domenica 18 maggio 2014

Noir Italia, seconda parte - 18 maggio 2014

Torniamo, dopo un mese, alla collana di autori noir italiani di cui vi avevo parlato prima di Pasqua. Qui gli autori sono tutti “nuovi” (almeno per me), e devo dire, purtroppo, di resa più modesta delle aspettative. Partiamo dalla Liguria di Roberto Negro, che tocca uno dei punti più bassi di gradimento, per poi salire (di latitudine e gradimento) alla Vicenza di Antonio Caron, per poi scendere, in tutti i sensi, alla Palermo di Antonio Pagliaro. In questo alternarsi di scorribande, le prove finali rimontano la penisola (anche se non il piacere) verso la Modena di Luigi Guicciardi e la Milano di Massimo Cassani. Come dicevo al primo commento, una virata al noir delle passeggiate italiane di Laterza. Scopriamo nuove scritture, anche se queste non al meglio. Ma ce ne saranno di migliori.
Roberto Negro “Oltre la giustizia” Sole 24 ore – Noir Italia 17 euro 6,90
[A: 15/11/2013– I: 30/01/2014 – T: 31/01/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 139; anno 2012]
Bruttino e banale, nella parte bassa dei gradimenti della collana de “Il Sole” dove, pur nella novità e nell’inusuale, nelle letture ha finora rispettato un buon andamento. Purtroppo questo (ed il precedente Crocetti) stanno trascinando questi libri verso la categoria dei poco attraenti. Ma vediamo meglio in dettaglio il contenuto di questo Noir, ed il perché del mio duro giudizio. Cominciando, come mi insegnò la mia mentore, dall’elencare le cose positive. Certo non ci aspettiamo da meno, venendo da uno scrittore astigiano, che citi a profusione Paolo Conte. Ottimo, e buona scelta dei testi. Così come il testo di Fossati, che non può mancare se ci aggiriamo per la Liguria. Facendo con questo un doveroso omaggio a Ventimiglia (città che conosco solo di passaggio) ed in particolare a Dolceacqua, borgo limitrofo, con uno splendido Rossese, uno dei migliori doc liguri. Invece, la storia, ed il modo di presentarla, hanno buchi, passaggi veloci, ed ovvietà a profusione. Intanto, il filone principale è dato dal matto del paese, che per anni violenta la moglie davanti alla figlia di sette anni. Scoperto ed imprigionato (ma per molto poco) dal maresciallo Oliva, Checu l’abelinau (il tontolone, se tradotto; peccato che dovrebbe essere “abelinou” come riporta la canzone tormentone dei Buio Pesto) viene liberato poco dopo. E non ci mette molto a tornare in paese e far fuori moglie e figlia del maresciallo. Storia che si poteva comprendere dalle prime righe, proprio dal modo finto ingenuo di descrivere Alice ed Elisabetta, sapendo che da lì a poco ci avrebbero lasciato. Giocando sull’infermità mentale, l’avvocato di Checu riesce a fargli dare solo 8 anni di Ospedale Psichiatrico. E quando esce, qualcuno lo sequestra e brutalmente lo uccide (dopo lunghe torture). Tutti gli indizi, com’è ovvio, ricadono sull’ex-maresciallo, che, per metterci il carico da undici, cerca di suicidarsi e, non riuscendovi, di farsi uccidere dai suoi ex-colleghi. Le indagini, in tutto ciò, sono affidate ad un commissario palermitano, Vittorio Scichilone. Commissario che compare oltre la metà del libro, peccato che il suo nome sia nel sottotitolo del romanzo, a sottolinearne la presenza. Sarà forse che il Negro ha scritto vari romanzi con il sunnominato? A saperlo, saperlo… Anche noi, onesti lettori, abbiamo dei dubbi, che vediamo l’assassino bearsi appunto delle canzoni di Conte, cosa che non avrebbe mai fatto il normale maresciallo. E viepiù quando, con modalità analoghe, viene trovato ucciso e seviziato un pedofilo da poco anch’esso uscito dal