Come un’anteprima personale della
collana che sta uscendo per Repubblica (il giro del mondo in Noir), eccoci
allora che giriamo noi per il mondo con alcuni degli autori seriali che
ingrassano la mia libreria. Partiamo da Barcellona, dove lancerei bombe e
petardi su chi decide di pubblicare così male uno dei miei autori-cult. Poi
voliamo a Shangai, dove si migliora (poco) la qualità, e si peggiora traduzione
e contesto (e godetevi lo sforzo che ho fatto per capire e farvi capire il proverbio
citato). Certo, ci salva la Los Angeles di Connelly, sempre sopra la media. Per
poi precipitare nel baratro dell’illeggibilità degli ultimi libri di Patricia
Cornwell, peccato ambientato a Boston, una delle città più interessanti della
prima America.
Manuel Vázquez Montalbán “Luis Roldán né vivo né morto” Feltrinelli
euro 10 (in realtà, scontato a 8,50 euro)
[A: 02/12/2013– I: 28/01/2014 – T: 29/01/2014] - &&
[tit. or.: Roldán, ni vivo ni
muerto; ling. or.: spagnolo; pagine: 123; anno 1994]
Sono
i…to. Con gli eredi di Montalbán, con Feltrinelli, i suoi editor e le sue
politiche editoriali. Sarebbe un elenco molto lungo, che culminerebbe in fine a
comprendere come, da quattro tipi di valutazioni diverse, vengano soltanto 2
libri di gradimento per un autore che in genere viaggiava nell’olimpo delle mie
preferenze. Perché gli attribuisco 4 libri come autore. Montalbán è profetico,
anticipatore, dissacratore, sia con la lunga serie di Carvalho che con altri
suoi libri. Ma solo 2 libri alla storia in sé, che non è per principio brutta,
solo un po’ slegata, e soprattutto molto e molto legata all’attualità spagnola
di venti anni fa. E diamo 1 libro alle politiche editoriali nazionali e internazionali.
Che se questo stesso libro fosse stato pubblicato a suo tempo poteva almeno
essere contestualizzato meglio. E se lo pubblichi ora, e non ci metti NEMMENO
una riga di commento, lasci il lettore ignaro a domandarsi cosa diamine mai
abbia comprato. E se l’autore non si fosse fatto una serie infinita di canne
prima di buttare giù qualche riga. Infine un altro misero e sconsolato libro di
infimo gradimento ad un editor che, passando dal titolo originale a quello
italiano toglie una virgola ed aggiunge un nome. Sarebbe costo molto pubblicare
il libro con il titolo “Roldán, né vivo né morto”? Perché poi tutto il libro
(venendo alla forse poco utile trama) è soltanto un pamphlet contro i
malcostumi della vita politica spagnola e del Partito Socialista allora al
Governo, con un facile (ed allora molto utile) parallelo con la situazione
italiana (e non a caso Montalbán cita Berlusconi direttamente ed
indirettamente). Luis Roldán, comunque, all’epoca dei fatti è un personaggio
reale. Direttore della Guardia Civil, ammanicato con tutti i poteri, viene
scoperto con le mani nel sacco, a rubare, malversare, corrompere, nonché
organizzare, tramite milizie private, attenti ad esponenti dell’ETA. Roldán
fugge dalla Spagna, e verrà arrestato soltanto l’anno seguente all’aeroporto di
Bangkok (per cui Montalbán ne parla solo come un fuggitivo fuggiasco e sfuggente).
Processato, viene condannato a 31 anni di carcere. Ne sconta soltanto 15, e nel
2010 viene rimesso in libertà per buona condotta (con quell’odiosa frase della
quarta di copertina che sentenzia Montalbán mescolare finzione e realtà, ed
essere il cattivo Roldán già da tempo in libertà: da tempo ma dopo anni di
carcere). Prima di tornare allo scritto, un Camilleri nostrano avrebbe potuto
scrivere un libro analogo intitolandolo “Craxi, né vivo né morto”. Perché
Carvalho viene incaricato da sedicenti servizi di trovare lo sgusciante
finanziare. Carvalho e Biscuter ne seguono alcune tracce, si imbattono sia in
altri servizi segreti deviati (che non a caso hanno i loro quartieri generali
nelle fogne) sia in strani personaggi: una direttrice della Televisione
Spagnola, che lavora nell’ombra, e che era una delle più ferventi attiviste
dell’era franchista, i “maiali iberici”, gruppi di attivisti e terroristi di
Stato. Con una finzione degna appunto di invenzioni e contestualizzazioni
maggiori, Montalbán riempie non solo Saragozza di sosia di Roldán. Ma ne fa
anche un pieno all’estero, dove Carvalho si reca su labili tracce in quel di
Damasco. Un po’ di colore locale, qualche battuta sugli appoggi esteri che
aveva (ha) la Guardia Civil, ed anche a Damasco compaiono numerosi e fantasiosi
Roldán. Damasco dove i servizi segreti israeliani rapiscono il nostro Pepito,
lo portano prima a Masada, poi a Gerusalemme. Poi tornano tutti in patria,
svelando la beffa finale. Era proprio lo Stato che aveva organizzato la
proliferazione dei Roldán, ingaggiando Carvalho per saggiarne la
verosimiglianza. Perché quando c’è un esponente politico che ruba è un ladro.
