Non è una trama di cucina, né una
trama pasqualina, ma la lode ad una spezie che nell’immaginario italiano è legata
a Milano ed al colore giallo (nonché ai presenti giorni festivi). Qui parliamo
soprattutto di Milano (anche se c’è qualche puntata tra Ostia, la Toscana ed il
Piemonte). E torniamo a parlare di gialli italiani, trovando un vecchio amico,
l’ex-architetto Gianni Biondillo, quella strana coppia composta da Colaprico e
Valpreda, nonché l’ex-segretario del partito radicale Giovanni Negri, qui in
veste assoluta di scrittore.
Giovanni Negri “Il sangue di Montalcino” Einaudi euro 12 (in realtà,
scontato a 9 euro)
[A: 06/02/2013– I: 19/11/2013 – T: 21/11/2013] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 282;
anno 2010]
Quest’anno
ha visto l’ingresso nella mia biblioteca di una grande massa di scritti
dedicati a gialli italiani ed a vari personaggi di commissari, ispettore ed
altro. Probabilmente il mercato editoriale ha ben visto la possibilità di un
mercato utile in questa fascia, che molte sono state anche le pubblicazioni
dedicate al giallo italiano (e ci si tornerà in altre trame). Letto quindi
nella fascetta del titolo che si tratta di un’indagine del commissario
Cosulich, mi affretto a comprarlo senza altre indagini (ah ah). Ed ora ne leggo
e ne tramo, prescindendo sempre dal resto (anche se qualcuno mi insegnò la
necessità di parlare di testo e contesto, ma ci si tornerà). Il libro in sé è
devo dire gradevole, con alcuni buoni spunti. Tuttavia è un po’ rovinato da un
finale non all’altezza. Intanto siamo nel mondo del vino (come già suggerisce
il titolo) ed alle indagini successive alla morte di un eminente enologo. Il
commissario Cosulich, aiutato dal fido ispettore Mastrantoni, che nulla sa di
enologia è catapultato da Roma alla ricerca di una soluzione al mistero.
Cosulich si muove male in un ambiente che non conosce, stretto da sue angosce
private (lo strano rapporto con tal Margherita, sua ex, che … e non ve ne dico
di più). La parte migliore del libro è tutta questa prima agnizione, cui
seguiamo il commissario addentrarsi nelle segrete cose dell’enologia e della
viticultura. Certo anche noi qualcosa si conosce, ma non è male questa
parallela indottrinatura su questo mondo. Sulla vite e le sue origini, sulle
proprietà curative del vino, sull’uso dello stesso nel corso dei secoli, sul
piantare certe colture in ambiti appropriati, sull’affinamento dello stesso,
sulle polemiche tra botti di rovere di Slavonia e barriques francesi, sull’uso
dei trucioli (in gergo chips) per dare velocemente ed a basso costo un sapore
legnoso al vino stesso. Si vede subito che l’autore sa di vino, e con passione.
Questo contorno enologico fa da gran gala alla ricerca delle motivazioni della
morte di Roberto Candido, l’enologo ucciso in Montalcino. Vediamo quindi affacciarsi
sulla scena dei personaggi che stereotipizzano il bene ed il male di questa
professione. La scrittrice di vino che cerca di vendere soluzioni a basso costo
per il mercato cinese. Il dotto (!!) professore che trova la sua strada con
l’eno-cosmesi. Il responsabile francese dell’industria delle piccole botti. Il
dandy americano che prova a dare rango nobile allo Zinfandel californiano (che
tuttavia non è altro che Primitivo trasportato da frati pugliesi missionari a
Los Angeles). Il grande esperto che vede minacciato il suo mondo di equilibri
enologici tra gran cru francesi ed italiani. La piccola produttrice emiliana
confidente del morto. La giovane produttrice piemontese del Barolo più alto del
mondo, in quel di Serradenari. L’enologo georgiano che esporta nel mondo la
visione dei vini primevi della Colchide. L’illustre professore arabo enologo e
islamista in Marsiglia. Il geologo esperto della terra e delle sue
contaminazioni. Tutti sembrano avere motivi di risentimento verso il morto che,
battitore libero e studioso, cercava nuove strade per il vino e vecchi riscontri.