carcere. Questa vicenda poteva dare una svolta a noi osservatori, peccato che del pedofilo si parli solo nelle ultime venti pagine. E sempre nelle stesse pagine, molto velocemente, rispetto al centinaio passato prima tra le storie del maresciallo, ed i sommovimenti del cuore del commissario, si chiuda tutta la vicenda. Scichilone scopre il vero assassino, sta per essere ucciso anche lui, ma il suo vice lo salva, ed il colpevole, quello che appunto come dice il titolo stava andando oltre la giustizia pensa bene di spararsi un colpo di pistola in testa. Ripeto, quindi, vicenda trita, già vista, senza particolari spunti. Anzi con spunti laterali, e parti poco funzionali alla trama, che un buon editor avrebbe convinto l’autore o ad eliminarle o a renderle più organiche alla vicenda stessa. Come le cinque pagine dedicate alla vicenda di una rapina con dei personaggi che più non entrano nella storia stessa. O le vicende sessuali del buon commissario che rivede la moglie divorziata al funerale del padre (cui assiste di lontano, essendo il padre un avvocato mafioso e lui un poliziotto onesto) e viene ripreso da rigurgiti amorosi, che sazia, con soddisfazione di tutti, con la bella Aurora. Ma che poi riprende quando sembra innamorarsi dell’ispettrice Guendalina (ma dove li va a prendere i nomi il nostro scrittore?). E mentre con queste inutili divagazioni si riempiono le pagine, si lasciano scorrere per la strada elementi che potevano essere più interessanti. Che fine fa, ad esempio, Anna la figlia di Checu che tanta parte aveva avuto nella prima incriminazione? Sparisce dopo trenta pagine e non se ne parla più. Quindi rimane un veloce libretto, da leggere al massimo in metropolitana per estraniarsi dalla folla, tanto non necessita nessun neurone da sollecitare. Dimentichiamolo.
Antonio Caron “La lustraressa di Vicenza” Sole 24 ore – Noir Italia 23 euro 6,90
[A: 13/12/2013– I: 12/02/2014 – T: 12/02/2014] - &&& e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 233; anno 2004]
Nonostante il nome molto veneto, lo scrittore Caron, Toni per gli amici, è piemontese di nascita e genovese (o quasi) di residenza. Per puro caso, la collana del Noir italiano, ce ne propone una delle prime prove, ambientata in quel di Vicenza. E non a caso, Caron, abitando a Bogliasco, ha pubblicato una decina di romanzi sul maresciallo Vitale, presso la rinomata e benemerita casa editrice dei Fratelli Frilli (quella che per prima pubblicò la Fassio delle prime imprese di Franzoni e Maffina, per chi se ne ricorda). Ora, la scrittura e la trama non sono malaccio, unico appunto, forse, un’eccessiva lunghezza dovuta al “vezzo” che ha l’autore ad ogni capitolo di fare un riassunto delle “puntate precedenti”, proprio come se fosse un romanzo pubblicato a puntate sui quotidiani dell’Ottocento (un po’ alla Dickens o alla Dumas). Il secondo punto un po’ dolente è il restare di maresciallo e moglie presso gli amici vicentini un po’ troppo per essere degli amici in visita. È vero che Vitale sta facendo una sorta di inchiesta senza dar troppo nell’occhio, tuttavia questa permanenza sembra un po’ forzata. Ma cos’è successo? Allora, Vitale e signora vanno a trovare dei conoscenti vicentini, partendo dal natio borgo di Cherasco, dove il maresciallo comanda la stazione dei carabinieri (e per tutto il romanzo ci sarà il contraltare di cosa succede a casa, con pedinamenti, assalti e ferimenti cui il nostro Seb assiste da lontano un po’ impotente un po’ incazzato). Si trovano quindi nel bel mezzo del mondo dorato vicentino, quello del Palladio, sì, ma anche dell’oreficeria e del lusso un po’ troppo