domenica 6 aprile 2014

Viaggi e leggi - 06 aprile 2014

Rovesciando la massima del quadro posto sopra la parete di fronte a me (“Chi legge è un viaggiatore”), questa settimana ci dedichiamo a libri legati agli ultimi viaggi. Vuoi perché comperato a Lisbona (Lalumière), oppure per ingannare le lunghe ore in aeroplano ritornando dal Giappone (Murakami). Vuoi perché in Marocco ci si torna sempre volentieri (Laroui) oppure perché il Sud Africa ha ancora tanto da essere scoperto (Meyer). Insomma, una manna, per noi lettori E viaggiatori.
Jean-Claude Lalumière « Le front russe » Livre de poche euro 6,47
[A: 27/07/2013– I: 16/10/2013 – T: 17/10/2013] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 210; anno 2010]
Passeggiando a luglio per Lisbona, avendo finito libri di lettura, mentre cerco qualcosa di locale (che ho recensito altrove) mi imbatto in questo economico di cui mi attira il titolo ed il lancio dell’autore come giovane promessa del 2011 (anche se all’epoca ha già 40 anni). Ma in effetti, Lalumière nasce sceneggiatore (e di talento mi si dice), e questo è realmente il suo primo romanzo. Che riprende quel tono leggermente scanzonato ben presente in una produzione (pur minore) francese, ed a volte ripresa (e localizzata) da autori italiani da Francesco Piccolo a Fabio Volo (tanto per fare dei nomi). Anche se il tono gira sul versante leggero, il romanzo è decisamente più sul tragicomico, cercando una parafrasi moderna e veloce di quel capolavoro dell’Ottocento di Balzacchiana memoria (la trilogia delle Illusioni Perdute, tanto per intenderci). Anche qui abbiamo un giovane che dalla provincia cerca di trovare sbocco alla sua supposta personalità nella grande capitale. Dove sbarca carico di sogni avendo vinto (pur risultando 78° su 80) un concorso al Ministero degli Esteri. Per coronare il suo sogno: il viaggio, l’avventura. Tutto quello che aveva dentro di sé accumulato negli anni dell’adolescenza leggendo e rileggendo tutti i numeri della rivista Géo. Ovviamente è un uomo senza qualità, ma che lui pensa di avere. Pensa di riuscire ad imporsi nel momento della necessità. Ma le avversità lo attendono a man bassa. Fa cadere in corridoio il responsabile delle risorse umane, che per punizione lo manda nell’unico posto del ministero fuori sede. Il fronte russo del titolo, dove (e siamo già negli anni post impero sovietico) si curano gli interessi delle nascenti nazioni asiatiche post unione sovietica. Con un capo fuori di testa (che pensa ci siano ancora le guerre napoleoniche), un collega che millanta viaggi (e poi si scopre andare solo in Provenza e comperare T-shirt tarocche per fingere di aver viaggiato), ed una giovane collega, Aline, con la quale intraprende una problematica relazione. Farà confusione l’unica volta che viene mandato all’estero. Assolderà una platea di tassisti per applaudire una delegazione azera. Verrà spostato al reparto comunicazione. Troverà il modo di mescolare i fogli dell’intervento di un ministro. Si inventerà una fantomatica parata soprannominata “Diplomatic Pride” (sulla falsariga del Gay Pride), che sarà flagellata dal temporale. Verrà quindi con disonore rimandato sul fronte russo, dove troverà modo di lasciarsi con Aline e di venir relegato nel suo loculo di lavoro dal nuovo capo (quello che aveva fatto cadere all’inizio). Ma tutte le disavventure non lo portano alla maturazione. Lo porteranno soltanto a recriminare, ad intristirsi e a proclamare che la vita è tutto un fallimento. Questa la parte tragica ed irrisolta, che noi lettori smaliziati ci si aspettava un pur minimo riscatto, un colpo di testa, anche se non un colpo di fortuna. E pur tuttavia, lo scritto scorre, ci doliamo con lui delle sue sconfitte (pur sapendo che molte sono da lui cercate quasi di proposito, come chi, sapendo solo affrontare disastri, ne provoca anche involontariamente, che sono l’unica cosa che sa affrontare). Una chicca nella storia è poi la parata, dove era riuscito a coinvolgere i nomi più oscuri ed effimeri della musicologia francese dagli anni sessanta ai novanta. Forse neanche i francesi doc si ricordano ancora dei Les Forbans (gruppo rock anni ’80), di Maritie e Gilbert Carpentier (un duo marito e moglie sempre dei ’60, ma morti entrambi poco dopo il 2000), di Rika Zaraï (franco-israeliana anni ’60), di Éric Charden (un solista anni ’70), di Dave (un olandese più noto in Francia che in patria), di Enrico Macias (franco-algerino diventato noto più che altro per l’appoggio al craxiano Bernard Tapie), di Daniel Guichard (un cabarettista che negli anni settanta finisce all’Olympia), di Desireless (una cantante androgina degli anni ’80), del gruppo rock Les Images (noto solo per due canzoni del 1987), o dell’unico successo di Jackie Quarts. Forse l’unico ad uscire dal coro (ma quanto noto) è Jessé Garon (considerato da Liberation uno dei 10 migliori artisti francesi, ma che pochi conoscono). Solo questa rimpatriata valeva la pena di essere riletta prima di cadere nell’oblio. Come purtroppo cadrà questo libricino, ed anche il fronte russo stesso. Non Balzac, ovvio, che consiglio di leggere a chi non lo ha ancora fatto.
