Primavera solo perché è questa la
stagione in cui voi li state leggendo. Forse avrei dovuto dire saggi di Natale,
visto che ben 3 su 4 derivano dal mitico, inconfondibile, irrinunciabile
natalino dell’arabista, una tradizione
ormai che si spera di portare avanti, nonostante le diaspore delle nostre
attività. Due saggi di bell’idea ma che non mi sono piaciuti nel modo di
rendere l’idea di partenza. Due saggi di buona fattura, anche se mi aspettavo
di meglio da quello sui vini delle Langhe.
Maria Grazia Rossi “Il giudizio del sentimento” Editori Riuniti s.p.
(Natalino di Rosanna)
[A: 25/12/2013– I: 02/01/2014 – T: 07/01/2014] - &
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 142;
anno 2013]
Probabilmente
mi ripeto ancora una volta, ma ribadisco che sono sempre contento di ricevere
libri in regalo. Ciò non mi esime dal manifestare gradimento o meno verso lo
scritto. E devo dire che questo saggio di Maria Grazia Rossi non mi è piaciuto
affatto. Non tanto per l’argomento, che, al contrario, è di interesse, e merita
anche un’analisi personale più approfondita. È il metodo espositivo che mi ha
lasciato particolarmente freddo ed estraneo. La materia del saggio, infatti,
verte intorno ad una prospettiva quanto mai interessante: i giudizi, le posizioni
etiche, derivano da ragionamenti razionali o hanno una componente (piccola o
grande) di emotività? Più avanti torneremo sul tema, quello che appunto
rilevavo nel mio scarso gradimento è il tono dottorale dell’esposizione (non
che un ricercatore universitario non possa esprimersi aulicamente, ovvio). Quel
tono, come dalla frase che sotto riporto, che serve a far vedere: guarda come
so parlare bene, guarda quanti bei libri che ho letto, e come li ho capiti.
Tanto che ci costruisco su una bella teoria. Quindi più che un saggio, un libro
da docente cui serve una pubblicazione per far carriera. Anche qui, niente di
scandaloso. Ma... E qui rientriamo nel personale, non dico che si poteva costruire
un romanzo alla Jane Austen (“Ragione e Sentimento” ad esempio) o, nella punta
estrema, sviluppare un saggio comprensibile nei suoi passaggi e quindi meglio
fruibile (penso ai discorsi sull’etica di Zbigniew Baumann). Mi bastava un
passaggio molto inferiore, ma che mi ha fatto entrare molto di più nella
problematica delle decisioni morali, come il romanzo di Alexander McCall Smith
“Pratiche applicazioni di un dilemma filosofico”, letto e tramato circa otto
mesi fa (e mi riferisco al dilemma “ferroviario” di cui parlo più avanti). Ma
tolte le sovrastrutture pesanti, l’essenza del saggio è comunque interessante e
foriera di discussioni. Rossi fa un excursus (filosofico, psicologico e medico)
per portarci da una situazione di completo razionalismo (seguendo le radici pedagogiche
di Piaget) dove tutto è vagliato in termini di ragionamento, ad una situazione
che non può non essere mista. Non sarebbe possibile comportarsi e decidere
eticamente e moralmente solo sulla base di emozioni, ma c’è un continuo
riandare tra i due corni del dilemma. Solo nell’interazione tra i due, e nel
dare un giusto peso anche all’emotività, si può (o si può tentare di) spiegare
il comportamento umano. Affidarsi alla sola ragione, sicuramente risulta in un
processo che, talvolta lungo, non consente di prendere decisioni adeguate.