ostentato. Fatte salve le stoccate su questo versante a griffe ed altro, e registrato che almeno si giri un po’ per la regione, andando a riscoprire gioielli come Marostica, Bassano del Grappa, Asolo, Treviso, ma anche Malo (quella di “Libera nos…” di Luigi Meneghello), veniamo alla trama, al noir. Con un colpo di ingegno, l’autore ci ricorda che Vicenza è anche sede di basi militari americane. Onde per cui, oltre ai problemi dei rapporti tra locali e cugini d’oltreoceano, c’è subito (anche se non se ne parla) odore di trame spionistiche ed altro. Il tutto nasce un po’ casualmente: Vitale incontra una donna di colore, che butta un pacchetto in un cestino, e poi si allontana in macchina piangendo. Il giorno dopo si scopre che è morta, uccisa da un colpo di pistola. Omicidio? Suicidio? O cosa? Vitale (per il fatto di averla vista) si sente coinvolto. Anche perché la morta viene scippata subito dagli americani, riportata in patria, e fatto scomparire anche il marito. Vitale recupera il pacchetto, che è una catena d’oro, e comincia ad indagare, aiutato dall’ospite Alvise, un po’ chiacchierone, ma ben ammanicato. Incontra il grande industriale orafo della zona, che lo aiuta con qualche dritta, ma senza esporsi. Tuttavia lo fa incontrare con la lustraressa del titolo, o meglio ex (tanto per farlo sapere al colto e all’inclita, la lustraressa è il mestiere di chi si metteva a “lustrare” cioè lucidare l’oro appena lavorato), ora padrona di una fiorente industria laterale all’oreficeria. Ma anche e soprattutto, ex-amante di tale Redento Xoso, detto Dento. Grande traffichino d’oro ed affini, che finisce poco dopo anche lui morto sparato, dopo che Vitale scopre che era l’amante della donna di colore da cui tutto ha avuto inizio. Faticosamente, ricapitolando ad ogni decina di pagine (il libro alla fine poteva essere lungo la metà), e mettendo in mezzo Sandri, un simpatico giornalista, la Olga, un’infermiera in cerca di sesso facile e senza problemi, e usando di sponda i servizi segreti americani, tutta la trama si svolge e si riavvolge, portando ad una facile conclusione. Dento era una spia al servizio di ambigui personaggi libanesi, in particolare tal Mogul Amin, ladrone di Beirut, che iniziò la carriera stuprando suore in un convento (suore che ora sono rifugiate proprio nel vicentino, ma quant’è piccolo il mondo). Spediva oro e segreti militari in Medio Oriente. Peccato che una spedizione sia tornata indietro, dall’industriale di cui sopra, che scopre le tresche ed innesca un meccanismo ad “effetto domino”. Licenzia lo Xoso, fa sapere alla Patricia di colore che è stata usata, questa si uccide con la pistola di Dento, Robert, il marito di Pat, attira in un’imboscata l’amante della moglie, e lo uccide, Amin lo scopre, lo sequestra, e lo tortura per trovare un CD con le info che Dento aveva reperito nel tempo, e poi lo uccide. Vitale, tramite la lustraressa, entra in possesso del CD, lo fa avere sottobanco ai servizi segreti americani, trova il modo di far capire (ma dopo 16 lunghi capitoli dove le forze di polizia vicentine non sono neanche interpellate) ai poliziotti chi sia Amin, come si sia invaghito di tale Celeste (anch’essa lustraressa), e via continuando tra ladri, contrabbandieri, spie ed altro. Alla fine, senza che Vitale si sporchi troppo le mani, tutto va per il verso giusto, anche il rapporto con la bella moglie Marisa (che alla fine rimedierà un bel paio d’orecchini d’oro). Insomma, con un buon editor può diventare un romanzo agile e simpatico. Così è un bel romanzo da leggere se, come me, si sta dentro il letto con la febbre e il raffreddore.
