Un grido che erompe dal più
profondo. Bene i romanzi, benissimo le divagazioni. Pur tuttavia, mai scordarsi
di tornare alle fonti. E di affrontare i problemi alle radici, con tutti i
saggi possibili. E qui ne abbiamo a iosa per discuterne. Quindi, oltre che
leggere i saggi, provate a leggere questa trama, forse una delle più complesse
che abbia elaborato sin qui. Che spazia dall’analisi della formazione del
proprio essere nel bel libro di Hillman, all’incapacità (impossibilità) di scrivere
dello stupendo Vila-Matas, finendo nei meandri della storia che ci consentono
di essere quello che siamo nelle pagine in punta di lingua di Le Goff.
Transitando nel mai sopito e/o dimenticato pensiero del rapporto genitori –
figli (e giovani – vecchi) dell’agile libretto di Serra.
James Hillman “Il codice dell’anima”
Adelphi euro 13 (in realtà, scontato a 11,70 euro)
[A: 01/01/2013– I: 15/09/2013
– T: 24/09/2013] - &&&
E ½
[tit. or.: The Souls’s Code. In search of Character and Calling; ling. or.: inglese; pagine: 391; anno 1996]
Come dissi nella trama del bellissimo libro di Hillman sull’arte di
invecchiare, avevo sentito parlare di questo psicologo, uno dei massimi allievi
di Jung, da Luciana. Che mi aveva citato proprio questo libro. E che in realtà
è quello che pone le basi della costruzione del mondo di Hillman. Dopo molto
cercare e girovagarci intorno, quest’anno l’ho finalmente comprato. E dopo
molto attendere, l’ho anche letto. Anche se ho impiegato molto a leggerlo
(nelle serate mesoafricane) e molto di più a digerirlo. Dopo il libro sul
carattere, infatti, mi aspettavo meglio, come se un autore, quando ti piace,
debba (per il solo fatto che a te piace) scrivere cose che siano sempre al top.
Questo, poi, oltre a non darmi le soddisfazioni che mi auspicavo, è anche un
libro difficile, costruito per spiegare e dimostrare la propria tesi,
attraverso discorsi che ho trovato più complessi, appunto, della linearità di
quando si parlava di invecchiare. Anche se il concetto di fondo, la tesi che
sottende le quasi quattrocento pagine è di una semplicità unica: ognuno di noi
ha una sua personalità, una sua vocazione, una sua immagine che lo contraddistingue
in modo radicale e che, di conseguenza, va ricercata e alimentata senza posa,
per rendere davvero autentica la nostra esistenza. Come diceva brillantemente
già Platone: noi siamo ciò che abbiamo scelto di essere. In questo senso siamo
chiamati a decifrare il codice della nostra anima, affinché possiamo cogliere
il senso della nostra presenza nel mondo. Ecco perché il nostro modello di vita
è da sempre inscritto nella nostra anima: scegliere la virtù, coltivare la
parte migliore di noi stessi o attuare ogni giorno, con coerenza e coraggio, la
nostra vocazione dipende, quindi, solo da noi. Ma se queste sono le tracce essenziali
su cui si muove Hillman (tutti abbiamo una vita da percorrere, e non è detto
che debba essere sempre “superlativa”), il modo in cui l’autore arriva a
spiegarci e dimostrarci il suo assunto non è dei più facili. Hillman parte
comunque da lontano, e da un punto fermo a tutti noto: Platone ed all’uso che
il filosofo greco fa del termine daimon. Quello che è innato in noi, che altri chiamano anima o destino
individuale. E riempie il libro di bellissime mini biografie, ricorrendo alle
vite di divi quali Judy Garland, Josephine Baker, il torero Manolete, lo
scrittore Truman Capote, John Lennon, Quentin Tarantino e Woody Allen, di
figuri quali Hitler, i serial killer, Richard Nixon e Henry Kissinger (tanto
per citarne alcuni, e comunque sarebbero tutte da leggere e riprendere). Di questi
è palese la “chiamata”, anche se c’è un bellissimo paragrafo che parla della
scolarità di questi personaggi: ebbene la
maggior parte dei “superlativi eroi” a scuola quanto meno andava male,
se non peggio. Loro, i divi, poi ce l’hanno dimostrato di avere una missione,
ma tutti, presto o tardi, abbiamo avuto la sensazione che qualcosa ci chiamasse
a percorrere una certa strada. Ma se tutti hanno una strada, un destino,
un'anima, un angelo, esiste forse un angelo mediocre? Domanda di rara
difficoltà, cui Hillman risponde rifiutandosi di identificare l'individualità
con l'eccentricità. La vocazione accompagna la vita di tutti quanti e la guida
in maniera impercettibile e in forme meno vistose di quelle a cui si assiste
nelle descrizioni esemplari presentate in questo libro. Non è una grande
risposta, ma almeno ci prova. Come prova a sfatare il rapporto idilliaco tra
genitori e figli (di cui riporto una frase che trovo stupenda). Alla fine, un
altro libro pieno di spunti, non al meglio si diceva, ma che collocherei in una
trilogia ideale, con l’etica di Baumann e l’empatia di Bianchi.
