domenica 13 luglio 2014

Mondo Noir - 13 luglio 14

Come un’anteprima personale della collana che sta uscendo per Repubblica (il giro del mondo in Noir), eccoci allora che giriamo noi per il mondo con alcuni degli autori seriali che ingrassano la mia libreria. Partiamo da Barcellona, dove lancerei bombe e petardi su chi decide di pubblicare così male uno dei miei autori-cult. Poi voliamo a Shangai, dove si migliora (poco) la qualità, e si peggiora traduzione e contesto (e godetevi lo sforzo che ho fatto per capire e farvi capire il proverbio citato). Certo, ci salva la Los Angeles di Connelly, sempre sopra la media. Per poi precipitare nel baratro dell’illeggibilità degli ultimi libri di Patricia Cornwell, peccato ambientato a Boston, una delle città più interessanti della prima America.
Manuel Vázquez Montalbán “Luis Roldán né vivo né morto” Feltrinelli euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 02/12/2013– I: 28/01/2014 – T: 29/01/2014] - &&
[tit. or.: Roldán, ni vivo ni muerto; ling. or.: spagnolo; pagine: 123; anno 1994]
Sono i…to. Con gli eredi di Montalbán, con Feltrinelli, i suoi editor e le sue politiche editoriali. Sarebbe un elenco molto lungo, che culminerebbe in fine a comprendere come, da quattro tipi di valutazioni diverse, vengano soltanto 2 libri di gradimento per un autore che in genere viaggiava nell’olimpo delle mie preferenze. Perché gli attribuisco 4 libri come autore. Montalbán è profetico, anticipatore, dissacratore, sia con la lunga serie di Carvalho che con altri suoi libri. Ma solo 2 libri alla storia in sé, che non è per principio brutta, solo un po’ slegata, e soprattutto molto e molto legata all’attualità spagnola di venti anni fa. E diamo 1 libro alle politiche editoriali nazionali e internazionali. Che se questo stesso libro fosse stato pubblicato a suo tempo poteva almeno essere contestualizzato meglio. E se lo pubblichi ora, e non ci metti NEMMENO una riga di commento, lasci il lettore ignaro a domandarsi cosa diamine mai abbia comprato. E se l’autore non si fosse fatto una serie infinita di canne prima di buttare giù qualche riga. Infine un altro misero e sconsolato libro di infimo gradimento ad un editor che, passando dal titolo originale a quello italiano toglie una virgola ed aggiunge un nome. Sarebbe costo molto pubblicare il libro con il titolo “Roldán, né vivo né morto”? Perché poi tutto il libro (venendo alla forse poco utile trama) è soltanto un pamphlet contro i malcostumi della vita politica spagnola e del Partito Socialista allora al Governo, con un facile (ed allora molto utile) parallelo con la situazione italiana (e non a caso Montalbán cita Berlusconi direttamente ed indirettamente). Luis Roldán, comunque, all’epoca dei fatti è un personaggio reale. Direttore della Guardia Civil, ammanicato con tutti i poteri, viene scoperto con le mani nel sacco, a rubare, malversare, corrompere, nonché organizzare, tramite milizie private, attenti ad esponenti dell’ETA. Roldán fugge dalla Spagna, e verrà arrestato soltanto l’anno seguente all’aeroporto di Bangkok (per cui Montalbán ne parla solo come un fuggitivo fuggiasco e sfuggente). Processato, viene condannato a 31 anni di carcere. Ne sconta soltanto 15, e nel 2010 viene rimesso in libertà per buona condotta (con quell’odiosa frase della quarta di copertina che sentenzia Montalbán mescolare finzione e realtà, ed essere il cattivo Roldán già da tempo in libertà: da tempo ma dopo anni di carcere). Prima di tornare allo scritto, un Camilleri nostrano avrebbe potuto scrivere un libro analogo intitolandolo “Craxi, né vivo né morto”. Perché Carvalho viene incaricato da sedicenti servizi di trovare lo sgusciante finanziare. Carvalho e Biscuter ne seguono alcune tracce, si imbattono sia in altri servizi segreti deviati (che non a caso hanno i loro quartieri generali nelle fogne) sia in strani personaggi: una direttrice della Televisione Spagnola, che lavora nell’ombra, e che era una delle più ferventi attiviste dell’era franchista, i “maiali iberici”, gruppi di attivisti e terroristi di Stato. Con una finzione degna appunto di invenzioni e contestualizzazioni maggiori, Montalbán riempie non solo Saragozza di sosia di Roldán. Ma ne fa anche un pieno all’estero, dove Carvalho si reca su labili tracce in quel di Damasco. Un po’ di colore locale, qualche battuta sugli appoggi esteri che aveva (ha) la Guardia Civil, ed anche a Damasco compaiono numerosi e fantasiosi Roldán. Damasco dove i servizi segreti israeliani rapiscono il nostro Pepito, lo portano prima a Masada, poi a Gerusalemme. Poi tornano tutti in patria, svelando la beffa finale. Era proprio lo Stato che aveva organizzato la proliferazione dei Roldán, ingaggiando Carvalho per saggiarne la verosimiglianza. Perché quando c’è un esponente politico che ruba è un ladro. Quando ce ne sono centinaia, diventa “costume” (Berlusconi dixit). Peccato questa scivolata editoriale. E, ribadisco, il libro è brutto non perché sia scritto male, ma perché esce con 20 anni di ritardo in Italia (ed alla fine mi domando se sia un caso).
