No, non vi spaventate, non ho
inventato una nuova lingua, solo un piccolo aggancio, dopo una settimana di
afrikaans, con alcuni scrittori dell’Italia del sud (Sudafrica à
Suditalia, ah ah). Due napoletani e due siciliani. Che in vario modo ho già
incontrato nelle mie trame. E mentre sottolineo o la buona prova di De Silva e
l’onesto ritorno di Piazzese, non posso fare a meno di biasimare la scrittura
ed i libri di Alajmo e De Luca, che altrove hanno meritato ben altri commenti.
Diego De Silva “Mancarsi” Einaudi euro 10
[A: 03/08/2013– I: 27/10/2013 – T: 28/10/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 99;
anno 2012]
Libretto agile e veloce, e per
questo inserito nel bagaglio del viaggio a Dubai. E lì, beatamente letto tra un
centro commerciale e una mega metropolitana, sempre con l’aria condizionata a
palla. Tra l’altro sono saltato a piè pari dalla prima produzione di De Silva a
questa recente prova, ripromettendomi prima o poi di toccare la trilogia
napoletana dell’ingegner Malinconico (che però Fako mi sembra sconsigliare
apertamente). Questo, invece, è da leggere. Per l’idea e per alcuni passaggi
delle descrizioni comportamentali dei due personaggi che per tutto il libro “si
mancano”. L’idea, appunto, è di seguire due persone, Nicola e Irene, che
sembrano essere fatti l’uno per l’altra (a patto di capire cosa vuol dire
essere fatti per un’altra persona, ed a patto di comprendere per quale motivo
ci innamoriamo di qualcun altro). E che, per una serie di accidenti, pur
frequentando luoghi omologhi, riescono a non incontrarsi e, di conseguenza, a
non far nascere quella scintilla che potrebbe cambiare la loro vita. Questo
incontro non vi dico se avverrà o meno (lascio a voi la voglia di leggerne) e
cosa comporterà l’avvenimento o il mancato avvenimento (comunque vi rassicuro,
non siamo dalle parti di “Sliding Doors”). Per il centinaio di pagine del
romanzetto, seguiamo comunque le vicende alternate dei due. Da una parte Irene
che si accorge, giorno dopo giorno, che il suo matrimonio è arrivato ad un
punto morto. Che il marito che si trova accanto non è (non è più?) quello che
pensava di avere. E che decide, anche coraggiosamente, che è meglio finire
così. Lo lascia. Continua la sua vita e le sue riflessioni sui rapporti umani.
Continua a lavorare, ad incontrare gente, anche ad avere una nuova vita
sessuale. Ma rimanendone sempre un po’ al di qua. Non trova, non incontra
qualcuno cui possa dire: “amo il modo in cui ti gratti il polso quando pensi”.
E pur se non vicino al lavoro, continua a frequentare un discreto bistrot nella
pausa pranzo, sedendosi davanti ad un grande poster di Buster Keaton. Poster
davanti cui siede anche Nicola, ma la sera, quando va a cenare al bistrot non
riuscendo ancora a tornare alle vecchie abitudini di prima. Perché presto
scopriamo che il prima era quando era viva sua moglie, prima di morire in un
tragico incidente. E tutta l’elucubrazione su Nicola gira anch’essa intorno al
rapporto a due, al rapporto con l’altro. Con Licia, con la quale erano giunti
ad un punto morto. Soprattutto quando Nicola aveva espresso il desiderio di
avere un figlio e Licia lo aveva aggredito distruggendo parola dopo parola il
castello di sentimenti che Nicola aveva riposto nella possibile nascita. E
mentre cerca di trovare un nuovo senso alla sua vita ora solitaria (e,
sfortunatamente, agiata, che la morte di Licia ha portato benessere economico e
tempo libero come mai avuto prima), ripercorre, dialogo dopo dialogo, i momenti
di crisi con Licia. Con la difficoltà (che sentiamo, che viviamo sulla pelle)
di non aver avuto il tempo di chiudere questi discorsi. Forse Nicola ha una