Cercava di trovare territori nuovi per vecchi vitigni, mettendo in crisi
possibili marcati stabili. Scriveva articoli di fuoco contro le barriques.
Trovava nuovi elementi chimici per la disinfestazione del territorio (utilizzando
l’argento colloidale dagli studi esoterici di Paracelso). Nonché si proponeva
di realizzare una mappa dei possibili territori su cui impiantare
brillantemente vitigni. Esplorando a fondo computer della vittima e riscontri
vari, da questo punto in poi la vicenda si smoscia, e da giallo interessante
scade a tentativi (non molto riusciti) di darne rilievi politici
internazionali. Che il territorio scoperto da Candido si trova nei paesi
islamici, con conseguenti problematiche geopolitiche rispetto all’uso del vino
nel mondo mussulmano. Che qualcuno dei cattivi di cui sopra scopre le idee di
Candido, e per denaro le vende al professore arabo. Che si scopre essere un
terrorista infiltrato nel territorio europeo per sue motivazioni altre che non
conosciamo. Che ingaggia un killer per rubare (con successo) la mappa ed
uccidere l’enologo. Tutta questa parte è bruttina, mal riportata, e ci conduce
a questo finale un po’ scontato ormai, ma senza grandi patemi. Lasciando molto
a metà. Non si trova il responsabile materiale del crimine. Non si capisce
perché il commissario venga fotografato dal suddetto che si infiltra in un
convegno e poi sparisce. Si lascia a metà una possibile storia tra Cosulich e
l’enologa emiliana. Compare una lepre e non si sa perché. Insomma un brutto
finale per un libro che stava meritando altro. E poi, leggendo la quarta scopro
che Negri è si enologo (si intuiva dallo scritto) ma prima, alla fine degli
anni ’80 è stato segretario del Partito Radicale, impronta che si nota in quel
tentativo di forzare l’entrata della politica nella storia. Troppo artefatta
per non nascondere qualcosa. Lasciata la politica, Negri fa l’enologo vicino
Cuneo, nella tenuta di Serradenari (dove si svolge la seconda parte del libro)
ed ha scritto anche un libro sul vino (“Roma caput vini”) che è anche il terzo
ed ultimo capitolo di questo libro. Dove sviluppa il concetto che furono
appunto i Romani ad esportare il vino nel mondo. Non ho di certo nulla verso
l’allora partito radicale, ma questo illustra meglio quel testo e contesto di
cui sopra. Speriamo in meglio, se altri scritti verranno. Rimarcando solo una
copiosa parte dedicata alla distruzione (cui sono pienamente concorde)
dell’idea della centralità europea ed occidentale nel mondo. Sappiamo tutti
(credo) e Negri ben ce lo ricorda che pomodoro e cioccolata vengono dalle
Americhe. E che senza gli Arabi avremmo perso traccia della filosofia
aristotelica. E che molta della medicina attuale deriva da Ippocrate solo
attraverso Avicenna (altro esimio arabo). Ma sulle radici arabe del nostro
mondo tornerò in altri scritti, che meritano più ampio e documentato spazio.
