domenica 9 marzo 2014

Italiaans - 09 marzo 14

No, non vi spaventate, non ho inventato una nuova lingua, solo un piccolo aggancio, dopo una settimana di afrikaans, con alcuni scrittori dell’Italia del sud (Sudafrica à Suditalia, ah ah). Due napoletani e due siciliani. Che in vario modo ho già incontrato nelle mie trame. E mentre sottolineo o la buona prova di De Silva e l’onesto ritorno di Piazzese, non posso fare a meno di biasimare la scrittura ed i libri di Alajmo e De Luca, che altrove hanno meritato ben altri commenti.
Diego De Silva “Mancarsi” Einaudi euro 10
[A: 03/08/2013– I: 27/10/2013 – T: 28/10/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 99; anno 2012]
Libretto agile e veloce, e per questo inserito nel bagaglio del viaggio a Dubai. E lì, beatamente letto tra un centro commerciale e una mega metropolitana, sempre con l’aria condizionata a palla. Tra l’altro sono saltato a piè pari dalla prima produzione di De Silva a questa recente prova, ripromettendomi prima o poi di toccare la trilogia napoletana dell’ingegner Malinconico (che però Fako mi sembra sconsigliare apertamente). Questo, invece, è da leggere. Per l’idea e per alcuni passaggi delle descrizioni comportamentali dei due personaggi che per tutto il libro “si mancano”. L’idea, appunto, è di seguire due persone, Nicola e Irene, che sembrano essere fatti l’uno per l’altra (a patto di capire cosa vuol dire essere fatti per un’altra persona, ed a patto di comprendere per quale motivo ci innamoriamo di qualcun altro). E che, per una serie di accidenti, pur frequentando luoghi omologhi, riescono a non incontrarsi e, di conseguenza, a non far nascere quella scintilla che potrebbe cambiare la loro vita. Questo incontro non vi dico se avverrà o meno (lascio a voi la voglia di leggerne) e cosa comporterà l’avvenimento o il mancato avvenimento (comunque vi rassicuro, non siamo dalle parti di “Sliding Doors”). Per il centinaio di pagine del romanzetto, seguiamo comunque le vicende alternate dei due. Da una parte Irene che si accorge, giorno dopo giorno, che il suo matrimonio è arrivato ad un punto morto. Che il marito che si trova accanto non è (non è più?) quello che pensava di avere. E che decide, anche coraggiosamente, che è meglio finire così. Lo lascia. Continua la sua vita e le sue riflessioni sui rapporti umani. Continua a lavorare, ad incontrare gente, anche ad avere una nuova vita sessuale. Ma rimanendone sempre un po’ al di qua. Non trova, non incontra qualcuno cui possa dire: “amo il modo in cui ti gratti il polso quando pensi”. E pur se non vicino al lavoro, continua a frequentare un discreto bistrot nella pausa pranzo, sedendosi davanti ad un grande poster di Buster Keaton. Poster davanti cui siede anche Nicola, ma la sera, quando va a cenare al bistrot non riuscendo ancora a tornare alle vecchie abitudini di prima. Perché presto scopriamo che il prima era quando era viva sua moglie, prima di morire in un tragico incidente. E tutta l’elucubrazione su Nicola gira anch’essa intorno al rapporto a due, al rapporto con l’altro. Con Licia, con la quale erano giunti ad un punto morto. Soprattutto quando Nicola aveva espresso il desiderio di avere un figlio e Licia lo aveva aggredito distruggendo parola dopo parola il castello di sentimenti che Nicola aveva riposto nella possibile nascita. E