“Perché è questo che in tante
vite è andato smarrito e va recuperato: il senso della propria vocazione,
ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi.” (18)
“Una teoria sulla vita deve
fondarsi sulla bellezza, se vuole spiegare la bellezza che la vita cerca.” (60)
“Secondo una leggenda ebraica, la prova che abbiamo dimenticato la scelta prenatale dell’anima la portiamo impressa sul nostro labbro superiore: il piccolo incavo sotto il naso è l’impronta dell’indice che l’angelo ci ha premuto sulle labbra per sigillarle … ed è per questo che, quando inseguiamo … un pensiero che sfugge, ci portiamo automaticamente il dito a quella significativa scannellatura.” (69)
“Secondo una leggenda ebraica, la prova che abbiamo dimenticato la scelta prenatale dell’anima la portiamo impressa sul nostro labbro superiore: il piccolo incavo sotto il naso è l’impronta dell’indice che l’angelo ci ha premuto sulle labbra per sigillarle … ed è per questo che, quando inseguiamo … un pensiero che sfugge, ci portiamo automaticamente il dito a quella significativa scannellatura.” (69)
“Ci sono due assunti [sulla
solitudine] che io non posso accettare. Primo … che la solitudine coincide con
l’essere soli … Secondo … che la solitudine sia fondamentalmente un sentimento
spiacevole.” (80)
“Un figlio felice: mai, in
nessun tempo e in nessun luogo, questo è stato il fine che i genitori si sono
proposti.” (112)
“Non è dall’autoritarismo o
dalla confusione dei genitori che i figli fuggono; i figli fuggono dal vuoto
insopportabile del vivere in una famiglia senza altre fantasie che il fare
compere, lavare la macchina e scambiarsi convenevoli.” (214)
“Gli eventi ci accadono e gli
uomini non possono capire perché una cosa è accaduta, ma, visto che è accaduta,
evidentemente, doveva accadere. Dopo l’evento, diamo una spiegazione di ciò che
l’ha fatto accadere.” (243)
“Il modo come immaginiamo la
nostra vita influisce su come alleviamo i nostri figli, sul nostro atteggiamento
verso i sintomi e i disagi degli adolescenti, … sullo straniamento della
vecchiaia e sulla preparazione alla morte.” (352)
Enrique Vila-Matas “Bartleby e compagnia” Feltrinelli euro 8 (in
realtà, scontato a 5,20 euro)
[A: 01/02/2013– I: 10/10/2013 – T: 13/10/2013] - &&&&&
[tit. or.: Bartleby y compañía; ling. or.: spagnolo; pagine: 180;
anno 2000]
Una
bellissima prova sulla difficoltà (impossibilità a volte) di scrivere. Un libro
che l’autore definisce una serie di note a piè di pagina per un testo
inesistente. Favoleggiando, anzi, un libro che sia fatto solo di note (mi
sembra di ricordare Nabokov in tutto ciò?). Un libro forse senza trama, senza
scenari, ma importa? La mirabolante scrittura di Vila-Matas si cala nel
narratore (ma non se ne identifica), un sedicente scrittore, autore 25 anni
prima di un libro. E poi scomparso nell’impossibilità di scrivere.
Intrappolato, in un certo senso, in quella malattia “alla Bartleby”, in cui non
si riesce ad attuare nulla, in cui tutto si riduce in quel “Preferirei di no”.