“Adesso si viene a sapere che ha riempito di milioni la sua amante. Io non so cosa succede a questi socialisti, la distribuzione delle ricchezze la fanno a letto.” [sic!!!] (97)
Qiu Xiaolong “La ragazza che danzava per Mao” Marsilio euro 12,50 (in realtà scontato a 1,10 euro con Feltrinelli+)
[A: 09/11/2013– I: 20/02/2014 – T: 24/02/2014] - && e ½
[tit. or.: The Mao Case; ling. or.: inglese; pagine: 363; anno 2009]
Eccoci al sesto caso dell’ispettore Chen, imbastito dallo scrittore Qiu, che dal 1989 vive negli Stati Uniti. Continuo a leggerne, anche se, libro dopo libro, la scrittura di Qiu si attorciglia sempre più, da un lato allontanandosi dai pur interessanti casi dei primi libri, dall’altro legandosi a modi ed espressioni molto “interne” alla Cina. Interessanti forse filologicamente, ma che rendono i suoi libri, se posso dirlo, sempre più pallosi. Qui il vero punto d’interesse è in un certo senso la doppia lettura: c’è il binario delle indagini e della vita di Chen, che non ci prende più di tanto, e c’è Mao in sottofondo, che invece, pur annegato in incomprensioni (mie) ha un buon livello di interesse. O almeno di stimolo ad approfondire un personaggio che da decenni ho lasciato cadere nel dimenticatoio. Doppia lettura che sarebbe stata più palese lasciando il titolo originale (“Il caso Mao”) invece di introdurre questa ragazza che danzava per il Grande Timoniere. Che ovviamente entra nella storia, ma rischia di far pendere la bilancia delle osservazioni verso la ragazza, quando in realtà il romanzo è tutto incentrato su Mao e su alcuni aspetti poco edificanti del maoismo (leggi “la rivoluzione culturale”). Intanto la ragazza, in realtà era un’attrice (come attrice era Jing Qiao, la famigerata Madame Mao). Ed inoltre era una delle innumerevoli amanti del Presidente (che pare avesse una ben nutrita schiera di concubine). Shen, l’attrice, sembra abbia avuto in regalo una poesia autografa di Mao, pare che abbia fatto molte foto al Grande Condottiero, tant’è che, presa di mira dalle Guardie Rosse, si toglie la vita (o viene defenestrata?). Lascia la sua eredità segreta a Qiao, la figlia, che tenta di fuggire ad Hong Kong, viene presa, e ben presto liquidata, lasciando la figlia Jiao appena nata e solitaria. La storia prende le mossa quando la polizia si insospettisce dell’improvvisa ricchezza di Jiao, temendo che abbia rivelazioni anti-maoiste da fare. Per questo, l’ispettore in carriera Chen viene incaricato di far luce, possibilmente, sulla materia. Chen si introduce nell’entourage di Jiao, conosce un suo mentore, il signor Xie, fanatico degli anni Trenta, che si scopre sodale del marito morto di Qiao. Ed intorno a Xie e Jiao cominciano a fioccare morti sospette. Prima una ragazza amica di Jiao. Poi il capo delle indagini della polizia segreta. E bene dice a Chen che viene assalito anche lui, ma si salva e si rifugia a Pechino, dalla sua ex Ling. Lì assistiamo al definitivo recidersi di questi vecchi legami di Chen. Ma anche, e con piacere, al vagabondare di Chen per la Città Proibita, per Piazza Tienanmen, e per la dimora “segreta” di Mao. Su questa parte si tornerà, mentre a Shangai le indagini proseguono, da parte del sodale di Chen, il poliziotto in pensione soprannominato Vecchio Cacciatore. Chen scopre un possibile “Riccone” (così si chiamano i neo-capitalisti cinesi) che si crede una rincarnazione di Mao e che ha concupito Jiao. In un lungo, e poco entusiasmante finale, Chen mette tutti i pezzi a posto, arrestando il cattivo che intanto ha fatto fuori anche Jiao, capendo quali siano i segreti di Shen, ma forse lasciando andare tutto sotto silenzio per non scoprire troppi altarini. Questa la storia, ma è l’altra a tenere banco. Un banco insopportabile, quando Chen cita ad ogni piè sospinto le poesie di Mao. E la poesia