“Senza la cultura araba la matematica, la
filosofia, la medicina e mille altre discipline che consideravo europee,
occidentali, semplicemente non sarebbero tali.” (230)
Piero Colaprico & Pietro Valpreda “Le indagini del commissario
Binda” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 15/04/2013– I: 15/01/2014 – T: 24/01/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 443;
anno 2013]
L’anno
indicato è della meritoria pubblicazione in volume unico da parte di
Feltrinelli dei tre romanzi della “strana coppia” (per i singoli romanzi,
specifico l’anno nel commento). E come tutti i volumi multipli sono sempre
indeciso se considerarli come trama unica o meno. Qui, devo dire, il compito si
semplifica dal fatto che, in effetti, i tre romanzi brevi costituiscono il
corpus della produzione a quattro mani dell’anarchico e del giornalista. Di
Kola, avevo già letto (e gustato) sia qualche romanzo che (soprattutto) gli
articoli giornalistici, sempre con un piglio giusto. Valpreda era e rimane uno
dei grossi punti dolenti della storia italiana. Ingiustamente accusato della
strage che ha dato il via in Italia alla strategia della tensione, sempre
lasciato ai margini anche quando, con tutti gli onori, ogni colpa è caduta nel
dimenticatoio. Dopo mille vicende e mille mestieri, trova un suo contraltare in
Kola. Lui porta storie, che tante ne ha vissute. Il giornalista ha il modo di
stenderle, e di integrarle con le altre mille storie della sua vita di cronista
di nera. Avevano il piano di scrivere quattro storie imperniate sulla figura di
un maresciallo dei carabinieri (Valpreda rifiutandosi di pensare a poliziotti).
Purtroppo, la morte coglie l’anarchico all’uscita del terzo, lasciando che il
quarto, anni dopo, venga scritto dal solo Colaprico. Veniamo allora alle tre
indagini di Binda.
“Quattro gocce d’acqua piovana” pag. 9 –
148
Edizione 2001
E
così, nell’autunno, del tempo e della vita, facciamo conoscenza del maresciallo
Pietro Binda. La caratteristica che i nostri hanno voluto usare, qui e negli
altri due, non è la presa diretta sugli avvenimenti. Ma il loro ricordo, la
ricostruzione, integrandola, dove e quando occorre, con flash-back ed altre tecniche
di scrittura, per andare su e giù nel tempo e nello spazio. Il nostro
maresciallo è sempre stato (per quanto se ne sa) alla sezione Omicidi, ed ha
sempre avuto un rapporto non usuale con gli emarginati e tutto il mondo degli
irregolari che gira ai margini della giustizia. Ovviamente, dati i due autori,
non poteva che chiamarsi Pietro anche lui. Ora che è in pensione, passa il
tempo a rileggere vecchi casi irrisolti (o poco risolti). E quattro gocce
d’acqua che cadono sulle pagine che sta leggendo lo riportano al caso della
morte di Gariboldi. E ne trova una soluzione (dico una che forse… ma non
anticipiamo). Comincia così il lungo viaggio nella memoria del complesso caso
della morte del professore di matematica, che sembrava senza nemici né macchie
oscure. Rimane solo il corpo e quel messaggio scritto con il sangue SOS SOS, a
ribadire la seconda attività del defunto, quella di enigmista provetto. Defunto
che lascia una fidanzata quasi sposa basita e sconvolta. Binda indaga,
interroga, scava nel presente e nel passato. Scoprendo solo che era stato in
seminario da giovane, per poi lasciarlo inopinatamente. Poi il prete che ha
scritto l’omelia funebre muore andando fuori strada con la macchina. Ma non si
cava ragno dal buco. Né dalla scuola, a cui il preside aveva chiamato il
Gariboldi per meriti preclari, anche se si conoscevano pure loro dai tempi del
seminario. Né dall’enigmistica, dove nessuno interpreta il messaggio, né tanto
meno da notizie ulteriori sul morto, che inviava gli enigmi via posta. Né infine
dal seminario, dove transitò anche il prete morto. Intanto Binda è colto da
problemi privati, che la moglie muore di tumore, ed il figlio, una volta
laureato, decide di trasferirsi a Londra. L’unico indizio “certo” è una foto
trovata in un sottofondo di due uomini abbracciati. Uno il Gariboldi, ma
l’altro non si capisce chi sia, troppo fuori fuoco. I nostri autori tornano
allora al presente, al maresciallo in pensione, che con le sue gocce di pioggia
va in Questura, e risolve quanto meno l’enigma della scritta. Non era una
richiesta di aiuto, ma un numero di telefono (lascio a voi capire come…). E
guarda caso, il numero della parrocchia del prete poi morto nell’incidente.
