lunedì 21 aprile 2014

Zafferano di Pasqua - 20 aprile 2014

Non è una trama di cucina, né una trama pasqualina, ma la lode ad una spezie che nell’immaginario italiano è legata a Milano ed al colore giallo (nonché ai presenti giorni festivi). Qui parliamo soprattutto di Milano (anche se c’è qualche puntata tra Ostia, la Toscana ed il Piemonte). E torniamo a parlare di gialli italiani, trovando un vecchio amico, l’ex-architetto Gianni Biondillo, quella strana coppia composta da Colaprico e Valpreda, nonché l’ex-segretario del partito radicale Giovanni Negri, qui in veste assoluta di scrittore.
Giovanni Negri “Il sangue di Montalcino” Einaudi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[A: 06/02/2013– I: 19/11/2013 – T: 21/11/2013] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 282; anno 2010]
Quest’anno ha visto l’ingresso nella mia biblioteca di una grande massa di scritti dedicati a gialli italiani ed a vari personaggi di commissari, ispettore ed altro. Probabilmente il mercato editoriale ha ben visto la possibilità di un mercato utile in questa fascia, che molte sono state anche le pubblicazioni dedicate al giallo italiano (e ci si tornerà in altre trame). Letto quindi nella fascetta del titolo che si tratta di un’indagine del commissario Cosulich, mi affretto a comprarlo senza altre indagini (ah ah). Ed ora ne leggo e ne tramo, prescindendo sempre dal resto (anche se qualcuno mi insegnò la necessità di parlare di testo e contesto, ma ci si tornerà). Il libro in sé è devo dire gradevole, con alcuni buoni spunti. Tuttavia è un po’ rovinato da un finale non all’altezza. Intanto siamo nel mondo del vino (come già suggerisce il titolo) ed alle indagini successive alla morte di un eminente enologo. Il commissario Cosulich, aiutato dal fido ispettore Mastrantoni, che nulla sa di enologia è catapultato da Roma alla ricerca di una soluzione al mistero. Cosulich si muove male in un ambiente che non conosce, stretto da sue angosce private (lo strano rapporto con tal Margherita, sua ex, che … e non ve ne dico di più). La parte migliore del libro è tutta questa prima agnizione, cui seguiamo il commissario addentrarsi nelle segrete cose dell’enologia e della viticultura. Certo anche noi qualcosa si conosce, ma non è male questa parallela indottrinatura su questo mondo. Sulla vite e le sue origini, sulle proprietà curative del vino, sull’uso dello stesso nel corso dei secoli, sul piantare certe colture in ambiti appropriati, sull’affinamento dello stesso, sulle polemiche tra botti di rovere di Slavonia e barriques francesi, sull’uso dei trucioli (in gergo chips) per dare velocemente ed a basso costo un sapore legnoso al vino stesso. Si vede subito che l’autore sa di vino, e con passione. Questo contorno enologico fa da gran gala alla ricerca delle motivazioni della morte di Roberto Candido, l’enologo ucciso in Montalcino. Vediamo quindi affacciarsi sulla scena dei personaggi che stereotipizzano il bene ed il male di questa professione. La scrittrice di vino che cerca di vendere soluzioni a basso costo per il mercato cinese. Il dotto (!!) professore che trova la sua strada con l’eno-cosmesi. Il responsabile francese dell’industria delle piccole botti. Il dandy americano che prova a dare rango nobile allo Zinfandel californiano (che tuttavia non è altro che Primitivo trasportato da frati pugliesi missionari a Los Angeles). Il grande esperto che vede minacciato il suo mondo di equilibri enologici tra gran cru francesi ed italiani. La piccola produttrice emiliana confidente del morto. La giovane produttrice piemontese del Barolo più alto del mondo, in quel di Serradenari. L’enologo georgiano che esporta nel mondo la visione dei vini primevi della Colchide. L’illustre professore arabo enologo e islamista in Marsiglia. Il geologo esperto della terra e delle sue contaminazioni. Tutti sembrano avere motivi di risentimento verso il morto che, battitore libero e studioso, cercava nuove strade per il vino e vecchi riscontri. Cercava di trovare territori nuovi per vecchi vitigni, mettendo in crisi possibili marcati stabili. Scriveva articoli di fuoco contro le barriques. Trovava nuovi elementi chimici per la disinfestazione del territorio (utilizzando l’argento colloidale dagli studi esoterici di Paracelso). Nonché si proponeva di realizzare una mappa dei possibili territori