E dopo 25 anni passati nell’ombra, a leggere, accumulare notizie, prova ad
esternare questa sofferenza andando ad analizzare, descrivere, riportare,
esempi, brani di vita, relative a molti personaggi affetti dalla stessa
malattia. Narrando di se stesso narrante, il narratore percorre le pagine
(anche) con brandelli della sua vita. Per cui ne conosciamo il rapporto con il
padre. Ne conosciamo le pulsioni amorose, l’innamoramento verso una donna con
cui non riuscirà ad andare oltre il pensiero. Per terminare il suo cerchio
aggrappandosi alla fine della scrittura, con un’ultima nota dedicata alla morte
di Tolstoj che, rinunciando alla scrittura, rinuncerà anche alla vita. Ma
allora di cos’è fatto questo libro? Essendo, come detto, fatto di note, sono un
centinaio di notarelle (86 per l’esattezza) in cui il narratore esemplifica il
suo assunto. Ne esce quindi una massa di citazioni, di descrizioni, di situazioni.
Da Rimbaud che per non scrivere fugge ad Aden, a Salinger che si rifugia nelle
montagne americane, al messicano Rulfo (bellissima l’immagine stravolgente di
Rulfo che alla domanda perché non scriva più, risponde “perché è morto zio
Celerino”). Il bello è la serietà con cui il narratore attraversa gli
scrittori, per poi inzepparne alcuni (lui dice cinque in un’intervista)
completamente inventati. Lo stimolo (mio) intellettuale è anche trovarli. Ad
esempio Roberto Moretti autore di un improbabile “Istituto Pierre Menard”
descrizione di una scuola in cui si insegna a dire No (con tutte le citazioni
parallele del caso, essendo Menard l’autore del Quijote inventato da Borges). O
Antonio de la Mota Ruiz, che inventa il personaggio di Paranoico Perez che non
scrive più dopo che appena finisce un libro, Saramago ne pubblica uno con lo
stesso titolo e soggetto. O Clément Cadou che non trovando sbocco nella
scrittura, decide di riparare e dipingere mobili (con l’altra citazione obliqua,
inventando una descrizione di Cadou fatta da Georges Perec nel fantomatico
“Ritratto dell’autore visto come un mobile, sempre”). Ma come non intrigarsi
nella descrizione di un ciclista, tale Piquemal ciclotimico sprinter che a
volte decideva di non finire le corse (inventatissimo) paragonato a Marcel
Benabou, autore del libro “Perché non ho scritto nessuno dei miei libri”
(realissimo). La bellezza è ovvia nelle parti auliche, dove a sostegno della
difficoltà, impossibilità di portare avanti la scrittura, Vila-Matas cita
Leopardi, Gadda, Walser, Hofmannsthal, Traven, Henry Roth, Magris, Keats,
Hawthorne, ancora e sempre i miei miti Borges e Perec. Sono tutti elementi che
vanno a ricostruire il rompicapo di chi ha scritto cose bellissime (tutti i
citati) o anche cose minimali (decine di mini altre citazioni che vi risparmio)
e poi decide o pensa che lo scrivere non possa più essere, non possa più
rappresentare il se. Per cui c’è chi coscientemente si bartlebyzza dicendo
“Preferirei di No” e chi lo fa involontariamente. L’amore che ho avuto verso
queste brevi pagine (oltre l’indubbio piacere intellettuale) deriva da uno
stimolo ed un punto di arrivo. Lo stimolo sarebbe di ripercorrere il libro,
enuncleandone persone vere e false, e farne un florilegio, un’esegesi, un
saggio. Il punto di arrivo è forse l’auto giustificazione, che se tanto è
complicato scrivere, è giusto che io continui a leggere ed a scrivere (solo)
queste note-trame. Per concludere come nella citazione sotto che ho scritto il
mio libro, pensando di scriverlo (come ha ben sottolineato il mio amico Carlo).
