Una settimana dedicata a
scrittori che sono ben presenti nelle mie storie di lettura. Per l’ovvio motivo
che mi piacciono i loro scritti e la loro scrittura. Tuttavia, come rammenta il
titolo, sono scrittori di cui ho letto opere migliori. Forse il solo Oz rimane
ad un livello soddisfacente. Certo, Hornby (anche per colpa di editor e affini)
precipita nell’inutile. Ed i due libri para-fanatscientifici di McCarthy e di
Auster mi fanno rimpiangere “Meridiani di sangue” e la “Trilogia di New York”.
Sperando magari di trovare qualcuno a cui sono piaciuti, ed ingaggiare una
lotta di opinioni all’ultimo colpo.
Cormac McCarthy “La strada” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9
euro)
[A: 15/04/2013– I: 23/10/2013 – T: 26/10/2013] - &&
e ½
[tit. or.: The Road; ling. or.: inglese; pagine: 218; anno 2006]
Confesso
immediatamente e senza ombra di dubbio: questo libro non mi è piaciuto. Pur
riconoscendo al solito la bella scrittura di McCarthy, la sua capacità
descrittiva (nei suoi libri, quando descrive paesaggi, mi fa immediatamente
volare dentro la pagina, chiedendomi come si possa essere così abili nel
tratteggiare luoghi anche desolati), questo libro non mi ha per nulla
coinvolto. Purtroppo siamo lontani da quelli che considero i suoi momenti
migliori. Quando la sua prosa spazia nelle ampie praterie americane, magari
selvagge, magari piene di cow-boy. Quando parla di quelle vite vissute ai
margini, spesso anche oltre i margini stessi. Le cattiverie, le piccolezze. Il
quotidiano essere lontano da quei punti focali che noi qui vediamo
nell’America. I suoi personaggi non si muovono a New York, a Los Angeles, a Las
Vegas, a Chicago, a Boston, e neanche nelle lande della Florida. I suoi eroi
stanno dalle parti dei monti del Vermont, del Montana, delle pianure tra Texas
e Arizona. Insomma sono altrove. Ma sto divagando, per rimpiangere quello che
in questo libro non c’è. Anche perché quello che c’è non mi ha coinvolto. Sarà
che ho un discreto passato di cultore della fantascienza in tutte le sue forme
(e qui si potrebbe aprire un bel dibattito su questa forma espressiva, cara
alla mia giovinezza, e sulla forma “poliziesco di attualità” che sta cullandomi
in questi anni; anzi sulla forma in generale di letteratura popolare, se
vogliamo essere dotti, nel senso in cui la descriveva Gramsci in uno dei suoi
quaderni dal carcere), ma il plot di McCarthy è tipico di quella che viene
battezzata come “fantascienza post-apocalittica”. Ora senza scomodare le pietre
miliari di questo genere (come “L’ultimo uomo” di Mary Wollstonecraft Shelley,
“La macchina del tempo” di H. G. Wells o “La peste scarlatta” di Jack London),
basterebbe pensare a “Io sono leggenda” di Richard Matheson del 1954 esempio
preclaro di come si può scrivere di orrori dopo una “fine del mondo”. Qui
abbiamo solo un tale con il figlio che si aggirano per una terra forse
devastata ma non si sa (e non si saprà) da cosa. Che cercano di andare verso un
fantomatico mare, emblema di una qualche speranza. E ne assistiamo agli
incontri con altri derelitti. Le lotte. Le fughe. Le città senza vita, dove si
cerca disperatamente qualcosa da mangiare. E si mangia di tutto. Tanto che non
ci meraviglia la nascita di un cannibalismo orrorifico. McCarthy mette qua e là
spunti sempre più crudi della degradazione possibile degli altri, mentre i
nostri due cercano di mantenersi al di qua di un certo modo di essere. Non a
caso il bambino continua a chiedere a più riprese al padre se loro sono i buoni
e se continueranno ad esserlo. Con qualche flash-back assistiamo anche alla
presa di coscienza della madre del piccolo, al suo “andare fuori di testa” e lasciare
soli i due (si sarà uccisa? avrà cercato altre vie? Chissà, di certo sappiamo
solo che ora non c’è più). I due troveranno il mare, ma non la speranza. Troveranno
altri derelitti, forse buoni quanto loro. E finalmente anche il padre potrà
mollare e morire. Lasciando al piccolo l’eredità di continuare a vivere nel
mondo devastato. Così ci vuole comunicare allora il nostro scrittore? Che di
fronte a crisi estreme i comportamenti umani sono impredicibili? Che i mostri
sono dentro di noi? Che non c’è speranza? Non lo so. Ma so che non esce fuori
da questo romanzo. Che passa di orrore in orrore sino alla sua naturale fine.
