domenica 13 aprile 2014

Noir Italia, prima parte - 13 aprile 2014

Cominciamo finalmente a parlare in maniera estesa di questa meritevole collana uscita in allegato a “Il Sole 24 ore”. Alla fine sono una quarantina di titoli, per la quasi totalità di autori diversi, ed abbastanza “ai margini”, cioè non inseriti nei cataloghi maggiori, ma in quelli direi regionali, pur se interessanti (Fratelli Frilli a Genova, Todaro a Napoli, Robin a Roma, tanto per citarne alcuni). Ed essendo un numero consistente, per questa serie ho deciso di derogare da una regola impostami, e di citarne ogni volta almeno 5 (se no non si finisce più). Qui abbiamo un autore ben noto (Macchiavelli) e quattro a me sconosciuti (due buoni e due così così). E siamo ad un primo giro d’Italia: Napoli, Bologna, La Spezia, Udine e Foggia. Già così sembra interessante, anche se le prove, come detto, non sono tutte omogenee.
Carlo Giordano “Il mistero delle 366 fosse” Sole 24 ore – Noir Italia 12, euro 6,90
[A: 08/11/2013– I: 01/12/2013 – T: 03/12/2013] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 123; anno 2011]
Benché sin da Agosto di quest’anno (2013) abbia cominciato a collezionare questa interessante collana, questo è il primo libro che riesco a leggere. Ora, prima di tutto, la collana è senz’altro meritoria, che in una trentina di volumi presenta un buon panorama del Noir italiano, indicando ad ogni uscita la località teatro degli avvenimenti. Quasi a farne una mappa italiana un po’ alternativa. Secondo, in generale, gli autori sono stati scelti tra i meno noti, salvo qualche “nome di grido” tanto per attirare (non so, un Macchiavelli, un Vichi, e qualche altro). Ed è la curiosità verso questi outsider che spinge la mia insaziabile vena di scopritore a percorrere questi sentieri. Dette quindi parole positive per collana e scelte, veniamo anche a questo romanzo, ambientato a Napoli. Siamo più sul versante di Pizzofalcone (come ambientazione, e come ricordo di De Luca, visto che la collina è meglio nota col nome di Montedidio), anche se il commissario Molinari ha un andamento lento, volgendo i passi quasi verso un Maigret, se questi avesse avuto una figlia. Ed è un libro dalla duplice analisi: sul versante Napoli è affascinante e meritorio, sul versante Noir è un onesto prodotto, forse con qualche scivolata verso soluzioni al limite affrettate. Ma cominciamo con il pezzo forte. In realtà, consiglierei la lettura del libro a chi vuole un’indicazione su luoghi interessanti e poco frequentati della città partenopea. A partire proprio dal titolo, dove ci rechiamo nel cimitero delle 366 fosse, un cimitero ideato durante le pestilenze seicentesche per seppellire di corsa morti infetti, e costituito, per l’appunto, da 366 fosse comuni, una per ogni giorno dell’anno (bisestile, ovvio). Ma poi, ci spostiamo nel corso dell’indagine, in tanti altri posti: S. Pietro ad Aram (dove c’è un altare su cui pregò l’apostolo Pietro), le catacombe di San Gaudioso (che ispirarono a Totò la famosa “livella”), S. Caterina a Formiello (il cui nome deriva dall’antico anche se abbandonato acquedotto, dove il latino formis sta per canale), la cappella Sansevero (dove sta il bellissimo “Cristo velato” del Sanmartino), S. Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco (nella via dei Tribunali), villa Floridiana (su cui non mi dilungo), S. Nicola alla Carità (uno dei centri della lotta alla peste del 1656), il cimitero delle Fontanelle (con il culto delle anime abbandonate), le catacombe di San Gennaro (dove scopriamo che Gennaro è il cognome del Santo, che si chiama di nome Procolo), la Chiesa dell’Annunziata (una delle chiese storiche della città), nonché le diverse entrate della Napoli sotterranea (il tunnel borbonico sotto Pizzofalcone, Piazza Cavour 140 e vico Sant’Anna di Palazzo). Se non li conoscete, sono tutte località che meritano visite, e solo per questo il libretto del Sole 24 ore avrebbe un suo spazio “al sole” (ah ah). Ma non essendo una guida turistica, questo gioco del Monopoli serve soltanto al commissario Molinari per cercare di capire i misteri che si celano dietro i teschi che in questi luoghi vengono posti, con messaggi a lui diretti. Questo, mentre da anni è in corso una tenace caccia all’uomo, verso un serial killer che uccide solo prostitute, senza peraltro intrattenersi mai con loro. Qui entriamo appunto nella vicenda Noir, dove non poteva non entrare Giulia, la figlia ribelle del Commissario. E se pur ci sono altre storie collaterali (il rapporto tra il commissario e la moglie, i tradimenti di questa e la riappacificazione, la tristezza di Denise l’amica di Giulia, i tentativi di farsi comprendere dalla polizia da parte del prof. Montini), è Giulia che non può che porsi al centro dell’attenzione. Perché nella sua ribellione, gioca anche a fare la prostituta. E non ci meraviglia che il cattivo seriale (ma più che cattivo, psicopatico), la rapisca. Ma non la uccide, che lui uccide solo le donne perdute. Così, nella lunga confessione tra rapitore e rapita, capiamo i motivi delle morti, capiamo l’uscita di testa dell’assassino, ed ammiriamo il benefico shock che subisce Giulia. Prima quando asseconda il folle, e poi quando … Ma questo non ve lo dico. Purtroppo, la fine (una volta sciolto il mistero dei teschi, che è servito solo a fare il delizioso giro turistico di Napoli) è un po’ affrettata. Molinari scopre troppo facilmente il covo del bandito, e tutto si risolve in due scarse pagine. Forse ci voleva un po’ più di suspense nel finale. Tuttavia, il prodotto è onesto, scritto dignitosamente, con qualche plauso in più per le invenzioni turistiche. Speriamo gli altri volumi siano della stessa fruibilità. Per ora, un caldo invito a tornare a Napoli.