cinese, a me, non piace proprio. Non la capisco, non mi smuove neanche mezza corda nell’anima. Ed invece, dato anche che Qiu è un esperto del ramo, ecco che si cita “La fioritura del pruno” di Mao, e si fanno paralleli con poesie Tang, con i pesci del fiume Giallo. Pagine e pagine che guardo passare ma che non aggiungono briciole alle mie pur scarse conoscenze. Ci vorrebbe una sinossi di migliaia di pagine per entrare nel vivo. O forse bisognerebbe essere cinesi. Rimangono spigolature e domande forse più intime e più interessanti. Quante mogli ha avuto Mao? Ha sposato la terza prima che morisse la seconda? È vero che amava ballare? Quali erano i reali rapporti con Madame Mao? Come nasce la Rivoluzione Culturale? Inciso: e quali i rapporti tra questa e le follie cambogiane di Pol Pot? E perché il riccone camuffa la sua voce con accenti strani? Ecco, l’unica risposta l’ho avuta a questa domanda, scoprendo che Mao aveva un forte accento dello Hunan, che dava una strana inflessione al suo “cinese mandarino” (un po’ come sentire parlare in italiano il primo Bossi, mi si dice). Insomma, un libro che ho letto per queste domande su Mao, ma che per il resto sconsiglio vivamente di toccare. A meno che non si sia conoscitori e amanti della poesia cinese, ai quali, soltanto, auguro buona lettura. E chiudo rimandandovi alla citazione sotto riportata, che non capisco e che credo pochi possano capire, anche se mi sono sforzato di farlo.
“A questo mondo, otto o nove volte su dieci le cose non funzionano secondo i nostri piani ma, come dice l’antico proverbio, chi sa se è fortuna o sfortuna, quando il vecchio di Sai perde il suo cavallo?” (70) [e cioè???]
Analisi di un proverbio cinese (che se sbaglia la traduzione e non la spieghi sei un traditore e non un traduttore).
In un articolo a proposito del rischio di bocciatura al gaokao, l’esame d’ingresso all’università, l’autore incoraggia la figlia, studentessa sotto esame, con un famoso chengyu (proverbio): “Il vecchio della frontiera ha perso il cavallo, ma non è detto che sia un male”. La forma originale è (trascritta) Sài wēng shī mǎ, yān zhī fēi fú (“Il vecchio della frontiera ha perso il cavallo, come è possibile sapere che non sia una fortuna?” e già notiamo che chi sa di Cina e di proverbi, traduce “Sai weng” come il vecchio della frontiera e non il vecchio di Sai!). La storia raccontata è quella di un vecchio che viveva vicino alla frontiera del nord; il vecchio possedeva un cavallo pregiato, che però un giorno fuggì oltre la frontiera, dove vivevano i barbari. I suoi vicini si rattristarono molto con lui, il quale però si mostrò molto meno preoccupato, anzi, disse appunto “Chi può sapere che non sia una fortuna?”. Aveva ragione, infatti, dopo qualche mese il cavallo ritornò, addirittura insieme ad un secondo cavallo ancora più pregiato. Tradizionalmente la storia – che potrebbe concludersi anche qui – continua con l’arrivo dei soliti vicini, stavolta per congratularsi della fortuna insperata. Con ammirevole sangue freddo, il vecchio rispose che non era detto che quella fosse davvero una buona cosa. Fu profetico, perché, in effetti, un giorno un suo figlio, mentre cavalcava il nuovo cavallo, cadde dalla sella rompendosi una gamba. I vicini accorsero nuovamente, ma trovarono il vecchio per niente turbato: al contrario, si diceva convinto che anche quella sventura potesse non essere del tutto negativa. I vicini, sbalorditi, si convinsero che il vecchio volesse soltanto dissimulare il dispiacere. Poco tempo dopo, però, i barbari invasero le frontiere, scatenando una feroce guerra: tutti i giovani furono chiamati a partecipare alla battaglia, finendo sterminati. L’unico che scampò fu… il figlio convalescente del vecchio. Solo allora i vicini si convinsero della saggezza delle sue parole.
