticato pensiero del rapporto genitori – figli (e giovani – vecchi) dell’agile libretto di Serra.
James Hillman “Il codice dell’anima”  Adelphi euro 13 (in realtà, scontato a 11,70 euro)
[A: 01/01/2013– I: 15/09/2013 – T: 24/09/2013] - &&& E ½
[tit. or.: The Souls’s Code. In search of Character and Calling; ling. or.: inglese; pagine: 391; anno 1996]
Come dissi nella trama del bellissimo libro di Hillman sull’arte di invecchiare, avevo sentito parlare di questo psicologo, uno dei massimi allievi di Jung, da Luciana. Che mi aveva citato proprio questo libro. E che in realtà è quello che pone le basi della costruzione del mondo di Hillman. Dopo molto cercare e girovagarci intorno, quest’anno l’ho finalmente comprato. E dopo molto attendere, l’ho anche letto. Anche se ho impiegato molto a leggerlo (nelle serate mesoafricane) e molto di più a digerirlo. Dopo il libro sul carattere, infatti, mi aspettavo meglio, come se un autore, quando ti piace, debba (per il solo fatto che a te piace) scrivere cose che siano sempre al top. Questo, poi, oltre a non darmi le soddisfazioni che mi auspicavo, è anche un libro difficile, costruito per spiegare e dimostrare la propria tesi, attraverso discorsi che ho trovato più complessi, appunto, della linearità di quando si parlava di invecchiare. Anche se il concetto di fondo, la tesi che sottende le quasi quattrocento pagine è di una semplicità unica: ognuno di noi ha una sua personalità, una sua vocazione, una sua immagine che lo contraddistingue in modo radicale e che, di conseguenza, va ricercata e alimentata senza posa, per rendere davvero autentica la nostra esistenza. Come diceva brillantemente già Platone: noi siamo ciò che abbiamo scelto di essere. In questo senso siamo chiamati a decifrare il codice della nostra anima, affinché possiamo cogliere il senso della nostra presenza nel mondo. Ecco perché il nostro modello di vita è da sempre inscritto nella nostra anima: scegliere la virtù, coltivare la parte migliore di noi stessi o attuare ogni giorno, con coerenza e coraggio, la nostra vocazione dipende, quindi, solo da noi. Ma se queste sono le tracce essenziali su cui si muove Hillman (tutti abbiamo una vita da percorrere, e non è detto che debba essere sempre “superlativa”), il modo in cui l’autore arriva a spiegarci e dimostrarci il suo assunto non è dei più facili. Hillman parte comunque da lontano, e da un punto fermo a tutti noto: Platone ed all’uso che il filosofo greco fa del termine daimon. Quello che è innato in noi, che altri chiamano anima o destino individuale. E riempie il libro di bellissime mini biografie, ricorrendo alle vite di divi quali Judy Garland, Josephine Baker, il torero Manolete, lo scrittore Truman Capote, John Lennon, Quentin Tarantino e Woody Allen, di figuri quali Hitler, i serial killer, Richard Nixon e Henry Kissinger (tanto per citarne alcuni, e comunque sarebbero tutte da leggere e riprendere). Di questi è palese la “chiamata”, anche se c’è un bellissimo paragrafo che parla della scolarità di questi personaggi: ebbene la  maggior parte dei “superlativi eroi” a scuola quanto meno andava male, se non peggio. Loro, i divi, poi ce l’hanno dimostrato di avere una missione, ma tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse a percorrere una certa strada. Ma se tutti hanno una strada, un destino, un'anima, un angelo, esiste forse un angelo mediocre? Domanda di rara difficoltà, cui Hillman risponde rifiutandosi di identificare l'individualità con l'eccentricità. La vocazione accompagna la vita di tutti quanti e la guida in maniera impercettibile e in forme meno vistose di quelle a cui si assiste nelle descrizioni esemplari presentate in questo libro. Non è una grande risposta, ma almeno ci prova. Come prova a sfatare il rapporto idilliaco tra genitori e figli (di cui riporto una frase che trovo stupenda). Alla fine, un altro libro pieno di spunti, non al meglio si diceva, ma che collocherei in una trilogia ideale, con l’etica di Baumann e l’empatia di Bianchi.