su cui impiantare brillantemente vitigni. Esplorando a fondo computer della vittima e riscontri vari, da questo punto in poi la vicenda si smoscia, e da giallo interessante scade a tentativi (non molto riusciti) di darne rilievi politici internazionali. Che il territorio scoperto da Candido si trova nei paesi islamici, con conseguenti problematiche geopolitiche rispetto all’uso del vino nel mondo mussulmano. Che qualcuno dei cattivi di cui sopra scopre le idee di Candido, e per denaro le vende al professore arabo. Che si scopre essere un terrorista infiltrato nel territorio europeo per sue motivazioni altre che non conosciamo. Che ingaggia un killer per rubare (con successo) la mappa ed uccidere l’enologo. Tutta questa parte è bruttina, mal riportata, e ci conduce a questo finale un po’ scontato ormai, ma senza grandi patemi. Lasciando molto a metà. Non si trova il responsabile materiale del crimine. Non si capisce perché il commissario venga fotografato dal suddetto che si infiltra in un convegno e poi sparisce. Si lascia a metà una possibile storia tra Cosulich e l’enologa emiliana. Compare una lepre e non si sa perché. Insomma un brutto finale per un libro che stava meritando altro. E poi, leggendo la quarta scopro che Negri è si enologo (si intuiva dallo scritto) ma prima, alla fine degli anni ’80 è stato segretario del Partito Radicale, impronta che si nota in quel tentativo di forzare l’entrata della politica nella storia. Troppo artefatta per non nascondere qualcosa. Lasciata la politica, Negri fa l’enologo vicino Cuneo, nella tenuta di Serradenari (dove si svolge la seconda parte del libro) ed ha scritto anche un libro sul vino (“Roma caput vini”) che è anche il terzo ed ultimo capitolo di questo libro. Dove sviluppa il concetto che furono appunto i Romani ad esportare il vino nel mondo. Non ho di certo nulla verso l’allora partito radicale, ma questo illustra meglio quel testo e contesto di cui sopra. Speriamo in meglio, se altri scritti verranno. Rimarcando solo una copiosa parte dedicata alla distruzione (cui sono pienamente concorde) dell’idea della centralità europea ed occidentale nel mondo. Sappiamo tutti (credo) e Negri ben ce lo ricorda che pomodoro e cioccolata vengono dalle Americhe. E che senza gli Arabi avremmo perso traccia della filosofia aristotelica. E che molta della medicina attuale deriva da Ippocrate solo attraverso Avicenna (altro esimio arabo). Ma sulle radici arabe del nostro mondo tornerò in altri scritti, che meritano più ampio e documentato spazio.
“Senza la cultura araba la matematica, la filosofia, la medicina e mille altre discipline che consideravo europee, occidentali, semplicemente non sarebbero tali.” (230)
Piero Colaprico & Pietro Valpreda “Le indagini del commissario Binda” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 15/04/2013– I: 15/01/2014 – T: 24/01/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 443; anno 2013]
L’anno indicato è della meritoria pubblicazione in volume unico da parte di Feltrinelli dei tre romanzi della “strana coppia” (per i singoli romanzi, specifico l’anno nel commento). E come tutti i volumi multipli sono sempre indeciso se considerarli come trama unica o meno. Qui, devo dire, il compito si semplifica dal fatto che, in effetti, i tre romanzi brevi costituiscono il corpus della produzione a quattro mani dell’anarchico e del giornalista. Di Kola, avevo già letto (e gustato) sia qualche romanzo che (soprattutto) gli articoli giornalistici, sempre con un piglio giusto. Valpreda era e rimane uno dei grossi punti dolenti della storia italiana. Ingiustamente accusato della strage che ha dato il via in Italia alla strategia della tensione, sempre lasciato ai margini anche quando, con tutti gli onori, ogni colpa è caduta nel dimenticatoio. Dopo mille vicende e mille mestieri, trova un suo contraltare in Kola. Lui porta storie, che tante ne ha vissute. Il giornalista ha il modo di stenderle, e di integrarle con le altre mille storie della sua vita di cronista di nera. Avevano il piano di scrivere quattro storie imperniate sulla figura di un maresciallo dei carabinieri (Valpreda rifiutandosi di pensare a poliziotti). Purtroppo, la morte coglie l’anarchico all’uscita del terzo, lasciando che il quarto, anni dopo, venga scritto dal solo Colaprico. Veniamo allora alle tre indagini di Binda.