« J’avais l’impression d’être loin sans être ailleurs. » [Avevo l’impressione di essere lontano senza essere altrove] (117)
« Je crois que j’ai perdu ma capacité à rêver. » [Credo di aver perso la mia capacità di sognare] (210)
« L’histoire d’une vie, c’est toujours l’histoire d’un échec. » [La storia di una vita è sempre la storia di un fallimento] (210)
Haruki Murakami “Kafka on the shore” Vintage Books euro 9
[A: 01/11/2013– I: 05/11/2013 – T: 17/11/2013] - &&&&
[tit. or.: Umibe no Kafuka; ling. or.: giapponese; pagine: 615; anno 2002]
Comperato all’aeroporto di Narita a Tokyo, per aver ancora qualcosa di giapponese da leggere nel lungo viaggio di ritorno verso casa. E visto che non conosco il giapponese, traduzione per traduzione, ho provato questa in inglese. Non so se Murakami usi molte espressioni gergali o dialettali giapponesi, ma questa traduzione di Philip Gabriel mi è sembrata onesta. Ben rende sia la velocità (o la lentezza, meglio) con cui si muovono i personaggi, sia i paesaggi che attraversano. Ed i paesaggi, in Giappone, sono molto importanti. Che tutto tende ad avere un significato. Di conseguenza, come dice un personaggio ad un certo punto, tutto tende ad essere una metafora. Purtroppo, a volte, la metafora tende ad essere troppo presente, o talmente metaforica da risultarmi criptica. Fatto sta, che, pur con innegabili momenti di bella lettura, non posso dire che questo libro mi abbia riportato le intense sensazioni del primo di Murakami che lessi, il bellissimo “Norwegian Wood”. Per me qui l’elemento di base (fuori di metafora, direi) è la crescita di un adolescente. Il quindicenne protagonista, Tamura soprannominatosi Kafka, sia in onore del grande, sia che in ceco è una specie di corvo (in particolare, la Taccola, che è un corvo socievole e monogamo). Tamura affronterà una serie di passaggi, per diventare adulto. O meglio, come gli dice Oshima, per accettare se stesso. Come dicono recensori più abili di me, Murakami ha la capacità di iniziare i suoi scritti in modo che ti prende, per cui poi è difficile smettere. Così anche qui, ben presto ci avvolge nelle spire dei due romanzi paralleli ed intersecati. La storia di Kafka Tamura da un lato. E quella di Nakata dall’altra. Il primo, quindicenne di cui sopra, è in realtà il “vero” protagonista. Ossessionato da una fosca previsione del padre famoso scultore (molto edipica, con quell’ucciderai tuo padre e “andrai” con tua madre, e poi con tua sorella) cerca di sfuggire al fato fuggendo. Rifugiandosi in un’oscura cittadina lontana da Tokyo, facendo amicizia con la simpatica Sakura, poi con Oshima che lo introduce nella bellissima biblioteca Komura diretta da Miss Saeki. Dove Kafka si rifugia, leggendo libri (sua passione), e vivendo nella stanza del vecchio amore della direttrice. Qui, Kafka si immerge anche nella visione di un quadretto, battezzato “Kafka sulla spiaggia” e nell’ascolto di un disco inciso da Saeki dallo stesso nome. Nel frattempo, in un buco temporale, si ricopre di sangue nello stesso istante in cui muore (viene ucciso?) il padre. Poi va a letto con Sakura (sarà forse la sorella fuggita quando era bambino con la madre?). Ovviamente si innamora di Miss Saeki, sia nel fantasma quindicenne che lo vuole irretire nel passato, sia nell’attuale cinquantenne, con cui fa l’amore. Per poi doversi rifugiare nei boschi della giovinezza di Oshima (che tra l’altro apprendiamo essere una donna non sviluppata che si traveste da uomo). Tutto questo intreccio è contrappuntato dalla storia di Nakata, rimasto in coma misteriosamente all’età di otto anni, per poi risvegliarsi senza avere la capacità di leggere. Nakata vive la sua vita emarginata, con l’unica abilità di parlare con i gatti. Cosa che gli serve, da pensionato, per occuparsi di ritrovare gatti smarriti. Ma che lo mette nei guai, visto che viene rapito da uno strano tipo che lo costringe ad ucciderlo. Il tipo si rivelerà essere il padre di Kafka. Nakata, dopo lo choc, capisce che deve avere una missione (“trovare la pietra dell’entrata”). E si avvia, in modo naif, verso questo compito, trovando aiuto in uno strano ragazzo, Hoshino. Che per lui lascia il lavoro, che con lui ha una sua crescita interiore inaspettata (bellissime le righe sulla musica di Beethoven). Nakata, con l’aiuto di Hoshino, troverà la pietra, e sarà da questa condotto da Miss Saeki. Proprio quando Kafka non c’è. Perché Saeki, nel disco inciso, parla di quella pietra. Il disco era dedicato ad un ragazzo poi morto. Ora Nakata chiude il cerchio con Saeki, così che la cinquantenne può trovare la sua pace. Così come la troverà Nakata, che per 70 anni ha cercato di tornare normale, cosa che potrà fare addormentandosi nella morte. E quando sono tutti via, Kafka ritorna dai boschi, e annuncia ad Oshima che ora torna a vivere. Studierà ancora a Tokyo, poi tornerà, e magari con Sakura… Raccontato così sembra “quasi” normale. Ma quante domande dietro alle “fantasie” di Murakami rimangono senza risposta. Perché Nakata va in coma? Cosa succede la notte della morte dello scultore Tamura? Perché Nakata può far piovere pesci? Come mai Kafka riesce a vedere il fantasma di Saeki quindicenne? Non arriverò a sentenziare che questo libro è tra la pattuglia dei testi sopravvalutati capeggiata da “Il signore degli anelli”. Di certo, pur apprezzandone la scrittura, lo svolgimento, spesso, mi sconcerto. Leggendolo come fosse musica, ritrovo certo i movimenti delle giornate di Tokyo, i paesaggi del Monte Fuji, i giardini ed il quartiere vecchio di Kyoto. E tutti i pranzi e le cene descritte mi riportano alle tavole imbandite del Giappone. Però questo non basta a darmi un senso positivo a tutta la vicenda, anche se leggendone in giro su libri e riviste, tanti significati vengono dati alla psicoanalisi sottesa al testo. Dove l’altro messaggio diviene “ognuno di noi è responsabile di quanto accade, anche se non ne è pienamente consapevole”. Basta forse a continuare a considerare Murakami un continente da scoprire. Soprattutto per la sua passione per il jazz, e considerando l’amore (anche qui palese) verso i gatti.