Michael Connelly “La lista” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a 11 euro)
[A: 19/05/2013 – I: 03/04/2014 – T: 06/04/2014] - &&&&
[tit. or.: The Brass Verdict; ling. or.: inglese; pagine: 418; anno 2008]
Eccoci di nuovo in pista con i grandi gialli del maestro Connelly. Parlai qualche tempo fa dei meccanismi di aumento dell’efficacia dei prodotti seriali, e delle loro diramazioni. Connelly ha il suo elemento centrale nell’ormai decennale serie di Hieronymus “Harry” Bosch, provando di tanto in tanto nuovi personaggi per avere più respiro. Nel 2005 introduce un episodio di prova con un avvocato, che, seppur ligio all’ordinamento giuridico americano, ha un suo codice etico quasi di giustizia. Dopo qualche libro su Bosch, ecco che ritorna a Mickey Haller, e con un buon romanzo, che al solito unisce una piccola dose di suspense ad una lunga disamina dei meccanismi giudiziari d’oltre oceano. Con una piccola sorpresa finale, che si intuisce dall’inizio ma di cui parlerò forse più in là. Ricollegandosi all’avventura precedente (“Avvocato di difesa”) ricordiamo che alla fine Haller era stato ferito nel convulso finale che portò alla soluzione del caso. Ora è passato del tempo (almeno un anno) ed Haller non ha ancora ripreso la professione, dovendosi curare da un’overdose di analgesici che lo ha portato quasi alla dipendenza. Improvvisamente, però si ritrova in mezzo al guado. Un suo collega viene ucciso e lui viene nominato “sostituto”. Nel gergo americano significa che, se i clienti del morto Jerry lo accettano, lui può prendersi i suoi casi. L’inizio è ben caotico, non trovandosi molte informazioni sui casi. Lui si mette alla caccia aiutato dalla fida Lorna (la sua seconda ex-moglie) e dal di lei compagno Cisco (investigatore privato). Tra tanti casi minori, uno è quello che viene alla luce con forza. Il processo contro il magnate del cinema Walter Elliot accusato di aver ucciso la moglie ed il di lei amante. L’altro elemento di incasinamento della vicenda, sono le indagini sulla morte di Jerry Vincent, l’avvocato, che sono affidate a… Harry Bosch. Molti sono i motivi stimolanti sul piano giuridico: Bosch è convinto che la morte di Jerry risieda nei casi che ora ha in mano Mickey, ma questi non può dare informazioni sotto il vincolo della segretezza; ci sono elementi poco chiari sulle motivazioni dell’arresto di Elliot; sembra ci sia di mezzo l’FBI che indaga su di un caso di corruzione. Intanto crescono personaggi laterali: uno dei clienti di Jerry viene fatto assolvere da Mickey e da questi preso come autista; Cisco conduce indagini e diventa quasi come Drake l’investigatore di Perry Mason; Mickey è pressato dal buonismo della figlia Hayley e dall’amore mai sopito per la prima moglie Maggie. Un bel momento di lettura è la scelta della giuria, dei modi per accettare o ricusare i giurati, quasi una partita a scacchi, dove si cerca di ottenere in giuria persone potenzialmente favorevoli. Indagando tra i vari clienti poi, Mickey ne scopre uno che non c’era ragione perché diventasse cliente, se non che scopre aver sparato 84 proiettili verso dei poliziotti ed essere stato ammanettato nella stessa auto che porterà in prigione Walter. Ma Walter è un personaggio ambiguo, continua a mostrarsi troppo sicuro di sé, e continua (a detta di Mickey) a non dire la verità. Attraverso le sue indagini private e la lettura di tutta la documentazione il nostro Haller arriva ad alcune conclusioni importanti: nella giuria ci deve essere un giurato corrotto (sono spariti soldi dai conti di Jerry senza motivo) che se non fa raggiungere l’unanimità del verdetto farà assolvere Walter. Le tracce di polvere che accusano Walter vengono proprio da quell’auto di cui sopra. Intanto Bosch continua ad imperversare per sapere notizie, e tra i due si istaura uno strano rapporto di rispetto e antagonismo. Haller vuole vincere pulito, così fa in modo di smascherare il giurato, che sparisce. Elliot diventa nervoso. Haller si dà da fare in alcuni momenti processuali veramente interessanti e ben descritti. Arriviamo così al finale, con Bosch che all’ultimo momento salva la vita ad Haller, Mickey che riconquista la fiducia della figlia, Warner che viene ucciso (non vi dirò da chi) facendo quindi fermare il processo (questa la legge americana). Si scopre, inaspettatamente, la catena di corruzione che ha portato all’infiltrazione del giurato, coinvolgendo personaggi di livello. Si è così avuto quello che diceva correttamente il titolo americano, “Il verdetto del proiettile” (e vi lascio scoprire cosa significa), e non quella “lista” che in realtà poco entra nella storia. Dove appunto abbiamo anche quella sorpresa finale, che noi lettori di Bosch e Connelly già sapevamo (ed intuivamo da diversi indizi). Bosch ed Haller in realtà sono fratellastri. E questo connubio porterà senz’altro a qualche altra vicenda intricata ed intrigante. Per ora rimaniamo con i due personaggi, il poliziotto e l’avvocato, ben delineati e con una cura dei particolari che fanno un piacere della lettura dei libri del maestro Connelly.