“Il romanzo … illustra l’impossibilità della
scrittura, ma ci suggerisce anche che possono esistere sguardi nuovi su nuovi
oggetti e perciò è meglio scrivere piuttosto che non farlo.” (33)
“Passò la vita a cercare un libro che non
scrisse mai, anche se, a ben vedere, lo scrisse in modo quasi incosciente,
pensando di scriverlo.” (58)
“Non era un filosofo né qualcos’altro di
simile. Non era nemmeno un letterato. E, grazie a ciò, pensava molto. Quanto più
si scrive, meno si pensa.” (99)
Michele Serra “Gli sdraiati” Feltrinelli euro 12 (in realtà, scontato a
9 euro)
[A: 09/11/2013– I: 05/12/2013 – T: 06/12/2013] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 108;
anno 2013]
Devo
dire che Michele Serra è uno di quei giornalisti che seguo sempre con piacere.
Ritengo che a volte, l’uso di immagini iperboliche tenda un po’ al Benni prima
maniera, e non sempre ne gradisco. Tant’è vero che non molta della sua
produzione è presente nella mia libreria. Solo un vecchio e magistrale
esercizio di “mascheratura” intitolato “44 falsi” (e sappiamo quanto mi
divertano gli epigoni di Guido Almansi) ed ovviamente la prima parte delle
uscite della rivista “Cuore”. Pur tuttavia, seguo con discreto interesse i suoi
elzeviri su Repubblica. Questa lunga introduzione, per spiegare come, una volta
visto questo suo libro, salire inopinatamente i vertici delle classifiche italiane,
scalzando vecchi leoni alla Camilleri o giovani alla Volo, mi sono detto
valesse la pena leggerne. Anche perché avevo sentito parlasse del suo (non
facile) rapporto con il figlio poco meno che ventenne. Vero è. Ed è anche vero
che, con la lucidità ed il garbo che gli riconosco, riesce a dipingere alcuni
momenti dei rapporti padre – figlio (o giovani – vecchi) in maniera magistrale.
Ci sono pagine in cui ritrovo tracce (poche per fortuna, che oramai è ben
cresciuta) di Sara, ma nelle stesse non tracce, ma segnali forti di ragazzi
coevi al figlio di Serra. E dei loro padri e delle loro madri (ovviamente qui
parlo per sentito più che visto, e sentito dalla parte dei vecchi, naturalmente).
La descrizione del disordine della camera del figlio è da incorniciare. Così
come quella dei piatti lasciati in giro, posacenere colmi, piatti nel lavello,
e bagni da intervento della disinfestazione. Altrettanto centrata la figura del
giovane “connesso”: sdraiato sul divano, guardando (sic!) la televisione
accesa, cuffia con iPod, cellulare nella mano sinistra e computer sulla pancia.
Che dire poi dell’attesa di parlare con i professori? Ma il colmo della realtà
odierna, e della difficoltà comunicativa, è nella descrizione del fantomatico
negozio Polan&Doompy (ipotizzo nome fittizio, la cui descrizione non può
che invece portarmi ad Abercombie&Fitch). Le file di ore dei giovani per comprarsi
delle felpe. L’astio di chi era stato da A&F a New York (o a Tokyo) ed ora
lo vede aprire a Milano. I locali con poca illuminazione, commessi e commesse
con dei fisici da top model, grandi manifesti di giovani altrettanto belli alle
pareti. Il tutto appunto per delle felpe “firmate” o al massimo delle sneakers.
Detto dei passi sublimi, lascerei nella parte oscura del testo quella della battaglia
tra giovani e vecchi, con l’alter-ego di Serra che, vecchio, empatizza per i
giovani. Sì, ben scritta, ma, appunto, un po’ pindarica e troppo metaforica. La
stessa forza evocativa del problema (di una parte del problema), Michele la
raggiunge nel racconto della gita in montagna (finalmente!) con il figlio.
Ognuno con la sua individualità: e qui si vede appunto sia il contrapporsi sia
l’avvicinarsi tra le due categorie (i giovani e i vecchi). Michele che contesta
al figlio l’abbigliamento non proprio da gita in montagna. Il figlio che se ne
sbatte, ma fa la gita con il padre, cuffiette in testa (“ma così non senti i
rumori del bosco!”). Michele perso nei suoi pensieri, con la paura che la tanto
decantata gita sia un disastro (era bella nella tua immaginazione, ma come la
prenderà tuo figlio?). Il figlio che invece ne gusta (a suo modo) il sapore. E
come non capirne di più, quando, forte della giovanile baldanza, lascerà il
povero Michele per ritrovarsi solo in vetta ad aspettarlo? Sono i reali momenti
di crescita. È il momento in cui Michele fa un salto di conoscenza, anche verso
se stesso, oltre che verso il figlio. Ecco, questo mi lascia il veloce libro.