Convincente è quindi quella specie di darwinismo morale, che porta ad “emozionarsi”
di fronte ad una particolare situazione, e ad operare verso atteggiamenti che sicuramente
sentiamo più giusti. Per tornare al dilemma del binario (che Rossi tratta in
molte varianti), ricordo si tratta di una locomotiva che procede a folle velocità,
motivo per cui sta per travolgere cinque persone. Il soggetto “decidente” ha in
mano uno scambio ferroviario che consente di deviare il mezzo in un binario
dove ucciderebbe una sola persona. Da un punto di vista solo razionale, non si
può che agire sullo scambio. Ma che dire (e purtroppo Rossi non inserisce
questa variante tra le sue proposte) se noi sappiamo che le cinque persone sono
malvagie e l’unica persona è invece buona e caritatevole? Tuttavia a noi, e a
Rossi, non interessa al fine se agiamo o meno sullo scambio (questa sarebbe
un’applicazione pratica…) ma interessa capire quale giudizio emettiamo a fronte
dei diversi comportamenti. Per tornare e finire verso quella matrioska cognitiva
che è il nostro cervello. Sicuramente di una complessità tale (e di tale indecidibilità)
che fa sì non sia riproducibile con sinapsi elettroniche. Se la nostra morale,
il nostro comportamento fosse totalmente razionalizzabile, da tempo cultori
dell’informatica avrebbero creato reali “cervelli artificiali”. Fortunatamente,
l’emozione non è ancora stata elettrolizzata. E noi rimaniamo “unici”. Fornendo
ad ogni situazione una risposta, che (spesso, molte volte, o anche raramente) è
sentimentale. Quindi, alla fine, un contenuto molto interessante in una forma
molto deludente.
“Sosterremo che la moralità è
gerarchicamente organizzata nei termini di una pluralità di valori e che questa
gerarchia di valori sia dipendente dall’organizzazione gerarchica sottostante
delle emozioni. In questo senso, come vedremo, il riferimento alla nozione di
gerarchia … può essere certamente utilizzato come una produttiva euristica
filosofica, ma deve altresì essere impiegato per descrivere e studiare
l’organizzazione cognitiva della nostra mente-cervello quando si trova a valutare
il bene e il male.” (88)
Bernd Brunner “L’arte di stare sdraiati” Raffaello Cortina Editore s.p.
(natalino di Paola)
[A: 25/12/2013– I: 10/01/2014 – T: 20/01/2014] - & e ½
[tit. or.: Die Kunst des
Liegens; ling. or.: tedesco; pagine: 164; anno 2012]
Una
buona idea realizzata male. Ed anche un regalo significativo che ho ben
gradito, come tutti i regali di muhallima. L’idea, appunto, sia del regalo che
del libro è interessante. A me che viaggio, che non sto mai fermo, mi si
suggerisce con forza (ed io accetto con piacere) di provare una prospettiva
orizzontale (che poi è quella che generalmente assumo quando leggo i miei libri).
Accetto perché, pur continuando (e spero ancora per molto) a viaggiare, non
disdegno la fermata contemplativa, lo sguardo rilassato da prospettive diverse.
Come dimentico, il molle adagiarsi sui divani di Al-Khalili al Cairo fumando
una shesha? O l’assoluto riposo di un bagno turco ad Istanbul? Anche se il mio
top è lo stare sdraiato su di una duna dell’Akakus libico (e ci si dovrà
tornare, prima o poi). Ma veniamo al nostro mentore, che s’è un po’
tralasciato. Bernd, tedesco giramondo, nato a Berlino, si è laureato a Seattle
ed ora vive ad Istanbul, scrive i suoi libri sul labile confine tra la storia
della cultura e la storia della scienza. Fino ad ora, noto soprattutto per
quell’agile volume sull’invenzione dell’Albero di Natale. In questo inno alla
posizione in cui, bene o male, passiamo almeno un terzo della nostra vita,
l’autore cerca soprattutto di sfatare l’associazione sdraiato – ozioso.
L’essere sdraiato non è sintomo di pigrizia, né tanto meno di passività. Può
essere una necessità, può essere una pausa, può essere anche un momento
creativo. E nei vari capitoli della sua saga, Bernd cerca di dare conto di
tutte queste possibilità. Dalla storia del materasso (cominciando con gli
antichi resti di posizioni sdraiate ritrovate a Stonehenge, e che un bislacco
revisore lascia indicata come età della Pietra, cioè Stone Age) alle più
recenti scoperte nel campo della ricerca di sonno. Sdraiarsi soli o in compagnia.