“Gli uomini credono di decidere anche quando sono totalmente scelti.” (40)
Loriano Macchiavelli “Sarti Antonio: un diavolo per capello” Sole 24 ore – Noir Italia 4 euro 6,90
[A: 02/08/2013– I: 10/12/2013 – T: 11/12/2013] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 137; anno 2008, ed. orig. 1980]
Ritroviamo il mai sempre troppo lodato Loriano, uno degli autori cardine del giallo italiano, nella quarta uscita della serie del Sole24ore, seconda nella lettura. Ed è al solito un buon libro, anche se viziato da una grande mistificazione, che affronto subito, così mi tolgo il dente. Macchiavelli ha pubblicato una cinquantina di titoli, di cui una ventina con protagonista il sergente Sarti Antonio. Ebbene, nell’usuale bibliografia finale (per altri testi meritoria) ne vengono indicati una decina, e solo quelli ripubblicati da Einaudi. Come questo, riedito cinque anni fa, ma che, in origine, è uscito nel 1980 e con grande interesse, avendo vinto, quell’anno, il premio Tedeschi (alla sua prima uscita), premio dedicato ai migliori gialli inediti dell’anno. E senz’altro, nel 1980, questo era uno delle punte di diamante (ora un po’ meno che son passati gli anni e si sente). Una mistificazione che non viene citata da nessuna parte, anche se, leggendolo, ci si domanda perché quando paga le consumazioni al bar, il nostro le paghi in lire. C’è poi un episodio, non centrale, che pone anche un’esatta datazione alla vicenda. Si assiste ad una partita di calcio in TV tra Italia e Germania, che si dice vinta dai tedeschi per 2 a 1, con un’orrenda prova di Graziani e Causio. L’unica partita riferibile a queste indicazioni è, infatti, la partita Germania Ovest – Italia del luglio 1977, vinta dai tedeschi con goal di Rumenigge e lampo finale di Antognoni. E veniamo ora al testo in se, quarto romanzo con protagonista il sergente. E si sente, che alcune caratteristiche non sono ancora consolidate, anche se lui ha già la sua colite, ama i caffè ben fatti, ha in Filippo l’alter ego che guida spavaldo l’auto-pattuglia, è in perenne conflitto con il suo capo. Eppur girando sembra a vuoto, come spesso nei suoi romanzi, accumula indizi e trova soluzioni. Certo, non è ancora completamente disilluso dalla vita, come sarà più avanti. Ha ancora voglia e forza di guardare una bella donna e forse fare qualcosa di più. Anche il suo amico – nemico non poliziotto, Rosas, è in bozze. Qui, seppur si trattano male come sempre accadrà, Rosas non è ancora un personaggio chiaro, pendente tra i due lati della barricata della giustizia. Detto il contorno, la storia ha una sua linearità. Una strana rapina in banca per trafugare i gioielli di una contessa. Amedeo, il direttore di banca che sembra implicato, sopratutto quando il sergente lo segue e scopre uno dei banditi ucciso nel bosco. Ed ancora di più, quando, durante la processione della Madonna di San Luca, il direttore viene trovato con i gioielli in mano. Il caso sembra chiuso, ma Sarti ondeggia. E Rosas lo spinge a pensare, ed a discutere il caso con la bella Eleonora, moglie forse morganatica del direttore. Una bella che fa girare molte teste, non solo quella di Sarti. Ma anche di Stefano, il venditore di enciclopedie, di Federico, il carabiniere insoddisfatto del suo lavoro, di Giorgio, il portantino, con Amedeo, della Madonna. Scavando e ragionando, Sarti mette in luce una serie di incongruenze che lo portano a dubitare della facile soluzione. Perché Stefano ha parcheggiato in divieto di sosta e con i finestrini aperti quando c’era tanto spazio non vietato? Com’è possibile che gli siano stati rubati dieci volumi di un’enciclopedia senza che nessuno se ne accorgesse? Perché Giorgio vuole il posto sulla sinistra della Madonna? Perché Federico si dimette dall’arma? Perché Amedeo lo porta dal morto? Perché Eleonora sembra non dire o non dice tutta la verità? È ovvio, e lo pensiamo tutti, che Amedeo è vittima di una serie di circostanze fortuite. Ma chi sa le cose come stanno, perché usa vie traverse? Sarti Antonio ricostruisce i fatti come realmente avvenuti. Ma è un questurino atipico, e non avendo prove, dopo la ricostruzione lascia che ognuno agisca come meglio crede. E su questa dolorosa idea di giustizia, cala il sipario, che anche noi non sapremmo mai se i cattivi pagheranno ed i buoni vinceranno. D’altra parte, spesso è così la vita. Un buon inciso, nella vicenda, è la “spettacolarizzazione” degli avvenimenti, dove Macchiavelli, nell’80, ci presenta un modo di trattare le vicende “ad usum TV” che si consoliderà ed amplierà (purtroppo) negli anni successivi, portando molto sconforto nei costumi degli italiani. Bravo e profetico come al solito, il nostro Loriano. Purtroppo la vicenda non è avvincente come altre dello scrittore bolognese, anche se mantiene la serie “Noir Italia” ad un buon livello (e ci voleva).