Forse McCarthy ha cercato di usare dei registri per ribadire quanto dice in
altri suoi (e migliori) scritti, sulla solitudine umana, sulla cattiveria
interna ad ognuno di noi. Continuo ad essere perplesso. E continua a preferire
chi coscientemente e volutamente usa questo tipo di scrittura, con risultati
per me più interessanti. Come, e qui finisco le citazioni, in “Un cantico per
Leibowitz” di Walter M. Miller in cui dopo il crollo dell’umanità, i sopravvissuti
a poco a poco recuperano le conoscenze perdute, ricostruiscono, ricominciano a
vivere, fino a ricadere di nuovo negli errori del passato ed a scatenare una
nuova guerra nucleare devastante. Questa sì senza speranza. Aspettiamo di
leggere di meglio dal nostro texano.
Nick Hornby “Tutti mi danno del bastardo” Guanda euro 9 (in realtà,
scontato a 6,75 euro)
[A: 08/10/2013– I: 19/11/2013
– T: 20/11/2013] - &
[tit. or.: Everyone’s Reading Bastard; ling. or.: inglese; pagine: 65; anno 2012]
Qui
bisognerebbe dare del Bastardo a molte persone. C’è solo l’imbarazzo da dove
cominciare. Forse comincerei dall’editore Guanda che spaccia per “romanzetto”
questo forse divertimento ma sicuramente solo e soltanto racconto. Un racconto
tra l’altro non inserito in nessuna antologia, ma pubblicato dall’autore sul
web, in una specie di rivista online dal nome “Byliner” (che indica l’occhiello
di un articolo in cui compare il nome dell’autore). Secondo bastardo il
traduttore del titolo che ha cercato di dare un’interpretazione del testo nei
confronti del protagonista. Quando l’originale dice, correttamente, “Tutti leggono
Bastardo”, che risulta essere una rubrica periodica pubblicata dalla
giornalista Elaine, in cui riporta (ma non solo) le malefatte del divorziando
marito Charlie. E tutto il raccontino è imperniato proprio su questo “gioco”.
Charlie ed Elaine decidono di divorziare. Lui è un esperto finanziario di una
promettente banca d’affari. Lei è una giornalista di costume. Che decide di
mettere in piazza i suoi affari privati “sputtanando” il malcapitato Charlie.
Scrivendo una rubrica sul suo giornale, intitolandola appunto “Bastardo” (come
se qualcuno scrivesse un racconto su Michele Serra chiamandolo “Tutti riposano
sull’Amaca”). Terzo e più pieno bastardo il mio ex-amato Nick Hornby. Seguo
Nick dai suoi primi scritti, e ne seguo la parabola che lo ha portato dalle
prime prove assolutamente e genuinamente da me amate, agli attuali scritti,
sempre e viepiù meno graditi. Ricordo il fulminante inizio, prima con quel
grido d’amore appassionato verso il calcio con “Febbre a 90°” e poi con quel
romanzo di formazione “Alta fedeltà” che ha fatto entrare nell’inconscio di
molti la mania delle liste (i cinque migliori dischi, i cinque migliori
romanzi, le cinque migliori donne che ho frequentato, tanto per ricordare le
prime liste del protagonista del romanzo). Ora il buon Nick (che tra l’altro è
un appassionato lettore, come si legge nelle sue recensioni come “Un anno da
lettore” o “Shakespeare scriveva per soldi”) si cimenta per la webzine sopra citata con un raccontino
appunto sul divorzio e sulle sue conseguenze (perverse?). Che indubbiamente ha
alcuni spunti di divertissement: lo stupore di Charlie quando scopre appunto
che Elaine mette in piazza le sue malefatte private, il tentativo (timido) di
Charlie stesso di giustificare le sue “cazzate”, il rapporto con la madre che
da sempre ragione ad Elaine, il rapporto con i figli e la discussione
filologica sull’origine del termine Bastardo (in effetti, Charlie nasce che i
suoi genitori non erano ancora sposati, quindi, etimologicamente è proprio un
bastardo), fino all’incontro (non si sa se poi avrà un seguito) con Helen anche
lei perseguitata mediaticamente dal marito giornalista da cui sta divorziando e
che pubblica una rubrica contro di lei, dal titolo “Stronza”. Ma Charlie,