Quando ce ne sono centinaia, diventa “costume” (Berlusconi dixit). Peccato
questa scivolata editoriale. E, ribadisco, il libro è brutto non perché sia
scritto male, ma perché esce con 20 anni di ritardo in Italia (ed alla fine mi
domando se sia un caso).
“Adesso si viene a sapere che ha riempito di
milioni la sua amante. Io non so cosa succede a questi socialisti, la
distribuzione delle ricchezze la fanno a letto.” [sic!!!] (97)
Qiu Xiaolong “La ragazza che danzava per Mao” Marsilio euro 12,50 (in
realtà scontato a 1,10 euro con Feltrinelli+)
[A: 09/11/2013– I: 20/02/2014
– T: 24/02/2014] - && e ½
[tit. or.: The Mao Case; ling. or.: inglese; pagine: 363; anno 2009]
Eccoci
al sesto caso dell’ispettore Chen, imbastito dallo scrittore Qiu, che dal 1989
vive negli Stati Uniti. Continuo a leggerne, anche se, libro dopo libro, la
scrittura di Qiu si attorciglia sempre più, da un lato allontanandosi dai pur
interessanti casi dei primi libri, dall’altro legandosi a modi ed espressioni
molto “interne” alla Cina. Interessanti forse filologicamente, ma che rendono i
suoi libri, se posso dirlo, sempre più pallosi. Qui il vero punto d’interesse è
in un certo senso la doppia lettura: c’è il binario delle indagini e della vita
di Chen, che non ci prende più di tanto, e c’è Mao in sottofondo, che invece,
pur annegato in incomprensioni (mie) ha un buon livello di interesse. O almeno
di stimolo ad approfondire un personaggio che da decenni ho lasciato cadere nel
dimenticatoio. Doppia lettura che sarebbe stata più palese lasciando il titolo
originale (“Il caso Mao”) invece di introdurre questa ragazza che danzava per
il Grande Timoniere. Che ovviamente entra nella storia, ma rischia di far
pendere la bilancia delle osservazioni verso la ragazza, quando in realtà il
romanzo è tutto incentrato su Mao e su alcuni aspetti poco edificanti del
maoismo (leggi “la rivoluzione culturale”). Intanto la ragazza, in realtà era
un’attrice (come attrice era Jing Qiao, la famigerata Madame Mao). Ed inoltre era
una delle innumerevoli amanti del Presidente (che pare avesse una ben nutrita
schiera di concubine). Shen, l’attrice, sembra abbia avuto in regalo una poesia
autografa di Mao, pare che abbia fatto molte foto al Grande Condottiero, tant’è
che, presa di mira dalle Guardie Rosse, si toglie la vita (o viene
defenestrata?). Lascia la sua eredità segreta a Qiao, la figlia, che tenta di
fuggire ad Hong Kong, viene presa, e ben presto liquidata, lasciando la figlia
Jiao appena nata e solitaria. La storia prende le mossa quando la polizia si
insospettisce dell’improvvisa ricchezza di Jiao, temendo che abbia rivelazioni
anti-maoiste da fare. Per questo, l’ispettore in carriera Chen viene incaricato
di far luce, possibilmente, sulla materia. Chen si introduce nell’entourage di
Jiao, conosce un suo mentore, il signor Xie, fanatico degli anni Trenta, che si
scopre sodale del marito morto di Qiao. Ed intorno a Xie e Jiao cominciano a
fioccare morti sospette. Prima una ragazza amica di Jiao. Poi il capo delle
indagini della polizia segreta. E bene dice a Chen che viene assalito anche
lui, ma si salva e si rifugia a Pechino, dalla sua ex Ling. Lì assistiamo al
definitivo recidersi di questi vecchi legami di Chen. Ma anche, e con piacere,
al vagabondare di Chen per la Città Proibita, per Piazza Tienanmen, e per la
dimora “segreta” di Mao. Su questa parte si tornerà, mentre a Shangai le
indagini proseguono, da parte del sodale di Chen, il poliziotto in pensione
soprannominato Vecchio Cacciatore. Chen scopre un possibile “Riccone” (così si
chiamano i neo-capitalisti cinesi) che si crede una rincarnazione di Mao e che
ha concupito Jiao. In un lungo, e poco entusiasmante finale, Chen mette tutti i
pezzi a posto, arrestando il cattivo che intanto ha fatto fuori anche Jiao,
capendo quali siano i segreti di Shen, ma forse lasciando andare tutto sotto
silenzio per non scoprire troppi altarini. Questa la storia, ma è l’altra a
tenere banco. Un banco insopportabile, quando Chen cita ad ogni piè sospinto le
poesie di Mao. E la poesia cinese, a me, non piace proprio. Non la capisco, non
mi smuove neanche mezza corda nell’anima. Ed invece, dato anche che Qiu è un
esperto del ramo, ecco che si cita “La fioritura del pruno” di Mao, e si fanno
paralleli con poesie Tang, con i pesci del fiume Giallo. Pagine e pagine che
guardo passare ma che non aggiungono briciole alle mie pur scarse conoscenze.
