domenica 16 febbraio 2014

Avete scritto di meglio - 16 febbraio 2014

Una settimana dedicata a scrittori che sono ben presenti nelle mie storie di lettura. Per l’ovvio motivo che mi piacciono i loro scritti e la loro scrittura. Tuttavia, come rammenta il titolo, sono scrittori di cui ho letto opere migliori. Forse il solo Oz rimane ad un livello soddisfacente. Certo, Hornby (anche per colpa di editor e affini) precipita nell’inutile. Ed i due libri para-fanatscientifici di McCarthy e di Auster mi fanno rimpiangere “Meridiani di sangue” e la “Trilogia di New York”. Sperando magari di trovare qualcuno a cui sono piaciuti, ed ingaggiare una lotta di opinioni all’ultimo colpo.
Cormac McCarthy “La strada” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 15/04/2013– I: 23/10/2013 – T: 26/10/2013] - && e ½
[tit. or.: The Road; ling. or.: inglese; pagine: 218; anno 2006]
Confesso immediatamente e senza ombra di dubbio: questo libro non mi è piaciuto. Pur riconoscendo al solito la bella scrittura di McCarthy, la sua capacità descrittiva (nei suoi libri, quando descrive paesaggi, mi fa immediatamente volare dentro la pagina, chiedendomi come si possa essere così abili nel tratteggiare luoghi anche desolati), questo libro non mi ha per nulla coinvolto. Purtroppo siamo lontani da quelli che considero i suoi momenti migliori. Quando la sua prosa spazia nelle ampie praterie americane, magari selvagge, magari piene di cow-boy. Quando parla di quelle vite vissute ai margini, spesso anche oltre i margini stessi. Le cattiverie, le piccolezze. Il quotidiano essere lontano da quei punti focali che noi qui vediamo nell’America. I suoi personaggi non si muovono a New York, a Los Angeles, a Las Vegas, a Chicago, a Boston, e neanche nelle lande della Florida. I suoi eroi stanno dalle parti dei monti del Vermont, del Montana, delle pianure tra Texas e Arizona. Insomma sono altrove. Ma sto divagando, per rimpiangere quello che in questo libro non c’è. Anche perché quello che c’è non mi ha coinvolto. Sarà che ho un discreto passato di cultore della fantascienza in tutte le sue forme (e qui si potrebbe aprire un bel dibattito su questa forma espressiva, cara alla mia giovinezza, e sulla forma “poliziesco di attualità” che sta cullandomi in questi anni; anzi sulla forma in generale di letteratura popolare, se vogliamo essere dotti, nel senso in cui la descriveva Gramsci in uno dei suoi quaderni dal carcere), ma il plot di McCarthy è tipico di quella che viene battezzata come “fantascienza post-apocalittica”. Ora senza scomodare le pietre miliari di questo genere (come “L’ultimo uomo” di Mary Wollstonecraft Shelley, “La macchina del tempo” di H. G. Wells o “La peste scarlatta” di Jack London), basterebbe pensare a “Io sono leggenda” di Richard Matheson del 1954 esempio preclaro di come si può scrivere di orrori dopo una “fine del mondo”. Qui abbiamo solo un tale con il figlio che si aggirano per una terra forse devastata ma non si sa (e non si saprà) da cosa. Che cercano di andare verso un fantomatico mare, emblema di una qualche speranza. E ne assistiamo agli incontri con altri derelitti. Le lotte. Le fughe. Le città senza vita, dove si cerca disperatamente qualcosa da mangiare. E si mangia di tutto. Tanto che non ci meraviglia la nascita di un cannibalismo orrorifico. McCarthy mette qua e là spunti sempre più crudi della degradazione possibile degli altri, mentre i nostri due cercano di mantenersi al di qua di un certo modo di essere. Non a caso il bambino continua a chiedere a più riprese al padre se loro sono i buoni e se continueranno ad esserlo. Con qualche flash-back assistiamo anche alla presa di coscienza della madre del piccolo, al suo “andare fuori di testa” e lasciare soli i due (si sarà uccisa? avrà cercato altre vie? Chissà, di certo sappiamo solo che ora non c’è più). I due troveranno il mare, ma non la speranza. Troveranno altri derelitti, forse buoni quanto loro. E finalmente anche il padre potrà mollare e morire. Lasciando al piccolo l’eredità di continuare a vivere nel mondo devastato. Così ci vuole comunicare allora il nostro scrittore? Che di fronte a crisi estreme i comportamenti umani sono impredicibili? Che i mostri sono dentro di noi? Che non c’è speranza? Non lo so. Ma so che non esce fuori da questo romanzo. Che passa di orrore in orrore sino alla sua naturale fine. Forse McCarthy ha cercato di usare dei registri per ribadire quanto dice in altri suoi (e migliori) scritti, sulla solitudine umana, sulla cattiveria interna ad ognuno di noi. Continuo ad essere perplesso. E continua a preferire chi coscientemente e volutamente usa questo tipo di scrittura, con risultati per me più interessanti. Come, e qui finisco le citazioni, in “Un cantico per Leibowitz” di Walter M. Miller in cui dopo il crollo dell’umanità, i sopravvissuti a poco a poco recuperano le conoscenze perdute, ricostruiscono, ricominciano a vivere, fino a ricadere di nuovo negli errori del passato ed a scatenare una nuova guerra nucleare devastante. Questa sì senza speranza. Aspettiamo di leggere di meglio dal nostro texano.
