sabato 15 marzo 2014

Dialoghi e monologhi - 16 marzo 2014

Dando il benvenuto ufficiale ai nuovi amici lettori, ci imbarchiamo in una settimana densa di ragionamenti. E molto orientata al mio “vicino di casa”, il buon Papa che saluto di là dai vetri. È lui il protagonista, in prima o seconda persona, di buona parte di queste letture dello scorso inverno. Decisamente meglio, poi, quando interviene direttamente, con i suoi discorsi che, quanto meno, sono chiari. Meno chiari (e mi domando sempre perché ne leggo ancora) i voli astrusi di De Luca. Fortuna che è la trama del mese dedicata anche alla cura, come riporto nel finale (dove vado a spiegare anche simboli ed altro di queste letture).
Ezio Mauro & Camillo Ruini “Laici e credenti nell’età di Papa Francesco” Repubblica – Idee euro 1
[A: 26/08/2013– I: 18/11/2013 – T: 18/11/2013] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 46; anno 2013]
Plaudo senza riserva alle iniziative di Repubblica che, anno dopo anno, cercano in qualche maniera di risvegliare le menti intorpidite dalle televisioni berlusconiane. Non sempre ci riescono, non sempre le materie del dibattere sono seguite come meriterebbero, non sempre gli interlocutori riescono a coinvolgere gli astanti. La forza (delle idee) di Repubblica è quella di continuare ad andare avanti, che credo, nel desolante panorama italiano, sia una delle poche aziende ad avere un minimo di attivo nel bilancio. Veniamo così a questo dibattito – dialogo avvenuto nell’arena del Teatro Petruzzelli di Bari nell’aprile di quest’anno (2013). Discussione interessante, anche se il titolo è al solito di quello da “horrenda captatio”. Cioè non è molto in sintonia con il duello in punta di fioretto tra il laico Ezio Mauro, da ormai 17 anni direttore del quotidiano, e il credente monsignore Camillo Ruini, modenese 82enne e per 15 anni a capo della CEI. Perché il dibattito, dopo aver toccato, quasi come un’introduzione per indurre gli astanti ad rimanere incollati alle sedie, il papato di Francesco, di altro parla. Certo non è né un saggio né un approfondimento (e ben presto vi torneremo sopra con altri libri), ma il titolo (motivo del mio seppur lieve acquisto) mi aveva fatto sperare in altro tipo di discussione. Una volta liquidata l’elezione di Bergoglio al soglio pontificio, e messo in disparte senza entrare nel merito l’epocale passo indietro fatto da Papa Benedetto XVI, si va a parlare di altro. Certo altrettanto interessante e stimolante, ma che forse meritava altro spazio ed altra discussione. Perché (e si sente) il testo è la trascrizione del dibattito avvenuto tra i due, ne ha l’immediatezza, ma non la profondità. Questo forse il limite di quest’operazione di carta stampata. Nel momento che si trasferisce un dibattito interessante e stimolante, andrebbe corredato di altro che ne sostanzi il contenuto. Come penso sia stato fatto (e se ne leggerà) nel dibattito tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Così invece, nell’immediatezza delle parole e del dibattito, si affrontano temi spesso lasciandoli un po’ in sospeso. Io vedo quattro elementi di discussione nel dibattito tra il vescovo e il direttore, due più politici e due più religiosi. Cominciamo dagli ultimi due (anche se vengono affrontati dopo), sui quali più incerto si fa anche il mio pensare. Si dibatte sulla libertà di coscienza, cioè su quello che ognuno pensa sia retto fare (il Vero), anche sapendo che spesso la minuscola debba prevalere. Ma il vero non si afferma a maggioranza, come vorrebbero Silvio e i suoi sodali. Tanto che, con Tommaso Moro, ripetiamo che il Parlamento delibera sulle regole della vita comune non sulla verità. Questo dà modo a Ruini di affondare sulla libertà personale di chi, non riconoscendosi in una delibera, ne diventa obiettore. Il problema (e qui Mauro non risponde a tono, pur citando il caso Englaro) è che una legge, pur contrastante con il proprio sentire va rispettata in quanto