Ci vorrebbe una sinossi di migliaia di pagine per entrare nel vivo. O forse
bisognerebbe essere cinesi. Rimangono spigolature e domande forse più intime e
più interessanti. Quante mogli ha avuto Mao? Ha sposato la terza prima che
morisse la seconda? È vero che amava ballare? Quali erano i reali rapporti con
Madame Mao? Come nasce la Rivoluzione Culturale? Inciso: e quali i rapporti tra
questa e le follie cambogiane di Pol Pot? E perché il riccone camuffa la sua
voce con accenti strani? Ecco, l’unica risposta l’ho avuta a questa domanda, scoprendo
che Mao aveva un forte accento dello Hunan, che dava una strana inflessione al
suo “cinese mandarino” (un po’ come sentire parlare in italiano il primo Bossi,
mi si dice). Insomma, un libro che ho letto per queste domande su Mao, ma che
per il resto sconsiglio vivamente di toccare. A meno che non si sia conoscitori
e amanti della poesia cinese, ai quali, soltanto, auguro buona lettura. E
chiudo rimandandovi alla citazione sotto riportata, che non capisco e che credo
pochi possano capire, anche se mi sono sforzato di farlo.
“A questo mondo, otto o nove volte su dieci
le cose non funzionano secondo i nostri piani ma, come dice l’antico proverbio,
chi sa se è fortuna o sfortuna, quando il vecchio di Sai perde il suo cavallo?”
(70) [e cioè???]
Analisi
di un proverbio cinese (che se sbaglia la traduzione e non la spieghi sei un
traditore e non un traduttore).
In
un articolo a proposito del rischio di bocciatura al gaokao, l’esame d’ingresso
all’università, l’autore incoraggia la figlia, studentessa sotto esame, con un
famoso chengyu (proverbio): “Il vecchio della frontiera ha perso il cavallo, ma
non è detto che sia un male”. La forma originale è (trascritta) Sài wēng shī mǎ, yān zhī fēi fú (“Il vecchio della frontiera ha
perso il cavallo, come è possibile sapere che non sia una fortuna?”
e già notiamo che chi sa di Cina e di proverbi, traduce “Sai weng” come il
vecchio della frontiera e non il vecchio di Sai!). La storia raccontata è
quella di un vecchio che viveva vicino alla frontiera del nord; il vecchio
possedeva un cavallo pregiato, che però un giorno fuggì oltre la frontiera,
dove vivevano i barbari. I suoi vicini si rattristarono molto con lui, il quale
però si mostrò molto meno preoccupato, anzi, disse appunto “Chi può sapere che
non sia una fortuna?”. Aveva ragione, infatti, dopo qualche mese il cavallo
ritornò, addirittura insieme ad un secondo cavallo ancora più pregiato.
Tradizionalmente la storia – che potrebbe concludersi anche qui – continua con
l’arrivo dei soliti vicini, stavolta per congratularsi della fortuna insperata.
Con ammirevole sangue freddo, il vecchio rispose che non era detto che quella
fosse davvero una buona cosa. Fu profetico, perché, in effetti, un giorno un
suo figlio, mentre cavalcava il nuovo cavallo, cadde dalla sella rompendosi una
gamba. I vicini accorsero nuovamente, ma trovarono il vecchio per niente
turbato: al contrario, si diceva convinto che anche quella sventura potesse non
essere del tutto negativa. I vicini, sbalorditi, si convinsero che il vecchio
volesse soltanto dissimulare il dispiacere. Poco tempo dopo, però, i barbari
invasero le frontiere, scatenando una feroce guerra: tutti i giovani furono
chiamati a partecipare alla battaglia, finendo sterminati. L’unico che scampò
fu… il figlio convalescente del vecchio. Solo allora i vicini si convinsero
della saggezza delle sue parole.