Insegnare ai bambini come stare sdraiati. Ricordare i romani ed i loro
banchetti distesi (ahi, Trimalcione!). Poi allargare il campo dal letto e dallo
stare sdraiati a tutto il contorno (le stanze in cui ci si sdraia). Per non
dimenticare, poi, le differenze fondamentali tra le varie componenti
dell’universo umano. In Oriente, sdraiarsi è una componente fondamentale della
crescita del pensiero. E Buddha vi raggiunge il Nirvana, non a caso. Ma anche
nei paesi arabi, riposare il corpo, anche per brevi periodi, assume significati
molto diversi e più profondi di quanto in Occidente siamo adusi pensare. Ci
sono spigolature e momenti quasi di ilarità, come per la descrizione delle più
stravaganti invenzioni relative all’orizzontalità. Come quella, assolutamente
da provare, della doccia sdraiati. O del letto basculante. Ripeto, e l’autore
fa di tutto per ricordarcelo, che l’orizzontale è una posizione fondamentale
per le tre grandi tappe della vita: nascere, amare e morire. La prima s’è
fatta. La seconda si continua a farla. La terza non si potrà non farla, ma
possiamo riparlarne in futuro. Non dimentica poi, il nostro, autori che non
riuscivano a produrre se non sdraiati. Proust, per dirne uno. Ma anche Mark
Twain non disdegnava il letto. E che dire di Edith Wharton, che usava il letto
per non vestirsi con i busti che odiava. O il poeta Woodsworth, che componeva
sdraiato ed al buio? Quello che mi sembra meno pertinente è l’accostamento con
Michelangelo. Non è che stando sdraiato ebbe l’idea della Cappella Sistina. Ma
dovendo dipingere quella grande opera, ritenne, e giustamente, che non poteva
essere compiuta se non con una grande impalcatura che gli consentisse di
lavorare avendo la parete di fronte. Cioè sdraiato. Quindi per lui il rapporto
è praticamente rovesciato. E finiamo ribadendo con l’autore che il tempo
trascorso in orizzontale può essere prezioso, offrendo momenti di
contemplazione che spesso portano alle nostre idee migliori. Però tutti questi
elementi non sono posti nei giusti risalti, a volte la scrittura è a sprazzi,
quasi ad effetti. Ci sarebbe voluta più continuità, e probabilmente un’ancorare
meglio l’idea di fondo (ottima) all’esposizione generale (debolina). Un solo
appunto, infine, per conoscitori del tedesco. Le mie fonti danno il termine Lugens
per sdraiarsi ed utilizzano Liegens, com’è scritto sul libro, per mentire.
Spero che germanofili dotti mi possano illuminare.
“Starsene sdraiati diventa un esercizio
preliminare per maturare un pensiero più saggio, piacevolmente sottratto alla
ferrea logica che impone di scegliere tra progredire e regredire.” (21)
“Flaubert amava molto l’idea di viaggiare e
i ricordi che gliene sarebbero rimasti, ma trovava il viaggio in sé assai poco
gradevole.” (114)
Enrico Remmert & Luca Ragagnin “L’acino fuggente” Laterza euro 12
(in realtà, scontato a 7,20 euro)
[A: 10/01/2014– I: 16/02/2014 – T: 17/02/2014] - &&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 126;
anno 2013]
Pur
essendo gradevole, mi aspettavo qualcosa di meglio. Siamo nel solito e
benvoluto contesto di racconti e descrizioni inseriti in quadri altri.