Prete che poi era il vero enigmista, essendo Gariboldi solo di facciata. Ma il
professore vuole troncare, vuole sposarsi, ed allora… Tutto risolto,
sembrerebbe. Ma i nostri sono autori di scrittura fine, e questa soluzione
sembra, è troppo “banale”. Ce ne sarà un’altra, la vera, cui avevo pensato,
anche se non riuscivo a collocarne la fattività. E che ci viene spiegata, in
fine, sino all’ultimo dettaglio. Il bello del romanzo, comunque, oltre al
seguire le indagini come si seguono nella realtà (e non nei libri), dato che
Kola ben conosce i modi ed i metodi delle indagini, è invece nelle descrizioni
della città. Di come si trasformi. Di cosa diventino negli anni Brera e via dei
Fiori Chiari, il bar Giamaica e la libreria Utopia. Tutta quella Milano un po’
ai margini, oscurata e vilipesa dalla vernice craxiana degli anni Ottanta.
“La nevicata dell’85” pag. 149 – 290
Edizione 2001
Passano
gli anni, e non riuscendo ad essere inattivo, Binda fa l’investigatore. Non
certo all’americana, ma banalmente italiano, con casi di scomparsi e qualche
adulterio. La tecnica adottata dai nostri scrittori però è analoga alla
precedente. Binda, in un convivio di amici, ricorda un caso da lui risolto come
investigatore, dando la mano ai suoi amici caramba. Ricorda il caso dei morti
del quartiere Baggio, al tempo della nevicata dell’85, la storica nevicata che
bloccò l’Italia intera, e mise a piedi per tre giorni tutta Milano. Dal punto
di vista della storia “gialla” forse questa è la più debole. Anche se la
capacità dei nostri è di descrivere una vicenda normale, con persone normali.
Mentre indaga di altro (circa l’alibi di un piccolo spacciatore) Binda viene
ingaggiato da una praticante dell’ufficio legale non convinta della morte del
nonno. Anziano in buona salute, e senza tante paturnie, si imbottisce di una
dose eccessiva di sonniferi. Binda si aggira per una Milano sconvolta dalla
nevicata di cui sopra, in cui tutti vanno a piedi (e qualcuno con gli sci, che
tanto mi ricorda l’analoga di Roma, quando vidi dei temerari scendere sci ai
piedi la panoramica da Monte Mario a Piazzale Clodio), per andare al quartiere
Baggio, ed al suo cimitero. Dove scopre altri anziani inopinatamente deceduti.
E nello stesso cimitero viene abbordato dalla signora Alice, una matura signora
anche lei frequentanti i luoghi dell’eterno riposo. Forse nel ricordo della
moglie morta, Binda comincia a parlare dei morti con Alice. La quale pochi
giorni dopo muore anche lei. Intanto Binda viene accudito nella casa solitaria
dalla vicina Alba, di una decina d’anni più giovane ma ancora piacente.
Controllando giornali, memorie dei carabinieri ed altri documenti, Binda si fa
una storia possibile delle morti. Dove s’incastrano l’assillante vicino di
Alice, le dame di carità della parrocchia, gli ex-colleghi dell’ospedale dove
lavorava Alice, i becchini del cimitero ed altri comprimari. Tutto senza prove,
però. Ecco allora che i nostri pensano di pescare dai classici, istituendo un
finale alla Nero Wolfe, dopo che Binda ha per tutto il romanzo un andamento
alla Maigret. Binda convoca tutti i possibili colpevoli in casa, ricostruendo
le vicende, attaccando senza sosta la migliore amica di Alice, sapendo che
prima o poi il deus ex-machina della vicenda sarebbe saltato fuori. Come,
infatti, succede, quando… Ma questo importa il testo che leggerete. Il resto è
la dolce storia che nasce tra Pietro e Alba. E più ancora il rapporto tra Binda
e l’anarchico Loris, una specie di alter-ego di Valpreda, che rifornisce l’ex
maresciallo di libri sull’anarchia e la libertà, che il nostro Pietro commenta,
in alcune parti marginali alla vicenda ma interessanti per il clima.