Michael Connelly “La lista” Piemme euro 13 (in realtà, scontato a 11
euro)
[A: 19/05/2013 – I: 03/04/2014
– T: 06/04/2014] - &&&&
[tit. or.: The Brass Verdict; ling. or.: inglese; pagine: 418; anno 2008]
Eccoci
di nuovo in pista con i grandi gialli del maestro Connelly. Parlai qualche
tempo fa dei meccanismi di aumento dell’efficacia dei prodotti seriali, e delle
loro diramazioni. Connelly ha il suo elemento centrale nell’ormai decennale serie
di Hieronymus “Harry” Bosch, provando di tanto in tanto nuovi personaggi per
avere più respiro. Nel 2005 introduce un episodio di prova con un avvocato,
che, seppur ligio all’ordinamento giuridico americano, ha un suo codice etico
quasi di giustizia. Dopo qualche libro su Bosch, ecco che ritorna a Mickey
Haller, e con un buon romanzo, che al solito unisce una piccola dose di
suspense ad una lunga disamina dei meccanismi giudiziari d’oltre oceano. Con
una piccola sorpresa finale, che si intuisce dall’inizio ma di cui parlerò
forse più in là. Ricollegandosi all’avventura precedente (“Avvocato di difesa”)
ricordiamo che alla fine Haller era stato ferito nel convulso finale che portò
alla soluzione del caso. Ora è passato del tempo (almeno un anno) ed Haller non
ha ancora ripreso la professione, dovendosi curare da un’overdose di analgesici
che lo ha portato quasi alla dipendenza. Improvvisamente, però si ritrova in
mezzo al guado. Un suo collega viene ucciso e lui viene nominato “sostituto”.
Nel gergo americano significa che, se i clienti del morto Jerry lo accettano,
lui può prendersi i suoi casi. L’inizio è ben caotico, non trovandosi molte
informazioni sui casi. Lui si mette alla caccia aiutato dalla fida Lorna (la
sua seconda ex-moglie) e dal di lei compagno Cisco (investigatore privato). Tra
tanti casi minori, uno è quello che viene alla luce con forza. Il processo
contro il magnate del cinema Walter Elliot accusato di aver ucciso la moglie ed
il di lei amante. L’altro elemento di incasinamento della vicenda, sono le
indagini sulla morte di Jerry Vincent, l’avvocato, che sono affidate a… Harry
Bosch. Molti sono i motivi stimolanti sul piano giuridico: Bosch è convinto che
la morte di Jerry risieda nei casi che ora ha in mano Mickey, ma questi non può
dare informazioni sotto il vincolo della segretezza; ci sono elementi poco
chiari sulle motivazioni dell’arresto di Elliot; sembra ci sia di mezzo l’FBI
che indaga su di un caso di corruzione. Intanto crescono personaggi laterali:
uno dei clienti di Jerry viene fatto assolvere da Mickey e da questi preso come
autista; Cisco conduce indagini e diventa quasi come Drake l’investigatore di
Perry Mason; Mickey è pressato dal buonismo della figlia Hayley e dall’amore
mai sopito per la prima moglie Maggie. Un bel momento di lettura è la scelta
della giuria, dei modi per accettare o ricusare i giurati, quasi una partita a
scacchi, dove si cerca di ottenere in giuria persone potenzialmente favorevoli.
Indagando tra i vari clienti poi, Mickey ne scopre uno che non c’era ragione
perché diventasse cliente, se non che scopre aver sparato 84 proiettili verso
dei poliziotti ed essere stato ammanettato nella stessa auto che porterà in prigione
Walter. Ma Walter è un personaggio ambiguo, continua a mostrarsi troppo sicuro
di sé, e continua (a detta di Mickey) a non dire la verità. Attraverso le sue
indagini private e la lettura di tutta la documentazione il nostro Haller
arriva ad alcune conclusioni importanti: nella giuria ci deve essere un giurato
corrotto (sono spariti soldi dai conti di Jerry senza motivo) che se non fa
raggiungere l’unanimità del verdetto farà assolvere Walter. Le tracce di
polvere che accusano Walter vengono proprio da quell’auto di cui sopra. Intanto
Bosch continua ad imperversare per sapere notizie, e tra i due si istaura uno
strano rapporto di rispetto e antagonismo. Haller vuole vincere pulito, così fa
in modo di smascherare il giurato, che sparisce. Elliot diventa nervoso. Haller
si dà da fare in alcuni momenti processuali veramente interessanti e ben descritti.