Antonio Pagliaro “Il sangue degli altri” Sole 24 ore – Noir Italia 10 euro 6,90
[A: 13/09/2013– I: 17/02/2014 – T: 19/02/2014] - && e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 267; anno 2007]
Sicuramente, pur non essendo uno scrittore di professione (risulterebbe un ricercatore in fisica), Antonio Pagliaro sa scrivere bene e sa maneggiare un’idea complessa come quella che sta alla base del ponderoso decimo volume dei Noir italiani del Sole 24 ore. E pur tuttavia, ne esce un romanzo “né carne né pesce”. Forse proprio perché troppa carne ha messo al fuoco. Ambientata, di base, nella sua natia Palermo, la storia non può prescindere da mafia e malaffare. Ma per complicare il tutto, oltre ai malavitosi locali, lo scrittore inserisce una complessa vicenda di mafia russa (e ben sappiamo, da Saviano in poi, che la mafia russa sta cercando e riuscendo ad inserirsi nel tessuto criminale italiano). E per soprannumero, l’autore ci mette anche conflitti interni russi, tra russi puri, ucraini, lettoni e, mettendoci il carico da 11, i ceceni. Inoltre, cercando collegamenti “alti”, il protagonista della vicenda non è un poliziotto, un carabiniere, un investigatore, ma un giornalista. Facendo un po’ un omaggio (tra l’altro facilmente intuibile) alla Politovskaja (e su questo, sicuramente ci associamo). Quindi, il centro della vicenda è Corrado Lo Coco, free lance legato a “L’ora” di Palermo, che aveva indagato poco prima una vicenda legata all’apertura di casinò in Sicilia. Vicenda ovviamente malavitosa, che tutti sanno il gioco d’azzardo essere un modo dei più semplici per ripulire il denaro sporco. La Trinacria, la società locale, che doveva vincere l’appalto, legata ai politici locali (e nazionali) viene però travolta da scandali, e sostituita da una cordata capeggiata da un gruppo lettone di provenienze poco chiare. E da qui si scatenano morti ed altre vicende oscure. Viene ucciso il capo della Trinacria (perché stava per sbugiardare il sindaco di Palermo ed altri politici). E viene ucciso un “russo” (che si pensa sia un ex-militare, o un profugo lettone, o un ucraino, insomma situazione confusa). Uccisione cui assiste Cinzia, la fidanzata di Corrado. Lo Coco, che, appoggiandosi al suo amico Nino tenente dei carabinieri, comincia a scoprire qualche altarino. Che il morto era un ufficiale russo, implicato in stragi cecene, poi fuggito in Lettonia, cambiata identità e diventato capo del casinò di cui sopra. Scoperto dalla polizia tedesca, cede nominalmente tutto ad un suo sodale lettone, e cerca di cambiare identità. Interviene allora un gruppo d’azione ceceno che vuole il corpo ricattando Corrado, ma fornendogli un corposo dossier sulle malefatte russe in Cecenia, ed in particolare del cattivo Kovalev. Lo Coco, da buon giornalista, vuole usare queste info per articoli ed altro. E decide (ma sembra la trama sfuggire all’autore) di andare in Cecenia, per parlare con gli uccisi dal cattivo. Si apre quindi una parentesi, un po’ forzata, ma utile per la conoscenza, che ci porta da Palermo a Mosca, poi a Grozny. Pagliaro (sicuramente ben documentato) ci parla di quelle tristi vicende, e sono belle (e cupe) le immagini che ci rimanda. Per non farci dimenticare le tristi vicende cecene. Ma non solo quelle, che tornando a Mosca incontra “le madri dei soldati”, un gruppo di donne cui i soldati (tra cui il Kovalev di cui sopra) hanno ucciso i figli. Finalmente Lo Coco e tutti i nodi poi tornano a Palermo per scoprire: che i ceceni non sono tutti buoni, che il morto non è Kovalev, che muore un altro russo, che il capo del casinò di Riga è anche lui un poco di buono, che rapisce Cinzia per non essere immischiato in interrogatori vari, che Anastasja, poliziotta russa buona, aiuta Corrado a trovare chi è morto e chi no. Alla fine, Cinzia si salva, ma i lettoni aprono comunque i casinò, con il beneplacito della Regione Siciliana, e… Insomma non possiamo certo raccontare tutto lo svolgimento. I mafiosi hanno sempre la meglio. E Pagliaro non è così cattivo da far morire i buoni. Come vedete, un po’ troppa carne, con il rischio di bruciarne un po’. Dimentichiamoci la storia noir, ma rivolgiamo ancora un saluto referente alla Politovskaja ed a tutti i giornalisti uccisi per aver cercato la verità.