lenta carburazione. Medita cosa dire, come fare. E mentre ci gira intorno,
inopinatamente Licia muore. Come concludere allora quei discorsi se non c’è più
l’interlocutore? Come fare ad inventarsi dialoghi se l’altro non c’è? E
soprattutto, dialoghi di tempi di crisi. Nicola sembrava maturare quella
ribellione allo statu quo, quella che Irene capisce essere avvenuta alle 10 ed
un quarto di un mattino altrimenti uguale a tanti altri. Ma l’altro non c’è, si
è sottratto (involontariamente) morendo. E noi capiamo la difficoltà che nasce
dentro Nicola nel non poter chiudere parentesi aperte. Così, le due vite di
Irene e Nicola si intrecciano nella pagina, affrontando a volte anche simili
problemi, ma da quelle due ottiche diverse. Di chi ha avuto il tempo di agire e
di chi ne è stato privato. Detto anche che il romanzo è pieno di piccole
riflessioni, alcune molto condivisibili, sui rapporti personali (anche se
difficilmente riportabili, eccetto le solite riportate sotto in corsivo),
ribadisco il piacere di questa lettura. Che mi riporta al primo lavoro di De
Silva che ho letto (“Le donne più belle si vedono negli aeroporti”) e che mi
aveva convinto fosse un autore da seguire. Ed a ragione.
“C’innamoriamo di minuzie, di riflessi in cui vediamo l’altra persona
come pensiamo che nessuno l’abbia mai vista e mai la potrà vedere.” (6)
“Nicola è un lettore forte, ma non ha mai letto un libro dall’inizio
alla fine. È perché non crede alla compattezza delle storie. Che un racconto
resti coerente per duecentocinquanta, trecento pagine, gli sembra una
forzatura.” (9)
“Non ne posso più di uomini che mi raccontano come la pensano. Che
parlano, parlano … rimproverandoti se non archivi e custodisci gelosamente
tutto quello che ti hanno detto.” (71)
“Le storie … devono avere un’origine semplice per evolversi, non durano
se devono riabilitarsi, lottare, vincere, infliggersi e procurare sofferenze
invece di dedicarsi serenamente a se stesse.” (89)
Roberto Alajmo “Il primo amore non si scorda mai, anche volendo”
Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 08/10/2013– I: 27/11/2013 – T: 28/11/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 115;
anno 2013]
Sinceramente
sono rimasto un po’ deluso di questo scritto del pur bravo autore siciliano. Di
ben altre scritture lo ricordavo, tra cui l’ultima da me letta quell’arte di
annacarsi che mi aveva fatto fare un bellissimo tour nei miei ricordi
siciliani. Qui, invece, abbiamo una confezione (ed uso volutamente questa
parola) non all’altezza. Nella concezione, nella proposizione, nei risultati.
Sono dei brevi racconti d’infanzia, che spaziano sì come sottolinea l’autore
dal comparire dei primi ricordi d’infanzia al primo bacio. Ma sono slegati,
sono appunti, ricordi, momenti, legati solo dall’io narrante. E non sono tutti
inediti (basti pensare a quello dedicato a Polifemo il gigante buono e la
ricerca di scarpe misura 49). Insomma, nelle carte di molti scrittori immagino
ci siano fogli, appunti volanti, scrittura di momenti di cui vale la pena
lasciare una traccia prima che la memoria li porti via. Poteva quindi essere
preso il tutto, ben mescolato, e farne un romanzetto su di un’età critica,
quella che va dai 4 ai 14 anni. Invece rimangono racconti, isolati momenti di
gioia ed infelicità, come si hanno tutti in gioventù. Quindi concepito al
ribasso, poi mal proposto, che l’editor lascia invece supporre che ci sia quel
romanzo che non c’è. Ed alla fine il risultato è di bassa intensità. Tanto che
i miglior racconti sono gli ultimi due, quando il nostro Roberto si avvia al
limitar della Scuola Media, narrandoci delle prime feste, con i primi approcci