legge. Altrimenti se ne deve accettare la conseguenza. Contro ordini ingiusti ma legali ci si deve opporre, ed andare sino alle conseguenze ultime, appunto come la citazione di Moro sopra riportata. Altro punto interessante è chiedersi se il sentimento del sacro sia insito nella natura umana, nel momento in cui l’uomo si erge sui suoi due piedi, guarda la volta celeste e rimane attonito. Il Vescovo fa nascere da qui tutta una serie di ragionamenti che portano alla fede, pur ribadendo (sulla scia di Bergoglio, tanto per rimanere dietro le spalle del capo) che si può essere giusti anche senza la fede. Meglio ricordo le parole di padre Bianchi quando dice che la fede è un atto volontario, ma agire secondo coscienza prevede l’apertura degli stessi spazi “di fiducia” verso quello che Ruini intende essere il mondo celeste. Venendo invece alla parte politica, pur apprezzando le aperture che ne fa Ruini, trovo invece più agguerrito il popolo di Repubblica. Certo, ad ora il governo della Chiesa deve andare verso quella collegialità che già cinquant’anni fa predicava il Concilio Vaticano II. E che tutti i papi da Paolo VI in poi hanno decisamente dribblato. Ruini apre, ma non affonda. Papa Francesco invece lo sta facendo sul serio. E credo sia di interesse seguirlo, nel momento che rivendica (correttamente) il ruolo religioso della Chiesa, lasciando ad altri (correttamente) il ruolo politico. Nel solco della tradizione di Gesù (date a Cesare quel che è di Cesare). Per finire (almeno nel mio modo di leggere il breve testo) sul punto in cui più in disaccordo mi trovo con Ruini, la CEI e tutta la Chiesa italiana. Non credo sia corretto legare il sentimento religioso (che deve essere personale e privato) ad un atteggiamento pubblico unitario. Si rifarebbero i guasti di una Democrazia Cristiana che per decenni ha bloccato la vita pubblica italiana. Non a caso c’è filiazione diretta tra De Gasperi, Andreotti, Ruini ed altri. Non a caso, personalmente, e non solo per storia familiare, starei dalla parte di quella libertà di coscienza che vedeva mio padre sventolare nel ’46 la bandiera rossa in Piazza San Pietro (senza che i cosacchi si abbeverassero alle fontane del Bernini). Credo che veramente qui si debba applicare quella libertà di cui parlavo all’inizio. Se c’è un modo corretto di essere al mondo, seguendo regole e dettami di rispetto reciproco, esiste solo il confronto democratico aperto per poter passare dalle idee alla loro attuazione. Liberamente, secondo le proprie coscienze. E nel rispetto, sempre e comunque, delle idee dell’altro. Mi accorgo di continuare a parlare di rispetto in questo mondo che sembra averne sempre meno. Ma si sa, sono un’idealista. Lo ero da giovane. Fortunatamente lo sono ancora.
Erri De Luca “E disse” Feltrinelli euro 10
[A: 03/08/2013– I: 22/11/2013 – T: 23/11/2013] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 89; anno 2011]
Caro Erri, non ci siamo proprio. Anche se parto della fantasia, ho deciso di collocare questo tuo scritto più sul versante dei saggi che in quello dei racconti (non certo romanzi, visto l’esiguità delle pagine, stampate anche ben larghe). Nessuno nega la tua capacità di studiare l’ebraico, e di riportare, a pezzi e stralci, elementi del vecchio e del nuovo testamento, utilizzando un modo di tradurre non usuale, non standard. Che può dare (questo l’unico elemento di interesse) letture moderne e nuove a testi ormai scolpiti nella mente e nella memoria. Ma non mi convince il tuo modo di porti, il tuo farci sentire che sei sopra, distaccato, ma anche in un certo senso, superiore. Sia a noi, poveri “ignoranti” della materia, sia a chi, con certo più capacità di noi, ne studia e ne riporta. La filologia può dare elementi di discussione interessanti. La presupponenza di chi fa cadere dall’alto le sue idee, giuste o sbagliate, un po’ meno. E l’idea di base non era neanche tanto peregrina. Durante il ritorno degli Ebrei dalla