“Quattro gocce d’acqua piovana” pag. 9 – 148
Edizione 2001
E così, nell’autunno, del tempo e della vita, facciamo conoscenza del maresciallo Pietro Binda. La caratteristica che i nostri hanno voluto usare, qui e negli altri due, non è la presa diretta sugli avvenimenti. Ma il loro ricordo, la ricostruzione, integrandola, dove e quando occorre, con flash-back ed altre tecniche di scrittura, per andare su e giù nel tempo e nello spazio. Il nostro maresciallo è sempre stato (per quanto se ne sa) alla sezione Omicidi, ed ha sempre avuto un rapporto non usuale con gli emarginati e tutto il mondo degli irregolari che gira ai margini della giustizia. Ovviamente, dati i due autori, non poteva che chiamarsi Pietro anche lui. Ora che è in pensione, passa il tempo a rileggere vecchi casi irrisolti (o poco risolti). E quattro gocce d’acqua che cadono sulle pagine che sta leggendo lo riportano al caso della morte di Gariboldi. E ne trova una soluzione (dico una che forse… ma non anticipiamo). Comincia così il lungo viaggio nella memoria del complesso caso della morte del professore di matematica, che sembrava senza nemici né macchie oscure. Rimane solo il corpo e quel messaggio scritto con il sangue SOS SOS, a ribadire la seconda attività del defunto, quella di enigmista provetto. Defunto che lascia una fidanzata quasi sposa basita e sconvolta. Binda indaga, interroga, scava nel presente e nel passato. Scoprendo solo che era stato in seminario da giovane, per poi lasciarlo inopinatamente. Poi il prete che ha scritto l’omelia funebre muore andando fuori strada con la macchina. Ma non si cava ragno dal buco. Né dalla scuola, a cui il preside aveva chiamato il Gariboldi per meriti preclari, anche se si conoscevano pure loro dai tempi del seminario. Né dall’enigmistica, dove nessuno interpreta il messaggio, né tanto meno da notizie ulteriori sul morto, che inviava gli enigmi via posta. Né infine dal seminario, dove transitò anche il prete morto. Intanto Binda è colto da problemi privati, che la moglie muore di tumore, ed il figlio, una volta laureato, decide di trasferirsi a Londra. L’unico indizio “certo” è una foto trovata in un sottofondo di due uomini abbracciati. Uno il Gariboldi, ma l’altro non si capisce chi sia, troppo fuori fuoco. I nostri autori tornano allora al presente, al maresciallo in pensione, che con le sue gocce di pioggia va in Questura, e risolve quanto meno l’enigma della scritta. Non era una richiesta di aiuto, ma un numero di telefono (lascio a voi capire come…). E guarda caso, il numero della parrocchia del prete poi morto nell’incidente. Prete che poi era il vero enigmista, essendo Gariboldi solo di facciata. Ma il professore vuole troncare, vuole sposarsi, ed allora… Tutto risolto, sembrerebbe. Ma i nostri sono autori di scrittura fine, e questa soluzione sembra, è troppo “banale”. Ce ne sarà un’altra, la vera, cui avevo pensato, anche se non riuscivo a collocarne la fattività. E che ci viene spiegata, in fine, sino all’ultimo dettaglio. Il bello del romanzo, comunque, oltre al seguire le indagini come si seguono nella realtà (e non nei libri), dato che Kola ben conosce i modi ed i metodi delle indagini, è invece nelle descrizioni della città. Di come si trasformi. Di cosa diventino negli anni Brera e via dei Fiori Chiari, il bar Giamaica e la libreria Utopia. Tutta quella Milano un po’ ai margini, oscurata e vilipesa dalla vernice craxiana degli anni Ottanta.