Paesaggi, viaggi, insomma tutto quello che in questi anni ci ha fatto conoscere
la collana “Contromano”. Dalla Sardegna senza mare di Fois, alla Bari d’altrove
di Carofiglio, dai treni di Magrelli alle panchine di Sebaste. Ora torniamo in
Piemonte, dove spesso ci aveva accolto a mo’ di padrone di casa il buon
Culicchia, con le sue scorribande torinesi (e con un pensiero di gratitudine
alle sempre gradevoli Paola Mastrocola e Margherita Oggero). Ma fortunatamente
ci spostiamo in provincia, per non sovrapporci nelle impressioni. E che
provincia. Come dice felicemente il titolo, parliamo di zone del vino. Anzi,
come dice il sottotitolo siamo sulle strade del vino tra Monferrato, Langhe e
Roero. Sono tre zone a vocazione vinifica potente, con un’ampelografia di
valore mondiale. Partiamo dalle vette irraggiungibili, e non narrabili, del
Nebbiolo e del Barolo, per approdare ai più accessibili Barbaresco, Barbera,
Albugnano Superiore, Cisterna d’Asti, Freisa, Grignolino Malvasia di Castelnuovo,
Ruché di Castagnole, Dogliani, Roero, di qua, di là, eccetera. Utilizzando
divertissement letterari, tra veri e falsi (le magnifiche strategie oblique
illustrate dalle carte prodotte 40 anni fa da Brian Eno, esempio concretizzato
del pensiero laterale del maltese De Bono, e chi ne vuol sapere di più, ne
chieda), i nostri due scanzonati non ancora cinquantenni torinesi vanno a passo
di lumaca (ovviamente locale) per una zona limitata ad alta gradazione. Il
triangolo sud-est torinese delle valli di Roero, delle Langhe e del Monferrato
(astigiano, mi raccomando). Senza perdersi troppo, ma senza dimenticare,
descrizioni geografiche e collocazioni ambientali, Enrico e Luca ci portano tra
i castelli medioevali, le torri, e le storie (soprattutto di streghe) di cui è
pieno quel territorio che, se non fosse dedito al vino (anche) andrebbe
ricordato per aver dato i natali e lo spirito a Carlin Petrini ed al movimento
Slow Food (che non poteva che albergare in una strada dal nome eloquente: via
della Mendicità Istruita, stupendo!). Ma parlando di storie e di luoghi, come
non incontrare, ad ogni piè sospinto, parole ed opere di Beppe Fenoglio, meraviglioso
cantore della città di Alba? O passare per le terre dell’Alfieri o del Cavour,
senza ricordarne le cantine? Transitare per Santo Stefano Belbo e dimenticarsi
di Pavese? E se questi son gli uomini noti, tanti son quelli (a me) poco
conosciuti che i due vanno incontrando per via. Enologi, ristoratori,
spacciatori di tartufi, animatori. Ed ovviamente scrittori, come Davide Ruffinengo
della Val Rilate e della Libreria Therese. E poiché sarebbe lungo parlare a
fondo di cantine e di botti (e citandoli o ricordandoli ad uno ad uno, i
grappoli sarebbero troppissimi), diciamo solo che il vino c’è. Ma c’è anche il
mangiare, soprattutto la carne all’albese (battuta al coltello, ovviamente). Tanti
e tanti formaggi (dalle tome al Bra, tanto per dirne due). Ed una lunga e
poetica ricetta della Bagna Cauda (che difficilmente si sopravvive all’aglio
contenuto a pagina 47). Insomma, un libro divertente, un Baedeker dell’andar
per Langhe. E pur tuttavia, non così pungente come mi aspettavo. Si sente
qualche scollatura, qualche momento di stanchezza, qualche forzatura. Manca un
disegno unitario che sottenda il tutto. Sì, parliamo di vigne e di vigneti, di
luoghi e d’osterie, di castelli ed altre diavolerie, ma così, come appunto si
farebbe intorno ad una buona grappa, chiacchierando anche un po’ alticci. Senza
capire bene le domande altrui, ma parlandosi un poco addosso, e ripetendo
l’eterno ritornello, di qua, di là, eccetera. Certo, e devo darne atto a loro
ed a Riccardo Agnello che lo ha suggerito, l’acino fuggente, come titolo è una
delle cose migliori che abbia sentito in giro. O oste, mio oste!
“Scrivere di vini è come ballare di
architettura.” (71)
Principessa Bibesco “Nobiltà dell’abito” Sellerio s.p. (prestato da
Alessandra)
[A: 25/01/2014– I: 20/03/2014 – T: 25/03/2014] - &&&
[tit. or.: Noblesse de robe; ling. or.: francese; pagine: 143;
anno 1928]
Ero
curioso di leggere questo libro frutto di un natalino dell’arabista per
mediazione, per cui l’ho chiesto in prestito e, con le dovute calme, letto. E
devo dire apprezzato. Non che sia eccelso o imperdibile. Ma ha un suo fascino.