Patricia Cornwell “Letto di ossa” Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 06/02/2014 – I: 21/04/2014 – T: 25/04/2014] - &
[tit. or.: The Bone Bed; ling. or.: inglese; pagine: 390; anno 2012]
Ormai stiamo rasentando i limiti dell’illeggibilità. O almeno del vituperio del lettore da parte di un’autrice che per tanti anni ho amato, seguito, tanto da avere l’intera serie di Kay Scarpetta ordinatamente messa in libreria (anche se da mia madre, che ha una libreria più spaziosa). In effetti, l’unica cosa salvabile è la traduzione del titolo, una volta tanto resa senza fantasiose invenzioni. Per il resto, un libro senza sussulti, senza grosse invenzioni, inutilmente lungo quasi 400 pagine. Intanto, mi sembra una buona richiesta di amore da parte del lettore, seguire Pat che scrive di 24 ore della vita di Scarpetta e soci, occupando più di 200 pagine. Certo il libro alla fine dura poco più di quattro giorni, relegando in poche pagine convulse finali, messi lì senza tante spiegazioni. Queste 200 pagine sembrano quasi voler essere una “presa diretta”, un tentativo di trasportare su carta l’agilità delle immagini delle serie televisive (i vari C.S.I., NCIS, Body of Proof e via elencando). Ma non è così, ed io lettore arranco sulla pagina aspettando qualche momento saliente, qualche velocizzazione delle idee, se non dello scritto. Che comincia con una possibile morte di una paleontologa in Canada, il cui orecchio viene inviato alla nostra dottoressa, e ricevuto insieme alla notizia della scoperta di un cadavere nelle acque del porto di Boston, lo stesso giorno in cui Kay deve testimoniare al processo per la scomparsa della moglie di un facoltoso cittadino. Assistiamo alle lunghe pagine del reperimento di questo corpo, con un’immersione nelle acque di Kay che libera anche una tartaruga marina impigliata negli stessi fili del cadavere. Ed invece di andare al processo, Kay fa subito una prima parte di autopsia, scoprendo che il cadavere è stato a lungo sotto zero prima di essere immerso nelle acque oceaniche. Ciò darà modo di sviluppare pagine e pagine sul dibattimento processuale con le accuse di vilipendio della corte per Kay e con una montatura mediatica del “salvataggio del cadavere” che daranno modo di prosciogliere il ricco antipatico dalle accuse (no cadavere, no uccisione). Nel pomeriggio e nella serata di questa lunga giornata poi si scopre che: la morta in acqua era una signora benestante scomparsa da sei mesi, che l’assassino aveva attivato un account twitter post-mortem, che Marino (il fido aiutante di Kay) aveva chattato a lungo con questo account, tanto che qualcuno lo ritiene coinvolto, che Benton (il marito di Kay) sa molto di più di quello che dice, che Doug, poliziotta FBI incaricata delle indagini, è cotta di Benton e cerca in tutti i modi di screditare sia Kay che Marino, che un tizio ubriacone supposto morto per caduta dalle scale è in realtà stato ucciso, che lo stesso tizio era il giardiniere part time della morta. Assistiamo anche ad una lunga ed inutile perquisizione delle case dei morti, piene di particolari rilevanti per un uso “legale”, ma sparsi e diluiti nelle lunghe peregrinazioni mentali di Kay, dubbiosa della fedeltà dei suoi cari: di Benton che non le dice tutto, di Marino che sembra essere tornato all’amica bottiglia, di Lucy (la nipote) anch’essa misteriosa e forse coinvolta in una nuova storia d’amore. La mattina dopo scopriamo che la paleontologa è realmente morta (se ne trova il cadavere, guarda caso in contemporanea…). Ma quali sono i fili che legano tutte queste morti, che sembrano (da come sono stati commessi gli omicidi) legati ad un unico serial