L’angoscia, di Serra, ma anche mia, e di molti altri che conosco, verso il
nostro crescere, verso i nostri valori che (sembra) non vengano accettati e/o
compresi dai nostri figli. Il confrontare i rapporti odierni con quelli da noi
avuti nella nostra gioventù. Sono d’accordo completamente con Serra quando mi
dico che spesso non comprendo i giovani, e non ne comprendo le modalità di
vita. Poi mi ricordo che, spesso, i miei calzini sono difficili da trovare. O
il mio lavello aspetto anche 48 ore per essere liberato. Alla fine, comunque, è
un libro sull’etica. Quella mia, che ritrovo, abbastanza, nel comportamento di
Michele. Quella dei giovani, che cerco, ma non sempre riesco, di interpretare.
Ed è un libro che, volendo, ci può essere utile per riflettere su di noi e sul
nostro modo di essere al mondo. Bravo, in ogni caso, Serra!
Jacques Le Goff “Cinque personaggi del passato per il nostro presente”
Ibis euro 8,80 (in realtà, scontato a 6,77 euro)
[A: 06/12/2013– I:
02/01/2014 – T: 05/01/2014] - &&&&
e ½
[tit. or.: Cinq
personnages d’hier pour aujourd’hui; ling. or.: francese; pagine: 102; anno 2001]
Non
lo riporto come sottotitolo, ma eccoli i personaggi di Le Goff: Buddha,
Abelardo, san Francesco, Michelet, Bloch. E pur non citate nel titolo,
importanza rivestono nelle parti a loro dedicate le due donne: Eloisa e santa
Chiara. Facciamo comunque un piccolo passo indietro, e veniamo più che al testo
anche al contesto. Intanto Le Goff è un fine storico divulgatore, medievalista
eccellente, che ha usato la sua esperienza nel campo per partecipare ad alcune
trasmissioni di “France culture”, dove ha appunto riproposto una disamina di
queste figure di ieri. Inserendole (almeno secondo la percezione che ho avuto
dalla lettura), su due filoni paralleli: persone notevoli che hanno
insegnamenti universali e storici notevoli che, in più, ci permettono di
riflettere proprio sul ruolo dello storico. Il risultato è un libretto agile,
che in pochi trattati comunica quello che intende trasmettere. E dà a noi,
volenti, il compito di approfondirne. La capacità di Le Goff è anche (e su
questo poi non mi dilungo) quella di biografare in poche pagine queste persone,
dandocene i tratti salienti della vita e degli atti che interessano il
discorso. (Per meglio esemplificare il suo discorso, pongo i suoi efficaci
sottotitoli vicino ai cinque personaggi). Così è per Buddha (“la saggezza venuta
dall’Oriente cinque secoli prima di Cristo”), dove credo ci voglia trasmettere
la relatività del mondo Occidentale. In Oriente, appunto, cinque secoli prima
di Gesù, un uomo ebbe la capacità di riflettere sulle cose, e di trasmetterci
il bisogno di un agire retto per seguire la strada della pace interiore. Forse
questo è anche il messaggio sotteso, come fare, come agire per essere, non dico
felici, ma pacifici. Anche quando, come Abelardo, veniamo da una smisurata
considerazione di sé. Ma ponendo le basi (lì intorno al 1200) della riflessione
matura sulle cose del mondo. Anche a costo di entrare in conflitto con i beni
terreni. Per poi elevarsi ad un pensiero fecondo, in questo sorretto dall’amore
di Eloisa (“il primo intellettuale moderno e la prima coppia di innamorati moderna”).
