Torniamo, dopo un mese, alla
collana di autori noir italiani di cui vi avevo parlato prima di Pasqua. Qui
gli autori sono tutti “nuovi” (almeno per me), e devo dire, purtroppo, di resa
più modesta delle aspettative. Partiamo dalla Liguria di Roberto Negro, che
tocca uno dei punti più bassi di gradimento, per poi salire (di latitudine e
gradimento) alla Vicenza di Antonio Caron, per poi scendere, in tutti i sensi,
alla Palermo di Antonio Pagliaro. In questo alternarsi di scorribande, le prove
finali rimontano la penisola (anche se non il piacere) verso la Modena di Luigi
Guicciardi e la Milano di Massimo Cassani. Come dicevo al primo commento, una
virata al noir delle passeggiate italiane di Laterza. Scopriamo nuove scritture,
anche se queste non al meglio. Ma ce ne saranno di migliori.
Roberto Negro “Oltre la giustizia” Sole 24 ore – Noir Italia 17 euro
6,90
[A: 15/11/2013– I: 30/01/2014 – T: 31/01/2014] - & e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 139;
anno 2012]
Bruttino
e banale, nella parte bassa dei gradimenti della collana de “Il Sole” dove, pur
nella novità e nell’inusuale, nelle letture ha finora rispettato un buon
andamento. Purtroppo questo (ed il precedente Crocetti) stanno trascinando
questi libri verso la categoria dei poco attraenti. Ma vediamo meglio in dettaglio
il contenuto di questo Noir, ed il perché del mio duro giudizio. Cominciando,
come mi insegnò la mia mentore, dall’elencare le cose positive. Certo non ci
aspettiamo da meno, venendo da uno scrittore astigiano, che citi a profusione
Paolo Conte. Ottimo, e buona scelta dei testi. Così come il testo di Fossati,
che non può mancare se ci aggiriamo per la Liguria. Facendo con questo un
doveroso omaggio a Ventimiglia (città che conosco solo di passaggio) ed in
particolare a Dolceacqua, borgo limitrofo, con uno splendido Rossese, uno dei
migliori doc liguri. Invece, la storia, ed il modo di presentarla, hanno buchi,
passaggi veloci, ed ovvietà a profusione. Intanto, il filone principale è dato
dal matto del paese, che per anni violenta la moglie davanti alla figlia di sette
anni. Scoperto ed imprigionato (ma per molto poco) dal maresciallo Oliva, Checu
l’abelinau (il tontolone, se tradotto; peccato che dovrebbe essere “abelinou”
come riporta la canzone tormentone dei Buio Pesto) viene liberato poco dopo. E
non ci mette molto a tornare in paese e far fuori moglie e figlia del
maresciallo. Storia che si poteva comprendere dalle prime righe, proprio dal
modo finto ingenuo di descrivere Alice ed Elisabetta, sapendo che da lì a poco
ci avrebbero lasciato. Giocando sull’infermità mentale, l’avvocato di Checu
riesce a fargli dare solo 8 anni di Ospedale Psichiatrico. E quando esce,
qualcuno lo sequestra e brutalmente lo uccide (dopo lunghe torture). Tutti gli
indizi, com’è ovvio, ricadono sull’ex-maresciallo, che, per metterci il carico
da undici, cerca di suicidarsi e, non riuscendovi, di farsi uccidere dai suoi
ex-colleghi. Le indagini, in tutto ciò, sono affidate ad un commissario
palermitano, Vittorio Scichilone. Commissario che compare oltre la metà del
libro, peccato che il suo nome sia nel sottotitolo del romanzo, a sottolinearne
la presenza. Sarà forse che il Negro ha scritto vari romanzi con il
sunnominato? A saperlo, saperlo… Anche noi, onesti lettori, abbiamo dei dubbi,
che vediamo l’assassino bearsi appunto delle canzoni di Conte, cosa che non
avrebbe mai fatto il normale maresciallo. E viepiù quando, con modalità analoghe,
viene trovato ucciso e seviziato un pedofilo da poco anch’esso uscito dal carcere.