Per l’autrice, per la dotta e completa introduzione, e per alcuni spunti del
testo. Forse c’è anche altro, ma mi sembra che già sia abbastanza. Si diceva
dell’autrice, non particolarmente nota in Italia, se non per altri libricini
sempre dovuti al recupero infaticabile dei testi effettuato dalla Sellerio.
Marthe Bibesco nasce romena, ma si sentirà sempre figlia della Francia in cui
visse la quasi totalità dei suoi anni (e non furono certo pochi, dal 1892 al
1971), prima per scelta, poi per costrizione dopo l’annessione rumena al Patto
di Varsavia. Nasce da nobile famiglia, vive nel lusso, fa un matrimonio
d’effetto con il principe Bibesco. Ma sarà anche e sempre dedita alle lettere,
sia per frequentazione, sia per parca scrittura. Un solo cenno, l’amicizia (con
bel libricino) con Marcel Proust. Queste ed altre notizie le desumo
dall’introduzione di Rosetta Signorini (più che da Wiki che solo in francese ne
tratta). Ne esce fuori, appunto, un ritratto della prima metà del secolo
scorso, e della vitalità che, soprattutto sino al ’20 – ’30 ebbe Parigi nel
panorama internazionale. La Signorini illumina anche sul testo, che sarebbe
bello poter essere maggiormente delucidato, se non fossero passati ormai più di
ottanta anni dalla sua stesura. È come fare un salto nel tempo, e leggere un
Vanity Fair d’annata, con l’unica nota (dissonante se non stonata) che molte
citazioni, molti rimandi legati al tempo della stesura non riescono a superare
il tempo e lo spazio. La Bibesco scrive appunto per un giornale di moda questi
bozzetti. E come per i migliori racconti del Settecento francese, lo fa “in
chiave”, nascondendo con nomi e particolari fittizi, persone ben note in quegli
anni. Ed in realtà, soltanto due sono le decodifiche che ci arrivano: il
ritratto di Coco Chanel e quello di Etienne de Beaumont. Decifraggi semplici,
che moda – Parigi – Coco sono un legame indissolubile. Come lo sono i balli di
Etienne, quelli che tenevano banco per anni a Parigi (e non a caso, che dopo
uno di questi, tornato a casa bagnato e sudato, Proust si ammala e poco dopo
muore). Gli altri quindici bozzetti (l’ultimo ne parlo alla fine) sono meno palesi
(sui personaggi) ma precisi nelle impressioni. La scrittura semplice ma sempre
ricca di echi e di citazioni della Bibesco fa uscire dalle pagine tante
figurine. La sartina artefice del bel vestito che rimane “suo” fino alla
vendita (suo per la fattura, suo per le modifiche). L’addetta principale alle
vendite, quasi una principessa anche lei per come fa e disfà i guardaroba
altrui. E le donne che si intestardiscono in azioni e decisioni sbagliate:
colori fuori tempo, guanti stretti, accessori mal assortiti. Sottende a tutti
questo richiamo alla donna di usare la moda e non di essere usate da lei. Di
imporsi e non di farsi imporre. Magari cambiando idea, come fa la nostra su dei
colori che passano di moda. Le ultime pagine sono un volo quasi profetico sulle
possibilità dei nuovi mezzi espressivi di allora, come il cinematografo, di
fornire ausilio per capire la moda stessa. Anticipando quello che poteva accadere
con la pellicola, ed accadrà poi con la televisione, la Bibesco immagina una
sequenza di scene con il progredire della moda nel tempo, con il vedere salire
e scendere le acconciature, allargarsi e restringersi le gonne, modificare
accessori, passare e tornare idee. Far scorrere questo film aiuterebbe (aiuta)
a capire che la moda è “il momento”, che tutto passa, ma che tutto torna. Un
ultimo appunto anche sul titolo, quella “nobiltà” legata ai titoli (non a caso
scrivere una principessa), ma che nel tempo si era allargata alla “nobiltà
della spada” derivante da imprese militari. E dopo le rivoluzioni industriali,
in modo diverso da nazione a nazione, in “nobiltà della roba” (come non pensare
a Mastro Don Gesualdo), cioè del denaro. E qui, la nostra principessa ha buon
gioco a divertirsi con il suo francese ed il doppio senso del termine “robe”,
qui appunto utilizzato come “abito”.