diaspora egiziana alla natia terra d’Israele, sul monte Sinai, a Mosè vengono date, scolpite nel fuoco, le tavole della legge, lì con il decalogo che è alla base del sapere e dell’essere cristiano (ma che ritengo abbia una sua parte anche nel sapere e nell’essere ebraico, di cui so realmente troppo poco per controbattere). Ed anche l’idea di utilizzare lo stile narrativo romanzato iniziale, con il Mosè che erra, che si perde verso la sommità del monte, con il fratello che lo accudisce, con Rondine che lo aspetta e che …. (non narro la Storia, che note sono le vicende della famiglia tutta di Mosè, sottolineo soltanto che in ebraico il nome della sposa di Mosè indica il Passero e non la Rondine). Ma già qui la tua mano pesante, quella dei tuoi scritti non migliori, si rivela a pieno. E non ci fa trovare empatia con lo scritto. Non ci fa trovare sintonia con i personaggi che si muovono nella Storia. Perché capisco bene la difficoltà di far muovere personaggi di cui tutti sanno. Utilizzando però registri più bassi, toni più vicini a quel vagare per i monti che mi aveva fatto riprendere in mano i tuoi scritti (“Tre cavalli” ti ricordo), sarebbe potuto uscire qualcosa di più significativo. Anche poi nella disamina delle dieci leggi della tavola. Dove ci dai filologiche interpretazioni che sono di sicuro interesse, ma che a volte si perdono nelle modalità espositive. Che ad esempio le tavole siano scritte da destra a sinistra, come le scritture mediorientali richiedono, è un bel ricordo. Così come la sottolineatura dell’esistenza, in quelle lingue (dove so che l’arabo che conosco è simile all’ebraico che citi tu) di una differenza pronominale tra il tu maschile ed il tu femminile. Per cui, quando sulla tavola appare un comandamento con il tu maschile, hai buon gioco per sottolineare appunto la differenza di reazione tra uomini e donne. E quando invece compare il noi, altrettanto diligentemente, ne sottolinei l’uguaglianza di genere. E così dicasi nell’uso del futuro e del presente. Qui sta tutto il tuo gioco. Ripercorrere i comandamenti utilizzando queste luci. Ed utilizzando la terminologia ebraica che distingue il Dio dal dio, laddove si utilizzano i termini Iod (che in altri scritti esaminasti anche come discendenza anagrammatica) ed Elohim. L’italiano è più povero di questa deriva linguistica (e forse lo era anche il latino, che conosco ancor meno), e le parole bibliche a noi giunte risentono di queste “semplificazioni”. Ma se volevi fare un’operazione di rilettura, potevi utilizzare, anche con modestia, un tono saggistico che pure sai utilizzare e bene. Questo salto continuo tra i due registri non fa altro che aumentare la confusione e rende scarsa la ricezione. Così come quella chiusa, laddove ti chiami fuori. Certo non vuoi essere partecipe, noi vuoi (correttamente, dico io, per uno come tanti che non ha certezze e che sempre è alla ricerca) prendere posto tra le dodici tribù d’Israele. Per cui ti collochi in quella tredicesima che non esiste, che è solo finzione. Solo per dire che capisci, studi, ma rimani al di fuori. Potevi chiudere il libro senza quell’ultimo capitolo (e non ti cito qui l’excutatio non petita). Un ultimo elemento di riflessione (fatto salvo che come dissi per Zolla, si può giocare con le parole così come con i numeri, dimostrando tutto ed il suo contrario), avrei gradito meglio una spiegazione sulla lettura del “no” come “lo”. Dici tu stesso (ed è uguale in arabo) che si scrive come lamed ed alef, ed io so dall’arabo che si legge “la”. Ed a parte segni diacritici strani (e non presenti) alef continua ad essere “a”, e la “o” continua a non essere presente nelle scritture antiche. Una spiegazione sarebbe stata utile. Ma forse ti avrebbe fatto scendere da quel piedistallo dove, scusa se mi ripeto, trovo che con troppo orgoglio sei salito. Alla prossima Erri, con affetto, magari per discutere meglio nel merito quei comandamenti e la loro interpretazione.