Questa vicenda poteva dare una svolta a noi osservatori, peccato che del
pedofilo si parli solo nelle ultime venti pagine. E sempre nelle stesse pagine,
molto velocemente, rispetto al centinaio passato prima tra le storie del
maresciallo, ed i sommovimenti del cuore del commissario, si chiuda tutta la
vicenda. Scichilone scopre il vero assassino, sta per essere ucciso anche lui,
ma il suo vice lo salva, ed il colpevole, quello che appunto come dice il
titolo stava andando oltre la giustizia pensa bene di spararsi un colpo di
pistola in testa. Ripeto, quindi, vicenda trita, già vista, senza particolari
spunti. Anzi con spunti laterali, e parti poco funzionali alla trama, che un
buon editor avrebbe convinto l’autore o ad eliminarle o a renderle più
organiche alla vicenda stessa. Come le cinque pagine dedicate alla vicenda di
una rapina con dei personaggi che più non entrano nella storia stessa. O le
vicende sessuali del buon commissario che rivede la moglie divorziata al funerale
del padre (cui assiste di lontano, essendo il padre un avvocato mafioso e lui
un poliziotto onesto) e viene ripreso da rigurgiti amorosi, che sazia, con
soddisfazione di tutti, con la bella Aurora. Ma che poi riprende quando sembra
innamorarsi dell’ispettrice Guendalina (ma dove li va a prendere i nomi il
nostro scrittore?). E mentre con queste inutili divagazioni si riempiono le
pagine, si lasciano scorrere per la strada elementi che potevano essere più
interessanti. Che fine fa, ad esempio, Anna la figlia di Checu che tanta parte
aveva avuto nella prima incriminazione? Sparisce dopo trenta pagine e non se ne
parla più. Quindi rimane un veloce libretto, da leggere al massimo in
metropolitana per estraniarsi dalla folla, tanto non necessita nessun neurone
da sollecitare. Dimentichiamolo.
Antonio Caron “La lustraressa di Vicenza” Sole 24 ore – Noir Italia 23
euro 6,90
[A: 13/12/2013– I: 12/02/2014 – T: 12/02/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 233;
anno 2004]
Nonostante
il nome molto veneto, lo scrittore Caron, Toni per gli amici, è piemontese di
nascita e genovese (o quasi) di residenza. Per puro caso, la collana del Noir
italiano, ce ne propone una delle prime prove, ambientata in quel di Vicenza. E
non a caso, Caron, abitando a Bogliasco, ha pubblicato una decina di romanzi
sul maresciallo Vitale, presso la rinomata e benemerita casa editrice dei
Fratelli Frilli (quella che per prima pubblicò la Fassio delle prime imprese di
Franzoni e Maffina, per chi se ne ricorda). Ora, la scrittura e la trama non
sono malaccio, unico appunto, forse, un’eccessiva lunghezza dovuta al “vezzo”
che ha l’autore ad ogni capitolo di fare un riassunto delle “puntate
precedenti”, proprio come se fosse un romanzo pubblicato a puntate sui
quotidiani dell’Ottocento (un po’ alla Dickens o alla Dumas). Il secondo punto
un po’ dolente è il restare di maresciallo e moglie presso gli amici vicentini
un po’ troppo per essere degli amici in visita. È vero che Vitale sta facendo
una sorta di inchiesta senza dar troppo nell’occhio, tuttavia questa permanenza
sembra un po’ forzata. Ma cos’è successo? Allora, Vitale e signora vanno a
trovare dei conoscenti vicentini, partendo dal natio borgo di Cherasco, dove il
maresciallo comanda la stazione dei carabinieri (e per tutto il romanzo ci sarà
il contraltare di cosa succede a casa, con pedinamenti, assalti e ferimenti cui
il nostro Seb assiste da lontano un po’ impotente un po’ incazzato). Si trovano
quindi nel bel mezzo del mondo dorato vicentino, quello del Palladio, sì, ma
anche dell’oreficeria e del lusso un po’ troppo ostentato. Fatte salve le
stoccate su questo versante a griffe ed altro, e registrato che almeno si giri
un po’ per la regione, andando a riscoprire gioielli come Marostica, Bassano
del Grappa, Asolo, Treviso, ma anche Malo (quella di “Libera nos…” di Luigi
Meneghello), veniamo alla trama, al noir. Con un colpo di ingegno, l’autore ci
ricorda che Vicenza è anche sede di basi militari americane. Onde per cui,
oltre ai problemi dei rapporti tra locali e cugini d’oltreoceano, c’è subito
(anche se non se ne parla) odore di trame spionistiche ed altro. Il tutto nasce
un po’ casualmente: Vitale incontra una donna di colore, che butta un pacchetto
in un cestino, e poi si allontana in macchina piangendo. Il giorno dopo si
scopre che è morta, uccisa da un colpo di pistola. Omicidio? Suicidio? O cosa?
