giovedì 1 maggio 2014

Primo Maggio al femminile - 01 maggio 2014

Riprendo una tradizione un po’ tralasciata di scrivere anche nei festivi, per omaggiare la festa e le donne, infaticabili lavoratrici. Per farlo, ecco quattro esimie autrici, tutte di livello superiore alla media, con un picco nel bel libro, a suo tempo sfuggitomi, di Catherine Dunne, di cui consiglio la lettura. Senza scordare l’ottima Nemirovsky (grazie Nico), e le due italiane, la consolidata Parrella e la nuova, ma da non dimenticare, Caterina Cutolo.
Irène Némirovsky “Jezabel” Newton Compton s.p. (Natalino di Nico)
[A: 25/12/2013– I: 08/01/2014 – T: 08/01/2014] - &&&&
[tit. or.: Jézabel; ling. or.: francese; pagine: 147; anno 1936]
E dopo molto tempo torniamo alla scrittrice francese, nata ebrea e ucraina. Molto tempo è passato dalle ultime letture, iniziate sotto la spinta di una scoperta di Alessandra (direi un paio d’anni). Tuttavia è piacevole ritornarvi. Per la forza della scrittura, per l’eco che in questi anni hanno avuto i suoi scritti, e, qui, per una bella introduzione dovuta all’arguta penna di Maria Nadotti. È, infatti, nella prefazione che Maria Nadotti entra come un bisturi nella scrittura e nel modo di porre le storie da parte della nostra autrice. Ricordiamo, infatti, che Irène scrive tra il ’20 ed il ’40, in un’epoca dove la scrittura femminile non è che fosse all’apice delle iniziative di mercato. Solo autrici con spiccate tendenze di critica, di rivolta, insomma, di rottura, avevano qualche sprazzo di notorietà. La Némirovsky, qui ed in quasi tutte le sue opere, incentra lo scrivere sui rapporti. Sempre e soprattutto, tra i sessi. Il rapporto tra uomo e donna, come scrive la Nadotti, in molte opere, con questi uomini sempre distanti, distaccati, sempre alla ricerca del denaro. Ed il rapporto, velato a volte, ma sempre presente (e qui con una forza spaventosa), tra madre e figlia, ricordo del suo rapporto tormentato con una madre assente e distratta. Anche in questa prova, dura, secca, leggibile e forte, ci sono tutti gli ingredienti. A cominciare da quella Jezabel che non viene presa nel suo senso storico (anche se la regina biblica era bellissima, lussuriosa, avida e cattiva, tanto da finir sbranata dai cani dei suoi nemici), ma in quello, forse più velato, dell’Atalia di Racine, che richiama la figlia ad imprese nefaste, votandosi all’idolatria, al culto, qui, del sé e della propria persona. La Némirovsky, tra l’altro, usa una tecnica raffinata e molto “filmica” per raccontare la storia. Comincia, infatti, con il processo alla bella Gladys accusata di aver ucciso il suo amante, e per questo condannata (anche se con mitezza, che le riconosco attenuanti dovute alla confusione mentale). E poi un lungo flash-back, che ci porta dall’infanzia di Gladys alla maturità, ed a ripercorrere in dettaglio (ma da tutt’altra prospettiva) la vicenda del processo. Gladys affascinata dalla bellezza e dal potere che questa ha verso gli uomini. Gladys giovane ed instancabile, presto sposa di un marito che le dà sicurezza economica, e che dopo averle dato anche una figlia, si toglie di mezzo morendo. E lasciando al centro della scena, Gladys e la figlia Marie-Thèrese, dove la figlia sembra sempre più matura della madre. Ripercorre, in modo velato, i suoi tormenti infantili la nostra Irène, e li seziona con un bisturi dei più cattivi. Gladys, bella e sempre piacente, non vuole invecchiare, e per questo mente sull’età della figlia. E cerca di ostacolare l’amore di lei verso un lontano cugino, fino a negare il permesso alle nozze. Ma la guerra incombe e Olivier, il cugino, parte e vi muore, non prima di aver messo incinta Marie-Thèrese. Gladys nega anche questi fatti, nasconde la figlia in campagna, e quando questa muore durante il parto, dà a balia il nipote e lo cancella dalla mente, lasciandosi tutto alle spalle e tornando alla vita gaudente e parigina. Quella per cui è ammirata. Quella per cui il conte italiano la vorrebbe in sposa. Ma sposandosi dovrebbe confessare la sua età, per cui si nega, preferendo continuare a fare l’amante. Finché il nipote la rintraccia, la ricatta, minacciando di chiamarla nonna in pubblico. Che vergogna! Gladys farà di tutto, ed anche oltre per evitare tutto ciò. Noi sappiamo come finisce, che se ne legge tra la fine del processo e l’inizio del flash-back. Rimane tutta la costruzione della storia, tutta la cattiveria che l’autrice infonde in ogni riga. Sono fucilate verso le donne fatue, verso il falso mito della bellezza e della gioventù (ed il sotto-mito del denaro). Non c’è riscatto nel mondo della Némirovsky. C’è una bella e potente scrittura, che siamo contenti sia resuscitata dall’ombra dell’oblio.