Arriviamo così al finale, con Bosch che all’ultimo momento salva la vita ad
Haller, Mickey che riconquista la fiducia della figlia, Warner che viene ucciso
(non vi dirò da chi) facendo quindi fermare il processo (questa la legge
americana). Si scopre, inaspettatamente, la catena di corruzione che ha portato
all’infiltrazione del giurato, coinvolgendo personaggi di livello. Si è così
avuto quello che diceva correttamente il titolo americano, “Il verdetto del
proiettile” (e vi lascio scoprire cosa significa), e non quella “lista” che in
realtà poco entra nella storia. Dove appunto abbiamo anche quella sorpresa
finale, che noi lettori di Bosch e Connelly già sapevamo (ed intuivamo da
diversi indizi). Bosch ed Haller in realtà sono fratellastri. E questo connubio
porterà senz’altro a qualche altra vicenda intricata ed intrigante. Per ora
rimaniamo con i due personaggi, il poliziotto e l’avvocato, ben delineati e con
una cura dei particolari che fanno un piacere della lettura dei libri del
maestro Connelly.
Patricia Cornwell “Letto di ossa” Mondadori euro 13 (in realtà,
scontato a 9,75 euro)
[A: 06/02/2014 – I: 21/04/2014
– T: 25/04/2014] - &
[tit. or.: The Bone Bed; ling. or.: inglese; pagine: 390; anno 2012]
Ormai
stiamo rasentando i limiti dell’illeggibilità. O almeno del vituperio del
lettore da parte di un’autrice che per tanti anni ho amato, seguito, tanto da
avere l’intera serie di Kay Scarpetta ordinatamente messa in libreria (anche se
da mia madre, che ha una libreria più spaziosa). In effetti, l’unica cosa
salvabile è la traduzione del titolo, una volta tanto resa senza fantasiose invenzioni.
Per il resto, un libro senza sussulti, senza grosse invenzioni, inutilmente
lungo quasi 400 pagine. Intanto, mi sembra una buona richiesta di amore da
parte del lettore, seguire Pat che scrive di 24 ore della vita di Scarpetta e
soci, occupando più di 200 pagine. Certo il libro alla fine dura poco più di
quattro giorni, relegando in poche pagine convulse finali, messi lì senza tante
spiegazioni. Queste 200 pagine sembrano quasi voler essere una “presa diretta”,
un tentativo di trasportare su carta l’agilità delle immagini delle serie
televisive (i vari C.S.I., NCIS, Body of Proof e via elencando). Ma non è così,
ed io lettore arranco sulla pagina aspettando qualche momento saliente, qualche
velocizzazione delle idee, se non dello scritto. Che comincia con una possibile
morte di una paleontologa in Canada, il cui orecchio viene inviato alla nostra
dottoressa, e ricevuto insieme alla notizia della scoperta di un cadavere nelle
acque del porto di Boston, lo stesso giorno in cui Kay deve testimoniare al
processo per la scomparsa della moglie di un facoltoso cittadino. Assistiamo
alle lunghe pagine del reperimento di questo corpo, con un’immersione nelle
acque di Kay che libera anche una tartaruga marina impigliata negli stessi fili
del cadavere. Ed invece di andare al processo, Kay fa subito una prima parte di
autopsia, scoprendo che il cadavere è stato a lungo sotto zero prima di essere
immerso nelle acque oceaniche. Ciò darà modo di sviluppare pagine e pagine sul
dibattimento processuale con le accuse di vilipendio della corte per Kay e con
una montatura mediatica del “salvataggio del cadavere” che daranno modo di
prosciogliere il ricco antipatico dalle accuse (no cadavere, no uccisione). Nel
pomeriggio e nella serata di questa lunga giornata poi si scopre che: la morta
in acqua era una signora benestante scomparsa da sei mesi, che l’assassino
aveva attivato un account twitter post-mortem, che Marino (il fido aiutante di
Kay) aveva chattato a lungo con questo account, tanto che qualcuno lo ritiene
coinvolto, che Benton (il marito di Kay) sa molto di più di quello che dice,
che Doug, poliziotta FBI incaricata delle indagini, è cotta di Benton e cerca
in tutti i modi di screditare sia Kay che Marino, che un tizio ubriacone
supposto morto per caduta dalle scale è in realtà stato ucciso, che lo stesso
tizio era il giardiniere part time della morta. Assistiamo anche ad una lunga
ed inutile perquisizione delle case dei morti, piene di particolari rilevanti
per un uso “legale”, ma sparsi e diluiti nelle lunghe peregrinazioni mentali di