Anche Francesco entra in conflitto con i poteri temporali. La sua umanità,
prima che la sua divinità, lo porta tuttavia ad essere talmente empatico con
tutte le cose, da riproporre, in termini cristiani, l’insegnamento di quasi
quindici secoli precedenti venuto dall’Oriente. E fortunatamente ripropone le
brevi righe della Laude, esempio eponimo del rispetto che Francesco aveva per
tutte le cose. Da laico, prima che da chierico, e sorretto anche qui da quella
stupenda figura femminile di Chiara d’Assisi (“Resistenza e novità in un’epoca
di trasformazioni”). Prima o poi qualcuno riuscirà a scrivere una storia delle
influenze femminili nel corso del tempo, riportando meglio in luce, quante di
queste signore e signorine hanno fatto per noi. Sul fronte storico, ho avuto
delle difficoltà a seguire i discorsi su Jules Michelet (“l’Ottocento, il
secolo della Storia”), a parte la capacità di questi nel fondare una
storiografia complessa fondata sulla sua monumentale “Storia di Francia” in 24
volumi. Meglio ho seguito le vicende più a noi vicine (anche se relativamente)
di Marc Bloch (“rinnovatore della Storia e partigiano”). Che ha unito una vita
esemplare ad una capacità professionale fuori dal comune. Storico militante, si
direbbe forse, grande professore, fondatore di quell’approccio ai problemi che
dovrebbe battezzarsi “antropologia storica”. Laddove, appunto, si vede che la
storia non è, non può essere disgiunta dalle altre branche del sapere. Forse
ovvio per noi ora, ma non cento anni fa. Dove Bloch univa geografia, analisi
dei catasti rurali, movimenti dalle campagne alle città, per dar conto di come
si poteva analizzare la storia post hoc, ma non in modo fine a sé stesso. In
modo da poter ipotizzare le linee di tendenza che dal passato, spiegando il
presente, ipotizzano uno o più futuri possibili. E militante perché, lui ebreo
non praticante, e fervente francese, non si tira indietro dalla lotta e dalla
guerra partigiana contro l’occupazione nazista. Tanto da finire torturato e poi
giustiziato nel giugno del ’44. Questo percorso serve a Le Goff per darci, come
dicevo all’inizio, lo spunto di riflessione sui comportamenti umani, e su
quella frase che riporto alla fine, di come la storia (e noi con essa) non può
che essere una scienza dell’uomo inserito nel tempo della sua vita. Non è
sempre riuscitissimo, per cui alla fine non avrà il massimo del mio gradimento.
Ma è un libretto da tener presente. E che mi piace chiudere proprio con la
frase che Bloch chiese venisse scritta sulla sua tomba, e che mi piacerebbe
fungesse da stella cometa a me e a tutti voi: “Dilexit veritatem”.
“Lo storico è un passatore. Convoca gli
uomini del passato per sollecitarli … consegnare il loro messaggio agli uomini
del presente.” (11)
“L’uomo – e lo storico è un uomo – è
incapace di predire il futuro. Ma può prepararlo.” (13)
“Bloch: Reputo l’accondiscenza verso la
menzogna, di qualunque pretesto possa ammantarsi, la peggiore lebbra
dell’anima.” (88)
“La storia nella sua continuità come nei
suoi mutamenti, è la scienza degli uomini nei tempi.” (96)
Come
promesso, alla seconda trama del mese allego un’appendice di cura. Questo mese
rimaniamo sull’adolescenza, dove mi dilungo un po’ su qualche rimembranza “alla
Holden”. Ed intanto si prepara il viaggio sudafricano di fine mese.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan
Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
FEBBRAIO 2014
Dopo aver affrontato il mese
scorso il problema di essere adolescenti e quali siano i migliori libri
omeopatici per accettare quest’epoca di transizione, rimaniamo questo mese “in
tema”, occupandoci della Adolescenza come malattia.
ADOLESCENZA
Il giovane Holden, J. D.
Salinger
L'ospedale delle rane,
Lorrie Moore
Dietro la porta, Giorgio
Bassani
Il gelo, Romano Bilenchi
Gli
ormoni impazzano. Peli spuntano dove prima era tutto liscio. Il pomo di Adamo
si ingrossa, la voce cambia. L'acne infuria. I seni sbocciano. Il cuore - e i
lombi - s'infiammano alla minima provocazione.