quando spiega le sue bastardate, cade spesso tra il patetico ed il ridicolo
(mandare a quel paese la sorella di Elaine durante il battesimo del nipote
potrebbe avere una sua logica, come quella di imprecare come uno scaricatore
anche davanti ai figli scoprendo un furto nella sua auto nuova), fino a trovare
anche un’auto-giustificazione della rubrica (la sua prossima donna non avrebbe
dovuto scoprire a poco a poco quanto e come si possa essere bastardi, ma lo
scopre prima, così non avrà sorprese). E dopo le bastardate verso la famiglia,
Elaine va a proporre al suo pubblico (che sembra però perdere di lena con il
tempo e la ripetitività) prima le miserie sessuali di Charlie, poi la sua
bastardaggine come esperto finanziario. Dato che questa trama sta diventando
quasi più lunga del racconto stesso, devo dire che Nick a questo punto lascia
cadere tutto. Su questo ultimo punto, ci mostra Charlie che va ad un aperitivo
con i colleghi e… punto finale. Ma che vuole dire? Bastavano le prime tre righe
per dire tutto, ma se si allunga per 60 pagine, ci si aspetta qualcosa in più.
Un intreccio, un prima, un durante, un’ipotesi per il dopo. Come se si entrasse
in un cinema a metà del primo tempo, ed all’intervallo si dicesse: “Beh, basta
così”. In fondo il meno bastardo di tutti sembra a questo punto proprio
Charlie. Perché Nick tu sai scrivere, sai imbastire storie, sai prendere il
lettore. O hai forse scritto questa bastardata solo per prendere in giro anche
i lettori del web? Speriamo.
Amos Oz “Soumchi” Feltrinelli euro 7 (in realtà scontato a 5,25 euro)
[A: 03/08/2013– I: 20/11/2013 – T: 22/11/2013] - &&&
e ½
[tit. or.: Soumchi; ling. or.: ebraico; ling. trad. inglese; pagine: 85; anno 1978]
Quando
lessi i primi racconti di Alice Munro, dissi subito che l’autrice canadese era
meritevole del Premio Nobel, cosa avvenuta ora a distanza di cinque anni.
Ebbene, da quando leggo gli scritti di Oz, mi viene in mente lo stesso
pensiero. E spero che prima o poi anche l’autore israeliano possa essere
insignito del massimo riconoscimento. Qui sono andato a riprendere uno dei suoi
primi scritti (ormai vecchio di più di 30 anni), scritto dall’autore sulla
soglia dei suoi quaranta. L’ho trovato attuale, ben scritto, coinvolgente,
praticamente senza tempo, pur essendo inserito nel suo tempo. Inoltre, è uno
scritto che dovrebbe essere rivolto ai ragazzi, quasi fosse etichettato di una
scrittura diversa. Andrebbe invece letto da tutti, grandi e piccini. Perché a
tutti dà spunti di riflessione. E per i più giovani adotta un linguaggio che
ritengo sia di presa immediata. Oz riesce, infatti, a riproporci la lunga
riflessione del giovane Soumchi intorno ad un particolare momento della sua
esistenza, con quella freschezza che mi ricorda i miei voli pindarici
giovanili. Quando tutto era permesso (di pensare) e quando tutto era difficile
(da fare). Intanto siamo ben inseriti nel tempo, che accenni sparsi qua e là
collocano la lunga giornata di Soumchi tra la fine della Seconda Guerra
Mondiale e la nascita dello stato di Israele. Siamo in quell’epoca tormentata
dove si agitavano i cuori e le azioni degli ebrei in terra natia. Con
l’oppressione degli inglesi, le ribellioni, l’esistenza certa di spie e
contro-spie. Ed anche se non comprendono tutto, i bambini sono immersi in
questa storia. In questo passaggio (senza essere troppo di peso) di momenti di
storia e di Storia. Ma i bimbi si sa leggono il loro presente anche in chiave
eroica, pensando a grandi imprese, a fughe, a lotte. Vedendo in un’ombra un
nemico, in una voce l’amico che chiama alla riscossa. Facendo passare i propri
coetanei dall’amore all’odio solo per una parola, solo per un gesto. E cercando
di capire i grandi quando parlano delle “loro cose”, di quelle che orecchie
innocenti non devono sentire. Ben dice Soumchi essere un tempo di cambiamenti.