Francesco “Lumen Fide” Libreria editrice Vaticana euro 3,50 (in realtà, scontato a 2,98 euro)
[A: 03/08/2013– I: 24/11/2013 – T: 27/11/2013] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 92; anno 2013]
Dopo aver letto il dialogo tra Mauro e Ruini, e prima di dedicarmi a quello tra Scalfari ed il Papa, ho dato mano a questo non facile libretto. Che poi altro non è che la prima Lettera Enciclica di Papa Francesco. Ma che tuttavia ha una particolarità. Discende dalla trilogia di lettere pensate da Benedetto XVI (Amore, Speranza e Fede), ma che il dimissionario papa non portò a compimento. Lasciando appunto incompleta l’ultima, che Papa Francesco ha ripreso, sistemato ed ora pubblicato. E si sente questo dualismo, questo alternarsi tra i due registri, pur con un’opera di amalgama veramente ben fatta. Non sono certo io con le mie basse conoscenze che posso (o voglio) farne un’esegesi stilistica. Ma (e soprattutto nella prima parte) citazioni dotte e costruzione delle frasi fanno pensare ad un discorso della e sulla Fede che viene dalla testa, dal raziocinio dal pensare. Per poi liberarsene, far quasi un volo, e camminare sui registri del cuore, e dell’amore (temi che mi sembra siano molto nelle corde di Papa Francesco). E tuttavia non è mia intenzione tramare questo scritto in questa direzione. Ne parlo perché l’ho letto, perché ci sono passi che mi sono piaciuti e che mi hanno fatto pensare. Non nego, ed è ovvio, che ce ne siano altri che invece non comprendo. Accetto, ne leggo, collego a momenti altri, che spesso conosco ma non di prima persona. Dal punto di vista quindi della mia ricezione, l’ho trovato, complessivamente, uno scritto d’amore, più che di fede (ed utilizzo volutamente le minuscole). Perché dando a Bergoglio quel che è di Bergoglio, ed ascrivendone a lui il testo, si sente, fortemente, il suo amore. Verso gli altri, verso i credenti e verso i laici, verso la Chiesa e verso le Comunità tutte (parole che prendo in senso veramente esteso). Mi ricollego quindi a quello scritto di Padre Bianchi su “Fede e Fiducia” di cui ho scritto, dove il priore di Bose sottolineava l’atto di volontà che sottende la decisione di credere. Qui ne vedo traccia (c’è sintonia di fondo) ma c’è qualcosa in più. Papa Francesco sottolinea, e spiega, come dopo quell’atto ce ne siano tanti altri, come di irrobustimento o fortificazione della Fede stessa. Si passa dalle prime pagine sul perché credere, a quelle più intense su come credere. Si passa dalla fede di Abramo e Mosè, alle parole di San Paolo in molte sue Lettere. Sui primi poi, tornerei volentieri, anche alla luce dello scritto di De Luca, da cui derivo due considerazioni - domande. Nella vicenda di Abramo, non esce dalla mia testa il pensiero della fede di Isacco. Perché se Abramo obbedisce al Padre, senza tentennamenti, anche Isacco, senza ambiguità, ha fede nel padre. E quando Mosè riceve il Decalogo, quell’io che ne scaturisce prepotentemente, poi si riempie di quel “noi” (noi popolo eletto, noi comunità, noi Chiesa) che suggella la fede sua, del suo popolo e delle sue discendenze. Papa Francesco, anche se velocemente, ricorda i passi della Fede (il Credo, i Sacramenti, il Decalogo, la preghiera), senza approfondirne i temi e i contenuti (che ricordo come ben argomentati su quello scritto del cardinale Martini a partire dal “Discorso dalla Montagna”), ma terminando con una chiave di volta del suo pensiero. L’invocazione di aiuto verso Maria, intesa sia come Madre della cristianità, sia come prima persona volontariamente “di fede”. Non è un testo facile, non ne ho colto forse tutto il comprendibile, ma ho avuto piacere nella lettura, piacere di vicinanza verso questo Papa venuto “dall’altra parte del mondo”. (Per chi fosse interessato alla lettura gratuita, ne segnalo il possibile download dal sito www.vatican.va).
“La fede [è] memoria del futuro.” (12)
“In tanti ambiti della vita ci affidiamo ad altre persone che conoscono le cose meglio di noi. Abbiamo fiducia nell’architetto che costruisce la nostra casa, nel farmacista che ci offre il medicamento per la guarigione, nell’avvocato che ci difende in tribunale.” (23)
“Isaia: se non crederete, non comprenderete.” (31)
“San Paolo: con il cuore si crede.” (35)
“La Lettera agli Ebrei … tra gli uomini di fede nomina Samuele e Davide, ai quali la fede permise di esercitare la giustizia … nel governare, la saggezza che porta la pace al popolo.” (79)
Eugenio Scalfari Papa Francesco “Dialogo tra credenti e non credenti” Repubblica euro 8,90