“Perché è questo che in tante vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione, ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi.” (18)
“Una teoria sulla vita deve fondarsi sulla bellezza, se vuole spiegare la bellezza che la vita cerca.” (60)
“Secondo una leggenda ebraica, la prova che abbiamo dimenticato la scelta prenatale dell’anima la portiamo impressa sul nostro labbro superiore: il piccolo incavo sotto il naso è l’impronta dell’indice che l’angelo ci ha premuto sulle labbra per sigillarle … ed è per questo che, quando inseguiamo … un pensiero che sfugge, ci portiamo automaticamente il dito a quella significativa scannellatura.” (69)
“Ci sono due assunti [sulla solitudine] che io non posso accettare. Primo … che la solitudine coincide con l’essere soli … Secondo … che la solitudine sia fondamentalmente un sentimento spiacevole.” (80)
“Un figlio felice: mai, in nessun tempo e in nessun luogo, questo è stato il fine che i genitori si sono proposti.” (112)
“Non è dall’autoritarismo o dalla confusione dei genitori che i figli fuggono; i figli fuggono dal vuoto insopportabile del vivere in una famiglia senza altre fantasie che il fare compere, lavare la macchina e scambiarsi convenevoli.” (214)
“Gli eventi ci accadono e gli uomini non possono capire perché una cosa è accaduta, ma, visto che è accaduta, evidentemente, doveva accadere. Dopo l’evento, diamo una spiegazione di ciò che l’ha fatto accadere.” (243)
“Il modo come immaginiamo la nostra vita influisce su come alleviamo i nostri figli, sul nostro atteggiamento verso i sintomi e i disagi degli adolescenti, … sullo straniamento della vecchiaia e sulla preparazione alla morte.” (352)
Enrique Vila-Matas “Bartleby e compagnia” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 5,20 euro)
[A: 01/02/2013– I: 10/10/2013 – T: 13/10/2013] - &&&&&
[tit. or.: Bartleby y compañía; ling. or.: spagnolo; pagine: 180; anno 2000]
Una bellissima prova sulla difficoltà (impossibilità a volte) di scrivere. Un libro che l’autore definisce una serie di note a piè di pagina per un testo inesistente. Favoleggiando, anzi, un libro che sia fatto solo di note (mi sembra di ricordare Nabokov in tutto ciò?). Un libro forse senza trama, senza scenari, ma importa? La mirabolante scrittura di Vila-Matas si cala nel narratore (ma non se ne identifica), un sedicente scrittore, autore 25 anni prima di un libro. E poi scomparso nell’impossibilità di scrivere. Intrappolato, in un certo senso, in quella malattia “alla Bartleby”, in cui non si riesce ad attuare nulla, in cui tutto si riduce in quel “Preferirei di no”. E dopo 25 anni passati nell’ombra, a leggere, accumulare notizie, prova ad esternare questa sofferenza andando ad analizzare, descrivere, riportare, esempi, brani di vita, relative a molti personaggi affetti dalla stessa malattia. Narrando di se stesso narrante, il narratore percorre le pagine (anche) con brandelli della sua vita. Per cui ne conosciamo il rapporto con il padre. Ne conosciamo le pulsioni amorose, l’innamoramento verso una donna con cui