Lui narra questa giornata che ne ha cambiato delle prospettive. Ma sa che il
cambiamento, le modifiche, continueranno, saranno anche altre e più profonde.
Il nostro undicenne è un tipico bimbo in età scolare, che ammira lo zio scapolo
che si inventa mille follie durante la vita quotidiana, che è innamorato perso
di una bimba della sua classe, a cui scrive poesie ma che in pubblico tratta
“da femmina”, tirandole i capelli, che si sente inadeguato verso il più ricco
amico Aldo (di origini italiane) che ha addirittura una tata (ma che gli ruba
il quaderno di poesie), che ha odio e amore verso i pretesi bulletti della classe,
che vorrebbe frequentare, ma che lo snobbano alquanto. La folle giornata di
Soumchi comincia quando il pazzo zio gli regala una bicicletta. Di cui fa
subito sfoggio, andando per vantarsene dall’amico Aldo. Che lo gabba
proponendogli uno scambio tra la bici e parte del suo meraviglioso treno, con
tanto di rotaie e vagoni. Tornando verso casa con il treno, si imbatte nel
bulletto Gael, che lo costringe ad accettare un cane in cambio del treno (e gli
rivela i tradimenti di Aldo). Poi il cane fugge, Soumchi si trova solo, ma in
mezzo alla via trova un temperino. Su questo costruisce le sue folli fughe verso
l’Africa, ad affrontare paesi che non hanno visto l’uomo bianco. Ma a casa il
padre non accetta le sue timide spiegazioni sulla bicicletta. Fuggito in
lacrime per andare a scalare l’Himalaya, viene raccolto dal padre della sua
innamoratina. Che lo accoglie, che parla con lui “da uomo a uomo” anche di
politica. E lo fa dormire con la sua bella Esthie. I due, come tutti i bimbi,
fanno scaramucce di parole. Poi Soumchi si lascia andare, narrando le sue prodi
idee di fuga verso lo Zambesi, e tante altre storie (che Soumchi sa parlare
bene, quando inventa mondi ed avventure). Tanto che conquista il tenero cuore
di Esthie. E benché torni a casa dal padre (che i giorni seguenti, ripercorrendo
la catena degli scambi, riporterà a casa la bici), per sei settimane vivrà la
sua prima storia d’amore. Ecco, si legge d’un fiato, e rimane nella testa. Rimane
la nostalgia di quell’innocenza. E di quella voglia di fare, e poi di
ricominciare. Oz lo scrive in una forma che me lo ha fatto leggere due volte
prima di considerarlo finito. Un solo appunto: purtroppo la traduzione, come si
intuisce dalla titolazione, è avvenuta non dall’originale ma dall’inglese.
Peccato.
Paul Auster “Nel paese delle ultime cose” Einaudi euro 9,50
[A: 03/08/2013– I: 13/12/2013
– T: 16/12/2013] - &&
e ½
[tit. or.: In the country of Last Things; ling. or.: inglese; pagine: 167; anno 1987]
Sembra
quasi che ogni tanto autori di rimarcata solidità trovino la voglia e la
necessità di cimentarsi con qualcosa di catastrofico. Certo con risultati ed
intenti diversi. Come non ricordare positivamente “Le intermittenze della
morte” di Saramago. E come non ricordare altrettanto negativamente “La strada”
di McCarthy. Ecco, seppur in anni ed in contesti leggermente diversi, Auster
con questo scritto mi ha riportato quei due alla mente. Ed alla fine della
lettura, sempre ringraziando la mia amica Luana che me lo fece conoscere anni
fa, trovo questo scritto dell’autore americano datato, carente, insomma, per
me, insoddisfacente. Intanto (ed è sempre un mio pallino sottolinearlo) diffido
sempre quando un maschio scrive tutto un romanzo nei panni di una donna. A meno
di sensibilità particolari (e Auster, pur bravo, non vi arriva) c’è sempre
qualcosa di forzato, di non lineare in questo. Certo, se l’autore si pone in
terza persona riesce a presentare una panoramica di personaggi, di tutti i
generi e di tutte le età. Ma scrivendo un diario (o come dice l’io narrante,
una lunga lettera) nei panni di Anna Blume, il nostro Paul non mi convince.