mentre cerca di trovare un nuovo senso alla sua vita ora solitaria (e, sfortunatamente, agiata, che la morte di Licia ha portato benessere economico e tempo libero come mai avuto prima), ripercorre, dialogo dopo dialogo, i momenti di crisi con Licia. Con la difficoltà (che sentiamo, che viviamo sulla pelle) di non aver avuto il tempo di chiudere questi discorsi. Forse Nicola ha una lenta carburazione. Medita cosa dire, come fare. E mentre ci gira intorno, inopinatamente Licia muore. Come concludere allora quei discorsi se non c’è più l’interlocutore? Come fare ad inventarsi dialoghi se l’altro non c’è? E soprattutto, dialoghi di tempi di crisi. Nicola sembrava maturare quella ribellione allo statu quo, quella che Irene capisce essere avvenuta alle 10 ed un quarto di un mattino altrimenti uguale a tanti altri. Ma l’altro non c’è, si è sottratto (involontariamente) morendo. E noi capiamo la difficoltà che nasce dentro Nicola nel non poter chiudere parentesi aperte. Così, le due vite di Irene e Nicola si intrecciano nella pagina, affrontando a volte anche simili problemi, ma da quelle due ottiche diverse. Di chi ha avuto il tempo di agire e di chi ne è stato privato. Detto anche che il romanzo è pieno di piccole riflessioni, alcune molto condivisibili, sui rapporti personali (anche se difficilmente riportabili, eccetto le solite riportate sotto in corsivo), ribadisco il piacere di questa lettura. Che mi riporta al primo lavoro di De Silva che ho letto (“Le donne più belle si vedono negli aeroporti”) e che mi aveva convinto fosse un autore da seguire. Ed a ragione.
“C’innamoriamo di minuzie, di riflessi in cui vediamo l’altra persona come pensiamo che nessuno l’abbia mai vista e mai la potrà vedere.” (6)
“Nicola è un lettore forte, ma non ha mai letto un libro dall’inizio alla fine. È perché non crede alla compattezza delle storie. Che un racconto resti coerente per duecentocinquanta, trecento pagine, gli sembra una forzatura.” (9)
“Non ne posso più di uomini che mi raccontano come la pensano. Che parlano, parlano … rimproverandoti se non archivi e custodisci gelosamente tutto quello che ti hanno detto.” (71)
“Le storie … devono avere un’origine semplice per evolversi, non durano se devono riabilitarsi, lottare, vincere, infliggersi e procurare sofferenze invece di dedicarsi serenamente a se stesse.” (89)
Roberto Alajmo “Il primo amore non si scorda mai, anche volendo” Mondadori euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 08/10/2013– I: 27/11/2013 – T: 28/11/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 115; anno 2013]
Sinceramente sono rimasto un po’ deluso di questo scritto del pur bravo autore siciliano. Di ben altre scritture lo ricordavo, tra cui l’ultima da me letta quell’arte di annacarsi che mi aveva fatto fare un bellissimo tour nei miei ricordi siciliani. Qui, invece, abbiamo una confezione (ed uso volutamente questa parola) non all’altezza. Nella concezione, nella proposizione, nei risultati. Sono dei brevi racconti d’infanzia, che spaziano sì come sottolinea l’autore dal comparire dei primi ricordi d’infanzia al primo bacio. Ma sono slegati, sono appunti, ricordi, momenti, legati solo dall’io narrante. E non sono tutti inediti (basti pensare a quello dedicato a Polifemo il gigante buono e la ricerca di scarpe misura 49). Insomma, nelle