“La primavera dei maimorti” pag. 291 - 440
Edizione 2002
Il
terzo, e ultimo della coppia, è forse il più politico, dove si precisa meglio
sia Binda, sia la visione globale. Questa volta niente gioco di flash-back, ma
si salta a piè pari nella giovinezza del maresciallo, alle prese con una
vicenda intricata che si fa svolgere nell’aprile del 1969, solo pochi mesi
prima di quelle bombe che sconvolsero la vita dell’Italia (e quella di Valpreda
primo fra tutti). Un libro, tra l’altro, scritto in fretta, che Valpreda era
alla fine. E di fatto muore una settimana dopo l’uscita del libro. Il giovane
Binda viene fatto infiltrare tra i detenuti in San Vittore, dove sono detenuti
tre malviventi sospettati di aver ucciso un losco figuro oriundo ungherese dal
passato sicuramente poco chiaro. Ed in questa parte si scatena la vena
libertaria della coppia, ma anche la capacità di raccontare storie. Perché
appunto nella vicenda semi-fittizia della morte di Otto Kormendy, si innesta la
vicenda reale della rivolta delle carceri. In particolare di quella di San
Vittore dove stavano appunto Binda ed i sospettati. I tre tra l’altro, uno dopo
l’altro, muoiono in carcere in maniera sospetta. L’ultimo proprio durante la
rivolta. Binda viene aiutato dal direttore del carcere e dal magistrato
inquirente nella ricerca di indizi. Ma nel carcere, oltre a trovare solidarietà
con anarchici e “compagni della sinistra che sbaglia”, pochi passi avanti
riesce a fare il nostro. Certo, e sono le parti migliori, ne escono fuori molto
ritratti umani, che molto devono alla memoria di Valpreda. Rimane solo una foto
strana, di un passaggio di confine tra Italia e Svizzera, e gente che si
incammina verso degli strani passaggi spinati. Binda allora ritorna sui suoi
monti, lì dove ha casa con la moglie Rachele, da poco sposata (d’altronde siamo
una ventina d’anni prima del primo libro). E lì trova il bandolo, portato per
mano da un montanaro spigoloso e solitario. I tre morti con l’ungherese
facevano parte di una banda di delinquenti, soprannominatasi “I Maimorti”,
legati al fascismo, alla delinquenza ed altro di poco lecito. Banda che aveva
organizzato un lucroso traffico frontaliero, soprattutto di ebrei in fuga. Si
facevano pagare in anticipo poi li portavano sui monti. Qualcuno lo portavano
davvero in Svizzera. Altri, la maggior parte, arrivava al finto filo spinato,
lì convinti di essere espatriati, per poi cadere in mano ai tedeschi. E la
banda prendeva altri soldi. In una di questa strage, un bambino si salva. E
sarà lui che organizzerà anni dopo la mattanza, approfittando dalle necessità
economiche dell’ungherese, che vuole pubblicare un libro di memorie. Non vi
dico altri particolari. Ma c’è un ultimo tocco libertario da sottolineare. Il
capo della squadra investigativa cui risponde Binda per l’indagine, di lì a
poco mette su una squadra anti-terrorismo chiedendo a Binda di entrarvi.
Sarebbe una luminosa carriera, ma il futuro maresciallo rimane coerente alla
sua personale deontologia. E rimane ad indagare su morti quotidiane e piccola
malavita.
Epilogo pag 441 - 443
Edizione 2013
Epilogo
che in realtà non c’è. Perché Valpreda come detto muore, e Colaprico continua
la sua attività di scrittore e di giornalista. Ma nelle poche pagine di
intercalare che Kola dedica all’amico, ne esce fuori un ritratto vero di un
uomo che ha vissuto il suo tempo. E che mi ha fatto fare un bel salto indietro
nella memoria. Grazie, Piero.