“Aveva vissuto fino a diciotto anni con una madre fredda, severa, mezza pazza, una vecchia bambola truccata, a turno frivola e spaventosa, che trascinava per tutte le contrade del mondo la sua noia, sua figlia, i suoi gatti persiani.” (54)
“Come ho potuto temere di avere quarant’anni? … Ah, vorrei averli ancora! … A quarant’anni si è nel pieno delle forze, nel rigoglio, si è giovani… Sì, ma… a cinquanta… a cinquant’anni… ah, è più dura!...” (109)
Valeria Parrella “Lettera di dimissioni” Einaudi euro 10,50
[A: 03/08/2013– I: 10/01/2014 – T: 14/01/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 187; anno 2011]
Ritrovo dopo molto tempo un’autrice di cui mi ero culturalmente innamorato alle sue prime uscite. E che mi aveva restituito un po’ di fiducia nella capacità del racconto e della sua espressività. L’ho seguita con occhio laterale, leggendone ancora, anche senza assiduità ed a volte senza ritrovarne il piacere antico. Ricordo un buon romanzo, a metà tra qui e l’Argentina, con molti spunti anche se poi irrisolto. Ed ora eccone una nuova prova, che per buona parte mi riporta ai piaceri antichi della scrittura coinvolgente della Parrella. Anche se non interamente, anche se in alcune parti (e soprattutto verso il finale) si ingarbuglia un po’, stretta tra la necessità del narrare e quella dell’affermare, dell’arrivare ad una tesi, dolorosa ma autentica. La storia, quasi una lunga lettera, è quella di Clelia, anche se fino a metà del libro non ne conosciamo il nome. Che l’inizio è come un’apertura di un album di fotografie. Passano volti ed altri nomi, e si costruisce il firmamento di riferimento dell’io narrane. Ed anche se con lentezza, è la parte che rivela il gusto della narrazione che mi ha sempre colpito nella scrittrice. Vediamo la nonna Franca, i suoi ferrei ideali trasmessi alla figlia Lucia. E vediamo il nonno Riccardo, la sua sordità, il piacere del ritorno a casa della bambina e delle chiacchiere con l’anziano progenitore. Una famiglia quindi che ha ben in mente come l’agire individuale sia sempre politico. Dove Lucia troverà la sua anima gemella nel marito, amante dell’arte e sovraintendente a Pompei (e dove vedremo i guasti che la compromissione porta al tessuto generale della nostra pur bella patria, quando Clelia vede il genitore piangere sul crollo della “Casa dei Gladiatori”). I genitori di Clelia sono appunto comunisti, quella della moralità, dell’etica (tanto che, pur saltando di palo in frasca, ci sarebbe bene una citazione dal film “La terrazza” di Scola, come fa Piccolo nel libro contemporaneamente letto). Etica per cui Clelia, il fratello ed il padre, andando la domenica all’acquario dove lavora Lucia, pagano il biglietto, pur essendone esenti. E quella per cui i genitori di Clelia non accetteranno i biglietti omaggio al teatro per vedere i lavori della figlia. Poi finalmente, Clelia, viene in primo piano. Nell’Italia sconfitta degli anni Ottanta e traumatizzata nei Novanta, la giovane Clelia cerca di resistere. Fa la maschera a teatro e continua con la sua utopia artistica (bella la descrizione del suo lavoro). Gianni il suo compagno non accetta raccomandazioni per l’esame d’avvocato e sa che sarà bocciato, così come senza raccomandazioni l’amato fratello si ritrova ad insegnare al nord, in un’Italia arricchita e volgare che disprezza la scuola e la cultura. Ben presto si troverà davanti a dei bivi, quelli per cui dalla resistenza si passa all’accettazione del “male minore”, per accorgersi, ad un certo punto, che seppur minore è pur sempre “male”. Non potrà che lasciarsi con Gianni, che pur rimarrà amico e punto fermo della sua vita. Barcamenandosi tra amori inutili e ricerca di incidere in qualcosa. Come accettare l’incarico al teatro Comunale. Ma quando i tagli del FUS (ahi Rosa quanto ti ho pensato) le pongono il dilemma del licenziamento di precari pur valenti, Clelia dovrà di necessità trovarsi di fronte ai bilanci della sua vita. Portandola, inevitabilmente, alle dimissioni del titolo. E sempre facendo il parallelo con il libro di Piccolo, a quella scelta fra l’etica della prospettiva e quella della responsabilità. Il giusto agire privato sarà sempre sconfitto dal giusto agire collettivo. Noi ce la immaginiamo, avanti al foglio che sta scrivendo, ripensare a tutte le pagine che abbiamo letto. Ai genitori, alla lotta per abbattere l’osceno Jolly Hotel, al teatro di quartiere. Clelia non si riconosce più, e si domanda dove ha preso le scelte sbagliate. Perché le cose non si compiono all’improvviso, ma all’improvviso le vedi nel loro intero. Parrella ci porta a chiedere quali sono state le nostre scelte, come abbiamo agito anche noi in questo contesto. Ed io mi domando se sia ancora possibile salvare il mio comunque amato paese. Ripeto che la parte finale l’ho trovata leggermente irrisolta, forse troppo amara. Ma in fondo mi chiedo, non è forse vero che è comunque un mondo amaro questo? E forse, ci sarà possibilità di riscattarci? Io, come sempre, spero.
“Solo così funziona la menzogna, con una porzione di vero dentro.” (108)
Catherine Dunne “La metà di niente” Guanda euro 10
[A: 19/06/2013– I: 05/02/2014 – T: 08/02/2014] - &&&&&
[tit. or.: In the beginning; ling. or.: inglese; pagine: 292; anno 1995]
Dopo aver avuto un momento di popolarità, purtroppo dovuto alla citazione che ne fece Veronica Lario nella lettera aperta contro l’innominato marito, il libro era caduto un po’ nel dimenticatoio. Scaffale dopo scaffale, cercando altro, mi capita, mi ricordo, e mi dico perché no. Ed alla fine devo dire, scordiamoci Veronica, Silvio ed altre palle, e concentriamoci su un bel libro, che a volte ingenuamente, ma sempre con partecipazione, ci inserisce in una storia da cui non si riesce ad uscire. Sarà che ne abbiamo sentite molte e, purtroppo, altre toccate con mano, ma mi sono sentito subito al fianco di Rose e della sua battaglia. Una lotta per la vita che inizia una mattina di aprile quando (fulmine a ciel sereno, ma forse no), il marito Ben le annuncia che se ne va. E ora? I due hanno tre figli, dagli 8 ai 17 anni, lei è casalinga, lui lavora nella finanza. La Dunne con la sua scrittura, e con l’uso di rapidi flash-back, in poco tempo porta alla luce tutta la vicenda. E tutto il (possibile) dramma che sottende la vita di Rose. Vediamo il fidanzamento nella Dublino della metà degli anni ’70. Il matrimonio (ma sia l’amica Martha che la sorella Ellen non sono convinte). La nascita del primo figlio Damien. Ben che ha fortuna negli affari e si mette in proprio. La morte del secondo figlio ed il rinchiudersi di Rose in un bozzolo dove non arriva nessuno. Poi la nascita di Brian, il tentativo di Rose (sempre frustrato da Ben) di aver interessi propri al di fuori della famiglia. Fortuna che la domesticità è una dimensione che (in parte) piace a Rose. Mettere ordine, casa linda, cucinare per i suoi cari. Ed infine nasce anche la piccola Lisa. E Ben si trova in un centro di famiglia in cui non fa assolutamente nulla. Non propone, non aiuta, non capisce i problemi di Damien o di Brian. Fa il classico “marito” assolutamente, completamente, immancabilmente stronzo. Come dirà la madre, è un bambino viziato che ha sempre voluto tutto. E poiché Rose deve farsi in quattro per l’economia domestica, Ben non trova di meglio che invaghirsi di Caroline, la moglie del suo socio. Un anno di tresche, scopatine, ed altre mille ridicole avventure. Poi la decisione di fare una vacanza (quella per cui Ben annuncia di andarsene). E qui il grande e fatale errore dello stronzo. Mica dice a Caroline che lascia la famiglia. E quando glielo dice, questa lo manda a quel paese: per lei era una scopata senza pensieri. Dalla Spagna ritorna indietro e ricostruisce la sua vita con il marito (ed alla fine farà anche la pace con Rose). Ma la nostra Rose in tutto ciò? La prima parte, in cui seguiamo l’agnizione della nostra amica è di un dolore unico. D’improvviso “rivede tutta la sua vita, bilancio che non ha quadrato mai” (citazione della Vanoni). Si accorge di aver sempre messo tutto da parte e di non avere nulla. Troverà sempre e subito l’affetto di persone care. Prima di tutto la vicina Jane, che, senza dire troppe parole, la comprende e le da “i primi soccorsi”. In termini di aiuto quando c’è bisogno, o di ascolto. E poi c’è sempre Martha, che, anche se emigrata in Australia, sarà sempre vicina alla sua amica, tanto da tornare per un breve tempo in Inghilterra, e ritrovare la comunanza di un tempo. Tuttavia Rose deve far fronte alle necessità domestiche quotidiane: mangiare, fare la spesa, portare i figli piccoli a scuola, e via domesticando. In questo viene anche subito aiutata dal figlio grande Damien, che, pur diciassettenne, fa un salto di qualità e si pone come spalla di sostegno. Meno dai piccoli, che, ed è ovvio, stravedono per il padre. Soprattutto Brian, che farà il diavolo a quattro, rifugiandosi nei video-giochi (ed anche facendo qualche sgarro), fino a che non avrà anche lui cognizione di cosa stia accadendo. In tutto questo, tramite un passa parola, Rose viene messa in contatto con un catering, e date le sue doti culinarie, inizia a fare panini e dolcetti. Complicando viepiù la routine familiare, alzandosi all'alba, ed altre complicazioni varie. Ma in questo, e nella capacità di organizzare pranzi sontuosi, trova la via d’uscita. Prima di tutto, interiore. Capisce che, pur essendosi negata per anni, qualcosa di buono è capace a fare. Dura ed a volte senza speranza, inizia la seconda parte, quando ormai è tutto al presente. E lo stronzo fa di tutto per mettere i bastoni tra le ruote. Nega i soldi, fa di tutto per far fallire le società così da non dover mantenere la moglie. Rose mette in mezzo amici ed avvocati, ma quando Ben fugge con gli ultimi soldi, lei si ritrova ad essere quella del titolo. Ebbene, si rimbocca anche qui le maniche. Tutti le danno una mano (perfino la madre di Ben, che trova il comportamento del figlio ingiustificabile), e con un colpo di genio, aiutata dal figlio Damien e dalle amiche Jane e Martha, ottiene prestiti bancari per avviare l’attività redditizia di catering. Chiudendosi il tutto (almeno per me) quando verso la fine, risponde al telefono, e non dice: - Casa Holden, buongiorno. Ma con forza afferma: - Pronto, sono Rose Kelly! Certo, non tutte le vicende che conosciamo hanno la ventura di finire in modo positivo (anche se noi sempre lo speriamo e ne facciamo il tifo). Facendomi passare dalla rabbia, al sorriso ed alla voglia di lottare, la Dunne ci porta per mano verso un futuro che auguro a tutte le donne che hanno un Ben-marito. E a molte altre (so io chi).