verso l’altro sesso, in quei momenti atroci di ballo. Dove lui (ed io con lui)
non sapevamo come muoverci, aspettando con ansia un lento che ci permettesse
almeno di avvicinarci all’altrui corpo. E poi nell’ultimo racconto (che dà
anche il titolo al libro), col tentativo di “dichiararsi” alla prima ragazza, i
messaggi trasversali mandati attraverso l’amico, quel restare solo con lei, in
spiaggia. Il bacio sulla guancia e la difficoltà di essere in costume, e di
essere esuberante, e di vergognarsi come non so cosa. Qui, realmente, riesce a
tirar fuori situazioni intense, brandelli di memoria che mi hanno riportato ai
lunghi anni marinari ed estivi in quel di Tortoreto Lido. I giochi tra maschi,
le corse con le palline sulla sabbia, e lo scoprire l’universo femminile senza
sapere come approcciarlo. Senza sapere come si bacia. Soffrendo come disperati
per uno sguardo storto, per una frase non detta. Gioendo come gatti coccolati
per un sorriso, o per un gelato condiviso. Non è che non ci siano altri
momenti, isolati nei vari racconti, che non facciano scattare quelle sinapsi di
memoria sempre per noi importanti. Una per tutte, la storia delle tonsille e
dell’intervento relativo. Soltanto una precisazione che non è vero che ci sia
un buco temporale di cinque anni, prima e dopo di Roberto, dove altra
considerazione si aveva sul togliere quell’appendice. Che io le tolsi, e ne ho
6 più di lui, mentre non le tolse mio fratello che ne aveva 2 di meno. L’altro
elemento (di piacere per me, ma inutile nell’economia del romanzo-racconto) è
l’inserimento di quegli elenchi di ricordi focalizzati su giocattoli,
giornalini, alimenti vari, e calciatori. Riprende un po’ il tentativo di
Guccini sul Dizionario delle cose scomparse, con alcuni elementi di levatura
(ed altri in cui si vede la nostra differenza di età). Come scordarsi del
Policar, del cambiadischi a 45 giri, della Graziella, di Plastic city, del View
Master, di Alvin, di Mariarosa, del pianeta Papalla, di Roby e Quattordici, di
Salomone e Svicolone, dei Biscolussi, dell’Algida, dei tortellini Fioravanti.
Tutti elementi mitici. Per poi scivolare sul ormai sempre più ripreso
ritornello: “il gol di Turone era valido”. A cui rispondo con: Vavassori,
Càstano, Garzena, Sarti, Cervato, Leoncini, Stivanello, Nicolé, Charles,
Boniperti, Sivori. L’anno del grande amore! Ecco, avete capito. Se poi in
sottofondo, mettete Giorgia che canta “Gocce di memoria”, via con l’operazione
nostalgia. E pianti a dirotto sui nostri anni passati. Alajmo, sai fare
certamente di meglio, e lo hai dimostrato. Torniamo a quei livelli.
“[a proposito della siesta pomeridiana,
dialogo tra mamma e figlio] ‘Non vuoi dormire? Vai lo stesso nella tua stanza’.
‘E che faccio?’ ‘Ti annoi’.” (45)
“Visto da prima [che sia passato] un anno
sembra un sacco di tempo.” (59)
“In realtà sei convinto che se… una
qualsiasi ragazza vuole stare con (uno come) te, deve avere senz’altro una tara
o qualche difetto invalidante. Vengono dei dubbi se qualcuno ti accetta.” (112)
Erri De Luca “Storia di Irene” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato
a 7,65 euro)
[A: 08/10/2013– I: 29/11/2013 – T: 30/11/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109;
anno 2013]
Quand’è
che terminerò di farmi abbagliare dal ricordo di uno scrittore per evitare di
cadere ancora nelle sue trappole? De Luca fa qui un altro passo falso, forse
nell’ansia di dover pubblicare sempre qualcosa. Esce così un libricino già
scarso di suo, che poi scopri essere una mini raccolta di tre racconti. Uno,
quello più lungo che si merita il titolo, veramente poco significativo.