“È scocciante imparare che … lo hanno osservato senza che lui se ne rendesse conto. D’ora in poi non potrà neppure mettere le dita nel naso senza chiedersi se qualcuno lo stia spiando.” (69)
Susanna Raule “L’ombra del commissario Sensi” Sole 24 ore – Noir Italia 6 euro 6,90
[A: 26/08/2013– I: 08/01/2014 – T: 10/01/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 249; anno 2011]
Cominciano ad essere più presenti in lettura questa trentina (ma alcuni, seppur pochi, già ne avevo) di romanzi usciti per i tipi del “Sole 24 Ore”, con il titolo “Noir Italia”. Senza entrare nel merito se noir, mistery, thriller, gialli, legal, procedural, e chi più ne ha più ne metta, ricordo l’idea: utilizzare autori italiani, da alcuni abbastanza noti ad altri più o meno ignoti, ed ambientare romanzi imbevuti di poliziesco in diverse parti d’Italia. In questa prova, della fin ad ora non nota Susanna Raule, il protagonista, l’ispettore Sensi, si muove in quel di Spezia. Mi raccomando, per chi come me fosse alieno dalla città, non “LA” Spezia, nome inusato dal dialetto spezzino, con quell’articolo nato dal passaggio del latino al volgare, ed ivi rimasto (pare con un centinaio di altri comuni italiani). E devo dire che appunto la città spezzina è una delle non molte che manca all’appello delle mie frequentazioni. Non so se mi attira, certo Piazza Brin, descritta dalla Raule, sembra interessante. Ed anche altri punti e spunti, tanto che vien la voglia di fare una gita dalle parti delle Bocche del Magra. Detto quindi che questa serie di libri sembra quasi un “Contromano Giallo”, tanto per parafrasare la bella collana di Laterza, veniamo anche al romanzo in sé. Che sembra ed in parte è interessante (fatto salvo che sembra la seconda puntata di un serial di cui non si è visto la prima), almeno per buona parte del libro stesso. C’è una scimitarra che appare e scompare dal molo della città. Ci sono morti che cominciano a comparire in varie parti della città stessa. E c’è sempre, sul luogo, o vicino al luogo del delitto Silvia, una diciottenne carina, ben descritta tra l’altro dall’autrice, che ce la rende vivida. Meglio di come ci renda il commissario Ermanno Sensi detto Manno, un trentacinquenne (credo), con un look gothic-dark, occhiali da sole giorno e notte, con un approccio all’investigazione tra l’anticonformista e l’improvvisato. Fatto sta che i due finiscono a letto (nonostante la differenza di età), e da qui nasce la storia parallela della protezione che Manno cerca di dare a Silvia. Insieme alla comparsa di uno strano tizio, di professione antiquario, che trova la prima scimitarra, e poi il grosso pungiglione di un narvalo. Ovviamente, Silvia si mette sempre in situazioni di pericolo. Gira la sera da sola, va in piscina col buio e al parco di notte. Ovviamente, quindi, si trova sempre in pericolo, con un cattivo (o forse più?) che cercando di abusare di lei o di ucciderla (o entrambi). Tutto procede a balzi e raccontini, girando per le strade e per il porto della cittadina ligure di giorno e di notte. Ed è la parte migliore. Si fa conoscenza con qualche dark, con qualche sballato, con i compagni di classe di Silvia, con la squadra di Sensi. Poi c’è la svolta. Ci si collega a quella prima puntata in cui Sensi aveva sgominato una banda di satanisti che stupravano e uccidevano vergini. Sensi si era infiltrato nel giro (da lì nasce quel suo strano look), e, prima o durante (questo non si capisce) una messa nera, in cui doveva far l’amore con una vergine, riesce ad ucciderne un tot, ed arrestarne altri. Peccato che la vergine di cui sopra rimanga sconvolta dai fatti e (forse sotto l’effetto di droghe) si tolga la vita. Direte, ma questo che c’entra? Sembra entrarci, ché appunto come i lupi transilvanici, qualcosa è rimasto dentro il commissario (o appena fuori, come dice il titolo, appunto, l’ombra). Che si scatena alla ricerca del colpevole, che riesce a salvare l’antiquario prima che anche questi venga decapitato. E riesce a tirar fuori dalle peste Silvia. Il tutto in una parte finale in cui compaiono diavoli, ombre ed altre creature “irreali”. Mentre tutto il libro stava filando verso un romanzo decente, questa sterzata finale lo fa precipitare nell’improbabile. Facendo perdere un bel po’ di punti alla brava Susanna. Che rimane una persona di scrittura (è un caso che sia psicologa?), ma non di trama. Speriamo in un futuro ritorno di Manno e Silvia in vesti più terrestri.