“Nothing’s going to disappear just because you can’t see what’s going on.” [Niente scompare solo perché tu non puoi vedere cosa sta succedendo.] (192)
“I wasn’t alone, but I was terribly lonely.” [Non ero solo, ma ero terribilmente in solitudine.] (327)
“Asking questions is embarrassing for a moment, but not asking’s embarrassing for a lifetime.” [Fare domande è imbarazzante per un momento, ma non farle è imbarazzante per tutta la vita.] (334)
“Whether it’s right or wrong, I accept everything that happens, and that’s how I became the person I am now.” [Che sia giusto o sbagliato, accetto tutto quello che succede, ed è così che sono diventato la persona che sono ora.] (513)
“What really has dignity, is how they die. Compared to that, he thought, how you lived doesn’t amount to much. Still, how you live determines how you die.” [Ciò che è veramente dignitoso, è il modo di morire. Rispetto a questo, pensò, come hai vissuto non significa molto. Eppure, come si vive determina come si muore.] (537)
Fouad Laroui « La vieille dame du riad » Pocket euro 15
[A: 18/01/2014– I: 18/01/2014 – T: 19/01/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: francese; pagine: 214; anno 2011]
Un nuovo autore marocchino, entrato di forza nella mia biblioteca mentre aspettavo di tornare in Italia, aggirandomi, famelicamente senza libri, per l’aeroporto di Casablanca. Rimarcandone i notevoli cambiamenti in questi ultimi dodici anni (in meglio, stranamente), tornavo come detto da una nuova visita ai siti marocchini, alle belle città e di nuovo al deserto di cui sentivo la mancanza, cercando al solito un autore per suggellare la nuova visita, mi imbatto in questo Laroui, espatriato in Europa, ingegnere, ora di stanza ad Amsterdam, e mi incuriosisce il titolo e l’accenno di storia. Perché nell’ultimo anno molti riad ho frequentato, imparandone ad apprezzare la struttura, tipicamente e solidamente marocchina, anche se poi se ne vedono esempi epigoni in tutti i paesi della conquista araba. E perché da sempre mi incuriosisce il rapporto tra Francia e Marocco, certo molto più facile da leggere di quello con l’Algeria. Ma sempre un legame tra vinti e vincitori (a patto di capire chi è l’uno e chi l’altro). Laroui, con la sua duplice conoscenza dei mondi franco – maghrebini, imbastisce una storia se vogliamo un po’ esile, ma con alcuni punti di sicuro interesse. Il nocciolo della vicenda ruota intorno a François e Cécile, due francesi con del denaro da investire e molto delusi dall’attuale mondo parigino. Pieni di idee strampalate, alla fine riescono a convergere su di un progetto, astruso forse, ma abbordabile. Investire i soldi in un riad, metterlo a nuovo, e di quello vivere. E fatalmente (direi quasi ovviamente) la scelta cade su Marrakech. Dove altrimenti può agilmente vivere un occidentale in Marocco? Assistiamo quindi allo scontro di due modi di affrontare la vita: fintamente pragmatico quello occidentale, radicato nella calma e nel dedalo relazionale della vita quello arabo. Da qui nascono i seppur non molti elementi ironici, quando vediamo i francesi cercare di trattare affari “alla francese” con i personaggi locali, che tutti si conoscono, tutti solidarizzano, tutti cercano (ognuno per la propria parte) di caverne del buono da questa vicenda. E i due francesi vengono (bonariamente e ironicamente) messi in mezzo, dal sensale di case, che propone un riad troppo a buon mercato, dal poliziotto (e amico del precedente) che avalla la sensazione che ci sia del mistero, al vicino di casa, che li convince (e noi con loro) che la vecchia che sta nel riad, è una presenza reale. Vicino che imbastisce su questo una storia (su cui torneremo), per poi convincere François e Cécile nel far diventare il riad un museo alla memoria. E quando torna sulla parete una vecchia foto di soldati marocchini durante la seconda guerra, tutto sembra dissolversi nella bontà dell’aria cittadina di Marrakech. Che sarà sempre una città del nostro cuore (e chi c’è stato capisce il perché). Il lungo intermezzo, che da un senso anche diverso allo scritto di Laroui, oltre a spiegare (forse) la presenza della vecchia signora, si incentra sulla storia di Tayeb, e della sua famiglia. Del padre che lo ebbe fuori dal matrimonio regolare, durante un matrimonio di tre anni mentre cercava di fare affari in giro per il Marocco. Della madre naturale morta di parto. Della madre adottiva, che lo tira su come uno dei suoi. E della tata, che ne fa il centro della propria vita. Attraverso Tayeb, tuttavia, la cosa più importante è che attraversiamo la storia del Marocco dall’isolazionismo pre-coloniale sino a tutta la seconda guerra mondiale. Con l’invasione francese, con il padre di Tayeb che giura di non uscire più di casa finché ci saranno gli stranieri (ed in casa morirà). Le vicende politiche “alte”, con i diversi atteggiamenti di Mohammed V, il padre della patria, e poi la ripresa politica di Hassan II, il costruttore del Marocco moderno. Con Tayeb che prima fa il separatista, poi va in guerra con l’armata marocchina contro i tedeschi, viene ferito nella battaglia di Cassino, e poi… Se ne perdono le tracce, ma la tata lo aspetterà lì in fondo al riad. Dove François, inconsapevolmente, lo riporterà. E tutto il cerchio si chiude. Lo scritto è meno “comico” di quanto vuol far credere la quarta di copertina. Ma contiene un compendio, utile e molto lucido, della storia maghrebina del ventesimo secolo. E per questo, acquista senz’altro qualche punto in più, rispetto ad una scrittura altrimenti scorrevole, ma da cui ci si poteva aspettare di più (almeno a scorrere i titoli delle altre opere di Laroui). In ogni caso, una buona lettura.