carte di molti scrittori immagino ci siano fogli, appunti volanti, scrittura di momenti di cui vale la pena lasciare una traccia prima che la memoria li porti via. Poteva quindi essere preso il tutto, ben mescolato, e farne un romanzetto su di un’età critica, quella che va dai 4 ai 14 anni. Invece rimangono racconti, isolati momenti di gioia ed infelicità, come si hanno tutti in gioventù. Quindi concepito al ribasso, poi mal proposto, che l’editor lascia invece supporre che ci sia quel romanzo che non c’è. Ed alla fine il risultato è di bassa intensità. Tanto che i miglior racconti sono gli ultimi due, quando il nostro Roberto si avvia al limitar della Scuola Media, narrandoci delle prime feste, con i primi approcci verso l’altro sesso, in quei momenti atroci di ballo. Dove lui (ed io con lui) non sapevamo come muoverci, aspettando con ansia un lento che ci permettesse almeno di avvicinarci all’altrui corpo. E poi nell’ultimo racconto (che dà anche il titolo al libro), col tentativo di “dichiararsi” alla prima ragazza, i messaggi trasversali mandati attraverso l’amico, quel restare solo con lei, in spiaggia. Il bacio sulla guancia e la difficoltà di essere in costume, e di essere esuberante, e di vergognarsi come non so cosa. Qui, realmente, riesce a tirar fuori situazioni intense, brandelli di memoria che mi hanno riportato ai lunghi anni marinari ed estivi in quel di Tortoreto Lido. I giochi tra maschi, le corse con le palline sulla sabbia, e lo scoprire l’universo femminile senza sapere come approcciarlo. Senza sapere come si bacia. Soffrendo come disperati per uno sguardo storto, per una frase non detta. Gioendo come gatti coccolati per un sorriso, o per un gelato condiviso. Non è che non ci siano altri momenti, isolati nei vari racconti, che non facciano scattare quelle sinapsi di memoria sempre per noi importanti. Una per tutte, la storia delle tonsille e dell’intervento relativo. Soltanto una precisazione che non è vero che ci sia un buco temporale di cinque anni, prima e dopo di Roberto, dove altra considerazione si aveva sul togliere quell’appendice. Che io le tolsi, e ne ho 6 più di lui, mentre non le tolse mio fratello che ne aveva 2 di meno. L’altro elemento (di piacere per me, ma inutile nell’economia del romanzo-racconto) è l’inserimento di quegli elenchi di ricordi focalizzati su giocattoli, giornalini, alimenti vari, e calciatori. Riprende un po’ il tentativo di Guccini sul Dizionario delle cose scomparse, con alcuni elementi di levatura (ed altri in cui si vede la nostra differenza di età). Come scordarsi del Policar, del cambiadischi a 45 giri, della Graziella, di Plastic city, del View Master, di Alvin, di Mariarosa, del pianeta Papalla, di Roby e Quattordici, di Salomone e Svicolone, dei Biscolussi, dell’Algida, dei tortellini Fioravanti. Tutti elementi mitici. Per poi scivolare sul ormai sempre più ripreso ritornello: “il gol di Turone era valido”. A cui rispondo con: Vavassori, Càstano, Garzena, Sarti, Cervato, Leoncini, Stivanello, Nicolé, Charles, Boniperti, Sivori. L’anno del grande amore! Ecco, avete capito. Se poi in sottofondo, mettete Giorgia che canta “Gocce di memoria”, via con l’operazione nostalgia. E pianti a dirotto sui nostri anni passati. Alajmo, sai fare certamente di meglio, e lo hai dimostrato. Torniamo a quei livelli.