Kay, dubbiosa della fedeltà dei suoi cari: di Benton che non le dice tutto, di
Marino che sembra essere tornato all’amica bottiglia, di Lucy (la nipote)
anch’essa misteriosa e forse coinvolta in una nuova storia d’amore. La mattina
dopo scopriamo che la paleontologa è realmente morta (se ne trova il cadavere,
guarda caso in contemporanea…). Ma quali sono i fili che legano tutte queste
morti, che sembrano (da come sono stati commessi gli omicidi) legati ad un
unico serial killer? Cosa lega la paleontologa, la filantropa, la moglie
scomparsa ed il giardiniere? Senza darci modo di capire come fa, Kay si reca in
una casa di cura per anziani dove lavorava la filantropa, dove a volte lavorava
il giardiniere, dove era ricoverata la madre di un alto dirigente della ditta
del riccone dalla moglie scomparsa. Kay capisce tutto, ma viene rapita
dall’assassino (e questo nelle scarse dieci pagine finali). Fortuna che Lucy ha
messo un GPS nella macchina di Kay, così che i buoni riescono a salvare la
nostra eroina, non senza che ci rimetta le penne anche Doug (così ce la leviamo
di torno). Ed il libro finisce. Con un colpevole che compare una sola volta
(prima del convulso finale) verso pagina 240. Con il mistero della morte della
paleontologa (forse lavorava anche lei nel centro anziani?). Insomma c’era
materia per scrivere un romanzo più snello, più avvincente, e magari con
qualche spiegazione in più. Niente da fare, Cornwell, stiamo peggiorando libro
dopo libro. Che fare ora? Sperare che la prossima puntata risollevi l’audience
o abbandonare il serial?
Essendo
il secondo appuntamento del mese, come ormai sapete, trovate allegato un nuovo
capitolo legato alle cure attraverso i libri. Dedicato questa volta
all’arroganza, con un libro che dovrebbero leggere tutti coloro che hanno
figlie adolescenti.
Per
finire, visto che ormai sapete tutti che questo mese di luglio si trascorre
qui, seduti a scrivere, leggere e mettere (possibilmente ordine), dato che ben
tre viaggi Avventure sono stati cancellati ad una settimana dalla partenza, non
mi resta che ripetere anche in questa forma gli auguri ai miei amici Nino ed
Elena, per la da poco passata festa.CURARSI CON I LIBRI di Ella Berthoud e Susan Elderkin con i “bugiardini” di Giovanni
Anche questo mese parliamo di
amore, ma guardandolo da un diverso punto. Anzi da due diversi punti, che dopo
spiegherò, per capire questo difetto (malattia) ormai molto generalizzato.
ARROGANZA
Orgoglio e pregiudizio, Jane Austen
Angel, Elizabeth Taylor
Mildred Pierce, James M. Cain
L'arroganza, in letteratura, è uno dei
crimini peggiori. Lo sappiamo perché quando il signor Darcy snobba Elizabeth
Bennet al ballo di Bingley – rifiutandosi di danzare con lei, respingendo la
sua bellezza come appena «passabile» e in generale comportandosi in modo
sgradevole verso gli abitanti di Longbourn – egli viene immediatamente
liquidato da tutti, anche dalla signora Bennet, come l'uomo «più orgoglioso e
antipatico del mondo».
Questo, poi, nonostante sia molto più bello
dell'amabile signor Bingley, nonostante possieda una grande tenuta nel
Derbyshire, e nonostante sia lo scapolo più appetibile in un raggio di quasi
cinquanta chilometri – fatto che, come sappiamo, significa molto per la signora
Bennet che ha cinque figlie da sistemare.
Per fortuna la giocosa Elizabeth Bennet,
eroina di “Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen, sa come fargli abbassare la
cresta. Un po' lo stuzzica («Sono assolutamente convinta... che il signor Darcy
non abbia alcun difetto» gli dice) e un po' lo rifiuta, di brutto e calcando la
mano («Vi conoscevo da meno di un mese e già avevo capito che siete l'ultimo
uomo al mondo che potrei mai sposare»); in questo modo non solo corregge le
sue magagne, ma dimostra a tal punto la «vivacità della [sua] mente» che Darcy
si innamora di lei ancora una volta – e stavolta nella maniera corretta. Se
soffrite della stessa arroganza, imparate da questo romanzo a riconoscere lo
sfottò intelligente e l'onestà coraggiosa – e accoglieteli a braccia aperte.
Magari sarete così fortunati da essere trasformati in una persona perfetta da
qualcuno come Elizabeth.