[A: 11/10/2013– I: 18/12/2013 – T: 20/12/2013] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 174; anno 2013]
Avevo cominciato a seguire il dialogo tra Eugenio Scalfari e Papa Francesco dalle pagine di Repubblica, dove, fatto senza precedenti, il giorno 11 settembre (e quanto mai interessante come ricorrenza) esce una lettera del Papa in risposta a due editoriali del fondatore del giornale. Non avendo potuto seguire il resto del dibattito (causa viaggio in Tanzania), ho di buon grado inserito questo libro nella mia biblioteca. Anche perché, dal punto di vista editoriale presentava altri interventi al dibattito. E questo mi è sembrato un plus interessante. A lettura ultimata, tuttavia, devo dire che mi aspettavo qualcosa in più. Perché se degli interventi di Scalfari e di Papa Francesco sapevo cosa mi poteva venire, la platea degli intervenuti poteva aggiungere elementi di discussione e di chiarezza alla materia. Invece, salvo alcune eccezioni, la gente continua (come purtroppo ormai d’uso) a parlarsi addosso. Ed interviene non nel merito, ma per portare avanti una propria bandiera, o un proprio modo di ragionare, spesso avulso dal contesto dichiarato. Come per esempio fanno alla grande Massimo Cacciari, Andrea Prosperi o Matthew Fox. Anche il lungo intervento di Gustavo Zagrebelsky, pur pieno di sana ed onesta carica civile, rimane de-contestualizzato, o, quanto meno, poco attinente. Che il punto centrale, sollevato dagli scritti di Scalfari e poi dalla lettera del Papa, e chiosato nel lungo colloquio a tu per tu tra i due, è certamente il nodo della Fede. Perché averla. Come averla. Quale può essere il suo significato. Ma è, anche e soprattutto, il problema dell’etica nel mondo contemporaneo. Il problema di come comportarsi, di come vivere. Quali sono i punti fermi della nostra coscienza. Il Papa fa un’affermazione bellissima ad esempio quando riafferma la necessità dell’agire secondo coscienza per poter essere “fedeli” al bene ed alla giustizia. E questo è valido per tutti, credenti e non credenti. Chi si trova accumunato in questo sentire, può, deve, trovare il modo di percorrere della strada insieme. Da fratelli. Come Vito Mancuso che continua a piacermi per il suo modo sereno di porsi, e per il suo modo problematico. Perché ci ricorda, con Bobbio, che, credenti o non credenti, solo in quanto esseri pensanti possiamo procedere nel mondo. E potremmo farlo solo ascoltando l’altro. Un inciso, sembra, questo, buttato lì quasi con indifferenza. Ed è invece, per me, uno dei più grandi meriti attuali di papa Bergoglio. Perché, come pochi sanno fare, è una persona che ascolta. Come sa ascoltare padre Bianchi. E sa anche riportarci, nell’intensità del dibattito, verso un punto di comunione e di divisione, tra i fratelli che camminano sulle due sponde del fiume. Per alcuni l’importante è il Gesù storico, che tanto scompiglio ha portato nel mondo, e la cui volontà di andare sino in fondo alle proprie convinzioni, lo porta alla croce. Per altri è il salto dal Gesù storico al Gesù figlio di Dio, fattosi uomo, e condividendo con l’umanità tutte le pene e le sofferenze dell’uomo stesso. Come non ricordare quei bellissimi romanzi su Gesù, proprio dalle due rive, di Saramago o di Schmitt. C’è ad un certo punto, l’intervento inutilmente polemico di Ceronetti, perché è giusto e possibile non essere d’accordo, ma esternare un disaccordo e poi non entrare nel dibattito, mi è sembrato semplicistico. Infine ci sono gli interventi interni alla Chiesa, anche se da posizioni critiche. Che pongono problemi attuali, e sentiti. Come Hans Kung che prende spunto dalle parole del Papa per chiedere che ci si interroghi sulla posizione dei divorziati e delle donne all’interno della Casa Comune. Come, per finire, Leonardo Boff che allarga il discorso e l’orizzonte proponendo di istituzionalizzare in un certo senso questo cammino comune, in un’enclave di discussione aperto che lui battezza Concilio Vaticano III. Per riassumere, quindi, tanti interventi. Ma di margine, al fondo, alla curiosità intellettuale che spinge Scalfari ad interrogarsi su queste problematiche. E che spinge Papa Francesco ad utilizzare tutti i mezzi che gli vengono in mente per condurre quella che sembra a me un’interessante battaglia di riportare tutti nel solco proprio del personale cammino. Ognuno con le proprie peculiarità, ma sempre verso quel mondo di bontà e di giustizia che venne un tempo promesso al popolo d’Israele. Ed allora, facendo lo sgambetto al buon Moretti, avanti con il dibattito.