« Nous sommes tous des braconniers d’histoires. » [Siamo tutti bracconieri di storie.] (195)
Deon Meyer “Dead at Daybreak” Hodder euro 12
[A: 07/03/2014– I: 25/03/2014 – T: 29/03/2014] - &&&
[tit. or.: Orion; ling. or.: afrikaans; pagine: 394; anno 2000]
Devo ringraziare l’amica Lorella che nelle chiacchiere sudafricane, accennando a diverse possibili letture, alternative ai troppo acclamati padri nobili locali, da Gordimer (che comunque a me piace) a Coetzee (che invece non riesco sempre a leggere) mi ha indicato questo autore come una scrittura interessante. Visto in aeroporto mentre si aspettava la coincidenza per Jo’burg, preso e messo in cantiere tra i primi da leggere (quando compero qualche libro durante un viaggio, cerco sempre di anticiparne la lettura per rimanere nello spirito del viaggio). Inoltre è il primo libro originariamente scritto in afrikaans che entra nella mia libreria. Riconosco subito che Meyer mi ha fatto tornare di colpo nell’altro emisfero. Fortunatamente nelle città, che il bush e il veld non mi hanno lasciato un buon ricordo. E soprattutto, Cape Town, dove si svolge gran parte della vicenda (quando passa in macchina a Green Point, mi sbalzavano subito ricordi in testa). Pur essendo un thriller, non è comunque una pura sequenza di azioni e di ricerca della soluzione. È un thriller intriso di sudafricanità. E di afrikaner. Dal protagonista, Zatopek ‘Zet’ van Heerden, al morto che dà il via all’azione (Jacobus Smit), dalle donne che a vario titolo entrano nella storia (Joan van Heerden, la madre, Hope Benecke, l’avvocato, fino a Kara-An, mrs van As e mrs de Jager). E tocca alcune ferite aperte del mondo africano, non tanto (anche se c’è) l’apartheid, ma anche i rapporti con i vicini, e la lunga e stupida guerra con l’Angola. Inoltre è interessante il doppio registro che usa l’autore, dove i capitoli pari sono dedicati alla storia della vita di Zet e quelli dispari alla vicenda. Poiché ad un certo punto, per risolvere un’impasse, si chiede a Zet come pegno di scrivere della sua vita per ottenere un articolo sui giornali utile alla soluzione del caso. E perché la vita di Zet è complicata (come apprendiamo capitolo dopo capitolo). Un padre morto presto, una madre artista che lo alleva da sola e contro molte convenzioni, una capacità analitica notevole (a parte lo smodato e forse immotivato amore per i libri di Louis L’Amour), una promettente carriera universitaria, seppur in Scienze Forensi di Polizia, poi la svolta (legata ad un trauma infantile dovuto alla morte di una vicina di casa), la decisione di entrare in polizia. Anzi nella sezione Criminale. E per tutti e 30 i suoi capitoli (quelli pari appunto) seguiamo questa discesa verso l’abisso, con al fianco il capitano Nagel, suo mentore. Questa discesa provocherà delle sorprese alla fine, che daranno un’interpretazione allo Zet che vediamo agire nelle pagine dispari. Dove, ormai fuori dalla polizia, viene ingaggiato per rintracciare un testamento rubato dalla cassaforte del di sopra citato Smit, durante la di lui efferata uccisione. Ed è un disperato conto alla rovescia, che se non si trova il testamento in sette giorni, la di lui compagna, mrs van As, convivente non sposata, perde tutti i suoi beni. Hope, l’avvocato che lo ingaggia, è anche una paladina dei diritti delle donne. Personaggio interessante, che scopriamo ad un certo punto, quando si apre e parlando del suo mondo ci dà uno spaccato di molti percorsi di bianchi sudafricani. Era una segregazionista convinta, che vive in un ambiente bianco e segregato. Paurosa di cosa potesse succedere nel ’92, poi conquistata dalle parole di Mandela, ed inizia a guardarsi intorno, capire ed agire di conseguenza. Intanto Zet cerca di trovare qualche filo da tirare, con un inizio in sordina, che impiega almeno tre giorni per trovare il primo segnale: la carta d’identità di Smit è falsa. Usa allora i giornali per diramare una foto del morto, e riceve la telefonata di mrs de Jager che dice di essere la madre del