“[a proposito della siesta pomeridiana, dialogo tra mamma e figlio] ‘Non vuoi dormire? Vai lo stesso nella tua stanza’. ‘E che faccio?’ ‘Ti annoi’.” (45)
“Visto da prima [che sia passato] un anno sembra un sacco di tempo.” (59)
“In realtà sei convinto che se… una qualsiasi ragazza vuole stare con (uno come) te, deve avere senz’altro una tara o qualche difetto invalidante. Vengono dei dubbi se qualcuno ti accetta.” (112)
Erri De Luca “Storia di Irene” Feltrinelli euro 9 (in realtà, scontato a 7,65 euro)
[A: 08/10/2013– I: 29/11/2013 – T: 30/11/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109; anno 2013]
Quand’è che terminerò di farmi abbagliare dal ricordo di uno scrittore per evitare di cadere ancora nelle sue trappole? De Luca fa qui un altro passo falso, forse nell’ansia di dover pubblicare sempre qualcosa. Esce così un libricino già scarso di suo, che poi scopri essere una mini raccolta di tre racconti. Uno, quello più lungo che si merita il titolo, veramente poco significativo. L’ultimo, una piccola variazione dolente sulla morte di un vecchio. Il solo che ha un minimo di interesse, sia nella scrittura che nel contenuto, è il secondo, dedicato ad una storia della vita del padre. Solo in questo, De Luca abbandona quell’aria di superiorità che purtroppo condisce ormai i suoi scritti, e ci porta lievemente a condividere un breve momento della vita paterna. Siamo nel ’43, il sottotenente Aldo De Luca ha un breve congedo per problemi familiari, ed una volta a Napoli, viene travolto dagli avvenimenti del settembre di quell’anno. Non torna in caserma, si imbosca in campagna, e quando gli alleati occupano Capri, con cinque suoi sodali fugge da Sorrento per approdare all’isola liberata. Già questo spaccato ha un suo fascino (belle pennellate di campagna, di orrori di guerra, di gente che si nasconde, della vita normale che si vive anche in un momento eccezionale). Il tocco in più avviene con l’incontro con il sesto uomo, ebreo in fuga. E con l’accostarsi tra papà De Luca, ateo e rispettoso, e l’ebreo, dolente e religioso. Quasi a mettere in luce semi nascosti che germoglieranno decenni dopo, in questo figlio che, alla ricerca di qualcosa, si mette, da ateo, a studiare l’ebraico ed a leggere e scrivere esegesi su testi biblici, anche con qualche interesse (a meno di non utilizzare quel tono insopportabile di cui ho scritto tramando “E disse”). Minima l’ultima storia, su questo vecchio attanagliato da fame e povertà, che “per togliere il disturbo”, va a morire sugli scogli di Napoli, baciato dal caldo sole della città. Minima e pur tuttavia leggibile. Niente a che vedere con la lunga, inutile storia di Irene. Epopea fantastica, in cui si narra della sordomuta Irene, quattordicenne incinta in una sperduta isola greca. Che trova empatia con lo straniero venuto da lontano, che non teme di nuotare accompagnato dai delfini. Ed al quale narra la sua storia, di ragazza venuta da non si sa dove, che trova il conforto tra gli amati delfini. Di cui si dice sorella e sposa. E dai delfini rimane incinta. Per partorire in una notte con poche stelle, in acqua come i delfini. Partorendo essa stessa un delfino che andrà per mare con i suoi fratelli. Sarà un condensato di metafore, ma non vale la pena cercare di decrittarle. Se la vita (come si diceva in altri e migliori scritti) è tutta una metafora, forse è meglio narrare la vita e non la metafora. Soprattutto quando questa risulta così strampalata da non suscitare nessuna emozione, da non far vibrare nessuna corda. Utilizzando al meglio (cioè al peggio) quello stile distaccato, dicendo e ripetendo frasi, parlando del sé in terza persona, come descrivendosi dall’esterno. Qualcuno che ancora gli vuole bene, parla di poesia scritta in prosa. Ma andiamo! Rileggiamoci quel fantastico viaggio intorno alla mela cotogna di Istanbul del bravo Rumiz. Quella è poesia in prosa (e viceversa). Qui sento solo quel tono di voce che cerca di dire delle cose semplici come se fossero adombranti chissà quali verità universali. Riprenda in mano la penna, il nostro Erri, e risciacqui Irene con il fiume del secondo racconto. Allora sì che si potrà tornare a leggerne con piacere. Qui ogni pagina era una sofferenza, nella speranza che scattasse qualcosa, che qualcosa scendesse a nobilitare lo scritto (un’invenzione, un risvolto, un’immagine). Per fortuna, dopo 70 inutili pagine finisce, per dar spazio al padre. A cui dovrebbe tornare per ispirarsi e meglio continuare a scrivere. Addio per ora, caro vecchio amico scrittore. Chissà se torneremo ad incontrarci.