killer? Cosa lega la paleontologa, la filantropa, la moglie scomparsa ed il giardiniere? Senza darci modo di capire come fa, Kay si reca in una casa di cura per anziani dove lavorava la filantropa, dove a volte lavorava il giardiniere, dove era ricoverata la madre di un alto dirigente della ditta del riccone dalla moglie scomparsa. Kay capisce tutto, ma viene rapita dall’assassino (e questo nelle scarse dieci pagine finali). Fortuna che Lucy ha messo un GPS nella macchina di Kay, così che i buoni riescono a salvare la nostra eroina, non senza che ci rimetta le penne anche Doug (così ce la leviamo di torno). Ed il libro finisce. Con un colpevole che compare una sola volta (prima del convulso finale) verso pagina 240. Con il mistero della morte della paleontologa (forse lavorava anche lei nel centro anziani?). Insomma c’era materia per scrivere un romanzo più snello, più avvincente, e magari con qualche spiegazione in più. Niente da fare, Cornwell, stiamo peggiorando libro dopo libro. Che fare ora? Sperare che la prossima puntata risollevi l’audience o abbandonare il serial?
Essendo il secondo appuntamento del mese, come ormai sapete, trovate allegato un nuovo capitolo legato alle cure attraverso i libri. Dedicato questa volta all’arroganza, con un libro che dovrebbero leggere tutti coloro che hanno figlie adolescenti.
Per finire, visto che ormai sapete tutti che questo mese di luglio si trascorre qui, seduti a scrivere, leggere e mettere (possibilmente ordine), dato che ben tre viaggi Avventure sono stati cancellati ad una settimana dalla partenza, non mi resta che ripetere anche in questa forma gli auguri ai miei amici Nino ed Elena, per la da poco passata festa.

CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni

Anche questo mese parliamo di amore, ma guardandolo da un diverso punto. Anzi da due diversi punti, che dopo spiegherò, per capire questo difetto (malattia) ormai molto generalizzato.

ARROGANZA

Orgoglio e pregiudizio, Jane Austen
Angel, Elizabeth Taylor
Mildred Pierce, James M. Cain
L'arroganza, in letteratura, è uno dei crimini peggiori. Lo sappiamo perché quando il signor Darcy snobba Eli­zabeth Bennet al ballo di Bingley – rifiutandosi di danzare con lei, respingendo la sua bellezza come appena «pas­sabile» e in generale comportandosi in modo sgradevole verso gli abitanti di Longbourn – egli viene immediata­mente liquidato da tutti, anche dalla signora Bennet, come l'uomo «più orgoglioso e antipatico del mondo».
Questo, poi, nonostante sia molto più bello dell'amabile signor Bingley, nonostante possieda una grande tenuta nel Derbyshire, e nonostante sia lo scapolo più appetibile in un raggio di quasi cinquanta chilometri – fatto che, come sappiamo, significa molto per la signora Bennet che ha cinque figlie da sistemare.
Per fortuna la giocosa Elizabeth Bennet, eroina di “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, sa come fargli ab­bassare la cresta. Un po' lo stuzzica («Sono assolutamente convinta... che il signor Darcy non abbia alcun difetto» gli dice) e un po' lo rifiuta, di brutto e calcando la mano («Vi conoscevo da meno di un mese e già avevo capito che siete l'ultimo uomo al mondo che potrei mai sposa­re»); in questo modo non solo corregge le sue magagne, ma dimostra a tal punto la «vivacità della [sua] mente» che Darcy si innamora di lei ancora una volta – e stavolta nella maniera corretta. Se soffrite della stessa arroganza, imparate da questo romanzo a riconoscere lo sfottò in­telligente e l'onestà coraggiosa – e accoglieteli a braccia aperte. Magari sarete così fortunati da essere trasformati in una persona perfetta da qualcuno come Elizabeth.