A volte, tuttavia, l'arroganza è così
profondamente radicata che niente e nessuno può intaccarla. L'eroina di “Angel”
di Elizabeth Taylor – non è l'attrice di Hollywood, ma una scrittrice inglese
della metà del XX secolo – ha appena quindici anni quando la incontriamo, e
dire che pensa di essere il massimo è un eufemismo. Incorreggibile bugiarda,
questa strana bambina è vanesia, prepotente e del tutto priva di senso
dell'umorismo. Non prova altro che disprezzo per i suoi compagni di classe,
rimane indifferente quando uno di loro viene portato in ospedale con la difterite
e fantastica su un tempo futuro in cui, coperta di smeraldi e con una stola di
cincillà, assumerà come domestica la propria, noiosa genitrice. Ovviamente, la
povera donna è abbastanza turbata dalla figlia che ha cresciuto – proprio come
Mildred è inorridita dalla figlia Veda, altrettanto mostruosa, in “Mildred
Pierce” di James M. Cain. Veda dilapida le ricchezze famigliari per mantenere
il proprio stravagante stile di vita e porta via alla madre il nuovo
fidanzato. Mildred si spingerà fino a tentare di uccidere il mostro che ha
creato.
È piuttosto intrigante notare fino a dove
l'iper-fiducia di Angel riesca a spingerla – fino agli smeraldi sognati, in
effetti. Anche Veda ottiene esattamente quello che vuole. Nessuna delle due,
invece, scoprirà l'umiltà. Il rifiuto – nel caso di Angel, da parte di editori
e critici; in quello di Veda, da parte della madre – non suggerisce a nessuna
delle due una pausa di riflessione.
Non fate come Angel o come Veda. Quando
qualcuno vi respinge, domandatevi che cosa avete potuto fare per meritarlo.
Fate come Darcy, invece. Anche se all'inizio si arrabbia e rimane mortificato
dal rifiuto di Elizabeth – e dalla maniera in cui lo rimprovera – lui conosce
la differenza tra giusto e sbagliato, e desidera ardentemente che le persone
che ammira abbiano, di lui, una buona opinione. Siate felici quando qualcuno vi
sfotte – con ogni probabilità, sta cercando di rendervi migliori.
Bugiardino
Quali i due punti di vista? E
quali i due amori? Abbiamo l’amore uomo – donna (centro della narrativa della
Austen) e l’amore genitore – figli (verso cui pendono Taylor e Cain). Ma anche
arroganza salvata dall’amore (sempre la Austen) e amore ucciso dall’arroganza. Il
libro sull’orgoglio e il pregiudizio lo lessi intorno alla metà degli anni ’80,
e non credo sia il caso di ritornarci su (non credo di ricordarne molto, in
realtà). Mentre il libro della Taylor, pur presente nella mia libreria, non è
ancora stato letto (e ci si ritornerà a suo tempo). Rimane Cain, si quello del
Postino che suona due volte, con questo libro letto tre mesi fa, ma non ancora
inserito nelle Trame. Per cui, anche qui, un’anteprima succulenta.
James M. Cain “Mildred Pierce” Adelphi euro 12 (in realtà, scontato a 9
euro)
[letto il 15 aprile 2014]
L’autore
è il ben noto scrittore de “Il postino suona due volte”, che però non ho ancora
letto. Qui lo troviamo in quello che invece è considerato il suo miglior
romanzo, portato al cinema da Joan Crawford (Oscar) ed in televisione da Kate
Winslett (Emmy Awards). Romanzo che veniva ascritto al genere noir, in
considerazione dei cambiamenti fatti nel film. E che invece è giustamente un
mélo come ci fa vedere la mini-serie TV. Infatti, seguiamo per le scorrevoli
300 pagine la storia e le vicende di Mildred Pierce, giovane casalinga che vive
nel 1930 a Glendale, sobborgo di Los Angeles. È appena accaduto il grande
disastro del ’29, l’America è in piena recessione, ed il costruttore di case
Bert (marito di Mildred) si trova a corto di soldi e senza prospettive. Non
solo, ma si consola dei disastri tra le braccia di Maggie, mentre Mildred è
costretta a fare torte in casa che rivende a pochi dollari, per poter arrivare
(e con molta fatica) a fine mese. Ci sono poi le loro figlie: Moire (detta
Ray) e Veda. Mildred, stufa della
pochezza di Bert, lo manda a scopare il mare, chiede il divorzio, e comincia a
ipotizzare di far diventare un lavoro più redditizio quello delle torte. Ma
deve trovare anche il modo di sbarcare il lunario, di pagare il mutuo che le h
lasciato Bert. Insomma, sta proprio in mezzo ai guai. Oltre alle torte, l’unico
mezzo di sostentamento che ha è il suo corpo. Non che diventi improvvisamente
un escort di lusso, ma diciamo concede le sue grazie in modo da ottenere in
cambio qualche aiuto, qualche suggerimento. Magari legale, dall’ex-socio del
marito. Magari di prospettive, quando cade tra le braccia del bel Monty, un
quasi gigolò, forte solo della sua bellezza e dei lasciti aviti che a poco a
poco si mangia. In questo girare tra letti e torte, scompare presto la piccola Ray,
portata via da una polmonite fulminante. Ma Mildred non si lascia abbattere.