Nick Hornby “Tutti mi danno del bastardo” Guanda euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 08/10/2013– I: 19/11/2013 – T: 20/11/2013] - &
[tit. or.: Everyone’s Reading Bastard; ling. or.: inglese; pagine: 65; anno 2012]
Qui bisognerebbe dare del Bastardo a molte persone. C’è solo l’imbarazzo da dove cominciare. Forse comincerei dall’editore Guanda che spaccia per “romanzetto” questo forse divertimento ma sicuramente solo e soltanto racconto. Un racconto tra l’altro non inserito in nessuna antologia, ma pubblicato dall’autore sul web, in una specie di rivista online dal nome “Byliner” (che indica l’occhiello di un articolo in cui compare il nome dell’autore). Secondo bastardo il traduttore del titolo che ha cercato di dare un’interpretazione del testo nei confronti del protagonista. Quando l’originale dice, correttamente, “Tutti leggono Bastardo”, che risulta essere una rubrica periodica pubblicata dalla giornalista Elaine, in cui riporta (ma non solo) le malefatte del divorziando marito Charlie. E tutto il raccontino è imperniato proprio su questo “gioco”. Charlie ed Elaine decidono di divorziare. Lui è un esperto finanziario di una promettente banca d’affari. Lei è una giornalista di costume. Che decide di mettere in piazza i suoi affari privati “sputtanando” il malcapitato Charlie. Scrivendo una rubrica sul suo giornale, intitolandola appunto “Bastardo” (come se qualcuno scrivesse un racconto su Michele Serra chiamandolo “Tutti riposano sull’Amaca”). Terzo e più pieno bastardo il mio ex-amato Nick Hornby. Seguo Nick dai suoi primi scritti, e ne seguo la parabola che lo ha portato dalle prime prove assolutamente e genuinamente da me amate, agli attuali scritti, sempre e viepiù meno graditi. Ricordo il fulminante inizio, prima con quel grido d’amore appassionato verso il calcio con “Febbre a 90°” e poi con quel romanzo di formazione “Alta fedeltà” che ha fatto entrare nell’inconscio di molti la mania delle liste (i cinque migliori dischi, i cinque migliori romanzi, le cinque migliori donne che ho frequentato, tanto per ricordare le prime liste del protagonista del romanzo). Ora il buon Nick (che tra l’altro è un appassionato lettore, come si legge nelle sue recensioni come “Un anno da lettore” o “Shakespeare scriveva per soldi”) si cimenta  per la webzine sopra citata con un raccontino appunto sul divorzio e sulle sue conseguenze (perverse?). Che indubbiamente ha alcuni spunti di divertissement: lo stupore di Charlie quando scopre appunto che Elaine mette in piazza le sue malefatte private, il tentativo (timido) di Charlie stesso di giustificare le sue “cazzate”, il rapporto con la madre che da sempre ragione ad Elaine, il rapporto con i figli e la discussione filologica sull’origine del termine Bastardo (in effetti, Charlie nasce che i suoi genitori non erano ancora sposati, quindi, etimologicamente è proprio un bastardo), fino all’incontro (non si sa se poi avrà un seguito) con Helen anche lei perseguitata mediaticamente dal marito giornalista da cui sta divorziando e che pubblica una rubrica contro di lei, dal titolo “Stronza”. Ma Charlie, quando spiega le sue bastardate, cade spesso tra il patetico ed il ridicolo (mandare a quel paese la sorella di Elaine durante il battesimo del nipote potrebbe avere una sua logica, come quella di imprecare come uno scaricatore anche davanti ai figli scoprendo un furto nella sua auto nuova), fino a trovare anche un’auto-giustificazione della rubrica (la sua prossima donna non avrebbe dovuto scoprire a poco a poco quanto e come si possa essere bastardi, ma lo scopre prima, così non avrà sorprese). E dopo le bastardate verso la famiglia, Elaine va