Vitale (per il fatto di averla vista) si sente coinvolto. Anche perché la morta
viene scippata subito dagli americani, riportata in patria, e fatto scomparire
anche il marito. Vitale recupera il pacchetto, che è una catena d’oro, e
comincia ad indagare, aiutato dall’ospite Alvise, un po’ chiacchierone, ma ben
ammanicato. Incontra il grande industriale orafo della zona, che lo aiuta con
qualche dritta, ma senza esporsi. Tuttavia lo fa incontrare con la lustraressa
del titolo, o meglio ex (tanto per farlo sapere al colto e all’inclita, la
lustraressa è il mestiere di chi si metteva a “lustrare” cioè lucidare l’oro
appena lavorato), ora padrona di una fiorente industria laterale
all’oreficeria. Ma anche e soprattutto, ex-amante di tale Redento Xoso, detto
Dento. Grande traffichino d’oro ed affini, che finisce poco dopo anche lui
morto sparato, dopo che Vitale scopre che era l’amante della donna di colore da
cui tutto ha avuto inizio. Faticosamente, ricapitolando ad ogni decina di
pagine (il libro alla fine poteva essere lungo la metà), e mettendo in mezzo
Sandri, un simpatico giornalista, la Olga, un’infermiera in cerca di sesso
facile e senza problemi, e usando di sponda i servizi segreti americani, tutta
la trama si svolge e si riavvolge, portando ad una facile conclusione. Dento
era una spia al servizio di ambigui personaggi libanesi, in particolare tal
Mogul Amin, ladrone di Beirut, che iniziò la carriera stuprando suore in un
convento (suore che ora sono rifugiate proprio nel vicentino, ma quant’è
piccolo il mondo). Spediva oro e segreti militari in Medio Oriente. Peccato che
una spedizione sia tornata indietro, dall’industriale di cui sopra, che scopre
le tresche ed innesca un meccanismo ad “effetto domino”. Licenzia lo Xoso, fa
sapere alla Patricia di colore che è stata usata, questa si uccide con la
pistola di Dento, Robert, il marito di Pat, attira in un’imboscata l’amante
della moglie, e lo uccide, Amin lo scopre, lo sequestra, e lo tortura per
trovare un CD con le info che Dento aveva reperito nel tempo, e poi lo uccide.
Vitale, tramite la lustraressa, entra in possesso del CD, lo fa avere
sottobanco ai servizi segreti americani, trova il modo di far capire (ma dopo
16 lunghi capitoli dove le forze di polizia vicentine non sono neanche
interpellate) ai poliziotti chi sia Amin, come si sia invaghito di tale Celeste
(anch’essa lustraressa), e via continuando tra ladri, contrabbandieri, spie ed
altro. Alla fine, senza che Vitale si sporchi troppo le mani, tutto va per il
verso giusto, anche il rapporto con la bella moglie Marisa (che alla fine rimedierà
un bel paio d’orecchini d’oro). Insomma, con un buon editor può diventare un
romanzo agile e simpatico. Così è un bel romanzo da leggere se, come me, si sta
dentro il letto con la febbre e il raffreddore.