“La nevicata dell’85” pag. 149 – 290
Edizione 2001
Passano gli anni, e non riuscendo ad essere inattivo, Binda fa l’investigatore. Non certo all’americana, ma banalmente italiano, con casi di scomparsi e qualche adulterio. La tecnica adottata dai nostri scrittori però è analoga alla precedente. Binda, in un convivio di amici, ricorda un caso da lui risolto come investigatore, dando la mano ai suoi amici caramba. Ricorda il caso dei morti del quartiere Baggio, al tempo della nevicata dell’85, la storica nevicata che bloccò l’Italia intera, e mise a piedi per tre giorni tutta Milano. Dal punto di vista della storia “gialla” forse questa è la più debole. Anche se la capacità dei nostri è di descrivere una vicenda normale, con persone normali. Mentre indaga di altro (circa l’alibi di un piccolo spacciatore) Binda viene ingaggiato da una praticante dell’ufficio legale non convinta della morte del nonno. Anziano in buona salute, e senza tante paturnie, si imbottisce di una dose eccessiva di sonniferi. Binda si aggira per una Milano sconvolta dalla nevicata di cui sopra, in cui tutti vanno a piedi (e qualcuno con gli sci, che tanto mi ricorda l’analoga di Roma, quando vidi dei temerari scendere sci ai piedi la panoramica da Monte Mario a Piazzale Clodio), per andare al quartiere Baggio, ed al suo cimitero. Dove scopre altri anziani inopinatamente deceduti. E nello stesso cimitero viene abbordato dalla signora Alice, una matura signora anche lei frequentanti i luoghi dell’eterno riposo. Forse nel ricordo della moglie morta, Binda comincia a parlare dei morti con Alice. La quale pochi giorni dopo muore anche lei. Intanto Binda viene accudito nella casa solitaria dalla vicina Alba, di una decina d’anni più giovane ma ancora piacente. Controllando giornali, memorie dei carabinieri ed altri documenti, Binda si fa una storia possibile delle morti. Dove s’incastrano l’assillante vicino di Alice, le dame di carità della parrocchia, gli ex-colleghi dell’ospedale dove lavorava Alice, i becchini del cimitero ed altri comprimari. Tutto senza prove, però. Ecco allora che i nostri pensano di pescare dai classici, istituendo un finale alla Nero Wolfe, dopo che Binda ha per tutto il romanzo un andamento alla Maigret. Binda convoca tutti i possibili colpevoli in casa, ricostruendo le vicende, attaccando senza sosta la migliore amica di Alice, sapendo che prima o poi il deus ex-machina della vicenda sarebbe saltato fuori. Come, infatti, succede, quando… Ma questo importa il testo che leggerete. Il resto è la dolce storia che nasce tra Pietro e Alba. E più ancora il rapporto tra Binda e l’anarchico Loris, una specie di alter-ego di Valpreda, che rifornisce l’ex maresciallo di libri sull’anarchia e la libertà, che il nostro Pietro commenta, in alcune parti marginali alla vicenda ma interessanti per il clima.
“La primavera dei maimorti” pag. 291 - 440
Edizione 2002
Il terzo, e ultimo della coppia, è forse il più politico, dove si precisa meglio sia Binda, sia la visione globale. Questa volta niente gioco di flash-back, ma si salta a piè pari nella giovinezza del maresciallo, alle prese con una vicenda intricata che si fa svolgere nell’aprile del 1969, solo pochi mesi prima di quelle bombe che sconvolsero la vita dell’Italia (e quella di Valpreda primo fra tutti). Un libro, tra l’altro, scritto in fretta, che Valpreda era alla fine. E di fatto muore una settimana dopo l’uscita del libro. Il giovane Binda viene fatto infiltrare tra i detenuti in San Vittore, dove sono detenuti tre malviventi sospettati di aver ucciso un losco figuro oriundo ungherese dal passato sicuramente poco chiaro. Ed in questa parte si scatena la vena libertaria della coppia, ma anche la capacità di raccontare storie. Perché appunto nella vicenda semi-fittizia della morte di Otto Kormendy, si innesta la vicenda reale della rivolta delle carceri. In particolare di quella di San Vittore dove stavano appunto Binda ed i sospettati. I tre tra l’altro, uno dopo l’altro, muoiono in carcere in maniera sospetta. L’ultimo proprio durante la rivolta. Binda viene aiutato dal direttore del carcere e dal magistrato inquirente nella ricerca di indizi. Ma nel carcere, oltre a trovare solidarietà con anarchici e “compagni della sinistra che sbaglia”, pochi passi avanti riesce a fare il nostro. Certo, e sono le parti migliori, ne escono fuori molto ritratti umani, che molto devono alla memoria di Valpreda. Rimane solo una foto strana, di un passaggio di confine tra Italia e Svizzera, e gente che si incammina verso degli strani passaggi spinati. Binda allora ritorna sui suoi monti, lì dove ha casa con la moglie Rachele, da poco sposata (d’altronde siamo una ventina d’anni prima del primo libro). E lì trova il bandolo, portato per mano da un montanaro spigoloso e solitario. I tre morti con l’ungherese facevano parte di una banda di delinquenti, soprannominatasi “I Maimorti”, legati al fascismo, alla delinquenza ed altro di poco lecito. Banda che aveva organizzato un lucroso traffico frontaliero, soprattutto di ebrei in fuga. Si facevano pagare in anticipo poi li portavano sui monti. Qualcuno lo portavano davvero in Svizzera. Altri, la maggior parte, arrivava al finto filo spinato, lì convinti di essere espatriati, per poi cadere in mano ai tedeschi. E la banda prendeva altri soldi. In una di questa strage, un bambino si salva. E sarà lui che organizzerà anni dopo la mattanza, approfittando dalle necessità economiche dell’ungherese, che vuole pubblicare un libro di memorie. Non vi dico altri particolari. Ma c’è un ultimo tocco libertario da sottolineare. Il capo della squadra investigativa cui risponde Binda per l’indagine, di lì a poco mette su una squadra anti-terrorismo chiedendo a Binda di entrarvi. Sarebbe una luminosa carriera, ma il futuro maresciallo rimane coerente alla sua personale deontologia. E rimane ad indagare su morti quotidiane e piccola malavita.