Pierluigi Porazzi “L’ombra del falco” Sole 24 ore – Noir Italia 16 euro 6,90
[A: 25/10/2013– I: 25/01/2014 – T: 26/01/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 269; anno 2010]
Non conosco il giornalista Porazzi, né so (non sempre la rete ha tutte le notizie…) se questa sia la prima scrittura intorno allo strano personaggio di Alessandro Nero detto Alex. Certo, è anche se qui è la prima volta so che si ripeterà, la città teatro della vicenda non ne esce ritratta ad attratta. Udine è di forza una città difficile da descrivere, ed è molto più facile parlare dell’ex-ispettore Nero facendolo andare su e giù tra Italia e Slovenia. Dove sono piazza Libertà e piazza San Giacomo? Dov’è il Castello? E il Duomo? O gli affreschi del Tiepolo? Se ne parla poco come poco rimane dell’atmosfera friulana, in una storia che potevasi scrivere ed ambientare ovunque in Italia. Ovunque ci sia un presidente della Regione corrotto e corruttore, un ospedale compiacente, una magistratura supina al potere. Continuo? No, meglio tornare allo scritto. Che risulta molto affastellato, non dico confuso che non lo è, ma un po’ prolisso, e con la voglia di ingarbugliare tutto, tanto da riuscirci e confondere il lettore, ma anche lo scrittore. Difficile fare un tentativo che riesca a seguire le orme di Roger Ackroyd (e se qualcuno lo chiede vi dirò chi è). Per questo Porazzi un po’ si perde, ed anche la trama ne risente. Come chi voglia mettere troppa carne al fuoco (e poi si dimentica di Flaubert). Il nostro autore cerca, infatti, di gestire le multiple trame della ricca cittadina, intrecciando storie torbide e storie usuali. A far da gestione e fulcro, delle indagini e delle simpatie di noi lettori, una coppia di detective, Nero e Barone. Il primo dimessosi dalla polizia tre anni prima dopo che un serial killer uccide la moglie e la figlia prima di essere scoperto. Alex Nero si ritira in Slovenia, ma viene richiamato alle indagini quando si scopre un primo cadavere di diciassettenne senza organi interni. E quando la polizia riceve un CD con un secondo assassinio, CD indirizzato proprio ad Alex. Barone, che con Nero ha fatto l’Accademia, si è poi infiltrato in un giro di droga vivendo per tre anni sotto copertura, ed ora, sgominata la banda, torna alla luce del sole. Le morti continuano a fioccare. E ci si mette ad indagare anche un giovane procuratore appena arrivato dalla Sicilia, trentenne ed ingenuo. Che si innamora anche dell’ispettrice Barbara Rocco, terzo e segreto perno delle indagini. Ma il primo omicidio rimane misterioso, anche perché la ragazza è la figlia di uno dei più ricchi medici della città. Mentre al contorno, le morti fioccano, in particolare di quasi maggiorenni. Porazzi un po’ gioca sul lato “oscuro”, quando descrive stupri, rapimenti e operazioni varie (truculenta quella di anestetizzare la rapita, toglierle le braccia, e poi risvegliarla). Ma a Porazzi, come detto, questo gran calderone non basta. E quindi ecco che mette in mezzo il presidente della Regione, amico del medico di cui sopra, e malato di AIDS (ma pare nessuno lo sappia). Ed i vertici della procura, supini ai suoi voleri, e che mettono i bastoni tra le ruote sia del procuratore che della polizia stessa. Tutto quello che riescono a fare e riaprire il vecchio caso in cui è coinvolto Nero, cercando di incastrare il poliziotto nello sterminio della propria famiglia. L’autore non ha tema di maneggiare anche grosse vicende, che mette in mezzo anche un ex-agente segreto russo, travestitosi da barbone, che diventa amico della prima vittima, Alessia, e che cercherà in tutti i modi di vendicarla, quando capirà chi siano i veri assassini, a rischio di far saltare la propria copertura. Le ragazze continuano a morire. Anche Lucrezia, l’amica di Alessia, che all’ultimo capisce che sia il colpevole, e manda un SMS che potrebbe farci risalire a lui, se non avesse attivato inavvertitamente il T9 (spero che sappiate cosa sia, se non è un’altra cosa che vi devo spiegare). Il finale, così come l’inizio, è decisamente confuso, anche se l’autore direbbe volutamente confuso. Barbara lascia il procuratore per mettersi con Alex, non si sa se per piacere o per seguirne le tracce. Nero sa chi è il colpevole (anche perché ci sono molti indizi che sia lui). Noi lo immaginiamo. E pur tuttavia anche la fine annunciata lascia un po’ di irrisolutezza alla vicenda. Tanto da poter dire che l’autore si lascia lo spazio per una nuova puntata. Comunque Porazzi è avvocato e giornalista, e, benché lavori su troppi registri, la penna scorre sul foglio e non appesantisce troppo la lettura. Come detto, e ripeto, poca Udine e troppi misteri. Siamo nella parte inferiore del gradimento, ma non ancora al fondo.