Per
prima cosa, smettetela di pensare che capiti solo a voi. Qualunque cosa vi stia
succedendo, Holden Caulfield ci è già passato. Se pensate che tutto faccia
schifo; se non volete parlarne; se ai vostri genitori verrebbero «due emorragie
a testa» se sapessero quello che state facendo proprio in questo momento; se vi
hanno espulso da scuola almeno una volta; se pensate che gli adulti siano tutti
gente falsa; se bevete/fumate/cercate di rimorchiare persone più grandi di voi;
se i vostri cosiddetti amici vi voltano di continuo le spalle; se i vostri
insegnanti dicono che vi state lasciando andare; se vi proteggete dal mondo con
la spavalderia, le parolacce, o fingendo indifferenza per ciò che può
accadervi; se l'unica persona che vi capisce è vostra sorella Phoebe, che ha
dieci anni - se una o più di queste cose si applica anche a voi, allora II
giovane Holden vi porterà in salvo.
Per
l'adolescenza non esiste cura, ma esistono vari modi per cavarsela. L'ospedale delle rane di Lorrie Moore è
zeppo dei soliti orrori - la voce narrante, Berie, è una ragazzina in ritardo
con lo sviluppo che nasconde il proprio imbarazzo facendosi beffe delle sue
«uova al tegamino» e delle sue «lattine schiacciate da una macchina»; lei e la
sua migliore amica, Sils, si sganasciano dal ridere se ripensano a quella volta
che Sils cercò di togliersi i brufoli con un rasoio. In effetti ridono
parecchio insieme - e lo fanno «violentemente, convulsamente», senza emettere
un suono. Insieme cantano, anche - qualunque cosa, dalle canzoni di Natale alle
sigle televisive a Dionne Warwick. E noi le applaudiamo. Perché se non si canta
male e a squarciagola con i propri amici quando si hanno quattordici o quindici
anni, lasciando che la musica ci prepari il cuore a quel «qualcosa di grosso e
terribile» che deve ancora venire, quando dovremmo farlo?
Eppure,
per alcuni l'adolescenza resta il periodo più infelice della propria vita, come
per Carlo Cattolica, il protagonista di un breve romanzo di Giorgio Bassani.
«Sono stato molto infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane,
da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quello che si dice il
fondo della disperazione. Ricordo tuttavia pochi periodi più neri, per me, dei
mesi di scuola fra l'ottobre del 1929 e il giugno del '30, quando facevo la
prima liceo». È il momento in cui, attraverso le amicizie buone e cattive, si
manifestano il tempo della Storia in cui si vive e il proprio tempo inferiore.
Anche se Carlo scoprirà di essere inchiodato per nascita a un destino di
separazione e di livore, non vi fate abbattere: la porta che troverete davanti
a voi dovete spalancarla, a qualsiasi costo.
Un
altro grande e in parte dimenticato cantore dell'adolescenza è stato Romano
Bilenchi. A distanza di quarant'anni dai due racconti precedenti, nel 1982
pubblicò l'ultima parte di una trilogia che in seguito raccolse sotto il titolo
‘Gli anni impossibili’. «Il gelo del sospetto e dell'incomprensione si levò fra
me e gli uo-mini quando avevo sedici anni, al tempo della licenza ginnasiale»
dice la voce narrante, riprendendo il filo del discorso interrotto quasi mezzo
secolo prima. L'adolescenza è il tempo del gelo, che segue quello della siccità
e della miseria. Ma non vi spaventate. Per fortuna, la letteratura è un farmaco
a temperatura inversa: più è asciutta, e spigolosa, e gelida, più riscalda.
Sarà come applicare un cubetto di ghiaccio su un ematoma, in attesa che si
sgonfi.
Bugiardino
Credo
di aver letto il giovane Holden per la primissima volta già negli anni
Sessanta. Ne ricordo una copia nella biblioteca di mio padre (il DNA non mente
molto), e ne ricordo una lettura partecipata nella mia stanza da quindicenne.
Stanza che c’è ancora, anche se ormai non abitata. Ma c’è, con il letto
giovanetto incassato in una parete di libri. Libri che ormai sono curati da mia
madre (altra potente lettrice, che non va mai a dormire se non legge almeno
cinquanta pagine di un libro). Ed io ne lessi, e mi appassionai, nel ricordo
almeno, più che alle ribellioni, alle “disfatte”, a tutti quei momenti del
libro in cui Caulfield è preso a schiaffi dalla vita. Certo le mie reazioni
erano molto diverse, più interiori che altro. L’ho ripreso negli anni Settanta,
per quella curiosità intellettuale più che verso il libro, ora verso l’autore.