Epilogo pag 441 - 443
Edizione 2013
Epilogo che in realtà non c’è. Perché Valpreda come detto muore, e Colaprico continua la sua attività di scrittore e di giornalista. Ma nelle poche pagine di intercalare che Kola dedica all’amico, ne esce fuori un ritratto vero di un uomo che ha vissuto il suo tempo. E che mi ha fatto fare un bel salto indietro nella memoria. Grazie, Piero.
Gianni Biondillo “I materiali del killer” TEA euro 9 (in realtà, scontato a 6,75 euro)
[A: 15/07/2013– I: 04/02/2014 – T: 07/02/2014] - &&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 359; anno 2011]
Dopo un anno e mezzo di attesa, ritrovo non tanto l’architetto Biondillo, quanto il simpatico e fuori schema ispettore Michele Ferraro. In un libro, che non a caso, ha vinto nel 2011, quando è uscito, il Premio Scerbanenco, premio aggiudicato al miglior romanzo giallo/noir pubblicato nell’anno. E devo dire, una volta tanto, che concordo. Un buon libro, una buona trama, ed una buona scrittura. Forse l’ultimo punto è quello più debole. Perché è di certo una scrittura capace, ma a volte indulge troppo, si incarta su se stessa. Soprattutto in quei tentativi, a me poco consoni, di svariare, si saltare di palo in frasca. Non che non riescano bene salti e flash-back (che alla fine ci consegnano una vicenda del tutto diversa da quella che appariva all’inizio), ma sono le lunghe pause introspettive, che forse potevano essere tagliate (o accorciate). L’altro elemento che mi ha spiazzato un po’ è la sequenza dei fatti precedenti. Frase misteriosa, detta così. Ma io avevo seguito i diversi romanzi dell’ispettore, con le indagini a Quarto Oggiaro (i primi due libri), con le reminiscenze giovanili (il terzo). Ora il nostro Michele ci si dice è “tornato a Milano”. Mi ero perso che era andato via, era stato a Roma, ed aveva avuto una storia con il commissario Elena Rinaldi. Beh, forse anche io invecchio e perdo i colpi. Colpi che però non perde il romanzo e la sua trama, che inizia con ritmo incalzante. Una rapina in villa, dove muoiono il padrone ed un ladro. Rapina affidata al rientrante ispettore Ferrero, con tutte le sue paranoie (le battute con Comaschi, la sveglia che suona, i rapporti tesi con il capo). Dall’altra la fuga dal carcere di un negro, Hailé qualche cosa. Hailé sta in carcere, si perfora lo stomaco, perde sangue, trasporto d’urgenza in ospedale, autoambulanza bloccata, e mattanza: tre guardie e tre assalitori uccisi. Hailé, ferito e fuggente. Data la risonanza del caso, viene affidato alla squadra speciale di Roma al comando, guarda caso, del commissario Rinaldi. Coadiuvata dall’ispettrice Fusco (simpatica) e dall’ispettore Favilli (un patologico maschilista rompipalle). Ma la squadra non riesce a cavare un ragno dal buco, sinché non ci si mette dentro il nostro Ferraro. Che guarda caso aveva arrestato lui Hailé, per una rissa in un bar (scopriremo poi durante una partita tra due squadre africane). Ovviamente, il punto forte di tutte le