non riuscirà ad andare oltre il pensiero. Per terminare il suo cerchio aggrappandosi alla fine della scrittura, con un’ultima nota dedicata alla morte di Tolstoj che, rinunciando alla scrittura, rinuncerà anche alla vita. Ma allora di cos’è fatto questo libro? Essendo, come detto, fatto di note, sono un centinaio di notarelle (86 per l’esattezza) in cui il narratore esemplifica il suo assunto. Ne esce quindi una massa di citazioni, di descrizioni, di situazioni. Da Rimbaud che per non scrivere fugge ad Aden, a Salinger che si rifugia nelle montagne americane, al messicano Rulfo (bellissima l’immagine stravolgente di Rulfo che alla domanda perché non scriva più, risponde “perché è morto zio Celerino”). Il bello è la serietà con cui il narratore attraversa gli scrittori, per poi inzepparne alcuni (lui dice cinque in un’intervista) completamente inventati. Lo stimolo (mio) intellettuale è anche trovarli. Ad esempio Roberto Moretti autore di un improbabile “Istituto Pierre Menard” descrizione di una scuola in cui si insegna a dire No (con tutte le citazioni parallele del caso, essendo Menard l’autore del Quijote inventato da Borges). O Antonio de la Mota Ruiz, che inventa il personaggio di Paranoico Perez che non scrive più dopo che appena finisce un libro, Saramago ne pubblica uno con lo stesso titolo e soggetto. O Clément Cadou che non trovando sbocco nella scrittura, decide di riparare e dipingere mobili (con l’altra citazione obliqua, inventando una descrizione di Cadou fatta da Georges Perec nel fantomatico “Ritratto dell’autore visto come un mobile, sempre”). Ma come non intrigarsi nella descrizione di un ciclista, tale Piquemal ciclotimico sprinter che a volte decideva di non finire le corse (inventatissimo) paragonato a Marcel Benabou, autore del libro “Perché non ho scritto nessuno dei miei libri” (realissimo). La bellezza è ovvia nelle parti auliche, dove a sostegno della difficoltà, impossibilità di portare avanti la scrittura, Vila-Matas cita Leopardi, Gadda, Walser, Hofmannsthal, Traven, Henry Roth, Magris, Keats, Hawthorne, ancora e sempre i miei miti Borges e Perec. Sono tutti elementi che vanno a ricostruire il rompicapo di chi ha scritto cose bellissime (tutti i citati) o anche cose minimali (decine di mini altre citazioni che vi risparmio) e poi decide o pensa che lo scrivere non possa più essere, non possa più rappresentare il se. Per cui c’è chi coscientemente si bartlebyzza dicendo “Preferirei di No” e chi lo fa involontariamente. L’amore che ho avuto verso queste brevi pagine (oltre l’indubbio piacere intellettuale) deriva da uno stimolo ed un punto di arrivo. Lo stimolo sarebbe di ripercorrere il libro, enuncleandone persone vere e false, e farne un florilegio, un’esegesi, un saggio. Il punto di arrivo è forse l’auto giustificazione, che se tanto è complicato scrivere, è giusto che io continui a leggere ed a scrivere (solo) queste note-trame. Per concludere come nella citazione sotto che ho scritto il mio libro, pensando di scriverlo (come ha ben sottolineato il mio amico Carlo).