Santo Piazzese “Blues di mezz’autunno” Sellerio euro 12 (in realtà, scontato a 10,20 euro)
[A: 09/11/2013– I: 11/12/2013 – T: 13/12/2013]
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 161; anno 2013]
Cominciamo con un ringraziamento “di memoria”, alla mia amica Otto che tanti anni fa mi fece conoscere questo anomalo autore palermitano, e le sue vicende biologo – poliziesche interpretate dal suo alter-ego Lorenzo La Marca. Erano tre agili Sellerio, usciti tra il ’98 ed ’02. Poi di Piazzese si persero le tracce artistiche. Ora compare questo nuovo romanzo, sul quale, invece, si appuntano un po’ di riserve. La prima è una lamentela nei confronti dei librari di Roma, che tutti hanno collocato questo libro tra i gialli. Ed è una collocazione fuorviante. La seconda è un dispiacere verso la storia, che invece ci si aspettava un giallo dal buon Piazzese, e sembravano essercene le premesse nelle prime pagine. Poi, leggendo la sua postfazione, si capisce la genesi dello scritto. E ci può anche stare che non sia un giallo, ma la resa (e la presa) è minore. La terza discende proprio dalla postfazione citata. Che scopriamo il romanzo essere una (possibile, ovvio) dilatazione di un racconto in cui Lorenzo non entrava molto (era la parte finale, incentrata in quelli che vengono riferiti come “gli avvenimenti della Spada”). Ed una dilatazione che può inglobare Lorenzo come protagonista, ne hai i caratteri (come dice l’autore, ed io con lui). Ma questa genesi rende un po’ flebile il romanzo complessivo. Soprattutto nella prima parte, in cui troviamo La Marca impegnato in un congresso ad Erice (magari organizzato dall’esimio Zichichi). Tutta l’introduzione serve un po’ a riportarci sulle tracce del biologo - investigatore (che non a caso gli amici chiamano Marlowe), quasi a fare da connettore con i tre romanzi citati. E ad introdurre un personaggio – ponte, l’amico di gioventù Rizzitano. Lui e Lorenzo schermagliano nella calura estiva della Sicilia, magari facendo in modo che Lorenzo si scopra un po’, ammetta meglio qualche suo lato un po’ “presupponente”. E sveli una faccia seriosa di Rizzitano (che tanto non conosciamo ancora, quindi potrebbe avere tutte le facce che vuole). Tra la lunga introduzione ed il corpo del romanzo c’è poi una parentesi sulla biologia marina e sulla pesca dei tonni, interessante gnoseologicamente, ma un po’ pallosa nel contesto. Forse meglio i tonni, che servono a Piazzese per esercitarsi sullo schizzo di personaggi. Perché poi il resto sarà (almeno nella parte migliore) centrato su dei bozzetti. Sulla nave a caccia di tonni ammiriamo lo schizzo di Don Benedetto, esimio cuoco di cuscus di pesce, e di Karim, l’arabo che parla siculo (e che consente all’autore di ricordarci come dalle parti del canale di Sicilia, esisteva un tempo una lingua franca, mescolanza di arabo, siculo, maltese ed altro che consentiva agli abitanti della zona di comunicare agilmente). I tonni servono anche ad introdurre il “loco fantastico”, appunto “la Spada”. Isola inventata, con tanti elementi possibili di altri luoghi limitrofi. Difficoltà di accesso (Ustica?), isolamento invernale e pienone estivo (Stromboli?), fauna locale “melting pot” (Favignana?). Poco ci cale, quello che ammiriamo sono i tipi ed i posti. Il bar Edelweiss frequentato da “gli Stravaganti”, personaggi stanziali o di passo per la Spada, ognuno con storie e singolarità. A cominciare da Milocco, il gestore, friulano, spostatosi alla Spada per amore della bella Marianna. Che proprio bella è, e fa innamorare di sé giovani e vecchi. Il rais Passasisi