Gianni Biondillo “I materiali del killer” TEA euro 9 (in realtà,
scontato a 6,75 euro)
[A: 15/07/2013– I: 04/02/2014 – T: 07/02/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 359;
anno 2011]
Dopo
un anno e mezzo di attesa, ritrovo non tanto l’architetto Biondillo, quanto il
simpatico e fuori schema ispettore Michele Ferraro. In un libro, che non a
caso, ha vinto nel 2011, quando è uscito, il Premio Scerbanenco, premio
aggiudicato al miglior romanzo giallo/noir pubblicato nell’anno. E devo dire,
una volta tanto, che concordo. Un buon libro, una buona trama, ed una buona
scrittura. Forse l’ultimo punto è quello più debole. Perché è di certo una
scrittura capace, ma a volte indulge troppo, si incarta su se stessa.
Soprattutto in quei tentativi, a me poco consoni, di svariare, si saltare di
palo in frasca. Non che non riescano bene salti e flash-back (che alla fine ci
consegnano una vicenda del tutto diversa da quella che appariva all’inizio), ma
sono le lunghe pause introspettive, che forse potevano essere tagliate (o
accorciate). L’altro elemento che mi ha spiazzato un po’ è la sequenza dei
fatti precedenti. Frase misteriosa, detta così. Ma io avevo seguito i diversi romanzi
dell’ispettore, con le indagini a Quarto Oggiaro (i primi due libri), con le
reminiscenze giovanili (il terzo). Ora il nostro Michele ci si dice è “tornato
a Milano”. Mi ero perso che era andato via, era stato a Roma, ed aveva avuto
una storia con il commissario Elena Rinaldi. Beh, forse anche io invecchio e
perdo i colpi. Colpi che però non perde il romanzo e la sua trama, che inizia
con ritmo incalzante. Una rapina in villa, dove muoiono il padrone ed un ladro.
Rapina affidata al rientrante ispettore Ferrero, con tutte le sue paranoie (le
battute con Comaschi, la sveglia che suona, i rapporti tesi con il capo).
Dall’altra la fuga dal carcere di un negro, Hailé qualche cosa. Hailé sta in
carcere, si perfora lo stomaco, perde sangue, trasporto d’urgenza in ospedale,
autoambulanza bloccata, e mattanza: tre guardie e tre assalitori uccisi. Hailé,
ferito e fuggente. Data la risonanza del caso, viene affidato alla squadra
speciale di Roma al comando, guarda caso, del commissario Rinaldi. Coadiuvata
dall’ispettrice Fusco (simpatica) e dall’ispettore Favilli (un patologico
maschilista rompipalle). Ma la squadra non riesce a cavare un ragno dal buco,
sinché non ci si mette dentro il nostro Ferraro. Che guarda caso aveva
arrestato lui Hailé, per una rissa in un bar (scopriremo poi durante una
partita tra due squadre africane). Ovviamente, il punto forte di tutte le indagini
(rapine e fughe), non può essere che il buon Lanza, il mentore del nostro, ora
spostato ad un comando interforze a Bruxelles. Ma le sue osservazioni fanno
scattare scintille a Ferraro, entrato anche lui nella squadra della Rinaldi (ed
anche nel letto, ma per poco, che quella storia è ben finita). E mentre nel
presente si svolgono le storie dei nostri italiani, con il solito piglio
ironico cui ci ha abituato Biondillo, in lunghi flash-back ricostruiamo la
storia dei “neri”. Hailé è un eritreo, figlio di uno dei capi della rivolta
contro gli etiopi. E da sempre, con il suo sodale Sayed, dalla parte dei
combattenti. Ma una volta terminata la rivolta, e dopo i voltafaccia di
Menghistu (non entro in parti di Storia che dovrebbero essere altrimenti note),
Hailé e Sayed diventano mercenari, e poi caporioni delle bande dei fornitori di
migranti ad altre bande, prima libiche, poi della mafia di Casale Principe. Con
l’unico punto d’onore di non maltrattare mai i bambini (Hailé). In una razzia,
il nostro salva anche la bella Zohra. Ma questa non potrà fare a meno di finire
nelle grinfie della prostituzione (troppo lungo spiegare come), salvata (ma
solo per poco) dal buon Don Stefano, un missionario che poi scopriamo essere
amico di Ferraro. I napoletani però hanno i due sui marroni, e ad un certo