“Il romanzo … illustra l’impossibilità della scrittura, ma ci suggerisce anche che possono esistere sguardi nuovi su nuovi oggetti e perciò è meglio scrivere piuttosto che non farlo.” (33)
“Passò la vita a cercare un libro che non scrisse mai, anche se, a ben vedere, lo scrisse in modo quasi incosciente, pensando di scriverlo.” (58)
“Non era un filosofo né qualcos’altro di simile. Non era nemmeno un letterato. E, grazie a ciò, pensava molto. Quanto più si scrive, meno si pensa.” (99)
Michele Serra “Gli sdraiati” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 09/11/2013– I: 05/12/2013 – T: 06/12/2013] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 108; anno 2013]
Devo dire che Michele Serra è uno di quei giornalisti che seguo sempre con piacere. Ritengo che a volte, l’uso di immagini iperboliche tenda un po’ al Benni prima maniera, e non sempre ne gradisco. Tant’è vero che non molta della sua produzione è presente nella mia libreria. Solo un vecchio e magistrale esercizio di “mascheratura” intitolato “44 falsi” (e sappiamo quanto mi divertano gli epigoni di Guido Almansi) ed ovviamente la prima parte delle uscite della rivista “Cuore”. Pur tuttavia, seguo con discreto interesse i suoi elzeviri su Repubblica. Questa lunga introduzione, per spiegare come, una volta visto questo suo libro, salire inopinatamente i vertici delle classifiche italiane, scalzando vecchi leoni alla Camilleri o giovani alla Volo, mi sono detto valesse la pena leggerne. Anche perché avevo sentito parlasse del suo (non facile) rapporto con il figlio poco meno che ventenne. Vero è. Ed è anche vero che, con la lucidità ed il garbo che gli riconosco, riesce a dipingere alcuni momenti dei rapporti padre – figlio (o giovani – vecchi) in maniera magistrale. Ci sono pagine in cui ritrovo tracce (poche per fortuna, che oramai è ben cresciuta) di Sara, ma nelle stesse non tracce, ma segnali forti di ragazzi coevi al figlio di Serra. E dei loro padri e delle loro madri (ovviamente qui parlo per sentito più che visto, e sentito dalla parte dei vecchi, naturalmente). La descrizione del disordine della camera del figlio è da incorniciare. Così come quella dei piatti lasciati in giro, posacenere colmi, piatti nel lavello, e bagni da intervento della disinfestazione. Altrettanto centrata la figura del giovane “connesso”: sdraiato sul divano, guardando (sic!) la televisione accesa, cuffia con iPod, cellulare nella mano sinistra e computer sulla pancia. Che dire poi dell’attesa di parlare con i professori? Ma il colmo della realtà odierna, e della difficoltà comunicativa, è nella descrizione del fantomatico negozio Polan&Doompy (ipotizzo nome fittizio, la cui descrizione non può che invece portarmi ad Abercombie&Fitch). Le file di ore dei giovani per comprarsi delle felpe. L’astio di chi era stato da A&F a New York (o a Tokyo) ed ora lo vede aprire a Milano. I locali con poca illuminazione, commessi e commesse con dei fisici da top model, grandi manifesti di giovani altrettanto belli alle pareti. Il tutto appunto per delle felpe “firmate” o al massimo delle sneakers. Detto dei passi sublimi, lascerei nella parte oscura del testo quella della battaglia tra giovani e vecchi, con l’alter-ego di Serra che, vecchio, empatizza per i giovani. Sì, ben scritta, ma, appunto, un po’ pindarica e troppo metaforica. La stessa forza evocativa del problema (di una parte del problema), Michele la raggiunge nel racconto della gita in montagna (finalmente!) con il figlio. Ognuno con la sua individualità: e qui si vede appunto sia il contrapporsi sia l’avvicinarsi tra le due categorie (i giovani e i vecchi). Michele che contesta al figlio l’abbigliamento non proprio da gita in montagna. Il figlio che se ne sbatte, ma fa la gita con il padre, cuffiette in testa (“ma così non senti i rumori del bosco!”). Michele perso nei suoi pensieri, con la paura che la tanto decantata gita sia un disastro (era bella nella tua immaginazione, ma come la prenderà tuo figlio?). Il figlio che invece ne gusta (a suo modo) il sapore. E come non capirne di più, quando, forte della giovanile baldanza, lascerà il povero Michele per ritrovarsi solo in vetta ad aspettarlo? Sono i reali momenti di crescita. È il momento in cui Michele fa un salto di conoscenza, anche verso se stesso, oltre che verso il figlio. Ecco, questo mi lascia il veloce libro. L’angoscia, di Serra, ma anche mia, e di molti altri che conosco, verso il nostro crescere, verso i nostri valori che (sembra) non vengano accettati e/o compresi dai nostri figli. Il confrontare i rapporti odierni con quelli da noi avuti nella nostra gioventù. Sono d’accordo completamente con Serra quando mi dico che spesso non comprendo i giovani, e non ne comprendo le modalità di vita. Poi mi ricordo che, spesso, i miei calzini sono difficili da trovare. O il mio lavello aspetto anche 48 ore per essere liberato. Alla fine, comunque, è un libro sull’etica. Quella mia, che ritrovo, abbastanza, nel comportamento di Michele. Quella dei giovani, che cerco, ma non sempre riesco, di interpretare. Ed è un libro che, volendo, ci può essere utile per riflettere su di noi e sul nostro modo di essere al mondo. Bravo, in ogni caso, Serra!