“Il peccato, anche per chi non ha fede, c’è quando si va contro la coscienza.” (42)
“Nella società e nel mondo in cui viviamo l’egoismo è aumentato assai più dell’amore per gli altri e gli uomini di buona volontà debbono operare, ciascuno con la propria forza e competenza, per far sì che l’amore verso gli altri aumenti fino a eguagliare e possibilmente superare l’amore per se stessi.” (69)
“La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa.” (77)
“Ciascuno di noi sa … come il camminare insieme possa aiutare a compiere passi che, intrapresi in solitudine, avrebbe considerato impossibili.” (116)
“La tua verità? No, la Verità e vieni con me a cercarla. La tua, tienitela.” (164)
Si diceva delle spiegazioni. Le tre righe in grassetto di ogni libro riportano autori e titolo, data di ingresso nella mia biblioteca, data di inizio e fine lettura, gradimento personale (il numero dei libri da 1 a 6), e le referenze al libro originale (soprattutto per le traduzioni). E dopo la trama, in corsivo, delle frasi che sono rimaste impigliate nella mia memoria. Inoltre, una volta al mese (e questa è quella volta), facendo riferimento al magistrale libro “Curarsi con i libri”, allego un’appendice di un capitolo del libro, commentando (alla mia maniera) i libri citati nel capitolo stesso. Allora, per ora, niente nuovi viaggi all’orizzonte, per cui saluto.
CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MARZO 2014
Terminiamo la trilogia dell’adolescenza con un’ultima puntata dedicata all’uscita da questa “malattia”, cioè alle letture di transizione tra il liceo e l’università.
ADOLESCENZA, USCIRE DALLA
L'adolescenza non deve essere un inferno. Ricordatevi che, se siete adolescenti, pure i vostri coetanei stanno lottando per valicare lo stesso abisso e, se ce la fate, lottate insieme a loro. Con gli amici o senza, assicuratevi di fare tutte quelle cose stupide e folli che fanno gli adolescenti. Se non ci riuscite prima del diploma, allora prendetevi un anno di pausa e aspettate a iscrivervi all'università (badando bene di leggere, nel frattempo, i libri giusti). Poi, quando sarete più grandi, almeno potrete guardarvi indietro, ripensare a questo tempo inebriante, eccitante, ormonale, e riderne.
I DIECI MIGLIORI ROMANZI DA LEGGERE TRA LE SUPERIORI E L'UNIVERSITÀ
 Chimamanda Ngozi Adichie    L'ibisco viola
 Albert Camus                      Lo straniero
 Elias Canotti                       La lingua salvata
 Truman Capote                   Colazione da Tiffany
 Beppe Fenoglio                   La paga del sabato
 Ernest Hemingway               Festa mobile
 Daniel Keyes                      Fiori per Algernon
 Cesare Pavese                    La luna e i falò
 Alessandro Piperno              Con le peggiori intenzioni
 Charles Webb                     II laureato
Bugiardino
Sembra abbastanza ovvio che i libri “adolescenziali” o, per dire con le dottoresse librarie, di transizione, ne abbia letti un buon numero. Ed un buon numero che rimonta a passati anche remoti.
Non vi dirò quindi di Camus, che lessi nel maggio della preparazione all’esame di maturità (in linea con i suggerimenti quindi), perché portavo francese all’esame (ed ero anche molto “esistenzialista”). Né tanto meno di Hemingway, che mi cullò qualche anno dopo, nei miei primi ritorni europei di viaggio, ma soprattutto al giro nelle bocche del Rodano, dove passai due giorni meravigliosi ad Aigues Mortes.
Anche tra gli italiani, qualcosa si lesse nei tempi passati. Ricordo di aver aggredito Fenoglio nella mia stanza in casa genitoriale, quando cercavo di capire cosa successe nella guerra, durante la guerra, ed a chi la guerra la fece. E prima del partigiano Johnny, ci fu il sabato e la sua paga. E solo dieci anni fa (ma passa proprio questo tempo), prima del mio furore tramatore, sfogliai con cura e lessi attentamente Piperno. Non ero ahimè ormai più un adolescente. E devo dire che non mi piacque (questo lo ricordo) e che per il resto l’ho un poco cancellato dalla mia memoria.
Veniamo allora, con più o meno lungo parlare, ai tre presenti nelle trame. E cominciando tra una delle prime letture, di quasi otto anni fa, con i commenti che allora erano scarni, quasi dei pensieri che si andavano accumulando. Come dei piccoli fiori che galleggiano sulle scorie della memoria. Per poi passare a Capote e Pavese, ormai trame mature e robuste.
Elias Canetti La lingua salvata Adelphi 8,50
[trama pubblicata il 25 dicembre 2006]
Bella la scrittura e piacevole seguire il nascere e crescere delle passioni di un uomo interessante. Fulminante, nel bene e nel male, il rapporto con la madre. Tuttavia mi rimane quel fondo di vecchio che non si stacca. Mi commuove ancora, però, chi riconosce che, in fondo, noi siamo i nostri genitori.