“Nietzsche: non voglio una donna che mi dia
dei figli, voglio una donna che mi dia dei sogni.” (51)
“O amanti felici … un consiglio [per
facilitare] la vostra impresa sovrumana … trovare la diversità nella costanza.”
(59)
“Il mio libro non divertirà nessuno quanto
diverte me mentre lo scrivo. Fare è una forma di possesso che supera tutte le
altre: e far bene, una gioia.” (118)
E ci sta
anche bene, in finale, che, come seconda trama del mese, si possa mettere in
appendice un lemma sull’ambizione, come ci insegnano le scrittrici di “Curarsi
con i libri”. Intanto, qualche settimana di preparazione per i primi viaggi
estivi e pre-estivi. Come detto, sicuramente Turchia. Come si spera forse deserto
tunisino. E luglio? Vedremo insiemeCURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
MAGGIO 2014
Questa volta le nostre dottoresse
ci regalano un unico rimedio, a fronte di una patologia ben diffusa. Tra l’altro
la vedo ben accostata con le tematiche giovanili affrontate i mesi scorsi.
AMBIZIONE SCARSA
Il petalo
cremisi e il bianco, Michel Faber
Se vi sorprendete a seguire la
gara di tutti gli altri, e non la vostra, o addirittura vi accorgete di essere
ancora sulla linea di partenza, vi serve un romanzo per spingervi a fissare un
traguardo e poi a scattare per raggiungerlo. Non esiste libro migliore, da
questo punto di vista de “Il petalo cremisi e il bianco”.
La nostra giovane eroina inizia
la propria vita in un luogo che, per la maggior parte di noi, potrebbe sembrare
così lontano dalla possibilità stessa di competere che tanto varrebbe dichiararsi
sconfitti prima di partire. Sugar è stata costretta a prostituirsi da sua madre
alla tenera età di tredici anni, e cresce convinta di non avere altra scelta
che sottomettersi agli uomini che vengono nel suo letto per «tenerle caldo».
Lei, tuttavia, desidera elevarsi al di sopra di quell'infima esistenza. La via
che sceglie è diventare la migliore di tutto il bordello - e poi di tutta la
Gran Bretagna. Presto non solo riesce a ottenere risultati fenomenali in camera
da letto, ma anche a far sentire eloquente, spiritoso e vitale un uomo
semplicemente per il modo in cui lo ascolta e flirta con lui. Dietro a questa
apparenza affascinante, tuttavia, continua a ritenere grottesco il suo lavoro e
riversa il proprio disgusto in un romanzo che, in segreto, compone alla sua
scrivania.
La grande occasione arriva quando
incontra William Rackham delle Profumerie Rackham, che la scopre attraverso le
pagine di una rivista per soli uomini, «Baldorie a Londra». Rackham è così
innamorato di Sugar che fa in modo di ottenere l'esclusiva sulle sue
attenzioni. Alla fine lei gli diventa preziosissima, non solo per il fascino e
la bellezza ma anche per il cervello, poiché si dimostra più astuta e più
sensibile alle esigenze del suo cliente di quanto non sia egli stesso. Non
passa molto tempo prima che Sugar diventi l'ispiratrice delle sue campagne
pubblicitarie e della sua intera strategia aziendale.
Faber ritrae nei minimi dettagli
un mondo vittoriano di disuguaglianza sociale e rigide convenzioni. «Attenta a
dove metti i piedi. Stai sempre all'erta. Ti servirà» si raccomanda all'inizio
del romanzo. Seguite l'esempio di Sugar (lasciando perdere, magari, la
prostituzione) e procedete con saggezza, decidendo del vostro destino piuttosto
che di quello altrui. Per dirla con Oscar Wilde: «La nostra ambizione dovrebbe
essere governare se stessi, l'unico vero regno per ciascuno di noi».