Emanuele Crocetti “L’uomo murato” Sole 24 ore – Noir Italia 21 euro 6,90
[A: 29/11/2013– I: 26/01/2014 – T: 27/01/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 109; anno 2013]
È ovvio che dovendo mettere insieme una trentina di romanzi di autori italiani, più o meno noti, nella comunque interessante collana de Il Sole ci siano alti e bassi. Qui siamo sul secondo versante. Un libro di cui si può al massimo dire che è leggibile, pur se non godibile. Certo, è già un passo avanti rispetto a letture dove sembra sia Sisifo che volti ogni pagina. Ma detto questo, il pur nel suo campo bravo medico toscano Emanuele Crocetti non mi ha convinto con questa sua prova. Intanto, l’ambientazione nella città di Foggia risente alquanto della estraneità dell’autore (o almeno credo). Che di Foggia poco ci viene rimandato, se non il traffico (ma quale città italiana ne è esente), i lunghi viali, per cui andando in linea retta il commissario riesce quasi sempre a raggiungere i luoghi dove deve andare. E la costante e ripetuta battuta “Fuggi da Foggia”, simpatica solo nella sua allitterazione. Viene meno quindi uno dei pilastri della collana. L’altro, il giallo, la trama, è altrettanto, se non maggiormente inconsistente. Da buon toscano e lettore (e si sente) di gialli, ha una trama generale che riecheggia la ben più articolata trama del toscano Vichi, quando analogamente incentrò il romanzo sulla morte (o sull’uccisione) di uno strozzino. Pitto, lo strozzino, aveva fatto uno sgarbo alla mala locale, e da mesi non usciva di casa, accudito soltanto da un’acida sorella. E tuttavia viene trovato morto nelle cantine della casa stessa. Perché è uscito di casa? E perché è andato in cantina, dove pur nascondeva, nella sua cantina munita di robusta cassaforte, tutte le tracce della sua non troppo lecita attività? Perché c’è andato senza le chiavi della cantina stessa? E poi durante una partita di calcio internazionale dell’Italia, lui, come la quasi totalità degli italiani, tifoso e appassionato? Sono queste le domande che il commissario si pone, mentre avanza in questa calda settimana pre-vacanziera, solo nella città ostile, dove si è trasferito, dall’amata Toscana, soltanto per compiacere alla moglie autoctona. Moglie al mare con i figli, e presente assillantemente con continue telefonate. E con un frigorifero ripieno di cinque contenitori di cibo, uno per ogni serata solitaria del marito. Dove si ribadisce il consueto luogo comune della donna pugliese dedita per lo più alla cucina. Seguiamo quindi le inconcludenti indagini del commissario, ma maggiormente, seguiamo le sue fantasie onirico – sessuali su (quasi) tutte le donne che incontra. Altro stereotipo del maschio italico che mai ragiona se vede un centimetro di pelle femminile. Le sue attenzioni (mentali) sono in gran parte rivolte all’ispettrice Irene, ben fasciata nei jeans aderenti. Ma non disdegna di porre la mente, e l’occhio, sul geco tatuato sul seno della giovane barista. O sulle forme procaci a mala pena nascoste dalla vestaglia di una vicina di casa del morto. Scartata ben presto la pista della mala, che ben altrimenti avrebbe rivendicato il delitto, rimangono le uniche due piste possibili: una vittima della cravatta o un condomino per qualche motivo astioso. Ricordo, per i non adusi, che la cravatta e il cravattaro sono a Roma sinonimi dello strozzinaggio (quello appunto che ti stringe alla gola come una cravatta, ed immortalato nella bellissima canzone romana “Lella”, quella de “Te la ricordi Lella quella ricca, la figlia di Proietti er cravattaro?”). La bella Irene segue la pista “gialla”, mentre il nostro Peruzzi, tra una serie di fantasie sessuali, e due o tre cucinate di pasta (tra cui una bella descrizione di spaghetti alla bottarga), torna e ritorna al condominio ed ai suoi abitanti. Alcuni fatti casuali, ed una telefonata della moglie sui guai vacanzieri, portano il nostro alla conclusione che ci si aspettava da ormai tante pagine, pur nella brevità del romanzo. Come in tutte le prove non ben riuscite, rimangono poi punti al margine non chiariti. Cos’è successo tra l’appuntato e la bella signora? Chi sono i rapinatori della gioielleria? Insomma, si vede che il nostro può migliorare nella scrittura, e speriamo lo faccia che alcuni spunti hanno interessanti potenzialità. Per ora accontentiamoci.