punto fanno fuori tutti. Peccato che Hailé riesca a salvarsi, ed a rifugiarsi
in Italia. Dove incontra Zohra, ma non può fare a meno di ribellarsi quando
scopre che il capo della squadra che sta vedendo in TV è proprio Sayed che
credeva morto. Da qui, tutta l’organizzazione della vendetta, fatta come solo
un killer come Hailé è diventato può fare. Tutte le strade convergeranno nel
casertano (con un’immagine della Reggia e della fontana di Diana e Atteone che
mi riporta al da poco letto libro di Piccolo). Qui il finale si fa confuso, che
a Caserta non solo arrivano i due neri per la loro lotta finale. Ma anche la
squadra della Rinaldi, sotto le idee spurie di Ferraro, e l’interforze di
Bruxelles con Lanza. Dico confuso che si lascia solo per cenni la fine dei
giochi. Anche se intuiamo che non c’è molto da scialare, e tutti finiranno un
po’ male. C’è solo il tempo per Lanza di dare una nuova dritta all’ispettore
che gli consente di risolvere anche il caso della rapina (che lascio solo per
cenni, essendo un po’ marginale). Per tornare poi tutti nei rispettivi
crogioli. Rinaldi a Roma, Ferraro a Milano, con Francesca (l’ex-moglie) sempre
a tentennare, e la simpatica figlia Giulia a crescere (ormai va per i 13).
Insomma, una storia complessa e ben congeniata, che da modo a Biondillo non
solo di padroneggiare il genere, ma anche di dar conto di problemi attuali ed a
tutti presenti, benché irrisolvibili: migranti, extra-comunitari, mafie,
degrado delle città. E chi più ne ha. Una bella lettura, tutto sommato. Nel
filone, a me sempre caro, del giallo con risvolti sul sociale (grazie ai nostri
maestri svedesi degli anni Sessanta).
“Le donne che hai amato ti restano addosso,
sono macchie della pelle, indelebili.” (132)
“Quanto bene faccia, certe volte, essere
superficiali e infantili nessun filosofo morale riuscirà mai a comprenderlo per
davvero.” (147)
“Giulia … ogni tanto gli chiedeva … cosa
servissero quelle curiose monete color bronzo … con due scanalature da una
parte e una sull’altro lato.” [mitico Biondillo!] (161)
“Ferraro …
quando qualcuno rivanga i bei tempi andati … [ricorda] … che belli non
erano se non perché s’era giovani e pieni di ormoni.” (287)
Gianni Biondillo “Cronaca di un suicidio” Guanda euro 14,50 (in realtà,
scontato a 10,85 euro)
[A: 08/10/2013– I: 07/02/2014 – T: 09/02/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 192;
anno 2013]
Per
i miracoli delle alchimie di lettura, ecco che, appena finito il penultimo
libro, mi capita di leggere l’ultimo romanzo delle gesta del nostro ispettore
Ferraro. Sarà che il precedente mi era piaciuto e di molto, questo mi ha
lasciato un po’ sconcertato. Intanto, perché, pur avendo il buon Michele al
centro, non è un giallo, un’indagine, è un libro di atmosfere, anche di misteri
(se vogliamo). Io mi aspettavo altro. Che il libro corre su due binari ben
alternati. Da un lato la storia di Giovanni Tolusso, che ricostruiamo come una
discesa agli inferi di un uomo qualunque, schiacciato da avvenimenti più grandi
di lui. Dall’altra, le vacanze agostane del nostro ispettore e della figlia
Giulia. Che almeno un po’ stanno insieme, e neanche tanto male (ma perché tu e
la mamma vi siete lasciati, chiede ad un certo punto la giovane; in realtà, non
ci sono contrasti ed urla, tra Michele e Francesca, ma una qualche impostazione
dello stare al mondo che preclude lo starci insieme; come direbbe la canzone
“amici, sì, amanti, no”). I destini delle due storie si incrociano sulla
spiaggia di Ostia, al rinvenimento di un corpo e di una barca alla deriva e di
un messaggio (“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono”) che la nostra Giulia
subito collega all’ultimo scritto di Pavese prima del suicidio. E quindi, nella
parte dedicata a Tolusso, scopriamo la sua vita. Lui senza tanto nerbo, un po’
trascinato dalle cose, diploma di ragioniere, lavoro in cantiere sino alla
morte del padre. E poi, finalmente, la sua vera vocazione: lo sceneggiatore.