Antonio Pagliaro “Il sangue degli altri” Sole 24 ore – Noir Italia 10
euro 6,90
[A: 13/09/2013– I: 17/02/2014 – T: 19/02/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 267;
anno 2007]
Sicuramente,
pur non essendo uno scrittore di professione (risulterebbe un ricercatore in
fisica), Antonio Pagliaro sa scrivere bene e sa maneggiare un’idea complessa
come quella che sta alla base del ponderoso decimo volume dei Noir italiani del
Sole 24 ore. E pur tuttavia, ne esce un romanzo “né carne né pesce”. Forse
proprio perché troppa carne ha messo al fuoco. Ambientata, di base, nella sua
natia Palermo, la storia non può prescindere da mafia e malaffare. Ma per complicare
il tutto, oltre ai malavitosi locali, lo scrittore inserisce una complessa vicenda
di mafia russa (e ben sappiamo, da Saviano in poi, che la mafia russa sta
cercando e riuscendo ad inserirsi nel tessuto criminale italiano). E per
soprannumero, l’autore ci mette anche conflitti interni russi, tra russi puri,
ucraini, lettoni e, mettendoci il carico da 11, i ceceni. Inoltre, cercando
collegamenti “alti”, il protagonista della vicenda non è un poliziotto, un
carabiniere, un investigatore, ma un giornalista. Facendo un po’ un omaggio
(tra l’altro facilmente intuibile) alla Politovskaja (e su questo, sicuramente
ci associamo). Quindi, il centro della vicenda è Corrado Lo Coco, free lance
legato a “L’ora” di Palermo, che aveva indagato poco prima una vicenda legata
all’apertura di casinò in Sicilia. Vicenda ovviamente malavitosa, che tutti
sanno il gioco d’azzardo essere un modo dei più semplici per ripulire il denaro
sporco. La Trinacria, la società locale, che doveva vincere l’appalto, legata
ai politici locali (e nazionali) viene però travolta da scandali, e sostituita
da una cordata capeggiata da un gruppo lettone di provenienze poco chiare. E da
qui si scatenano morti ed altre vicende oscure. Viene ucciso il capo della
Trinacria (perché stava per sbugiardare il sindaco di Palermo ed altri politici).
E viene ucciso un “russo” (che si pensa sia un ex-militare, o un profugo lettone,
o un ucraino, insomma situazione confusa). Uccisione cui assiste Cinzia, la
fidanzata di Corrado. Lo Coco, che, appoggiandosi al suo amico Nino tenente dei
carabinieri, comincia a scoprire qualche altarino. Che il morto era un
ufficiale russo, implicato in stragi cecene, poi fuggito in Lettonia, cambiata
identità e diventato capo del casinò di cui sopra. Scoperto dalla polizia
tedesca, cede nominalmente tutto ad un suo sodale lettone, e cerca di cambiare
identità. Interviene allora un gruppo d’azione ceceno che vuole il corpo
ricattando Corrado, ma fornendogli un corposo dossier sulle malefatte russe in
Cecenia, ed in particolare del cattivo Kovalev. Lo Coco, da buon giornalista,
vuole usare queste info per articoli ed altro. E decide (ma sembra la trama
sfuggire all’autore) di andare in Cecenia, per parlare con gli uccisi dal
cattivo. Si apre quindi una parentesi, un po’ forzata, ma utile per la
conoscenza, che ci porta da Palermo a Mosca, poi a Grozny. Pagliaro (sicuramente
ben documentato) ci parla di quelle tristi vicende, e sono belle (e cupe) le
immagini che ci rimanda. Per non farci dimenticare le tristi vicende cecene. Ma
non solo quelle, che tornando a Mosca incontra “le madri dei soldati”, un
gruppo di donne cui i soldati (tra cui il Kovalev di cui sopra) hanno ucciso i
figli. Finalmente Lo Coco e tutti i nodi poi tornano a Palermo per scoprire:
che i ceceni non sono tutti buoni, che il morto non è Kovalev, che muore un
altro russo, che il capo del casinò di Riga è anche lui un poco di buono, che
rapisce Cinzia per non essere immischiato in interrogatori vari, che Anastasja,
poliziotta russa buona, aiuta Corrado a trovare chi è morto e chi no. Alla
fine, Cinzia si salva, ma i lettoni aprono comunque i casinò, con il
beneplacito della Regione Siciliana, e… Insomma non possiamo certo raccontare
tutto lo svolgimento. I mafiosi hanno sempre la meglio. E Pagliaro non è così
cattivo da far morire i buoni. Come vedete, un po’ troppa carne, con il rischio
di bruciarne un po’. Dimentichiamoci la storia noir, ma rivolgiamo ancora un
saluto referente alla Politovskaja ed a tutti i giornalisti uccisi per aver
cercato la verità.