indagini (rapine e fughe), non può essere che il buon Lanza, il mentore del nostro, ora spostato ad un comando interforze a Bruxelles. Ma le sue osservazioni fanno scattare scintille a Ferraro, entrato anche lui nella squadra della Rinaldi (ed anche nel letto, ma per poco, che quella storia è ben finita). E mentre nel presente si svolgono le storie dei nostri italiani, con il solito piglio ironico cui ci ha abituato Biondillo, in lunghi flash-back ricostruiamo la storia dei “neri”. Hailé è un eritreo, figlio di uno dei capi della rivolta contro gli etiopi. E da sempre, con il suo sodale Sayed, dalla parte dei combattenti. Ma una volta terminata la rivolta, e dopo i voltafaccia di Menghistu (non entro in parti di Storia che dovrebbero essere altrimenti note), Hailé e Sayed diventano mercenari, e poi caporioni delle bande dei fornitori di migranti ad altre bande, prima libiche, poi della mafia di Casale Principe. Con l’unico punto d’onore di non maltrattare mai i bambini (Hailé). In una razzia, il nostro salva anche la bella Zohra. Ma questa non potrà fare a meno di finire nelle grinfie della prostituzione (troppo lungo spiegare come), salvata (ma solo per poco) dal buon Don Stefano, un missionario che poi scopriamo essere amico di Ferraro. I napoletani però hanno i due sui marroni, e ad un certo punto fanno fuori tutti. Peccato che Hailé riesca a salvarsi, ed a rifugiarsi in Italia. Dove incontra Zohra, ma non può fare a meno di ribellarsi quando scopre che il capo della squadra che sta vedendo in TV è proprio Sayed che credeva morto. Da qui, tutta l’organizzazione della vendetta, fatta come solo un killer come Hailé è diventato può fare. Tutte le strade convergeranno nel casertano (con un’immagine della Reggia e della fontana di Diana e Atteone che mi riporta al da poco letto libro di Piccolo). Qui il finale si fa confuso, che a Caserta non solo arrivano i due neri per la loro lotta finale. Ma anche la squadra della Rinaldi, sotto le idee spurie di Ferraro, e l’interforze di Bruxelles con Lanza. Dico confuso che si lascia solo per cenni la fine dei giochi. Anche se intuiamo che non c’è molto da scialare, e tutti finiranno un po’ male. C’è solo il tempo per Lanza di dare una nuova dritta all’ispettore che gli consente di risolvere anche il caso della rapina (che lascio solo per cenni, essendo un po’ marginale). Per tornare poi tutti nei rispettivi crogioli. Rinaldi a Roma, Ferraro a Milano, con Francesca (l’ex-moglie) sempre a tentennare, e la simpatica figlia Giulia a crescere (ormai va per i 13). Insomma, una storia complessa e ben congeniata, che da modo a Biondillo non solo di padroneggiare il genere, ma anche di dar conto di problemi attuali ed a tutti presenti, benché irrisolvibili: migranti, extra-comunitari, mafie, degrado delle città. E chi più ne ha. Una bella lettura, tutto sommato. Nel filone, a me sempre caro, del giallo con risvolti sul sociale (grazie ai nostri maestri svedesi degli anni Sessanta).