Truman Capote “Colazione da Tiffany” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 31 luglio 2011]
Il fatto è che Holly sarà sempre legata ad Audrey, e leggere ora il racconto lascia un po’ spaesati (si potrebbe aprire un dibattito su libri e film?). Sarà poi che Capote non riesce a piacermi; certo non ho letto tantissimo, e soprattutto non ho ancora affrontato “A sangue freddo”, ma questa colazione non mi è piaciuta troppo. Comunque facciamo uno sforzo di dimenticarci di Audrey, dei “Vermi” (nelle meno di cento pagine del libro, il termine compare verso pagina 80), ed anche della colazione (che si cita a pagina venti, in meno di due righe). E rimaniamo per ora al libro. Un racconto dolente di un piccolo spaccato della boheme di New York. Scrittori spiantati, fotografi giapponesi, miliardari arroganti, ambasciatori brasiliani, amiche balbuzienti e baristi saggi. Tutti gli ingredienti per fare una piccola miscela calibrata, un buon gin fizz (non un martini cocktail). E lei, ingenua o forse no, illumina con i suoi tocchi di lucida follia questo mondo un po’ squallido, un po’ chic. In realtà, non succede gran che, è solo un filo di ricordi, che, saltando qua e là, andando avanti ed indietro nel corso del tempo, ci fa innamorare di questa ragazza in cerca di successo, ma in un mondo cattivo e torbido. Capote infioretta le pagine di qualche sentenzina, e tenta di inzeppare il testo con tiepidi aforismi. Ma non graffia, non affonda. A volte sbaglia il tiro (come quando bolla il brasiliano spaesato di essere ‘fuoriposto come un violino in un’orchestra jazz’: ma Stéphane Grappelli allora? O Joe Venuti? Per non parlare di Jean-Luc Ponty, che verrà però qualche anno dopo?). Sembra girare un po’ in tondo (ma mi piace di più quando lo farà Paul Auster in atmosfere compatibili qualche anno dopo). Il vero punto forte (rispetto al film) è il suo essere non consolatorio, al fine. Qui niente lieto fine, niente gatto ritrovato sotto la pioggia. No, qui Holly scompare, ed è proprio grazie a poche sparse notizie che arrivano vuoi dal Sudamerica vuoi dall’Africa che lo scrittore alter ego ce ne parla e ci racconta questa storia. Che anche altro afflato avrebbe avuto se, come Capote aveva suggerito, fosse stata impersonata da Marylin. Altra storia. Altro film. Film che, a parte Audrey, non ha altri grossi atout. Perché al solito, Hollywood qui stravolge, fa dello scrittore Paul un gigolò mantenuto, e sparisce l’amica balbuziente. Ma si sa, il Cinema americano stravolge tutto pur di fare cassetta. L’unica cosa di veramente buona è la colonna sonora con quel Moon River da favola. E l’unica cosa veramente esilarante è Mickey Rooney nella parte del fotografo giapponese. Ma qui si parlava del libro. E della scrittura di Capote, che, alla fine dei conti, a me irrita. Boh, speriamo in altro. Ma ora vado a rimettere la punta ideale sul vinile consumato e sentire ancora una volta “…Wherever you're going, I'm going your way…”.
“La patria è dove ci si sente a proprio agio. Io la sto ancora cercando.” (87)
“… non sapere che cos’è tuo finché non lo butti via.” (93)
Cesare Pavese “La luna e i falò” Repubblica Novecento euro 4,90
[trama pubblicata il 20 maggio 2012]
Un poco meno di bello, ma sicuramente interessante. Certo è pieno dell’atmosfera di più di 60 anni fa, quando Pavese lo scrisse. Ma letto oggi, pochi giorni dopo il libro di ricordi di Bianchi, ritrovo atmosfere e sensazioni e moderna eticità. Pavese fin dalle prime righe ci trasporta nelle Langhe piemontesi, tra viti e campi. E non con l’occhio del ricordo dopo cinquanta anni, come Bianchi, ma con l’immediatezza della contemporaneità. Certo, anche Pavese fa un’operazione di memoria, saltando su e giù per il tempo. Ma lo fa per dar corpo e voce ad un discorso più ampio. Un discorso che parte dalla terra, vola per il mondo, toccando anche l’America. E poi ritorna lì alle radici. Quelle di uno che radici non ha, perché l’io narrante è, come si diceva un tempo, figlio di NN. Accolto da contadini, vive la vita della terra fino ai dodici anni, quando per alterne fortune i contadini devono tornare in città. Lui allora va a fare il servo alla Mora, il maniero dell’epoca. Quello dei signori. E delle signorine. Irene e Silvia, che