Jacques Le Goff “Cinque personaggi del passato per il nostro presente” Ibis euro 8,80 (in realtà, scontato a 6,77 euro)
[A: 06/12/2013– I: 02/01/2014 – T: 05/01/2014] - &&&& e ½
[tit. or.: Cinq personnages d’hier pour aujourd’hui; ling. or.: francese; pagine: 102; anno 2001]
Non lo riporto come sottotitolo, ma eccoli i personaggi di Le Goff: Buddha, Abelardo, san Francesco, Michelet, Bloch. E pur non citate nel titolo, importanza rivestono nelle parti a loro dedicate le due donne: Eloisa e santa Chiara. Facciamo comunque un piccolo passo indietro, e veniamo più che al testo anche al contesto. Intanto Le Goff è un fine storico divulgatore, medievalista eccellente, che ha usato la sua esperienza nel campo per partecipare ad alcune trasmissioni di “France culture”, dove ha appunto riproposto una disamina di queste figure di ieri. Inserendole (almeno secondo la percezione che ho avuto dalla lettura), su due filoni paralleli: persone notevoli che hanno insegnamenti universali e storici notevoli che, in più, ci permettono di riflettere proprio sul ruolo dello storico. Il risultato è un libretto agile, che in pochi trattati comunica quello che intende trasmettere. E dà a noi, volenti, il compito di approfondirne. La capacità di Le Goff è anche (e su questo poi non mi dilungo) quella di biografare in poche pagine queste persone, dandocene i tratti salienti della vita e degli atti che interessano il discorso. (Per meglio esemplificare il suo discorso, pongo i suoi efficaci sottotitoli vicino ai cinque personaggi). Così è per Buddha (“la saggezza venuta dall’Oriente cinque secoli prima di Cristo”), dove credo ci voglia trasmettere la relatività del mondo Occidentale. In Oriente, appunto, cinque secoli prima di Gesù, un uomo ebbe la capacità di riflettere sulle cose, e di trasmetterci il bisogno di un agire retto per seguire la strada della pace interiore. Forse questo è anche il messaggio sotteso, come fare, come agire per essere, non dico felici, ma pacifici. Anche quando, come Abelardo, veniamo da una smisurata considerazione di sé. Ma ponendo le basi (lì intorno al 1200) della riflessione matura sulle cose del mondo. Anche a costo di entrare in conflitto con i beni terreni. Per poi elevarsi ad un pensiero fecondo, in questo sorretto dall’amore di Eloisa (“il primo intellettuale moderno e la prima coppia di innamorati moderna”). Anche Francesco entra in conflitto con i poteri temporali. La sua umanità, prima che la sua divinità, lo porta tuttavia ad essere talmente empatico con tutte le cose, da riproporre, in termini cristiani, l’insegnamento di quasi quindici secoli precedenti venuto dall’Oriente. E fortunatamente ripropone le brevi righe della Laude, esempio eponimo del rispetto che Francesco aveva per tutte le cose. Da laico, prima che da chierico, e sorretto anche qui da quella stupenda figura femminile di Chiara d’Assisi (“Resistenza e novità in un’epoca di trasformazioni”). Prima o poi qualcuno riuscirà a scrivere una storia delle influenze femminili nel corso del tempo, riportando meglio in luce, quante di queste signore e signorine hanno fatto per noi. Sul fronte storico, ho avuto delle difficoltà a seguire i discorsi su Jules Michelet (“l’Ottocento, il secolo della Storia”), a parte la capacità di questi nel fondare una storiografia complessa fondata sulla sua monumentale “Storia di Francia” in 24 volumi. Meglio ho seguito le vicende più a noi vicine (anche se relativamente) di Marc Bloch (“rinnovatore della Storia e partigiano”). Che ha unito una vita esemplare ad una capacità professionale fuori dal comune. Storico militante, si