L’ultimo, una piccola variazione dolente sulla morte di un vecchio. Il solo che
ha un minimo di interesse, sia nella scrittura che nel contenuto, è il secondo,
dedicato ad una storia della vita del padre. Solo in questo, De Luca abbandona
quell’aria di superiorità che purtroppo condisce ormai i suoi scritti, e ci
porta lievemente a condividere un breve momento della vita paterna. Siamo nel
’43, il sottotenente Aldo De Luca ha un breve congedo per problemi familiari,
ed una volta a Napoli, viene travolto dagli avvenimenti del settembre di
quell’anno. Non torna in caserma, si imbosca in campagna, e quando gli alleati
occupano Capri, con cinque suoi sodali fugge da Sorrento per approdare
all’isola liberata. Già questo spaccato ha un suo fascino (belle pennellate di
campagna, di orrori di guerra, di gente che si nasconde, della vita normale che
si vive anche in un momento eccezionale). Il tocco in più avviene con
l’incontro con il sesto uomo, ebreo in fuga. E con l’accostarsi tra papà De
Luca, ateo e rispettoso, e l’ebreo, dolente e religioso. Quasi a mettere in
luce semi nascosti che germoglieranno decenni dopo, in questo figlio che, alla
ricerca di qualcosa, si mette, da ateo, a studiare l’ebraico ed a leggere e
scrivere esegesi su testi biblici, anche con qualche interesse (a meno di non
utilizzare quel tono insopportabile di cui ho scritto tramando “E disse”).
Minima l’ultima storia, su questo vecchio attanagliato da fame e povertà, che
“per togliere il disturbo”, va a morire sugli scogli di Napoli, baciato dal
caldo sole della città. Minima e pur tuttavia leggibile. Niente a che vedere
con la lunga, inutile storia di Irene. Epopea fantastica, in cui si narra della
sordomuta Irene, quattordicenne incinta in una sperduta isola greca. Che trova
empatia con lo straniero venuto da lontano, che non teme di nuotare
accompagnato dai delfini. Ed al quale narra la sua storia, di ragazza venuta da
non si sa dove, che trova il conforto tra gli amati delfini. Di cui si dice
sorella e sposa. E dai delfini rimane incinta. Per partorire in una notte con
poche stelle, in acqua come i delfini. Partorendo essa stessa un delfino che
andrà per mare con i suoi fratelli. Sarà un condensato di metafore, ma non vale
la pena cercare di decrittarle. Se la vita (come si diceva in altri e migliori
scritti) è tutta una metafora, forse è meglio narrare la vita e non la
metafora. Soprattutto quando questa risulta così strampalata da non suscitare
nessuna emozione, da non far vibrare nessuna corda. Utilizzando al meglio (cioè
al peggio) quello stile distaccato, dicendo e ripetendo frasi, parlando del sé
in terza persona, come descrivendosi dall’esterno. Qualcuno che ancora gli
vuole bene, parla di poesia scritta in prosa. Ma andiamo! Rileggiamoci quel
fantastico viaggio intorno alla mela cotogna di Istanbul del bravo Rumiz.
Quella è poesia in prosa (e viceversa). Qui sento solo quel tono di voce che
cerca di dire delle cose semplici come se fossero adombranti chissà quali
verità universali. Riprenda in mano la penna, il nostro Erri, e risciacqui
Irene con il fiume del secondo racconto. Allora sì che si potrà tornare a
leggerne con piacere. Qui ogni pagina era una sofferenza, nella speranza che
scattasse qualcosa, che qualcosa scendesse a nobilitare lo scritto
(un’invenzione, un risvolto, un’immagine). Per fortuna, dopo 70 inutili pagine
finisce, per dar spazio al padre. A cui dovrebbe tornare per ispirarsi e meglio
continuare a scrivere. Addio per ora, caro vecchio amico scrittore. Chissà se
torneremo ad incontrarci.