Ricordo che questa è la seconda trama del mese, per cui trovate in appendice una nuova puntata di “Curarsi con i libri”. Infine, un augurio di Buona Pasqua a tutti, che sono in partenza (e finalmente) per la Scozia. Ci sentiremo al ritorno.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

APRILE 2014
Cominciamo una nuova parola, e con un quartetto di libri che merita senz’altro una degna considerazione. E questa volta le nostre amiche “dottoresse” in libri ci regalano qualche parola di commento in più.

ADULTERIO

Madame Bovary, Gustave Flaubert
Anna Karenina, Lev Tolstoj
Non vale la pena, John Coates
L'estate senza uomini. Siri Hustvedt
L'adulterio, generalmente, inizia a essere una tentazione quando metà di una coppia si scopre insoddisfatta del proprio ruolo - o del modo in cui viene percepita - all'interno del rapporto. Se solo potesse avere un nuovo partner, pensa, diventerebbe più effervescente, più spiritosa, più sexy. Forse giustifica il tradimento raccontando a se stessa che si è sposata troppo giovane, quando non era ancora del tutto matura, e adesso il suo vero io sente che è arrivato il suo momento. Magari sarà davvero quella persona più sexy, più smagliante - per un po'. Le relazioni che fanno naufragare un rapporto di lunga durata, tuttavia, di solito finiscono allo stesso modo, quando il vecchio io e le vecchie abitudini recuperano terreno, sia pure all'interno di una dinamica leggermente diversa. Spesso tornano anche le insicurezze. Perché se il rapporto è iniziato come una relazione clandestina per almeno uno di voi, è facile lasciarsi contagiare dall'idea che l'infedeltà colpisca di nuovo.
Per Emma Bovary la tentazione arriva subito, quando si è appena sposata con Charles, un medico, ed è ancora legata ai suoi preconcetti adolescenziali su ciò che dovrebbe essere un matrimonio. Invece della tranquilla esistenza che si trova a condurre, con un marito che la adora, Emma si era aspettata che l'amore fosse «un grande uccello con le ali colorate di rosa» sospeso nel cielo. Queste idee assurde, lo ammettiamo con un certo imbarazzo, le vengono dalla letteratura - facciamo nomi e cognomi: Sir Walter Scott (vergogna!) - perché all'età di quindici anni Emma divorava romanzi d'amore, pieni di giovani signore tormentate che «svenivano in padiglioni solitari» e gentiluomini che «piangevano come fontane»[1]. Quando incontra il falso, lussurioso Rodolphe, capace di adularla con un cliché dopo l'altro e farle serenate a base di margherite, lei diventa creta nelle sue mani. Se avete il sospetto di accarezzare idee altrettanto poco realistiche sull'amore romantico e il matrimonio, è necessaria una robusta dose di romanzieri realisti contemporanei: le opere di Jonathan Franzen e Zadie Smith sono un buon punto di partenza.
Anna Karenina non si impegna più di tanto nella ricerca di una via d'uscita del suo matrimonio con il conservatore Karenin, ma sicuramente riesce a esprimere fino in fondo la propria segreta vivacità con Vronskij. Quando, sulla via del ritorno a San Pietroburgo, dopo aver incontrato il giovane ufficiale durante una visita a Mosca lo vede sotto la pensilina della stazione, non riesce a impedire che le torni l'agitazione. E quando posa di nuovo lo sguardo sul marito non può tollerare il consueto sorriso «ironico» con cui lui la saluta (e nemmeno, ora che ci pensa, le sue orecchie deformate dalle cartilagini). Più forte che mai sente che sta fingendo, che il sentimento che li unisce è falso - ed è lei, di conseguenza, a sentirsi insoddisfatta. Ora che è stata con Vronskij, come può tornare a essere l'Anna di sempre intorno al freddo Karenin? Ciò che Anna scopre, inoltre e naturalmente, è che amare Vronskij comporta un certo senso di colpa. In realtà (e questa volta proviamo piacere a farlo notare), è mentre legge un romanzo su un barone travagliato dal rimorso che per la prima volta si rende conto delle emozioni che cova dentro al suo animo. Il senso di colpa e il fastidio di sé, alla fine, portano alla rovina la nostra afflitta eroina: non riuscirà mai a scrollarsi di dosso i principi e i valori intorno ai quali si è formata - soprattutto per quanto riguarda l'amore che deve a suo figlio. Quali che siano le ragioni e i torti della situazione, siate consapevoli del fatto che è difficile vivere col senso di colpa.