“Le donne che hai amato ti restano addosso, sono macchie della pelle, indelebili.” (132)
“Quanto bene faccia, certe volte, essere superficiali e infantili nessun filosofo morale riuscirà mai a comprenderlo per davvero.” (147)
“Giulia … ogni tanto gli chiedeva … cosa servissero quelle curiose monete color bronzo … con due scanalature da una parte e una sull’altro lato.” [mitico Biondillo!] (161)
“Ferraro …  quando qualcuno rivanga i bei tempi andati … [ricorda] … che belli non erano se non perché s’era giovani e pieni di ormoni.” (287)
Gianni Biondillo “Cronaca di un suicidio” Guanda euro 14,50 (in realtà, scontato a 10,85 euro)
[A: 08/10/2013– I: 07/02/2014 – T: 09/02/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 192; anno 2013]
Per i miracoli delle alchimie di lettura, ecco che, appena finito il penultimo libro, mi capita di leggere l’ultimo romanzo delle gesta del nostro ispettore Ferraro. Sarà che il precedente mi era piaciuto e di molto, questo mi ha lasciato un po’ sconcertato. Intanto, perché, pur avendo il buon Michele al centro, non è un giallo, un’indagine, è un libro di atmosfere, anche di misteri (se vogliamo). Io mi aspettavo altro. Che il libro corre su due binari ben alternati. Da un lato la storia di Giovanni Tolusso, che ricostruiamo come una discesa agli inferi di un uomo qualunque, schiacciato da avvenimenti più grandi di lui. Dall’altra, le vacanze agostane del nostro ispettore e della figlia Giulia. Che almeno un po’ stanno insieme, e neanche tanto male (ma perché tu e la mamma vi siete lasciati, chiede ad un certo punto la giovane; in realtà, non ci sono contrasti ed urla, tra Michele e Francesca, ma una qualche impostazione dello stare al mondo che preclude lo starci insieme; come direbbe la canzone “amici, sì, amanti, no”). I destini delle due storie si incrociano sulla spiaggia di Ostia, al rinvenimento di un corpo e di una barca alla deriva e di un messaggio (“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono”) che la nostra Giulia subito collega all’ultimo scritto di Pavese prima del suicidio. E quindi, nella parte dedicata a Tolusso, scopriamo la sua vita. Lui senza tanto nerbo, un po’ trascinato dalle cose, diploma di ragioniere, lavoro in cantiere sino alla morte del padre. E poi, finalmente, la sua vera vocazione: lo sceneggiatore. Con l’unico vero amico, dei tempi della scuola. Marco, il contabile, quello che vive a Milano, e che gli tiene i conti di tutte le attività. Ma Giovanni vive a Roma (in un appartamento a Monte del Gallo, e per i romani, una zona interessante), ed ora, nel pieno delle crisi economiche, riesce a malapena a pagare i mutui delle case (quella di Roma, e quella che ha regalato alla moglie Barbara, che vive a Milano per conto suo, e che è non vedente). La crisi arriva per Tolusso con una cartella dell’Agenzia delle Entrate. 32000 euro da pagare! E poi, tasse, IMU, Tari, condomini. E la RAI che non lo paga. Cerca di capire con Marco cosa sia successo. Ma noi lo capiamo ben prima di lui, che Marco s’è fregato i soldi. E che ora sta organizzando una sua fuga verso il Sudamerica, con tutti i soldi di chi è riuscito a turlupinare. E prendendo contatto con quelle agenzie che “ti fanno sparire”. Giovanni è distrutto e non sa che fare, se non una polizza sulla vita, pagabile alla moglie anche in caso di suicidio. Dall’altra parte vediamo i tentativi di normalizzare la vita da parte di Michele. Lo scoprire che Giulia cresce e che gli piace stare con lei. Certo, il fatto di aver scoperto il morto ad Ostia lo costringe, obtorto collo, a partecipare quanto meno ad una specie di indagine di routine. Intanto, è difficile effettuare il riconoscimento del morto, sia perché ammollato dall’acqua, sia perché Barbara, come non vedente, è difficile lo riconosca (battutaccia!). E inoltre, nessuno delle conoscenze romane è a disposizione (anche perché Giovanni sì scrive bene, ma un po’ una palla è, e non è che abbia tanti altri amici; in fondo, l’unico con cui parla di più è il postino!). L’unica è rintracciare Marco in Perù. Cosa non facile, ma alla fine, si riesce a fare una telefonata via skype. E quello un po’ si nega, un po’ fa il tonto, ed un po’ dice “Non manca mai a nessuna una buona ragione per uccidersi”. Che come ci farà capire alla fine Giulia, ancora di Pavese si tratta. Ma allora… Basta così per la storia. Rimangono scritti e bozzetti, che Biondillo, ricordo, non dispiace nelle schermaglie. E quelle tra Ferraro e il commissario romano rimangono gradevoli punti di fioretto. Ma, ripeto, mi aspettavo qualcosa di più incisivo. Sia nella storia, sia nelle vicende di Michele. In fondo, l’unica che ne esce dignitosamente è Giulia. Largo ai giovani, quindi. Ma spero che il nostro architetto ritorni ai livelli abituali.
Quindi, anche se in ritardo, auguro a tutti i miei amici e lettori una buona Pasqua (buona come i giorni scozzesi appena trascorsi, devo dire con piacevole andamento) ed un buon proseguimento di feste (sperando che qualcuno approfitti di questi lunghi scivoli sino al 1° maggio). 

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