a proporre al suo pubblico (che sembra però perdere di lena con il tempo e la ripetitività) prima le miserie sessuali di Charlie, poi la sua bastardaggine come esperto finanziario. Dato che questa trama sta diventando quasi più lunga del racconto stesso, devo dire che Nick a questo punto lascia cadere tutto. Su questo ultimo punto, ci mostra Charlie che va ad un aperitivo con i colleghi e… punto finale. Ma che vuole dire? Bastavano le prime tre righe per dire tutto, ma se si allunga per 60 pagine, ci si aspetta qualcosa in più. Un intreccio, un prima, un durante, un’ipotesi per il dopo. Come se si entrasse in un cinema a metà del primo tempo, ed all’intervallo si dicesse: “Beh, basta così”. In fondo il meno bastardo di tutti sembra a questo punto proprio Charlie. Perché Nick tu sai scrivere, sai imbastire storie, sai prendere il lettore. O hai forse scritto questa bastardata solo per prendere in giro anche i lettori del web? Speriamo.
Amos Oz “Soumchi” Feltrinelli euro 7 (in realtà scontato a 5,25 euro)
[A: 03/08/2013– I: 20/11/2013 – T: 22/11/2013] - &&& e ½
[tit. or.: Soumchi; ling. or.: ebraico; ling. trad. inglese; pagine: 85; anno 1978]
Quando lessi i primi racconti di Alice Munro, dissi subito che l’autrice canadese era meritevole del Premio Nobel, cosa avvenuta ora a distanza di cinque anni. Ebbene, da quando leggo gli scritti di Oz, mi viene in mente lo stesso pensiero. E spero che prima o poi anche l’autore israeliano possa essere insignito del massimo riconoscimento. Qui sono andato a riprendere uno dei suoi primi scritti (ormai vecchio di più di 30 anni), scritto dall’autore sulla soglia dei suoi quaranta. L’ho trovato attuale, ben scritto, coinvolgente, praticamente senza tempo, pur essendo inserito nel suo tempo. Inoltre, è uno scritto che dovrebbe essere rivolto ai ragazzi, quasi fosse etichettato di una scrittura diversa. Andrebbe invece letto da tutti, grandi e piccini. Perché a tutti dà spunti di riflessione. E per i più giovani adotta un linguaggio che ritengo sia di presa immediata. Oz riesce, infatti, a riproporci la lunga riflessione del giovane Soumchi intorno ad un particolare momento della sua esistenza, con quella freschezza che mi ricorda i miei voli pindarici giovanili. Quando tutto era permesso (di pensare) e quando tutto era difficile (da fare). Intanto siamo ben inseriti nel tempo, che accenni sparsi qua e là collocano la lunga giornata di Soumchi tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e la nascita dello stato di Israele. Siamo in quell’epoca tormentata dove si agitavano i cuori e le azioni degli ebrei in terra natia. Con l’oppressione degli inglesi, le ribellioni, l’esistenza certa di spie e contro-spie. Ed anche se non comprendono tutto, i bambini sono immersi in questa storia. In questo passaggio (senza essere troppo di peso) di momenti di storia e di Storia. Ma i bimbi si sa leggono il loro presente anche in chiave eroica, pensando a grandi imprese, a fughe, a lotte. Vedendo in un’ombra un nemico, in una voce l’amico che chiama alla riscossa. Facendo passare i propri coetanei dall’amore all’odio solo per una parola, solo per un gesto. E cercando di capire i grandi quando parlano delle “loro cose”, di quelle che orecchie innocenti non devono sentire. Ben dice Soumchi essere un tempo di cambiamenti. Lui narra questa giornata che ne ha cambiato delle prospettive. Ma sa che il cambiamento, le modifiche, continueranno, saranno anche altre e più profonde. Il nostro undicenne è un tipico bimbo in età scolare, che ammira lo zio scapolo che si inventa mille follie durante la vita quotidiana, che è innamorato perso di una bimba della sua classe, a cui scrive