direbbe forse, grande professore, fondatore di quell’approccio ai problemi che dovrebbe battezzarsi “antropologia storica”. Laddove, appunto, si vede che la storia non è, non può essere disgiunta dalle altre branche del sapere. Forse ovvio per noi ora, ma non cento anni fa. Dove Bloch univa geografia, analisi dei catasti rurali, movimenti dalle campagne alle città, per dar conto di come si poteva analizzare la storia post hoc, ma non in modo fine a sé stesso. In modo da poter ipotizzare le linee di tendenza che dal passato, spiegando il presente, ipotizzano uno o più futuri possibili. E militante perché, lui ebreo non praticante, e fervente francese, non si tira indietro dalla lotta e dalla guerra partigiana contro l’occupazione nazista. Tanto da finire torturato e poi giustiziato nel giugno del ’44. Questo percorso serve a Le Goff per darci, come dicevo all’inizio, lo spunto di riflessione sui comportamenti umani, e su quella frase che riporto alla fine, di come la storia (e noi con essa) non può che essere una scienza dell’uomo inserito nel tempo della sua vita. Non è sempre riuscitissimo, per cui alla fine non avrà il massimo del mio gradimento. Ma è un libretto da tener presente. E che mi piace chiudere proprio con la frase che Bloch chiese venisse scritta sulla sua tomba, e che mi piacerebbe fungesse da stella cometa a me e a tutti voi: “Dilexit veritatem”.
“Lo storico è un passatore. Convoca gli uomini del passato per sollecitarli … consegnare il loro messaggio agli uomini del presente.” (11)
“L’uomo – e lo storico è un uomo – è incapace di predire il futuro. Ma può prepararlo.” (13)
“Bloch: Reputo l’accondiscenza verso la menzogna, di qualunque pretesto possa ammantarsi, la peggiore lebbra dell’anima.” (88)
“La storia nella sua continuità come nei suoi mutamenti, è la scienza degli uomini nei tempi.” (96)
Come promesso, alla seconda trama del mese allego un’appendice di cura. Questo mese rimaniamo sull’adolescenza, dove mi dilungo un po’ su qualche rimembranza “alla Holden”. Ed intanto si prepara il viaggio sudafricano di fine mese.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2014
Dopo aver affrontato il mese scorso il problema di essere adolescenti e quali siano i migliori libri omeopatici per accettare quest’epoca di transizione, rimaniamo questo mese “in tema”, occupandoci della Adolescenza come malattia.

ADOLESCENZA

Il giovane Holden, J. D. Salinger
L'ospedale delle rane, Lorrie Moore
Dietro la porta, Giorgio Bassani
Il gelo, Romano Bilenchi
Gli ormoni impazzano. Peli spuntano dove prima era tutto liscio. Il pomo di Adamo si ingrossa, la voce cambia. L'acne infuria. I seni sbocciano. Il cuore - e i lombi - s'infiammano alla minima provocazione.
Per prima cosa, smettetela di pensare che capiti solo a voi. Qualunque cosa vi stia succedendo, Holden Caulfield ci è già passato. Se pensate che tutto faccia schifo; se non volete parlarne; se ai vostri genitori verrebbero «due emorragie a testa» se sapessero quello che state facendo proprio in questo momento; se vi hanno espulso da scuola almeno una volta; se pensate che gli adulti siano tutti gente falsa; se bevete/fumate/cercate di rimorchiare persone più grandi di voi; se i vostri cosiddetti amici vi voltano di continuo le spalle; se i vostri insegnanti dicono che vi state lasciando andare; se vi proteggete dal mondo con la spavalderia, le parolacce, o fingendo indifferenza per ciò che può accadervi; se l'unica persona che vi capisce è vostra sorella Phoebe, che ha dieci anni - se una o più di queste cose si applica anche a voi, allora II giovane Holden vi porterà in salvo.