Con l’unico vero amico, dei tempi della scuola. Marco, il contabile, quello che
vive a Milano, e che gli tiene i conti di tutte le attività. Ma Giovanni vive a
Roma (in un appartamento a Monte del Gallo, e per i romani, una zona
interessante), ed ora, nel pieno delle crisi economiche, riesce a malapena a
pagare i mutui delle case (quella di Roma, e quella che ha regalato alla moglie
Barbara, che vive a Milano per conto suo, e che è non vedente). La crisi arriva
per Tolusso con una cartella dell’Agenzia delle Entrate. 32000 euro da pagare!
E poi, tasse, IMU, Tari, condomini. E la RAI che non lo paga. Cerca di capire
con Marco cosa sia successo. Ma noi lo capiamo ben prima di lui, che Marco s’è
fregato i soldi. E che ora sta organizzando una sua fuga verso il Sudamerica,
con tutti i soldi di chi è riuscito a turlupinare. E prendendo contatto con
quelle agenzie che “ti fanno sparire”. Giovanni è distrutto e non sa che fare,
se non una polizza sulla vita, pagabile alla moglie anche in caso di suicidio.
Dall’altra parte vediamo i tentativi di normalizzare la vita da parte di
Michele. Lo scoprire che Giulia cresce e che gli piace stare con lei. Certo, il
fatto di aver scoperto il morto ad Ostia lo costringe, obtorto collo, a
partecipare quanto meno ad una specie di indagine di routine. Intanto, è
difficile effettuare il riconoscimento del morto, sia perché ammollato
dall’acqua, sia perché Barbara, come non vedente, è difficile lo riconosca
(battutaccia!). E inoltre, nessuno delle conoscenze romane è a disposizione
(anche perché Giovanni sì scrive bene, ma un po’ una palla è, e non è che abbia
tanti altri amici; in fondo, l’unico con cui parla di più è il postino!).
L’unica è rintracciare Marco in Perù. Cosa non facile, ma alla fine, si riesce
a fare una telefonata via skype. E quello un po’ si nega, un po’ fa il tonto,
ed un po’ dice “Non manca mai a nessuna una buona ragione per uccidersi”. Che
come ci farà capire alla fine Giulia, ancora di Pavese si tratta. Ma allora…
Basta così per la storia. Rimangono scritti e bozzetti, che Biondillo, ricordo,
non dispiace nelle schermaglie. E quelle tra Ferraro e il commissario romano
rimangono gradevoli punti di fioretto. Ma, ripeto, mi aspettavo qualcosa di più
incisivo. Sia nella storia, sia nelle vicende di Michele. In fondo, l’unica che
ne esce dignitosamente è Giulia. Largo ai giovani, quindi. Ma spero che il
nostro architetto ritorni ai livelli abituali.
Quindi,
anche se in ritardo, auguro a tutti i miei amici e lettori una buona Pasqua
(buona come i giorni scozzesi appena trascorsi, devo dire con piacevole
andamento) ed un buon proseguimento di feste (sperando che qualcuno approfitti
di questi lunghi scivoli sino al 1° maggio).
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