Secondo elemento di disturbo non è tanto la descrizione di cosa stia capitando
“nel paese lontano”, ma questa immersione nel catastrofismo, senza nessuna
transizione, senza nessuna spiegazione. Anna comincia a descriverci questo
strano paese, dove si comincia a perdere la memoria delle cose, dove tutto va a
scatafascio, dove si sopravvive più che si vive. E comincia con quegli elementi
che dovrebbero far presa sul pubblico, elementi “di cassetta”. Tutto va male,
la gente tende alla morte. Ed ecco, una cinquantina di pagine dedicate alle
diverse compagnie della buona morte: i Maratoneti, i Saltatori, i Predicanti,
gli Striscianti, i cultori dell’eutanasia e quelli dell’assassinio rituale.
Mentre ci narra tutto ciò, apprendiamo che la nostra eroina si è recata nel
paese di cui, per cercare il fratello giornalista scomparso. Fratello che, come
è ovvio, non troverà mai. Dalle morti cercate, poi passa a raccontare i suoi
possibili modi di vita. Prima randagia, poi spazzina (uno dei mestieri più
semplici, anche se faticoso). Poi cercatrice; di cosa? Ma di quello che si può
riusare e che Riciclatori comprano. In questa “ricerca della sopravvivenza”,
incontra Isabel anziana signora dedita al marito Fernand, che non ci sta più
con la testa. Nasce un sodalizio che resta fino alla morte (e non vi dico come)
prima dell’uomo poi della donna. Anna continua a vagabondare senza arrendersi,
ed incontra (sempre fortunati i cercatori…) un altro giornalista, Sam. Con il
quale vive un’intensa storia d’amore. Con il quale rimane incinta. Poi, per
circostanze fortuite, perde sia il bambino sia Sam. E si ritrova nella Casa
gestita da Victoria. Lì dove rinasce per la terza volta, esce dal suo torpore,
ed aiuta la bella Vic nella gestione di quel rifugio temporaneo per derelitti
(non più di una settimana a testa, con docce, stanze e cibo, poi di nuovo in
strada). Finché durano i soldi del padre di Vic. La quale si innamora,
ricambiata, di Anna. Poi ritrovano (ma veramente, che c…) Sam sbandato, e
rimettono in sesto pure lui. Alla fine, i soldi evaporano, Boris (uno strano
tuttofare, metà ruffiano metà buon cuore) organizza la fuga in macchina dalla
città. Purtroppo la carta di Anna finisce proprio in quel momento. E non
sapremo come procede. La fuga, le storie, la vita. Ma che ci vuole dire Paul?
Anzi, che ci voleva dire, visto che il libro ha più o meno venticinque anni
sulle spalle? Che il mondo si avvia verso una brutta piega? Che le risorse
finiranno, e saremmo costretti a riusare tutto? Prima la spazzatura, e poi i
morti? Non vorrei illudere il caro scrittore, ma ci sono libri di fantascienza
“pura” che ne parlano e con più efficacia e cattiveria. Ci sono anche romanzi
che ne parlano meglio. Ed allora? Un viaggio di dannati nel girone
dell’inferno? Povero Dante che si rivolta nella tomba. L’unico punto a favore
di Auster è il fatto che dopo cinque pagine mi sembrava un libro
insopportabile. E tuttavia è riuscito a tenermi sulla pagina fino alla fine.
Non che mi sia piaciuto, ripeto. Ma volevo vederne le consequenzialità. E le “Invenzioni”.
Purtroppo, oltre alla bella scrittura, niente che mi abbia riportato alla
bellezza della “Trilogia di New York”. Peccato.
“Le nostre vite altro non sono che la somma
di molteplici contingenze, e non importa quanto possano essere diverse nei
dettagli, condividono tutte un’essenziale casualità nel loro disegno.” (129)
Dobbiamo
accettare momenti anche non soddisfacenti, che ci fanno riflettere su momenti
diversi, e ci predispongono verso nuove e stimolanti mete. Così come questa
influenza, che pur scemata non accenna a passare. Così come la preparazione dei
prossimi viaggi, sia quelli certi e vicini, come il Sudafrica, sia quelli certi
e più lontani (tanto la Scozia si avvicinerà, prima o poi), sia quelli incerti
né vicini né lontani. Insomma, per ora un nuovo (raffreddato) saluto...
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