Santo Piazzese “Blues di mezz’autunno” Sellerio euro 12 (in realtà,
scontato a 10,20 euro)
[A: 09/11/2013– I: 11/12/2013 – T: 13/12/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 161;
anno 2013]
Cominciamo
con un ringraziamento “di memoria”, alla mia amica Otto che tanti anni fa mi
fece conoscere questo anomalo autore palermitano, e le sue vicende biologo –
poliziesche interpretate dal suo alter-ego Lorenzo La Marca. Erano tre agili
Sellerio, usciti tra il ’98 ed ’02. Poi di Piazzese si persero le tracce
artistiche. Ora compare questo nuovo romanzo, sul quale, invece, si appuntano
un po’ di riserve. La prima è una lamentela nei confronti dei librari di Roma,
che tutti hanno collocato questo libro tra i gialli. Ed è una collocazione
fuorviante. La seconda è un dispiacere verso la storia, che invece ci si
aspettava un giallo dal buon Piazzese, e sembravano essercene le premesse nelle
prime pagine. Poi, leggendo la sua postfazione, si capisce la genesi dello
scritto. E ci può anche stare che non sia un giallo, ma la resa (e la presa) è
minore. La terza discende proprio dalla postfazione citata. Che scopriamo il
romanzo essere una (possibile, ovvio) dilatazione di un racconto in cui Lorenzo
non entrava molto (era la parte finale, incentrata in quelli che vengono
riferiti come “gli avvenimenti della Spada”). Ed una dilatazione che può
inglobare Lorenzo come protagonista, ne hai i caratteri (come dice l’autore, ed
io con lui). Ma questa genesi rende un po’ flebile il romanzo complessivo.
Soprattutto nella prima parte, in cui troviamo La Marca impegnato in un
congresso ad Erice (magari organizzato dall’esimio Zichichi). Tutta
l’introduzione serve un po’ a riportarci sulle tracce del biologo -
investigatore (che non a caso gli amici chiamano Marlowe), quasi a fare da
connettore con i tre romanzi citati. E ad introdurre un personaggio – ponte,
l’amico di gioventù Rizzitano. Lui e Lorenzo schermagliano nella calura estiva
della Sicilia, magari facendo in modo che Lorenzo si scopra un po’, ammetta
meglio qualche suo lato un po’ “presupponente”. E sveli una faccia seriosa di
Rizzitano (che tanto non conosciamo ancora, quindi potrebbe avere tutte le
facce che vuole). Tra la lunga introduzione ed il corpo del romanzo c’è poi una
parentesi sulla biologia marina e sulla pesca dei tonni, interessante
gnoseologicamente, ma un po’ pallosa nel contesto. Forse meglio i tonni, che
servono a Piazzese per esercitarsi sullo schizzo di personaggi. Perché poi il
resto sarà (almeno nella parte migliore) centrato su dei bozzetti. Sulla nave a
caccia di tonni ammiriamo lo schizzo di Don Benedetto, esimio cuoco di cuscus
di pesce, e di Karim, l’arabo che parla siculo (e che consente all’autore di
ricordarci come dalle parti del canale di Sicilia, esisteva un tempo una lingua
franca, mescolanza di arabo, siculo, maltese ed altro che consentiva agli
abitanti della zona di comunicare agilmente). I tonni servono anche ad
introdurre il “loco fantastico”, appunto “la Spada”. Isola inventata, con tanti
elementi possibili di altri luoghi limitrofi. Difficoltà di accesso (Ustica?),
isolamento invernale e pienone estivo (Stromboli?), fauna locale “melting pot”
(Favignana?). Poco ci cale, quello che ammiriamo sono i tipi ed i posti. Il bar
Edelweiss frequentato da “gli Stravaganti”, personaggi stanziali o di passo per
la Spada, ognuno con storie e singolarità. A cominciare da Milocco, il gestore,
friulano, spostatosi alla Spada per amore della bella Marianna. Che proprio