Una maniera più subdola di gestire il senso di colpa è mettersi sulla scia di un partner che è stato infedele per primo. Nella Londra del 1950, Patience, la protagonista di “Non vale la pena”, è una donna felicemente sposata, il cui soffocante marito Edward si aspetta da lei poco più che tenere in ordine la casa, cucinare pasti regolari, e fare il proprio dovere in camera da letto, magari pensando a quali verdure comprare per il pranzo del giorno dopo. Scoprire che Edward ha una relazione con la non tanto cattolica Molly la fa sentire stranamente sollevata. Il senso di un'imminente liberazione si concentra in fretta su Philip, uno scapolo bello e intrigante che le insegna tutti i possibili significati della parola «sesso». Patience, in un modo o nell'altro, dà il colpo di grazia al proprio matrimonio e si imbarca in una nuova vita con Philip, in maniera quasi indolore. Perfino i suoi tre bambini piccoli rimangono illesi. Il suggerimento affinché Philip mantenga il suo appartamento da scapolo - dove lui lavora e dove a volte si danno appuntamento - si dimostra particolarmente lungimirante. Forse una seconda casa è il segreto della lunga durata di un secondo amore. Purtroppo, Edward non se la cava altrettanto bene: è profondamente avvilito, il suo mondo si è capovolto, e si vede attribuire, un po' ingiustamente secondo noi, tutte le colpe. E possibile che l'adulterio vi liberi da un matrimonio senza amore per catapultarvi in un bel romanzo. Ma è anche possibile che non accada. Può darsi che non facciate altro che portarvi dietro i vostri problemi, essere travolti da sensi di colpa religiosi o personali, e tutto per lasciarvi alle spalle un altro relitto, oltre a quello di voi stessi. Il fatto è, se non vi siete sposati tardi o non siete molto fortunati - oppure siete tra i pochi fortunati a cui i genitori hanno insegnato a essere già maturi a vent'anni -, che probabilmente arriverete a un punto in cui penserete di meritare di più di quanto il vostro matrimonio, al momento, non vi permetta.
Avere una relazione non sempre distrugge un rapporto di lunga data, e se il vostro ruolo è quello del coniuge addolorato che sospetta o sa che il suo partner ha una relazione, vale la pena prendere coraggio con “L'estate senza uomini” di Siri Hustvedt - una resa intrigante del cliché dell'uomo anziano che lascia la moglie dopo trent'anni per mettersi alla prova con una versione più giovane della medesima. Quando il marito Boris le comunica di volersi prendere una «pausa» nel loro rapporto, Mia prova tutto quello che ci aspetteremmo, e che magari abbiamo provato anche noi: si sente umiliata, tradita e infuriata. Finisce a passare il tempo in un reparto psichiatrico. Dopo, tornerà alla cittadina sperduta nel Minnesota dove è cresciuta - e dove sua madre vive ancora, in un ospizio. Qui, circondata da altre donne che per un motivo o per un altro vivono senza uomini, finisce per guarire. A volte, un rapporto può trarre giovamento da una pausa drammatica dove si da voce – da parte di entrambi - alle proprie lamentele. E se non volete tornare da un partner che vi ha abbandonato, temporaneamente o in altro modo, un'estate senza uomini (o donne) potrebbe darvi la forza di andare avanti da soli.
La rottura del rapporto di fiducia provoca ferite profonde e, per molte coppie, recuperare è davvero troppo difficile. Se il vostro partner è stato infedele, dovete essere onesti l'uno con l'altro e decidere tra voi se il rapporto può essere ricostruito. Se siete voi ad avere una relazione, o a esserne tentati, provate invece a scatenare il vostro io represso all'interno del matrimonio. Se ci riuscirete, risparmierete a tutti un sacco di guai e di dolore. Inoltre, il vostro partner potrà cogliere l'occasione per diventare migliore.

Bugiardino

Tralasciamo immediatamente il libro di John Coates che non ho né conosco, cosa possiamo dire degli altri? La Karenina è presente in ben due copie nella mia libreria, una anche in formato elettronico (potenti mezzi tecnologici). Tuttavia, a parte l’incipit, che fedelmente riporto:
“Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”
Confesso che non ho ancora avuto la voglia (lo stimolo? il piacere?) di leggerlo. Prima o poi…
Invece Flaubert fu uno dei miei amori della maturità, dove febbrilmente lessi di tutti, dai viaggi a Pecuchet, dal dizionario delle idee fino a questa Bovary, che, sarà stato il clima, sarà stato il momento, mi ricordo solo con una grande fatica. Non sono, devo dire, mai riuscito ad entrare in sintonia con questo libro, e volentieri rimando a quanto viene sopra esposto.
Rimane il libro di Siri Hustvedt, che invece ho letto da poco, tanto che non ne ho ancora pubblicato ufficialmente la trama, di cui vi do quindi una succosa anteprima.