Luigi Guicciardi “La morte ha mille mani” Sole 24 ore – Noir Italia 11 euro 6,90
[A: 20/12/2013– I: 28/02/2014 – T: 11/03/2014] - && e ½ 
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 299; anno 2010]
Questa volta il nostro nero italiano si sposta a Modena, dove viva anche l’autore, insegnante e storico. E qualcosa anche qui ritorna, in alcune parti centrali, e trattorie, e passeggiate, nel ricordo delle (purtroppo rare) visite al cugino fisico. Ritorna anche l’atmosfera emiliana. Meno il feeling con i personaggi, ormai da cinque – sei romanzi protagonisti dei gialli di Guicciardi. Fortunatamente, l’autore non cade nelle trappole di citare altre storie, per cui, alla fine, ci possiamo accontentare di come escono fuori i personaggi da questa forse un po’ troppo lunga storia. Che comincia con un morto che non si capisce se ucciso o solo incidentalmente travolto da una macchina. Morto eccellente, che è uno dei più noti chirurghi estetici della città. E che si trovava stranamente ad una festa di laurea di una sua allieva. C’è del torbido? Tradimenti? L’autore gioca un po’ su queste righe, per poi farci seguire la specializzanda Daniela in sue strane visite ad un malato terminale di cancro. L’ispettore Cataldo, aiutato dal fido Muliere, cerca di tenere a bada tutti i fili. La clinica del dottor Zanasi, con le sue pratiche non proprio alla luce del sole. La moglie del morto, ed i due figli, soprattutto il maschio veramente indisponente. Ma anche il malato, Francesco, un altro dei personaggi ben in vista della Modena bene. Con lo strano ed inconcludente fratello di lui Antonio, ed i suoi due figli, lo spostato Yves e la studiosa Jasmine. La storia tra Zanasi e Daniela è inesistente, che ben presto si scopre che la giovane è incinta ma di Francesco. Le cose si complicano quando viene scoperto un nuovo morto, la belloccia Clara, che si faceva fare ad anni alterni ritocchi da Zanasi, e che ne era profondamente innamorata, ma non ricambiata. Cataldo brancola, ma una prima svolta, nei suoi ragionamenti, si trova quando si cerca di far fuori anche Daniela. L’ispettore comincia ad interrogarsi sul concatenarsi degli eventi. Non sarà che le prospettive sono sballate? Anche perché Yves si comporta in modo strano, un po’ drogato un po’ innamorato. Ma di chi? L’unica che rimane fredda è la studiosa Jasmine, quella cui piacciono i gialli. Le scatole si incastrano, si ritrovano strumenti dei delitti. E la macchina investitrice è sintonizzata su una stazione che trasmette rock duro. Con molta lentezza (in effetti, il libro potrebbe essere snellito un po’), Cataldo riesce a farsi un’idea plausibile. Daniela, allieva di Zanasi, si innamora di Francesco, ricco e senza eredi diretti. Rimane incinta, e questo potrebbe creare una linea ereditaria diversa. Zanasi, distratto da sue malattie non pertinenti la trama, va alla festa di Daniela. Qualcuno (e non vi dico chi) scopre la storia tra Daniela e Francesca. Pedina Daniela, ma si fa scoprire dalla vicina Clara. Si impaurisce e prima uccide Clara, poi investe una persona che pensa sia Daniela perché andava ad aprire la macchina della studentessa. Quindi cerca di uccidere Daniela con il gas, fortuitamente salvata dall’intervento di Cataldo. Alla fine quindi i sospetti si restringono alla cerchia di Francesco. Il