Luigi Guicciardi “La morte ha mille mani” Sole 24 ore – Noir Italia 11
euro 6,90
[A: 20/12/2013– I: 28/02/2014 – T: 11/03/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 299;
anno 2010]
Questa
volta il nostro nero italiano si sposta a Modena, dove viva anche l’autore,
insegnante e storico. E qualcosa anche qui ritorna, in alcune parti centrali, e
trattorie, e passeggiate, nel ricordo delle (purtroppo rare) visite al cugino
fisico. Ritorna anche l’atmosfera emiliana. Meno il feeling con i personaggi,
ormai da cinque – sei romanzi protagonisti dei gialli di Guicciardi.
Fortunatamente, l’autore non cade nelle trappole di citare altre storie, per
cui, alla fine, ci possiamo accontentare di come escono fuori i personaggi da
questa forse un po’ troppo lunga storia. Che comincia con un morto che non si
capisce se ucciso o solo incidentalmente travolto da una macchina. Morto eccellente,
che è uno dei più noti chirurghi estetici della città. E che si trovava
stranamente ad una festa di laurea di una sua allieva. C’è del torbido?
Tradimenti? L’autore gioca un po’ su queste righe, per poi farci seguire la
specializzanda Daniela in sue strane visite ad un malato terminale di cancro.
L’ispettore Cataldo, aiutato dal fido Muliere, cerca di tenere a bada tutti i
fili. La clinica del dottor Zanasi, con le sue pratiche non proprio alla luce
del sole. La moglie del morto, ed i due figli, soprattutto il maschio veramente
indisponente. Ma anche il malato, Francesco, un altro dei personaggi ben in
vista della Modena bene. Con lo strano ed inconcludente fratello di lui Antonio,
ed i suoi due figli, lo spostato Yves e la studiosa Jasmine. La storia tra
Zanasi e Daniela è inesistente, che ben presto si scopre che la giovane è
incinta ma di Francesco. Le cose si complicano quando viene scoperto un nuovo
morto, la belloccia Clara, che si faceva fare ad anni alterni ritocchi da
Zanasi, e che ne era profondamente innamorata, ma non ricambiata. Cataldo
brancola, ma una prima svolta, nei suoi ragionamenti, si trova quando si cerca
di far fuori anche Daniela. L’ispettore comincia ad interrogarsi sul concatenarsi
degli eventi. Non sarà che le prospettive sono sballate? Anche perché Yves si
comporta in modo strano, un po’ drogato un po’ innamorato. Ma di chi? L’unica
che rimane fredda è la studiosa Jasmine, quella cui piacciono i gialli. Le
scatole si incastrano, si ritrovano strumenti dei delitti. E la macchina
investitrice è sintonizzata su una stazione che trasmette rock duro. Con molta
lentezza (in effetti, il libro potrebbe essere snellito un po’), Cataldo riesce
a farsi un’idea plausibile. Daniela, allieva di Zanasi, si innamora di
Francesco, ricco e senza eredi diretti. Rimane incinta, e questo potrebbe
creare una linea ereditaria diversa. Zanasi, distratto da sue malattie non
pertinenti la trama, va alla festa di Daniela. Qualcuno (e non vi dico chi)
scopre la storia tra Daniela e Francesca. Pedina Daniela, ma si fa scoprire
dalla vicina Clara. Si impaurisce e prima uccide Clara, poi investe una persona
che pensa sia Daniela perché andava ad aprire la macchina della studentessa.