poesie ma che in pubblico tratta “da femmina”, tirandole i capelli, che si sente inadeguato verso il più ricco amico Aldo (di origini italiane) che ha addirittura una tata (ma che gli ruba il quaderno di poesie), che ha odio e amore verso i pretesi bulletti della classe, che vorrebbe frequentare, ma che lo snobbano alquanto. La folle giornata di Soumchi comincia quando il pazzo zio gli regala una bicicletta. Di cui fa subito sfoggio, andando per vantarsene dall’amico Aldo. Che lo gabba proponendogli uno scambio tra la bici e parte del suo meraviglioso treno, con tanto di rotaie e vagoni. Tornando verso casa con il treno, si imbatte nel bulletto Gael, che lo costringe ad accettare un cane in cambio del treno (e gli rivela i tradimenti di Aldo). Poi il cane fugge, Soumchi si trova solo, ma in mezzo alla via trova un temperino. Su questo costruisce le sue folli fughe verso l’Africa, ad affrontare paesi che non hanno visto l’uomo bianco. Ma a casa il padre non accetta le sue timide spiegazioni sulla bicicletta. Fuggito in lacrime per andare a scalare l’Himalaya, viene raccolto dal padre della sua innamoratina. Che lo accoglie, che parla con lui “da uomo a uomo” anche di politica. E lo fa dormire con la sua bella Esthie. I due, come tutti i bimbi, fanno scaramucce di parole. Poi Soumchi si lascia andare, narrando le sue prodi idee di fuga verso lo Zambesi, e tante altre storie (che Soumchi sa parlare bene, quando inventa mondi ed avventure). Tanto che conquista il tenero cuore di Esthie. E benché torni a casa dal padre (che i giorni seguenti, ripercorrendo la catena degli scambi, riporterà a casa la bici), per sei settimane vivrà la sua prima storia d’amore. Ecco, si legge d’un fiato, e rimane nella testa. Rimane la nostalgia di quell’innocenza. E di quella voglia di fare, e poi di ricominciare. Oz lo scrive in una forma che me lo ha fatto leggere due volte prima di considerarlo finito. Un solo appunto: purtroppo la traduzione, come si intuisce dalla titolazione, è avvenuta non dall’originale ma dall’inglese. Peccato.
Paul Auster “Nel paese delle ultime cose” Einaudi euro 9,50
[A: 03/08/2013– I: 13/12/2013 – T: 16/12/2013] - && e ½
[tit. or.: In the country of Last Things; ling. or.: inglese; pagine: 167; anno 1987]
Sembra quasi che ogni tanto autori di rimarcata solidità trovino la voglia e la necessità di cimentarsi con qualcosa di catastrofico. Certo con risultati ed intenti diversi. Come non ricordare positivamente “Le intermittenze della morte” di Saramago. E come non ricordare altrettanto negativamente “La strada” di McCarthy. Ecco, seppur in anni ed in contesti leggermente diversi, Auster con questo scritto mi ha riportato quei due alla mente. Ed alla fine della lettura, sempre ringraziando la mia amica Luana che me lo fece conoscere anni fa, trovo questo scritto dell’autore americano datato, carente, insomma, per me, insoddisfacente. Intanto (ed è sempre un mio pallino sottolinearlo) diffido sempre quando un maschio scrive tutto un romanzo nei panni di una donna. A meno di sensibilità particolari (e Auster, pur bravo, non vi arriva) c’è sempre qualcosa di forzato, di non lineare in questo. Certo, se l’autore si pone in terza persona riesce a presentare una panoramica di personaggi, di tutti i generi e di tutte le età. Ma scrivendo un diario (o come dice l’io narrante, una lunga lettera) nei panni di Anna Blume, il nostro Paul non mi convince. Secondo elemento di disturbo non è tanto la descrizione di cosa stia capitando “nel paese lontano”, ma questa immersione nel catastrofismo, senza nessuna transizione, senza nessuna spiegazione. Anna comincia a descriverci questo strano paese, dove si comincia