Bugiardino
E
questa volta, pareggiamo il conto (facile tra l’altro), che quest’unico libro
sull’ambizione l’ho letto e commentato (anche se quattro anni fa). Continuo a
ritenere strano il nostro autore, che oltre a questo libro ha pubblicato una
serie di racconti in cui ritroviamo i personaggi della vicenda, primo o dopo il
corposo romanzo. Come se si aspettasse, primo o poi, di scriverne un sequel (o
un prequel). Comunque fu una lettura interessante, tanto che iniziai a parlarne
prendendomela a muso duro con l’autore.
Michel Faber “Il petalo cremisi e il
bianco” Einaudi euro 15 (in realtà, scontato 10,50 euro)
[28 marzo 2010]
Non
si lascia il lettore sospeso, a meno che non ci sia una valida ragione. E qui
non c’è! Perché già si è faticato a portare a termine le quasi 1000 pagine, e
poi si arriva ad una fine che non è una fine. Certo, l’autore è libero di
gestire al meglio i suoi personaggi, ma qui si lasciano tante ombre, che sembra
quasi voler dire: io so, e non ve lo dico!!! E poi, se si leggono racconti successivi,
si scoprono filoni ed altri pezzi che riannodano le fila. Ma andiamo con
ordine. A leggere le numerose recensioni e a vedere il considerevole spazio che
la stampa gli aveva dedicato, si poteva pensare che il romanzo di Michel Faber
fosse uno dei casi letterari più importanti degli ultimi anni e che il suo
autore sarebbe uno dei massimi talenti di recente scoperta. Ma “Il petalo
cremisi e il bianco” non è assolutamente il capolavoro che ci volevano far
credere, né è di così appassionante lettura: anzi, non sono rari i casi di una
scrittura inutilmente insistita e magari anche un po’ tirata per i capelli. Detto
questo, non si può tuttavia negare che si tratti di un libro interessante, da
vari punti di vista, e che la storia e l’ambientazione riescano ad esercitare
una certa presa sul lettore, effettivamente affascinato dalla ricostruzione. Non
è quindi un cattivo libro, ma un libro che vale la pena di leggere. A partire
proprio dall’ambientazione. Londra 1875. Dall'esile candela della sua stanza
nel bordello della terribile Mrs Castaway, Sugar, una prostituta di diciannove
anni, la più desiderata in città, cerca la via per sottrarsi al fango delle
strade. Dai vicoli luridi e malfamati Michel Faber ci guida, seguendo la
scalata di Sugar, fino allo splendore delle classi alte della società
vittoriana, dove violiamo l'intimità di personaggi terribili e fragili. Come
Rackham, il giovane erede di una grande fortuna che diverrà l'amante di Sugar e
da questa forza trarrà prima la sua vittoria e poi la sua rovina, e sua moglie,
l'angelica e infelice Agnes. Con tutto il dipanarsi delle vicende. L’ascesa e
caduta di Rackham, del fratello, la fuga verso l’oblio della pazzia di Agnes
(ma poi sarà così). E Sugar che resiste imperterrita ai buoni ed ai cattivi
venti. Ma poi non potrà che essere travolta dalla sua stessa felicità.
Nell’epoca vittoriana, una prostituta rimane sempre una prostituta, ed in un impeto
moralista, Rackham distrugge la propria vita, quella di Sugar nonché della
povera figlia sua e di Agnes (ma chi ha voglia di annodare i fili, poi si legga
“Donne in marcia…” un racconto posteriore di Faber che riprende ed annoda
alcuni fili). Certo, a volte sembra che Faber voglia costruire un best-seller,
a scapito della coerenza interna e della sua adesione ai personaggi. Ma,
ripeto, la sua capacità di farci vedere le contraddizioni di un’epoca di
passaggio dal pre al post-industriale è ammirevole. Pur tuttavia alla fine, non
posso dare un giudizio completamente positivo. Troppe le ombre che rimangono.
Troppe le cose che sospese lasciano l’amaro in bocca. Provaci ancora, Michael.
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