Siri Hustvedt “L’estate senza uomini” Einaudi euro 9,50
[inedito]
Una nuova, splendente, interessante entrata nella mia pur vasta biblioteca. Entrata autonoma, che ne avevo visto recensioni in giro per librerie. Scoprendo poi che l’esimia Siri è, anche, moglie di Paul Auster. Ma per la lettura e per i suoi libri, questo è un dato assolutamente marginale. La bellezza di questo testo mi ha preso sin dalle prime pagine, dove, e finalmente, c’è una donna che parla da donna. In un’atmosfera che se fosse solo ironica, ricorderebbe quel bel ritratto della metà di niente della Dunne. Ma non è solo ironica, anche se c’è l’ironia. È dolente, è coinvolgente, è cattiva, è reale come la vita. Insomma, è bella e mi è piaciuta. Anche se l’io narrante non è nelle mie corde: Mia, una donna, intelligente, poetessa, colta, ma fragile, viene lasciata dal marito Boris, neuro scienziato, colto e stronzo, che si vuole prendere una “Pausa” (che nella fattispecie è una bionda francese) dopo trenta anni di matrimonio ed una figlia più che ventenne. Mia va in pezzi, tanto da finire per una settimana in un trattamento psichiatrico. Ne esce, ma deve ricostruire se stessa e la sua fiducia nel mondo. Per questo decide di andare nel “buen retiro” dove la madre sta invecchiando per gli ultimi suoi anni insieme a sue coeve amiche. E dove decide, di tenere un corso di poesia, cui si iscrivono sette fanciulle. Questa estate senza uomini è appunto la storia di questa estate passata a Bonden nel Minnesota, e dove (appunto) gli uomini sono solo lo sfondo della scena. Necessari ma se ne può fare a meno. Mia nel percorrere i suoi giorni, percorre anche tratti della sua vita. Ricerca le sue prime esperienze sessuali. Rafforza il legame con la figlia Daisy, aspirante attrice (che non sopporta la “Pausa” del padre). Conosce queste anziane signore, ed alcune le accompagna altrove. Muore la vecchia Georgine di 102 anni. Muore la simpatica Abigail, che per tutta la vita ha fatto ricami a mano, con una perizia tale che, quando li spiega a Mia, le fa vedere le trame nascoste dei ricami. Dove compaiono suntuose e lascive scene di sesso e di eroticità. Discute con la madre il loro diverso rapporto con il padre morto alcuni anni prima. Anche lui con le sue “Pause”, ma che sempre tornava ed era accolto dalla madre. E soprattutto, la storia delle lezioni di poesia e scrittura creativa con le giovani adolescenti. Che Mia scruta, trovandole diverse dal se a quella età, diversa dalla figlia a quella età, ma con tanti punti in comune. Il branco che lotta, la “pecora nera” (cioè quella diversa, per una qualsiasi ragione) che viene sbeffeggiata, allontanata, con tantissima crudeltà (come non ricordare la crudeltà dei giovani di cui si legge nei giornali, che portano anche al suicidio le pecore nere prese di mira). Le discussioni poetiche (stupendo l’Haiku che cito in basso). Le discussioni sull’amore (non solo con le giovani, ma anche con le anziane amiche della madre, durante l’analisi di un libro di Jane Austen). Le crisi che Mia riesce ad indurre nelle giovani, e la catarsi che ne esce fuori. E quel riandare periodico da un lato all’ospedale psichiatrico ed alla dottoressa che la cura e la tira fuori di lì, e dall’altro ad episodi e momenti della vita con Boris. Finché la “Pausa” non molla Boris, e questi tenta (ci riuscirà?) di riconquistare Mia. Il tutto contrappuntato da uno scambio di mail anonimo con un mai scoperto intellettuale, che prima la prende in giro, poi si mette a discettare con lei di massimi sistemi (dalla letteratura a Kant). Ma il nodo è lì: Mia che si analizza, Mia che percorre la sua vita, Mia che deve decidere se dare una nuova possibilità a Boris, Mia con la figlia Daisy, Mia con la madre. Insomma, un TuttoMia molto intrigante. E ben scritto. Da leggere e commentare (sulle possibili declinazioni del finale). Intanto, e solo per finire, una sonora tirata d’orecchi ai curatori dell’edizione italiana, poco accurati. A pagina 96 si fa riferimento ad una citazione/episodio descritto precedentemente, indicandolo avvenuto a pagina 57. Peccato che il formato delle pagine cambi da edizione ad edizione, da originale a traduzione, e così via. Per cui, in questo libro, il riferimento andrebbe collocato come avvenuto a pagina 61. Insomma, che ci vuole ad essere attenti?
 “Ed io recitai la poesia di Ron Padgett ‘Haiku’: è stata veloce / intendo la vita.” (86)
“Un libro è una collaborazione tra chi legge e ciò che si legge e, se tutto va per il meglio, quell’unione è una storia d’amore.” (135)

Conclusioni

Le dottoresse mi sembrano spingano troppo sul versante tragico. Certo l’adulterio non è un “pranzo di gala”, ma il 50% degli antidoti porta a morte sicura. Un altro quarto porta al riproporsi della stessa situazione in un contesto diverso (e dal riassunto mi viene in mente quell’altro bellissimo libro sul tema che è “La metà di niente” della Dunne). Solo Siri ci porta prospettive nuove, anche se, come dico alla fine del commento, dopo un tradimento, si può tornare indietro? Si può tornare con il traditore? Ed a che prezzo? Qualcuno primo o poi risponderà a queste domande che a me non lasciano risposte sensate.





[1] Non è, comunque, tutta colpa dei romanzi: la ragazza conosce a memoria un secolo di canzoni d'amore e si compiace degli inebrianti cerimoniali e riti della chiesa cattolica; la campagna, inoltre, le piace solo se fa da sfondo a edifici in rovina e, almeno per questo, la colpa è solo dell'arte del diciottesimo secolo.

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