a perdere la memoria delle cose, dove tutto va a scatafascio, dove si sopravvive più che si vive. E comincia con quegli elementi che dovrebbero far presa sul pubblico, elementi “di cassetta”. Tutto va male, la gente tende alla morte. Ed ecco, una cinquantina di pagine dedicate alle diverse compagnie della buona morte: i Maratoneti, i Saltatori, i Predicanti, gli Striscianti, i cultori dell’eutanasia e quelli dell’assassinio rituale. Mentre ci narra tutto ciò, apprendiamo che la nostra eroina si è recata nel paese di cui, per cercare il fratello giornalista scomparso. Fratello che, come è ovvio, non troverà mai. Dalle morti cercate, poi passa a raccontare i suoi possibili modi di vita. Prima randagia, poi spazzina (uno dei mestieri più semplici, anche se faticoso). Poi cercatrice; di cosa? Ma di quello che si può riusare e che Riciclatori comprano. In questa “ricerca della sopravvivenza”, incontra Isabel anziana signora dedita al marito Fernand, che non ci sta più con la testa. Nasce un sodalizio che resta fino alla morte (e non vi dico come) prima dell’uomo poi della donna. Anna continua a vagabondare senza arrendersi, ed incontra (sempre fortunati i cercatori…) un altro giornalista, Sam. Con il quale vive un’intensa storia d’amore. Con il quale rimane incinta. Poi, per circostanze fortuite, perde sia il bambino sia Sam. E si ritrova nella Casa gestita da Victoria. Lì dove rinasce per la terza volta, esce dal suo torpore, ed aiuta la bella Vic nella gestione di quel rifugio temporaneo per derelitti (non più di una settimana a testa, con docce, stanze e cibo, poi di nuovo in strada). Finché durano i soldi del padre di Vic. La quale si innamora, ricambiata, di Anna. Poi ritrovano (ma veramente, che c…) Sam sbandato, e rimettono in sesto pure lui. Alla fine, i soldi evaporano, Boris (uno strano tuttofare, metà ruffiano metà buon cuore) organizza la fuga in macchina dalla città. Purtroppo la carta di Anna finisce proprio in quel momento. E non sapremo come procede. La fuga, le storie, la vita. Ma che ci vuole dire Paul? Anzi, che ci voleva dire, visto che il libro ha più o meno venticinque anni sulle spalle? Che il mondo si avvia verso una brutta piega? Che le risorse finiranno, e saremmo costretti a riusare tutto? Prima la spazzatura, e poi i morti? Non vorrei illudere il caro scrittore, ma ci sono libri di fantascienza “pura” che ne parlano e con più efficacia e cattiveria. Ci sono anche romanzi che ne parlano meglio. Ed allora? Un viaggio di dannati nel girone dell’inferno? Povero Dante che si rivolta nella tomba. L’unico punto a favore di Auster è il fatto che dopo cinque pagine mi sembrava un libro insopportabile. E tuttavia è riuscito a tenermi sulla pagina fino alla fine. Non che mi sia piaciuto, ripeto. Ma volevo vederne le consequenzialità. E le “Invenzioni”. Purtroppo, oltre alla bella scrittura, niente che mi abbia riportato alla bellezza della “Trilogia di New York”. Peccato.
“Le nostre vite altro non sono che la somma di molteplici contingenze, e non importa quanto possano essere diverse nei dettagli, condividono tutte un’essenziale casualità nel loro disegno.” (129)
Dobbiamo accettare momenti anche non soddisfacenti, che ci fanno riflettere su momenti diversi, e ci predispongono verso nuove e stimolanti mete. Così come questa influenza, che pur scemata non accenna a passare. Così come la preparazione dei prossimi viaggi, sia quelli certi e vicini, come il Sudafrica, sia quelli certi e più lontani (tanto la Scozia si avvicinerà, prima o poi), sia quelli incerti né vicini né lontani. Insomma, per ora un nuovo (raffreddato) saluto...

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