A volte, tuttavia, l'arroganza è così profondamente ra­dicata che niente e nessuno può intaccarla. L'eroina di “Angel” di Elizabeth Taylor – non è l'attrice di Hollywood, ma una scrittrice inglese della metà del XX secolo – ha appena quindici anni quando la incontriamo, e dire che pensa di essere il massimo è un eufemismo. Incorreggibile bugiarda, questa strana bambina è vanesia, prepotente e del tutto priva di senso dell'umorismo. Non prova altro che disprezzo per i suoi compagni di classe, rimane indif­ferente quando uno di loro viene portato in ospedale con la difterite e fantastica su un tempo futuro in cui, coperta di smeraldi e con una stola di cincillà, assumerà come domestica la propria, noiosa genitrice. Ovviamente, la povera donna è abbastanza turbata dalla figlia che ha cresciuto – proprio come Mildred è inorridita dalla figlia Veda, al­trettanto mostruosa, in “Mildred Pierce” di James M. Cain. Veda dilapida le ricchezze famigliari per mantenere il pro­prio stravagante stile di vita e porta via alla madre il nuovo fidanzato. Mildred si spingerà fino a tentare di uccidere il mostro che ha creato.
È piuttosto intrigante notare fino a dove l'iper-fiducia di Angel riesca a spingerla – fino agli smeraldi sognati, in effetti. Anche Veda ottiene esattamente quello che vuole. Nessuna delle due, invece, scoprirà l'umiltà. Il rifiuto – nel caso di Angel, da parte di editori e critici; in quello di Veda, da parte della madre – non suggerisce a nessuna delle due una pausa di riflessione.
Non fate come Angel o come Veda. Quando qualcuno vi respinge, domandatevi che cosa avete potuto fare per meritarlo. Fate come Darcy, invece. Anche se all'inizio si arrabbia e rimane mortificato dal rifiuto di Elizabeth – e dalla maniera in cui lo rimprovera – lui conosce la dif­ferenza tra giusto e sbagliato, e desidera ardentemente che le persone che ammira abbiano, di lui, una buona opinione. Siate felici quando qualcuno vi sfotte – con ogni probabilità, sta cercando di rendervi migliori.
Bugiardino
Quali i due punti di vista? E quali i due amori? Abbiamo l’amore uomo – donna (centro della narrativa della Austen) e l’amore genitore – figli (verso cui pendono Taylor e Cain). Ma anche arroganza salvata dall’amore (sempre la Austen) e amore ucciso dall’arroganza. Il libro sull’orgoglio e il pregiudizio lo lessi intorno alla metà degli anni ’80, e non credo sia il caso di ritornarci su (non credo di ricordarne molto, in realtà). Mentre il libro della Taylor, pur presente nella mia libreria, non è ancora stato letto (e ci si ritornerà a suo tempo). Rimane Cain, si quello del Postino che suona due volte, con questo libro letto tre mesi fa, ma non ancora inserito nelle Trame. Per cui, anche qui, un’anteprima succulenta.
James M. Cain “Mildred Pierce” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9 euro)
[letto il 15 aprile 2014]
L’autore è il ben noto scrittore de “Il postino suona due volte”, che però non ho ancora letto. Qui lo troviamo in quello che invece è considerato il suo miglior romanzo, portato al cinema da Joan Crawford (Oscar) ed in televisione da Kate Winslett (Emmy Awards). Romanzo che veniva ascritto al genere noir, in considerazione dei cambiamenti fatti nel film. E che invece è giustamente un mélo come ci fa vedere la mini-serie TV. Infatti, seguiamo per le scorrevoli 300 pagine la storia e le vicende di Mildred Pierce, giovane casalinga che vive nel 1930 a Glendale, sobborgo di Los Angeles. È appena accaduto il grande disastro del ’29, l’America è in piena recessione, ed il costruttore di case Bert (marito di Mildred) si trova a corto di soldi e senza prospettive. Non solo, ma si consola dei disastri tra le braccia di Maggie, mentre Mildred è costretta a fare torte in casa che rivende a pochi dollari, per poter arrivare (e con molta fatica) a fine mese. Ci sono poi le loro figlie: Moire (detta Ray)  e Veda. Mildred, stufa della pochezza di Bert, lo manda a scopare il mare, chiede il divorzio, e comincia a ipotizzare di far diventare un lavoro più redditizio quello delle torte. Ma deve trovare anche il modo di sbarcare il lunario, di pagare il mutuo che le h lasciato Bert. Insomma, sta proprio in mezzo ai guai. Oltre alle torte, l’unico mezzo di sostentamento che ha è il suo corpo. Non che diventi improvvisamente un escort di lusso, ma diciamo concede le sue grazie in modo da ottenere in cambio qualche aiuto, qualche