Quindi cerca di uccidere Daniela con il gas, fortuitamente salvata
dall’intervento di Cataldo. Alla fine quindi i sospetti si restringono alla
cerchia di Francesco. Il fratello? I nipoti, insieme o separatamente? La fine
sarà in linea con i nostri ragionamenti, anche se qualche sorpresa cerca di
mettere in campo l’autore, tanto per confondere le acque. Ma la fine si
avvicina stancamente, e senza molto interesse. Troppa carne al fuoco, troppi
tentativi di dire, mescolare, fuorviare. E troppe intenzioni da mettere dentro.
La chirurgia plastica, l’ambiente “ricco” della città, gelosie, rancori.
Insomma, un quasi polpettone che rimane mezzo crudo. Certo, Guicciardi non si
impantana troppo. Ma neanche risolve troppo. Una via di mezzo, che alla fine
non soddisfa molto il palato. Rimane la voglia di tornare a mangiare
tortellini. Forse un po’ poco.
“Tutti crimini … che dimentichiamo subito.
Perché … [diventano] … delitti abituali. Ecco, io dico invece che non voglio
abituarmi.” (106)
“- Come te la cavi con le cipolle? – Benissimo.
Quando le taglio io, sono loro che piangono.” (149)
“Sì, leggo [molti] gialli. E stranamente, a parte l’intreccio o i
misteri, ciò che mi piace di più è quello che uno meno si aspetterebbe di
trovare in quelle storie lì, cioè lo sfondo monotono della vita quotidiana …
quell’analisi microscopica della vita … che contiene il segreto dei fatti eccezionali
che vengono a sconvolgerla.” (248)
Massimo Cassani “Pioggia battente” Sole 24 ore – Noir Italia 5 euro
6,90
[A: 08/08/2013– I: 16/03/2014 – T: 19/03/2014] - &&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 327;
anno 2009]
Una
delle prime uscite della collana del Sole meritoriamente dedicata agli
scrittori italiani di noir (e affini). Che ricordo è non solo dedicata agli
autori, ma anche ai luoghi italiani (e ci torneremo sopra in una prossima
trama). Qui si parla di Milano, dove l’autore vive, e qualche scorcio ne viene
ben fuori. Qualche scorcio centrale (la passeggiata sotto la pioggia tra il
Duomo e San Babila), qualche periferia (il Giambellino, per esempio), e qualche
dintorno (vogliamo parlare di Lambiate Sant’Elsa?). E si parla del commissario
Sandro Micozzi. Dove si apre la forbice tra la volontà dello scrittore di
maneggiare una trama complessa e la resa che ne viene fuori. Intanto si evince
dal testo che non è la prima uscita del commissario, dati i ripetuti accenni ad
un’indagine precedente relativa alla scomparsa di qualcuno ed altri misteri,
che qui vengono disvelati ma se non si è letto l’altro libro rimangono
decontestualizzati. In seguito a quella vicenda il nostro protagonista è emarginato
e la sua vecchia squadra dispersa. Ma un nuovo delitto, che rischia di
coinvolgere personaggi in vista convince Procura e Questura a rimettere in
pista, seppur di nascosto, il commissario. Esce fuori una trama di ricatti che
non si spiegano, coinvolgendo un balordo ubriacone, poi ucciso nella casa
dell’avvocato Bessi. Micozzi ed i suoi (l’ispettore Lariccia coinvolto in una
storia extra-coniugale, l’ispettore Sodana, legatissimo al questore e per
questo inviso a Micozzi, l’agente Teneriello, mago dei tabulati e dai tanti
contatti, e l’agente Della Vedova, l’unica donna, dall’aspetto un po’ forte, e
forse segretamente innamorata di Micozzi) vengono messi in ferie forzate e
dedicate all’indagine. Che si dipana in una fine di primavera piovosa (da cui
il titolo). Con la difficoltà di non sapere chi sia il morto. E con i legami
(scoperti solo dopo 150 pagine) tra il morto stesso ed una escort vicina di
casa del commissario. La Procura prende la palla al balzo, incrimina la povera
Sofia e cerca di smantellare la squadra. Ma Micozzi è preso dai dubbi. E da
altre “paturnie”: Margherita, la sua ex-moglie, cerca di coinvolgerlo in una
storia illegale di adozioni, l’escort Mariolina (ma quante ce ne sono in giro)
gli si attacca come un francobollo (per aiutarlo o per tenerlo d’occhio?), la
bella Corinna (protagonista dell’altro libro) entra di soppiatto, scopa alla
grande con il nostro, poi sparisce di nuovo, la giornalista Ambra lo coinvolge
con l’amico Sigismondo in strani contesti (vuole scoop o c’è altro sotto?).