Carolina Cutolo “Romanticidio” Fandango euro 10 (in realtà, scontato a 7,60 euro)
[A: 06/11/2013– I: 13/02/2014 – T: 14/02/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 197; anno 2012]
Peccato! Un libro che stava raggiungendo vertici di gradimento in tutti i settori (trama, scrittura, fattura), mi confeziona due capitoli finali che non mi convincono per nulla. E scende, scende, scende. Peccato. Certo, sono pur bravo, dall'esterno a dire e criticare. Magari, quel finale era quella che la brava Carolina aveva in mente sin dall'inizio. Ma … Vediamo un po’ meglio, e discutiamone un po’. Prima di tutto mi piace il linguaggio usato dalla scrittrice. Si sente che non è forzato, si sente che la giovinezza che esce dalle pagine non è artificiosa, ma viene da esperienze reali. Come il blog da cui l’autrice trasse il suo primo libro (“Pornoromantica”) e l’esperienza di bartender che ritroviamo sia nella descrizione dell’ambiente che circola nel Verve, locale di tendenza, sia nell'associazione a molti personaggi di un cocktail di riferimento. Anzi, questa del cocktail è una delle invenzioni più gradite del libro, sia per l’accostamento ai personaggi (che, in effetti, acquistano spessore con gli accostamenti alcolici), sia per quel mini glossario sulla preparazione e la storia dei cocktail narrati. Sia detto per inciso, personalmente, mi sento vicino al Martini Hemingway, con quel profumo di vermouth aleggiante su un letto di gin (possibilmente, per me un Bombay Sapphire). E vediamo chi osa dileggiarmi per questo. Secondo, e sostanziale, il tessuto narrativo, lungo tormentone in prima persona della protagonista, Marzia, che si trova casualmente (e ridicolmente, come descrive con arguzia e cinismo) in coma. Dalla posizione “privilegiata” di personaggio presente ma non interagente, vede scorrere nella sua camera d’ospedale il suo mondo, le persone a lei vicine, ed altro. Che, come sappiamo da libri e film su stati comatosi, parlano al corpo assente, cercando un modo di tirarlo fuori dallo stato comatoso. La capacità di Carolina, è quella di far agire i personaggi al meglio (o al peggio) in modo che si sentono capaci di dire a Marzia quello che pensano, che, spesso e volentieri, è diverso da come interagivano quando Marzia si muoveva nel mondo reale. E capiamo ben presto che si muoveva andando dritta per la sua strada, dicendo a brutto muso i suoi pensieri, senza cercare di mascherarli con senso e sentimenti, “senza strategie e finte riverenze” come dice lei stessa. Quindi in questo suo stato comatoso, si vede passare (e noi con lei) tutta la sua vita: la morte del padre per infarto, la mamma religiosa e remissiva, il nonno tirannico, Rebecca, amica del cuore e compagna di pazzie, ora trasferitasi lontano per stare con il suo amore e farci anche un figlio (scatenando fiumi di pensieri nella Marzia in punto di morte). E poi gli amici e i nemici del bar Verve: Lucrezia la gestrice e Pamela la lacchè, Vanessa, quella svenevole per amore, Massimo, il cuoco che quando può, prende e parte per il mondo in moto, e Lorenzo, l’ultimo arrivato, quello che scatenò i dubbi di Marzia sulla sua vita sregolata, quello per cui (forse) varrebbe la pena di uscire dal coma. Ma come detto, tutti i personaggi, di fronte alla moribonda, si comportano in modo che risulta spiazzante. Tanto che, benché alcuni non possa far altro che lasciarli affossare nelle loro cattiverie (ed in primis il nonno e Pamela), gli altri li rivaluta, li guarda in altre