morto, ma che a lei era stato detto essere morto quindici anni prima in Angola. Da questo punto in poi l’azione si fa serrata. Entrano in scena i Servizi Segreti militari, un sergente assassino, una banda di criminali da lui guidata e reduce appunto dall’Angola. Una combriccola di militari con qualche elemento che vi si trova dentro per caso (e che cercherà di uscirne e far perdere le tracce). Non entro in tutti i risvolti della vicenda, che vede anche coinvolto un nero trafficante in dollari amico di Zet che gli fornirà guardie del corpo quando i cattivi minacceranno di morte anche la madre Joan. Dirò solo che tutta la vicenda nasce da un equivoco (e dalla presenza di qualche esaltato nell’esercito). Durante un pattugliamento, una squadra di reclute vede di notte (siamo in Angola) dei movimenti sospetti, e fa fuori uno squadrone. Si presume nemico, invece era un errore. Sarebbe finito qui (anche se con qualche strascico penale), ma il comandante chiama la stessa squadra in missione di copertura per uno scambio tra dollari e diamanti con americani della CIA. La maggioranza della squadra, pensando di essere in pericolo per essere scoperta, decide di far fuori più gente possibile, e di fuggire con il bottino. Cosa che riesce, cosa che permette ad ognuno di tornare nascostamente in patria con molti soldi. Una parte della squadra decide di rimanere unita, l’altra usa i soldi per sparire. Finché… Il resto lo lascio a chi vuole leggerlo (ne esiste anche una traduzione italiana uscita da Piemme con il titolo “Il sapore del sangue”). Resta il libro, la storia, il Sud Africa, Zet ed il tifo che facevo quando si trova invischiato tra Hope e Kara-An (e vediamo per chi, facevo il tifo). Insomma, un libro interessante, con quei piccoli squarci sul mondo australe (e su quella guerra in Angola di cui qui poco si conosce) ed una vicenda ben intrecciata.
“Cape Town is a Mecca for the unmarried, middle-class man, the ratio of men to women in the Peninsula an attractive statistic.” [Città del Capo è una Mecca per uomini non sposati della media borghesia, il tasso di donne per uomo nella Penisola è una statistica attraente.] (288)
Come sanno i miei più anziani (temporalmente) lettori, essendo la prima trama del mese, diamo conto dei libri letti a Gennaio. Un discreto numero, si vede. Con due buone riuscite sopra media: il bel libretto di Le Goff (che purtroppo è morto pochi giorni fa) e la buona prova di Piccolo. Solo il saggio di Maria Grazia Rossi non mi ha convinto. Per il resto una discreta pattuglia di buoni gradimenti.
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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Andrea Fazioli
La sparizione
TEA
9
3
2
Jacques Le Goff
Cinque personaggi del passato per il nostro presente
Ibis
8,80
4
3
Petros Markaris
L’esattore
Bompiani
13
2
4
Maria Grazia Rossi
Il giudizio del sentimento
Editori Riuniti
s.p.
1
5
Ian Rankin
Partitura finale
TEA
10
3
6
Irene Némirovsky
Jezabel
Newton Compton
s.p.
3
7
Susanna Raule
L’ombra del commissario Sensi
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
8
Valeria Parrella
Lettera di dimissioni
Einaudi
10,50
3
9
Fouad Laroui
La vieille dame du riad
Pocket
15
3
10
Bernd Brunner
L’arte di stare sdraiati
Raffaello Cortina Editore
s.p.
2
11
Piero Colaprico & Pietro Valpreda
Le indagini del maresciallo Binda
Feltrinelli
10
3
12
Francesco Piccolo
Il desiderio di essere come tutti
Einaudi
s.p.
4
13
Pierluigi Porazzi
L’ombra del falco
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
14
Emanuele Crocetti
L’uomo murato
Sole 24 ore – Noir
6,90
2
15
Manuel Vazquez Montalban
Luis Roldàn, né vivo né morto
Feltrinelli
10
2
16
Christos Tsiolkas
Lo schiaffo
Beat
s.p.
3
17
Roberto Negro
Oltre la giustizia
Sole 24 ore – Noir
6,90
2


Diamo il benvenuto anche a nuovi lettori (cui spiegherò meglio le mie scritture con calma), e mentre non registriamo nessuna novità avventurosa, ci avviciniamo ad una Pasqua ad alta gradazione. 

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