suggerimento. Magari legale, dall’ex-socio del marito. Magari di prospettive, quando cade tra le braccia del bel Monty, un quasi gigolò, forte solo della sua bellezza e dei lasciti aviti che a poco a poco si mangia. In questo girare tra letti e torte, scompare presto la piccola Ray, portata via da una polmonite fulminante. Ma Mildred non si lascia abbattere. Prima continua con le torte, poi si fa cameriera. Accumula soldi ed esperienza, e, nella grande esaltazione del sogno americano, fa una luminosa carriera. Tanto da poter aprire un ristorante suo. Dove impiega le sue amiche, chi ai tavoli, chi ai liquori (che intanto il proibizionismo sta passando). Unico suo cruccio, l’impossibile rapporto che ha con la figlia Veda. Che non accetta lo status di “figlia di una commerciante”. Lei è quella delle grandi manie, delle grandi capacità, quella per cui non è nata nobile ma solo per caso, e fa di tutto per salire (a suo modo) i gradini del potere femminile. Prima con il pianoforte, ma avendo un talento solo ripetitivo deve cambiare e cambia alla grande, verso il canto dove le sue doti spiccano di gran luce. Seguiamo così le loro due carriere, sempre ai ferri corti, ma ognuna con i suoi lumi. Il ristorante, le torte, gli investimenti, consentono a Mildred di arrivare ad una vita agiata. Ogni volta rimessa in pericolo dalla necessità di soccorrere Veda se questa ha problemi, se Veda chiama, se Veda ha bisogno. Bert, intanto, si defila dalla scena, un poco ingelosendosi dei successi di Mildred, ma partecipando a quelli della figlia, in cui rispecchia il proprio egotismo assoluto (se non c’è niente al mio livello, non faccio nulla, aspettando che qualcosa arrivi). Mildred salva anche Monty dalla bancarotta, rimette in sesto le di lui scarse finanze. Lo sposa anche, per poi ben presto divorziare quando si accorge che Monty è un involucro vuoto. Ed è nella parte finale che il melo acquista tono e spessore. Perché Mildred, acquiescente ad ogni richiesta di Veda, si accorge che non solo la figlia la odia da sempre, che Veda l’ha usata per ottenere un contratto canoro più vantaggioso. Ma anche che Veda si mette con Monty, andando via da Los Angeles per continuare la sua bella vita a New York. Mildred alla fine risposa Bert, il suo primo marito (lasciato da Maggie che torna dal suo di marito che nel frattempo ha scoperto del petrolio nel Texas, ahi potenza del grande sogno americano). Il libro è tutto qui, tutto nel rapporto tra genitori e figli e su come le scelte private influiscano sulla vita pubblica dei personaggi. Nel film con la Crawford decidono di inserire la componente noir, inscenando l’uccisione di Monty. Ma è una forzatura, che nel libro manca. Perché il libro, in fondo, è molto più dolente della torbida storia melo-noir del cinema. Dolente ed aulente. Perché da un lato si inneggia al grande mito americano che tutti possono riuscire se hanno le capacità (Mildred fa le torte, sa cucinare, apre un ristorante, ed ha successo; Veda sa cantare, e vola di palcoscenico in palcoscenico), ma tutti falliscono se non ne hanno (Bert si illude di saper fare, e farà lo spiantato per tutta la vita, riscattato solo dall’affetto di Mildred, Monty ha soldi di famiglia, ma non è capace di nulla, e non potrà passare che di fallimento in fallimento). E dall’altro si toccano le corde che sempre inguaiano gli americani: l’incapacità di avere rapporti umani, la tragedia dell’odio genitori-figli (o meglio figli vs. genitori, anche se bollare Veda come la creatura più demoniaca della letteratura come fa la quarta di copertina mi sembra un po’ forte). Ci sarebbe quasi da scriverne un saggio sociologico. Intanto gustiamoci questa scrittura di Cain, dimenticando il film, la serie televisiva, e seguendo gli anni Trenta americani attraverso alcuni protagonisti minuti, anche se non minimali.
“Bert assomiglia a Veda. Se non può fare le cose in grande stile, gli sembra di non vivere.” (102)
Conclusioni
Come detto, qui si tratta di due diversi tipi di approccio alla malattia. L’antagonismo descritto dalla Austen è senza dubbio da utilizzare, e ne concordo le dosi, eventualmente specchiandosi nel contraltare impersonato dalla vanità di Rossella O’ Hara. Trattando invece di adolescenti, potrebbe valere la pena mitigare l’arroganza anche con qualche dose di eccesso di fiducia (nei genitori) per indurne la mancanza (nei figli).


Nessun commento:

Posta un commento