Per l'adolescenza non esiste cura, ma esistono vari modi per cavarsela. L'ospedale delle rane di Lorrie Moore è zeppo dei soliti orrori - la voce narrante, Berie, è una ragazzina in ritardo con lo sviluppo che nasconde il proprio imbarazzo facendosi beffe delle sue «uova al tegamino» e delle sue «lattine schiacciate da una macchina»; lei e la sua migliore amica, Sils, si sganasciano dal ridere se ripensano a quella volta che Sils cercò di togliersi i brufoli con un rasoio. In effetti ridono parecchio insieme - e lo fanno «violentemente, convulsamente», senza emettere un suono. Insieme cantano, anche - qualunque cosa, dalle canzoni di Natale alle sigle televisive a Dionne Warwick. E noi le applaudiamo. Perché se non si canta male e a squarciagola con i propri amici quando si hanno quattordici o quindici anni, lasciando che la musica ci prepari il cuore a quel «qualcosa di grosso e terribile» che deve ancora venire, quando dovremmo farlo?
Eppure, per alcuni l'adolescenza resta il periodo più infelice della propria vita, come per Carlo Cattolica, il protagonista di un breve romanzo di Giorgio Bassani. «Sono stato molto infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane, da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quello che si dice il fondo della disperazione. Ricordo tuttavia pochi periodi più neri, per me, dei mesi di scuola fra l'ottobre del 1929 e il giugno del '30, quando facevo la prima liceo». È il momento in cui, attraverso le amicizie buone e cattive, si manifestano il tempo della Storia in cui si vive e il proprio tempo inferiore. Anche se Carlo scoprirà di essere inchiodato per nascita a un destino di separazione e di livore, non vi fate abbattere: la porta che troverete davanti a voi dovete spalancarla, a qualsiasi costo.
Un altro grande e in parte dimenticato cantore dell'adolescenza è stato Romano Bilenchi. A distanza di quarant'anni dai due racconti precedenti, nel 1982 pubblicò l'ultima parte di una trilogia che in seguito raccolse sotto il titolo ‘Gli anni impossibili’. «Il gelo del sospetto e dell'incomprensione si levò fra me e gli uo-mini quando avevo sedici anni, al tempo della licenza ginnasiale» dice la voce narrante, riprendendo il filo del discorso interrotto quasi mezzo secolo prima. L'adolescenza è il tempo del gelo, che segue quello della siccità e della miseria. Ma non vi spaventate. Per fortuna, la letteratura è un farmaco a temperatura inversa: più è asciutta, e spigolosa, e gelida, più riscalda. Sarà come applicare un cubetto di ghiaccio su un ematoma, in attesa che si sgonfi.