prospettive, si domanda se il suo modo cinico di affrontare la vita ha sempre lo stesso senso. La bravura di Carolina è di portare avanti per quasi duecento pagine questo monologo, senza stancarsi, senza stancarci, e senza essere ripetitivo. Ridiamo con la moribonda per i suoi tentativi di seduzione, per il suo cinismo sessuale, ne apprezziamo le crudezze verbali (quando ce vo’, ce vo’). E stiamo lì, in attesa di capire come va a finire. Che ovviamente non vi dico, rilevando solo, come detto all’inizio, che una delle idee finali mi ha convinto poco. L’utilizzo di strane patologie, come il delirio di Cotard, poteva essere evitato. Primo, perché non delucida molto (e se qualcuno si domanda cosa sia, pensi che è un disturbo rilevato al mondo negli ultimi 50 anni in non più di 100 casi, di cui l’unico acclarato è il musicista dark svedese suicida Per Yngve Ohlin). Poi perché cerca di razionalizzare il non razionalizzabile. Avrei preferito altro. Ma questa è una scelta della scrittrice, quindi va presa e valutata per quello che è (non per quello che io avrei voluto che fosse). Ma nel complesso, un'altra bella scoperta nel panorama di libri ed autori nuovi. E son contento di aver scoperto questo libro in quella pur sempre meritoria fiera di libri che è “Più libri, più liberi”. Speriamo proseguano tutti (la fiera e la scrittrice).
“[Massimo] è la prova che, anche senza progetti a lungo termine, si può vivere la vita che si vuole se ci si impegna a realizzarla.” (26)
“E certo, si sa che in pensione non si trova il tempo per far nulla.” (46)
Prima trama e lungo elenco delle letture del mese di febbraio, tante ed intense. Un mese con poche letture sotto media (saranno solo 3 su 21, e di un niente proprio). Ed una su tutte di cui parlo poche righe sopra: Dunne. E andate a rileggerla.

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Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Annamaria Fassio
Controcorrente
Mondadori
4,90
3
2
Arto Paasilinna
Piccoli suicidi tra amici
Iperborea
14
3
3
Umberto Lenzi
Delitti a Cinecittà
Mondadori
4,90
3
4
Jonathan Coe
I terribili segreti di Maxwell Sim
Feltrinelli
9,50
3
5
Gianni Biondillo
I materiali del killer
TEA
9
4
6
Catherine Dunne
La metà di niente
Guanda
10
4
7
Gianni Biondillo
Cronaca di un suicidio
Guanda
14,50
3
8
Margherita Oggero
Un colpo all’altezza del cuore
Mondadori
10
3
9
Marzia Musneci
Lune di sangue
Mondadori
4,90
3
10
Antonio Caron
La lustraressa di Vicenza
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
11
Carolina Cutolo
Romanticidio
Fandango
10
3
12
Hanif Kureishi
Nell’intimità
Bompiani
8
3
13
Elda Lanza
Niente lacrime per la signorina Olga
Salani
15
3
14
Enrico Remmert & Luca Ragagnin
L’acino fuggente
Laterza
12
3
15
Antonio Pagliaro
Il sangue degli altri
Sole 24 ore – Noir
6,90
2
16
Giorgio Scerbanenco
Al mare con la ragazza
Corriere della Sera
6,90
3
17
Giorgio Scerbanenco
Ladro contro assassino
Corriere della Sera
6,90
3
18
Qiu Xiaolong
La ragazza che danzava per Mao
Marsilio
12,50
2
19
Hans Tuzzi
Un posto sbagliato per morire
Bollati Boringhieri
9
3
20
Eduardo Mendoza
O la borsa o la vita
Feltrinelli
s.p.
2
21
Hans Tuzzi
Un enigma dal passato
Sole 24 ore – Noir
6,90
3

Ben venga Maggio, allora, sperando che qualcuno si ricordi i versi di Guccini. Anche per l’improvviso sblocco delle avventurose alchimie. Si torna anche in Turchia, e tutto sommato non dispiace. E altro si affaccia all'orizzonte.

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