Prima continua con le torte, poi si fa cameriera. Accumula soldi ed esperienza,
e, nella grande esaltazione del sogno americano, fa una luminosa carriera.
Tanto da poter aprire un ristorante suo. Dove impiega le sue amiche, chi ai
tavoli, chi ai liquori (che intanto il proibizionismo sta passando). Unico suo
cruccio, l’impossibile rapporto che ha con la figlia Veda. Che non accetta lo
status di “figlia di una commerciante”. Lei è quella delle grandi manie, delle
grandi capacità, quella per cui non è nata nobile ma solo per caso, e fa di
tutto per salire (a suo modo) i gradini del potere femminile. Prima con il
pianoforte, ma avendo un talento solo ripetitivo deve cambiare e cambia alla
grande, verso il canto dove le sue doti spiccano di gran luce. Seguiamo così le
loro due carriere, sempre ai ferri corti, ma ognuna con i suoi lumi. Il
ristorante, le torte, gli investimenti, consentono a Mildred di arrivare ad una
vita agiata. Ogni volta rimessa in pericolo dalla necessità di soccorrere Veda
se questa ha problemi, se Veda chiama, se Veda ha bisogno. Bert, intanto, si
defila dalla scena, un poco ingelosendosi dei successi di Mildred, ma
partecipando a quelli della figlia, in cui rispecchia il proprio egotismo
assoluto (se non c’è niente al mio livello, non faccio nulla, aspettando che
qualcosa arrivi). Mildred salva anche Monty dalla bancarotta, rimette in sesto
le di lui scarse finanze. Lo sposa anche, per poi ben presto divorziare quando
si accorge che Monty è un involucro vuoto. Ed è nella parte finale che il melo
acquista tono e spessore. Perché Mildred, acquiescente ad ogni richiesta di
Veda, si accorge che non solo la figlia la odia da sempre, che Veda l’ha usata
per ottenere un contratto canoro più vantaggioso. Ma anche che Veda si mette
con Monty, andando via da Los Angeles per continuare la sua bella vita a New
York. Mildred alla fine risposa Bert, il suo primo marito (lasciato da Maggie
che torna dal suo di marito che nel frattempo ha scoperto del petrolio nel
Texas, ahi potenza del grande sogno americano). Il libro è tutto qui, tutto nel
rapporto tra genitori e figli e su come le scelte private influiscano sulla
vita pubblica dei personaggi. Nel film con la Crawford decidono di inserire la
componente noir, inscenando l’uccisione di Monty. Ma è una forzatura, che nel libro
manca. Perché il libro, in fondo, è molto più dolente della torbida storia
melo-noir del cinema. Dolente ed aulente. Perché da un lato si inneggia al
grande mito americano che tutti possono riuscire se hanno le capacità (Mildred
fa le torte, sa cucinare, apre un ristorante, ed ha successo; Veda sa cantare,
e vola di palcoscenico in palcoscenico), ma tutti falliscono se non ne hanno
(Bert si illude di saper fare, e farà lo spiantato per tutta la vita,
riscattato solo dall’affetto di Mildred, Monty ha soldi di famiglia, ma non è
capace di nulla, e non potrà passare che di fallimento in fallimento). E
dall’altro si toccano le corde che sempre inguaiano gli americani: l’incapacità
di avere rapporti umani, la tragedia dell’odio genitori-figli (o meglio figli
vs. genitori, anche se bollare Veda come la creatura più demoniaca della
letteratura come fa la quarta di copertina mi sembra un po’ forte). Ci sarebbe
quasi da scriverne un saggio sociologico. Intanto gustiamoci questa scrittura
di Cain, dimenticando il film, la serie televisiva, e seguendo gli anni Trenta
americani attraverso alcuni protagonisti minuti, anche se non minimali.
“Bert assomiglia a Veda. Se non può fare le
cose in grande stile, gli sembra di non vivere.” (102)
Conclusioni
Come detto, qui si tratta di due
diversi tipi di approccio alla malattia. L’antagonismo descritto dalla Austen è
senza dubbio da utilizzare, e ne concordo le dosi, eventualmente specchiandosi
nel contraltare impersonato dalla vanità di Rossella O’ Hara. Trattando invece
di adolescenti, potrebbe valere la pena mitigare l’arroganza anche con qualche
dose di eccesso di fiducia (nei genitori) per indurne la mancanza (nei figli).
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