Bugiardino

Credo di aver letto il giovane Holden per la primissima volta già negli anni Sessanta. Ne ricordo una copia nella biblioteca di mio padre (il DNA non mente molto), e ne ricordo una lettura partecipata nella mia stanza da quindicenne. Stanza che c’è ancora, anche se ormai non abitata. Ma c’è, con il letto giovanetto incassato in una parete di libri. Libri che ormai sono curati da mia madre (altra potente lettrice, che non va mai a dormire se non legge almeno cinquanta pagine di un libro). Ed io ne lessi, e mi appassionai, nel ricordo almeno, più che alle ribellioni, alle “disfatte”, a tutti quei momenti del libro in cui Caulfield è preso a schiaffi dalla vita. Certo le mie reazioni erano molto diverse, più interiori che altro. L’ho ripreso negli anni Settanta, per quella curiosità intellettuale più che verso il libro, ora verso l’autore. E verso il traduttore. Mi incuriosiva questo strambo scrittore che, scritto e con successo un libro, invece di gloriarsi di allori e fama, si andava a rintanare nel New Hampshire, rifiutava giornali, rotocalchi, interviste. E probabilmente neanche scriveva. Solo tardi venni a sapere di altri scritti, e qualcosa ancora ne lessi. Ma, nel mio immaginario, rimane l’autore di un solo libro. E, nei miei primi ardori di lingue altre, avendo ormai introiettato il francese, i primi gradini dell’inglese venivano a stimolarmi. Mi sono quindi imbattuto nel titolo originale “Catcher in the rye”. Dovete inoltre sapere che, all’epoca, mi dedicavo anche all’unico sport agonistico che abbia mai praticato: il baseball. Ed in questo sport, figura di perno della difesa è appunto il ricevitore, che in originale si chiama “Catcher” (visto che in italiano acchiappatore suona un po’ orrendo, anche se l’atleta proprio questo fa: acchiappa le palle lanciate dal lanciatore). E date le iniziali conoscenze alcoliche, sapevo anche che “rye” è la segale da cui si fabbrica un ottimo whiskey. Ma che voleva dire “l’acchiappatore nella segale”? Ricerche tardive mi portarono a comprenderne la derivazione da una storpiatura di una famosa (ma non per me) poesia di Robert Burns, il bardo scozzese. Quando il giovane Holden, per rispondere alla domanda della sorella Phoebe su cosa farà da grande, rispondere che vuole “acchiappare i bambini prima che cadano dal burrone mentre giocano in un campo di segale”. Burns diceva “coming”, Caulfield pensa a “catching”, e si inventa il resto con la sua solita fantasia sfrenata. Quella della bellissima domanda su dove vadano le anatre d’inverno quando ghiacciano i laghetti di New York. Ma l’acchiappatore sarebbe stato un titolo orrendo in italiano, anche se il primo traduttore aveva proposto “Il salvatore sul precipizio” come scappatoia. Ma subito ci si accorse della difficoltà della resa di un tale titolo. La seconda scelta cadde su di un volo pindarico “Vita da uomo”. E solo alla fine, si optò per l’ormai pieno di successo “Il giovane Holden”. E capisco anche che altre lingue abbiano avuto problemi analoghi. Tipo il francese, dove è stato tradotto con “L’attrape-Cœurs” (il Rubacuori). Più vicino va lo spagnolo con “El Guardian entre el Centeno” (Il Custode o Portiere nella Segale, giocando sul ruolo sportivo che potrebbe indurre il termine “Guardian”). Solo il tedesco si è mantenuto puro con “Der Fänger im Roggen”. L’ultima rilettura del libro avvenne negli anni Novanta, sulla spinta della nascita, per merito/colpa di Baricco, della “Scuola Holden” di scrittura creativa a Torino. Sempre amante di letture, e sempre preoccupato di non essere capace di scrivere, pensai seriamente di associarmi alla scuola (peccato fosse a Torino). Nelle more mi dissi valeva bene una lettura del libro. Che, ed è ovvio, mi lasciò meno preso, ma più colpito. Ora non era il tempo di immedesimarsi in Holden. Ma era il tempo di capire il fantastico modo di scrivere di questo scrittore, che riusciva, in pochi tratti, alternando riso e pianto, a rendere a pieno il disagio giovanile della crescita. Non parlerò qui della trama in sé, non essendo uno dei libri entrati nella grande rete delle trame. E poi già ne hanno tratteggiato le “curatrici”, e lì vi rimando.
Pur conoscendo gli autori degli altri libri citati, non li ho letti, e quindi, onestamente, non ne parlo.

Conclusioni

Completamente d’accordo sulla necessità di leggere Salinger una volta nella vita, sarei curioso di conoscere qualcuno che ha letto il libro di Bassani. Anche perché, mi verrebbe di accostarlo al grido di poco posteriore di Paul Nizan quando afferma che non è vero i vent’anni siano la più bella età della vita. Per ora, accontentiamoci di guardare i laghetti ghiacciati continuando a farci domande.

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