fanno il bello ed il cattivo tempo (sono più grandi di 7-8 anni). Vanno con i maschi, e combinano guai. Lui si accompagna con Nuto, che ha 3 anni più di lui e suona il clarino. Poi anche la Mora andrà in rovina, per scialacquature varie. Ma lui è già soldato, a Genova. Poi prende il piroscafo per l’America. Arriverà, sempre spinto dal fuoco interno, fino in California. Farà fortuna, almeno sembra. E sentirà l’urgenza di tornare. Alle radici, a ritrovare cosa non si sa, ma a provarci. E riviene tra i bricchi e le gaggie. Trovando il cresciuto Nuto, che abbandonato il clarino, ora lavora il legno. E gli fa da mentore per le terre di allora. E per le persone di allora, che sono morte, che sono cambiate. La sua vecchia terra ora è di uno sciamannato contadino, rozzo ed ignorante. Che ad un certo punto va fuori di testa, bruciando tutto ed impiccandosi. Lasciando solo il povero Cinto, bambino e storpio. Lui, Anguilla come lo chiamavano da giovane, lo prende a ben volere, e convince Nuto a prenderlo a bottega. E dopo le feste ed i falò di San Giovanni, tornerà verso Genova dove esercita i suoi mestieri finanziari. Ma prima avrà un ultimo lungo insight con Nuto, che darà modo al sodale di tanti discorsi di fare un salto di pochi anni indietro. Alla guerra che lì c’è stata davvero, e non sui giornali come chi stava in America. E gli racconta barbarie e ripicche, fascismi e brigate partigiane. Fino alla morte di Santina, forse repubblichina o … Lasciamo i punti di sospensione per darvi qualche voglia di leggere. Non come i curatori (barbari!) della collana, che mettono l’ultima frase del libro nella quarta di copertina. Una cosa “sempia” direbbe la Ginzburg. Tornando al testo ed all’autore, alla fine viene fuori, per me, una grande Odissea, dove Pavese, mutandosi nell’io narrante, va per il mondo a seguire “virtude e conoscenza”. Poi torna e con Nuto (un po’ Penelope, un po’ Virgilio) guarda il mondo che è lì. Nuto è la versione “etica e corretta” del sè che vorrebbe essere. Non senza peccato, ma con un’interna dirittura morale che porta Nuto a traversare il mondo, ad agire e ad indignarsi per le cose storte. Pavese si indigna, ma poi molla. Non trova il modo di essere, di agire. Si sente la sua mancanza. Si sente che è stanco. E sappiamo che da lì a poco, questa stanchezza, questa impossibilità lo travolgerà fino a togliersi la vita. Ma rimane il messaggio, quello che poi me lo fa ricollegare agli scritti di Enzo Bianchi: se non si può aggiustare il mondo - come vorrebbe la coscienza sociale di Nuto, che infine si scopre propria anche del protagonista -, almeno bisogna conoscere i ritmi, la terra, gli uomini e le loro storie, più spesso disperate, sempre inquiete. Sono contento, al fine, di avere avuto la costanza di leggerlo, anche dopo tanti anni.
“Ero arrivato in capo al mondo, sull’ultima costa, e ne avevo abbastanza. Allora cominciai a pensare che potevo ripassare le montagne.” (18)
“Nuto disse ai ragazzi di lasciare la lucertola. – Lasciale vivere le bestie – aveva detto – si comincia così e si finisce con scannarsi e bruciare i paesi.” (22)
“Sono libri. Leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.” (98)
“I ragazzi, le donne, il mondo, non sono mica cambiati. [Fanno cose diverse] eppure la vita è la stessa, e non sanno che un giorno si guarderanno in giro, e anche per loro sarà tutto passato.” (125)
Potrei parlare dell’ultimo libro, avendo (come credo tutti) visto il film, vero signora Robinson? Ma, come ho detto sopra, un libro non è un film. Ed anche di Algernon, che non ho letto, ma conosco per i lunghi passaggi nelle storiografie di fantascienza. Non conosco, infine, l’ibisco viola, né tanto meno il suo autore. Chissà in un futuro.
Conclusioni
Poiché, e da diversi scritti, sono in disaccordo sul malessere adolescenziale così come viene spesso posto dalla lettura anglofona, non entro nel merito dell’efficacia della cura. Sui libri, in quanto tali, si. E benché non sappia collocarli nel giusto tempo di lettura, ritengo che questi dieci titoli (o almeno gli otto da me letti) abbiano avuto una loro giusta funzione di crescita. Anche per chi, come me, forse adolescente non lo è più (ma sarà vero?).

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