fratello? I nipoti, insieme o separatamente? La fine sarà in linea con i nostri ragionamenti, anche se qualche sorpresa cerca di mettere in campo l’autore, tanto per confondere le acque. Ma la fine si avvicina stancamente, e senza molto interesse. Troppa carne al fuoco, troppi tentativi di dire, mescolare, fuorviare. E troppe intenzioni da mettere dentro. La chirurgia plastica, l’ambiente “ricco” della città, gelosie, rancori. Insomma, un quasi polpettone che rimane mezzo crudo. Certo, Guicciardi non si impantana troppo. Ma neanche risolve troppo. Una via di mezzo, che alla fine non soddisfa molto il palato. Rimane la voglia di tornare a mangiare tortellini. Forse un po’ poco.
“Tutti crimini … che dimentichiamo subito. Perché … [diventano] … delitti abituali. Ecco, io dico invece che non voglio abituarmi.” (106)
“- Come te la cavi con le cipolle? – Benissimo. Quando le taglio io, sono loro che piangono.” (149)
“Sì, leggo [molti] gialli.  E stranamente, a parte l’intreccio o i misteri, ciò che mi piace di più è quello che uno meno si aspetterebbe di trovare in quelle storie lì, cioè lo sfondo monotono della vita quotidiana … quell’analisi microscopica della vita … che contiene il segreto dei fatti eccezionali che vengono a sconvolgerla.” (248)
Massimo Cassani “Pioggia battente” Sole 24 ore – Noir Italia 5 euro 6,90
[A: 08/08/2013– I: 16/03/2014 – T: 19/03/2014] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 327; anno 2009]
Una delle prime uscite della collana del Sole meritoriamente dedicata agli scrittori italiani di noir (e affini). Che ricordo è non solo dedicata agli autori, ma anche ai luoghi italiani (e ci torneremo sopra in una prossima trama). Qui si parla di Milano, dove l’autore vive, e qualche scorcio ne viene ben fuori. Qualche scorcio centrale (la passeggiata sotto la pioggia tra il Duomo e San Babila), qualche periferia (il Giambellino, per esempio), e qualche dintorno (vogliamo parlare di Lambiate Sant’Elsa?). E si parla del commissario Sandro Micozzi. Dove si apre la forbice tra la volontà dello scrittore di maneggiare una trama complessa e la resa che ne viene fuori. Intanto si evince dal testo che non è la prima uscita del commissario, dati i ripetuti accenni ad un’indagine precedente relativa alla scomparsa di qualcuno ed altri misteri, che qui vengono disvelati ma se non si è letto l’altro libro rimangono decontestualizzati. In seguito a quella vicenda il nostro protagonista è emarginato e la sua vecchia squadra dispersa. Ma un nuovo delitto, che rischia di coinvolgere personaggi in vista convince Procura e Questura a rimettere in pista, seppur di nascosto, il commissario. Esce fuori una trama di ricatti che non si spiegano, coinvolgendo un balordo ubriacone, poi ucciso nella casa dell’avvocato Bessi. Micozzi ed i suoi (l’ispettore Lariccia coinvolto in una storia extra-coniugale, l’ispettore Sodana, legatissimo al questore e per questo inviso a Micozzi, l’agente Teneriello, mago dei tabulati e dai tanti contatti, e l’agente Della Vedova, l’unica donna, dall’aspetto un po’ forte, e forse segretamente innamorata di Micozzi) vengono messi in ferie forzate e dedicate all’indagine. Che si dipana in una fine di primavera piovosa (da cui il titolo). Con la difficoltà di non sapere chi sia il morto. E con i legami (scoperti solo dopo 150 pagine) tra il morto stesso ed una escort vicina di casa del commissario. La Procura prende la palla al balzo, incrimina la povera Sofia e cerca di smantellare la squadra. Ma Micozzi è preso dai dubbi. E da altre “paturnie”: Margherita, la sua ex-moglie, cerca di coinvolgerlo in una storia illegale di adozioni, l’escort Mariolina (ma quante ce ne sono in giro) gli si attacca come un francobollo (per aiutarlo o per tenerlo d’occhio?), la bella Corinna (protagonista dell’altro libro) entra di soppiatto, scopa alla grande con il nostro, poi sparisce di nuovo, la giornalista Ambra lo coinvolge con l’amico Sigismondo in strani contesti (vuole scoop o c’è altro sotto?). Ecco tutte le storie che escono fuori dal filone principale. Che invece dovrebbe legarsi viepiù all’avvocato ed alle sue tre figlie: la dura Liliana, l’insicura Gigliola e la piccola Rosa (tutti fiori quindi). Pagina dopo pagina i misteri tendono a svelarsi (in tutto o in parte). Si scopre l’identità del morto. Si scopre che aveva tentato quindici anni prima di stuprare la bella Sofia. Si intuisce che il morto era stato ingaggiato per mettere paura all’avvocato coinvolgendo una “firma ombra” che stava in quel di Bologna. Si scopre che il numero di cellulare della bolognese e di Sofia differiscono di solo una cifra. E che il morto scriveva proprio male. Tutto confluisce poi in quel di Lambiate dove l’avvocato è anche sindaco. Dove si tenta di uccidere il commissario da parte di un ceffo che poi è l’amante di Mariolina, che nel suo appartamento ha un quadro di Sigismondo, che è un pedofilo, ed è anche confidente della Procura, e che, inopinatamente, si impicca. Con facilità (gli indizi disseminati sono tanti) si restringe il cerchio dei cattivi alle tre figlie dell’avvocato, dove qualcuna di loro lo voleva togliere di mezzo e prendersi tutto il mazzo (studio ricco, contatti politici, nonché case e coltivazioni agricole annesse). Ma quale delle tre? Non sarà la più ovvia, vi dico subito. E non quella su cui puntavo io. Alla fine questa storia avrà una sua conclusione, ma come detto sopra erano tanti i fili e non tutti si sciolgono. Chi è il procacciatore di fanciulli di Margherita? Che fine fanno Corinna e Mariolina, ad un tratto desaparecide? Perché Procura e Questura si fanno la lotta? Come proseguirà la storia lavorativa del nostro commissario? Queste le domande principali, anche se altre ce ne sono (una su tutte, ma Sigismondo chi era in realtà?), il tutto per un nero che alla fine, pur leggibile, non regge le trecento pagine di intrecci complessi. Alla fine è un po’ stancante e poco coinvolgente. Una prova in minore. Un solo commento a margine, per lodare la cultura musicale (a me affine) di Sigismondo che in un breve intervento sulla musica italiana riesce a citare: i Nuovi Angeli, gli Homo Sapiens, i Collage, Umberto Balsamo e niente popò di meno Michele Pecora. Un punto in più (ma solo) per questo.
Mi sa che per questo mese di maggio dovremo salutarci, che sabato si parte per dieci giorni in Turchia, tra Istanbul e la Cappadocia. Per il resto, amici – lettori, tutto procede, zoppicando, con un po’ di stanchezza, e lamentandosi (perché no) di trovare poco tempo per fare tutte le cose che si vorrebbe.

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