Ecco tutte le storie che escono fuori dal filone principale. Che invece
dovrebbe legarsi viepiù all’avvocato ed alle sue tre figlie: la dura Liliana,
l’insicura Gigliola e la piccola Rosa (tutti fiori quindi). Pagina dopo pagina
i misteri tendono a svelarsi (in tutto o in parte). Si scopre l’identità del
morto. Si scopre che aveva tentato quindici anni prima di stuprare la bella
Sofia. Si intuisce che il morto era stato ingaggiato per mettere paura all’avvocato
coinvolgendo una “firma ombra” che stava in quel di Bologna. Si scopre che il numero
di cellulare della bolognese e di Sofia differiscono di solo una cifra. E che
il morto scriveva proprio male. Tutto confluisce poi in quel di Lambiate dove
l’avvocato è anche sindaco. Dove si tenta di uccidere il commissario da parte
di un ceffo che poi è l’amante di Mariolina, che nel suo appartamento ha un
quadro di Sigismondo, che è un pedofilo, ed è anche confidente della Procura, e
che, inopinatamente, si impicca. Con facilità (gli indizi disseminati sono
tanti) si restringe il cerchio dei cattivi alle tre figlie dell’avvocato, dove
qualcuna di loro lo voleva togliere di mezzo e prendersi tutto il mazzo (studio
ricco, contatti politici, nonché case e coltivazioni agricole annesse). Ma
quale delle tre? Non sarà la più ovvia, vi dico subito. E non quella su cui
puntavo io. Alla fine questa storia avrà una sua conclusione, ma come detto
sopra erano tanti i fili e non tutti si sciolgono. Chi è il procacciatore di
fanciulli di Margherita? Che fine fanno Corinna e Mariolina, ad un tratto
desaparecide? Perché Procura e Questura si fanno la lotta? Come proseguirà la
storia lavorativa del nostro commissario? Queste le domande principali, anche
se altre ce ne sono (una su tutte, ma Sigismondo chi era in realtà?), il tutto
per un nero che alla fine, pur leggibile, non regge le trecento pagine di
intrecci complessi. Alla fine è un po’ stancante e poco coinvolgente. Una prova
in minore. Un solo commento a margine, per lodare la cultura musicale (a me
affine) di Sigismondo che in un breve intervento sulla musica italiana riesce a
citare: i Nuovi Angeli, gli Homo Sapiens, i Collage, Umberto Balsamo e niente
popò di meno Michele Pecora. Un punto in più (ma solo) per questo.
Mi sa che
per questo mese di maggio dovremo salutarci, che sabato si parte per dieci
giorni in Turchia, tra Istanbul e la Cappadocia. Per il resto, amici – lettori,
tutto procede, zoppicando, con un po’ di stanchezza, e lamentandosi (perché no)
di trovare poco tempo per fare tutte le cose che si vorrebbe.
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