E verso il traduttore. Mi incuriosiva questo strambo scrittore che, scritto e
con successo un libro, invece di gloriarsi di allori e fama, si andava a
rintanare nel New Hampshire, rifiutava giornali, rotocalchi, interviste. E probabilmente
neanche scriveva. Solo tardi venni a sapere di altri scritti, e qualcosa ancora
ne lessi. Ma, nel mio immaginario, rimane l’autore di un solo libro. E, nei
miei primi ardori di lingue altre, avendo ormai introiettato il francese, i
primi gradini dell’inglese venivano a stimolarmi. Mi sono quindi imbattuto nel
titolo originale “Catcher in the rye”. Dovete inoltre sapere che, all’epoca, mi
dedicavo anche all’unico sport agonistico che abbia mai praticato: il baseball.
Ed in questo sport, figura di perno della difesa è appunto il ricevitore, che
in originale si chiama “Catcher” (visto che in italiano acchiappatore suona un
po’ orrendo, anche se l’atleta proprio questo fa: acchiappa le palle lanciate
dal lanciatore). E date le iniziali conoscenze alcoliche, sapevo anche che
“rye” è la segale da cui si fabbrica un ottimo whiskey. Ma che voleva dire
“l’acchiappatore nella segale”? Ricerche tardive mi portarono a comprenderne la
derivazione da una storpiatura di una famosa (ma non per me) poesia di Robert
Burns, il bardo scozzese. Quando il giovane Holden, per rispondere alla domanda
della sorella Phoebe su cosa farà da grande, rispondere che vuole “acchiappare
i bambini prima che cadano dal burrone mentre giocano in un campo di segale”.
Burns diceva “coming”, Caulfield pensa a “catching”, e si inventa il resto con
la sua solita fantasia sfrenata. Quella della bellissima domanda su dove vadano
le anatre d’inverno quando ghiacciano i laghetti di New York. Ma
l’acchiappatore sarebbe stato un titolo orrendo in italiano, anche se il primo
traduttore aveva proposto “Il salvatore sul precipizio” come scappatoia. Ma
subito ci si accorse della difficoltà della resa di un tale titolo. La seconda
scelta cadde su di un volo pindarico “Vita da uomo”. E solo alla fine, si optò
per l’ormai pieno di successo “Il giovane Holden”. E capisco anche che altre
lingue abbiano avuto problemi analoghi. Tipo il francese, dove è stato tradotto
con “L’attrape-Cœurs” (il
Rubacuori). Più vicino va lo spagnolo con “El Guardian entre el Centeno” (Il Custode o Portiere nella Segale,
giocando sul ruolo sportivo che potrebbe indurre il termine “Guardian”). Solo
il tedesco si è mantenuto puro con “Der Fänger im Roggen”. L’ultima rilettura del libro avvenne negli
anni Novanta, sulla spinta della nascita, per merito/colpa di Baricco, della
“Scuola Holden” di scrittura creativa a Torino. Sempre amante di letture, e
sempre preoccupato di non essere capace di scrivere, pensai seriamente di associarmi
alla scuola (peccato fosse a Torino). Nelle more mi dissi valeva bene una
lettura del libro. Che, ed è ovvio, mi lasciò meno preso, ma più colpito. Ora
non era il tempo di immedesimarsi in Holden. Ma era il tempo di capire il
fantastico modo di scrivere di questo scrittore, che riusciva, in pochi tratti,
alternando riso e pianto, a rendere a pieno il disagio giovanile della
crescita. Non parlerò qui della trama in sé, non essendo uno dei libri entrati
nella grande rete delle trame. E poi già ne hanno tratteggiato le “curatrici”,
e lì vi rimando.
Pur
conoscendo gli autori degli altri libri citati, non li ho letti, e quindi,
onestamente, non ne parlo.
Conclusioni
Completamente d’accordo sulla necessità
di leggere Salinger una volta nella vita, sarei curioso di conoscere qualcuno
che ha letto il libro di Bassani. Anche perché, mi verrebbe di accostarlo al
grido di poco posteriore di Paul Nizan quando afferma che non è vero i
vent’anni siano la più bella età della vita. Per ora, accontentiamoci di
guardare i laghetti ghiacciati continuando a farci domande.
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