o il sub Mutolo o il pittore Damiano. I vecchi che vengono a sentire il juke-box (mitico l’ascolto di “Piange il telefono” di Modugno). E lo strano Lombardi, con i suoi misteriosi traffici con il Sud America. Ma dopo una lunga zoomata sulla Spada ed i suoi eroi, e dopo averci fatto entrare Rizzitano così da collegare prima e seconda parte, esce il racconto di cui alle prime righe. Con il fuori luogo Angelini, punta dell’iceberg che invaderà l’isola di lì a poco. Della sua litigata con Lombardi, fino alla rottura (e non vi dico perché né come). Tanto forte che si rompe l’equilibrio della Spada e degli Stravaganti. E Lorenzo non ci tornerà più, finendo i suoi studi ed intraprendendo la carriera universitaria. Ma poi rimane tutto sospeso (e questo è il quarto ed ultimo minus della storia). Che finisce tutto lì, con la rottura. Non si salda con la prima parte, non vengono sciolti nodi aperti. Non sappiamo se arriva Michelle, se la sorella Assunta, se il mulo, se anche Rizzitano, se … se… Insomma, si poteva partire dal racconto, ma per fare un romanzo doveva esserci un po’ di costruzione in più. Un po’ di chiusure, che non ci sono. Per cui alla fine rimane una piacevole lettura (la scrittura di Piazzese mi piace, mi evoca, soprattutto quando parla della musica, per cui si capisce anche il titolo), ma non molto di più. Riporto solo un giudizio, trovato sul web, che condivido. Essendo Lorenzo un detective atipico, o meglio una persona normale cui capita di imbattersi in momenti gialli, come tutte le persone normali, non è che incontri morti ad ogni suo passo. Vero, ed è giusto costruirci storie. Però che siano un pochino più robusto, per favore.
Anche se ritardando per viaggi, ecco i libri letti nel mese di Dicembre, con il vostro tramatore sempre più chino su questi 20 libri. Con le ottime prove di Tabucchi (peccato che te ne sei andato) e Zweig. E molte (almeno cinque) prove insufficienti, e tra l’altro di autori generalmente piacevoli (come Mankell, Auster o la Cornwell).
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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Jo Nesbø
L’uomo di neve
Piemme
14
3
2
Carlo Giordano
Il mistero delle 366 fosse
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
3
Michael Connelly
La città buia
Piemme
5,90
3
4
Antonio Tabucchi
Viaggi e altri viaggi
Feltrinelli
s.p.
4
5
Michele Serra
Gli sdraiati
Feltrinelli
12
3
6
Hakan Nesser
L’uomo che odiava i martedì
Tea
9
3
7
Henning Mankell
La mano
Marsilio
12
2
8
Loriano Macchiavelli
Sarti Antonio: un diavolo per capello
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
9
Penelope Lively
Appunti per uno studio del cuore umano
TEA
10
2
10
Santo Piazzese
Blues di mezz’autunno
Sellerio
12
3
11
Kathy Reichs
Duecentosei ossa
BUR
9,90
2
12
Paul Auster
Nel paese delle ultime cose
Einaudi
9,50
2
13
Andrea Franco
L’odore del peccato
Mondadori
4,90
3
14
Jo Nesbø
Il leopardo
Einaudi
14
3
15
Eugenio Scalfari & Francesco
Dialogo tra credenti e non credenti
Repubblica
8,90
3
16
Andrea Camilleri
La banda Sacco
Sellerio
13
3
17
Patricia Cornwell
Nebbia rossa
Mondadori
13
2
18
Banana Yoshimoto
Un viaggio chiamato vita
Feltrinelli
7
3
19
Francisco José Viegas
Un cielo troppo blu
Beat
9
3
20
Stefan Zweig
Viaggio nel passato
Ibis
8
4

Si è tornati anche dal Sud Africa e dalla bellissima Città del Capo, con tutti i dispiaceri di cui avrò modo di parlare quando la calma tornerà sull’agitato mare. Ora c’è bisogno di tutte le energie per caricarsi di nuovo. Ed allora un abbraccio a tutti 

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