bella è, e fa innamorare di sé giovani e vecchi. Il rais Passasisi o il sub
Mutolo o il pittore Damiano. I vecchi che vengono a sentire il juke-box (mitico
l’ascolto di “Piange il telefono” di Modugno). E lo strano Lombardi, con i suoi
misteriosi traffici con il Sud America. Ma dopo una lunga zoomata sulla Spada
ed i suoi eroi, e dopo averci fatto entrare Rizzitano così da collegare prima e
seconda parte, esce il racconto di cui alle prime righe. Con il fuori luogo
Angelini, punta dell’iceberg che invaderà l’isola di lì a poco. Della sua
litigata con Lombardi, fino alla rottura (e non vi dico perché né come). Tanto
forte che si rompe l’equilibrio della Spada e degli Stravaganti. E Lorenzo non
ci tornerà più, finendo i suoi studi ed intraprendendo la carriera
universitaria. Ma poi rimane tutto sospeso (e questo è il quarto ed ultimo
minus della storia). Che finisce tutto lì, con la rottura. Non si salda con la
prima parte, non vengono sciolti nodi aperti. Non sappiamo se arriva Michelle,
se la sorella Assunta, se il mulo, se anche Rizzitano, se … se… Insomma, si
poteva partire dal racconto, ma per fare un romanzo doveva esserci un po’ di
costruzione in più. Un po’ di chiusure, che non ci sono. Per cui alla fine
rimane una piacevole lettura (la scrittura di Piazzese mi piace, mi evoca,
soprattutto quando parla della musica, per cui si capisce anche il titolo), ma non
molto di più. Riporto solo un giudizio, trovato sul web, che condivido. Essendo
Lorenzo un detective atipico, o meglio una persona normale cui capita di
imbattersi in momenti gialli, come tutte le persone normali, non è che incontri
morti ad ogni suo passo. Vero, ed è giusto costruirci storie. Però che siano un
pochino più robusto, per favore.
Anche se ritardando per viaggi,
ecco i libri letti nel mese di Dicembre, con il vostro tramatore sempre più
chino su questi 20 libri. Con le ottime prove di Tabucchi (peccato che te ne
sei andato) e Zweig. E molte (almeno cinque) prove insufficienti, e tra l’altro
di autori generalmente piacevoli (come Mankell, Auster o la Cornwell).
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Jo Nesbø
|
L’uomo di neve
|
Piemme
|
14
|
3
|
2
|
Carlo Giordano
|
Il mistero delle 366 fosse
|
Sole 24 ore – Noir
|
6,90
|
3
|
3
|
Michael Connelly
|
La città buia
|
Piemme
|
5,90
|
3
|
4
|
Antonio Tabucchi
|
Viaggi e altri viaggi
|
Feltrinelli
|
s.p.
|
4
|
5
|
Michele Serra
|
Gli sdraiati
|
Feltrinelli
|
12
|
3
|
6
|
Hakan Nesser
|
L’uomo che odiava i martedì
|
Tea
|
9
|
3
|
7
|
Henning Mankell
|
La mano
|
Marsilio
|
12
|
2
|
8
|
Loriano Macchiavelli
|
Sarti Antonio: un diavolo per
capello
|
Sole 24 ore – Noir
|
6,90
|
3
|
9
|
Penelope Lively
|
Appunti per uno studio del
cuore umano
|
TEA
|
10
|
2
|
10
|
Santo Piazzese
|
Blues di mezz’autunno
|
Sellerio
|
12
|
3
|
11
|
Kathy Reichs
|
Duecentosei ossa
|
BUR
|
9,90
|
2
|
12
|
Paul Auster
|
Nel paese delle ultime cose
|
Einaudi
|
9,50
|
2
|
13
|
Andrea Franco
|
L’odore del peccato
|
Mondadori
|
4,90
|
3
|
14
|
Jo Nesbø
|
Il leopardo
|
Einaudi
|
14
|
3
|
15
|
Eugenio Scalfari & Francesco
|
Dialogo tra credenti e non
credenti
|
Repubblica
|
8,90
|
3
|
16
|
Andrea Camilleri
|
La banda Sacco
|
Sellerio
|
13
|
3
|
17
|
Patricia Cornwell
|
Nebbia rossa
|
Mondadori
|
13
|
2
|
18
|
Banana Yoshimoto
|
Un viaggio chiamato vita
|
Feltrinelli
|
7
|
3
|
19
|
Francisco José Viegas
|
Un cielo troppo blu
|
Beat
|
9
|
3
|
20
|
Stefan Zweig
|
Viaggio nel passato
|
Ibis
|
8
|
4
|
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