A parte l’intermezzo “nero” della
settimana scorsa (dove però vi invito a leggere l’intervento di Sepúlveda su
Repubblica del 18 luglio), ecco la quarta puntata dell’insalata mista, utile e
fresca nel caldo estivo (e con un giorno di anticipo che ci riposiamo anche noi
scrittori). Dopo aver passato il mondo anglo-sassone, i crucchi, i popoli dello
yogurt, eccoci finalmente con quattro autori italici. Con un inizio fulminante,
il bellissimo libro non romanzo di Piccolo, letto prima che diventasse bandiera
dello Strega, ed il sempre interessante Licalzi, non tanto per il libro ma per
l’idea che sta alla base dello scritto. Piccola caduta nel “moccismo” giovanile
con il comunque ben scritto D’Avenia, per poi risalire con l’interessante opera
prima di Fabio Bartolomei.
Francesco Piccolo “Il desiderio di essere come tutti” Einaudi s.p.
(Regalo di Alessandra che in realtà mi aveva regalato il libro di Otto)
[A: 25/12/2013– I: 21/01/2014 – T: 25/01/2014] - &&&&&
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 264;
anno 2013]
Non
ho ancora capito, o non ancora deciso, che cosa sia questo volume. Un romanzo?
Ne ha l’andatura, ma racconta fatti senza “romanzarli”. Un saggio? Ne ha
talvolta la scrittura, ma non l’impostazione generale. Se fossi francese, lo
chiamerei “memoir” (e non autobiografia, che non stiamo affrontando tutta la
vita dello scrittore, solo alcuni passi). Piccolo ci parla di sé, di alcuni
suoi momenti, talvolta decisamente privati. E ci parla del mondo intorno a lui.
E siccome lui è qui, nel mio stesso mondo, allo stesso modo, parla del mio mondo.
Certo, c’è una leggera sfasatura temporale, che una decina d’anni ci dividono.
Ma so di cosa parla, e lui capirebbe se ne parlassi io. Piccolo ferma nel corso
del tempo alcuni suoi momenti topici, sempre sia personali che pubblici, e ne
fa le pietre miliari del suo diventare. Nel desiderio di essere come tutti
(omologato) si instaura la necessità di essere se stessi. E quali sono questi
passi, questi momenti? C’è la Reggia di Caserta, incombente nell’infanzia e
presente nella maturità, soprattutto la fontana di Diana e Atteone. C’è il 74’
minuto della partita tra le due Germanie ai mondiali del 1974. C’è il rapimento
di Moro. C’è la morte di Berlinguer. C’è Chesaramai, la sua donna, sposa, madre
di suo figlio “la sdrammatrizzatrice dell’umanità”. Piccolo fa questo suo
viaggio di memoria partendo dalla coscienza di “esserci”, quando a nove anni
(vi tralascio il come) si trova solo nella Reggia della natia Caserta. Vicino a
quella fontana di Diana e Atteone, dove io sempre mi domando ma che colpa ha il
povero Atteone? Non fa avances a Diana, non è un “pervertito”, passa
incautamente di là e vede la dea “come l’ha fatta la mamma”. E per questo viene
prima trasformato in cervo e poi ucciso? Crudeltà dei greci… Ma torniamo a
Francesco, che dopo quel momento di maturazione (ed io salto di palo in frasca)
sempre a quella fontana si ritrova, durante un discorso del famigerato SB, che
da lì incita a procreare. Si sa che il rapporto tra Piccolo e Silvio non è
proprio d’amore (non a caso, è lo sceneggiatore de “Il Caimano” di Moretti), ma
quella frase, ed una discussione con Bolzoni e D’Avanzo (prima della prematura
scomparsa del giornalista) fa riflettere sul fatto che bisognava (e bisogna)
attaccare i comportamenti di SB per quello che portano di male alla vita pubblica
(in termini di possibili ricatti istituzionali, ad esempio), e non per un
moralistico giudizio sulla vita privata. SB può scopare come e quanto vuole, se
fosse un manager privato. Non può farlo, se diventa un personaggio pubblico.
Non può fare le corna durante le foto. Non può telefonare mentre c’è una
conferenza. Non può dire frasi sconvenienti ad un ministro donna di un altro
paese. Ma qui mi fermo che l’etica mi impone di tornare al libro. Ad esempio al
minuto della partita di calcio tra Germania Ovest e Germania Est (l’unica
disputata a livello ufficiale) dove la seconda e derelitta, con un tiraccio di
Sparwasser, batteva inopinatamente i cugini dell’Ovest, che tuttavia avrebbero
poi vinto il mondiale. E Piccolo capisce l’essere verso le minoranze, verso i
tartassati, un elemento del proprio essere (come quando mi innamorai delle
capacità difensive di Bruno Garzena? Forse, e vediamo chi se lo ricorda…). Ma
ancor più perché il padre tifava Ovest, e quindi, come non contrapporsi. Dalla
contrapposizione verso la famiglia all’omologazione verso l’esterno. E come pur
tuttavia non pensare di approfondire un discorso fondante come il rapimento
Moro, elemento di svolta di molte generazioni. Certo per Piccolo molto come
elemento d’amore della bella Elena (lasciata per un San Valentino incompreso),
ed io ne ricordo il mio vissuto d’angoscia (durante tutto il periodo “Moro” era
caporal maggior dell’esercito di leva…). E bella, coinvolgente, e da discutere,
anche tutta la vicenda Berlinguer. Berlinguer l’uomo, come diceva la Ginzburg,
di cui ci ricorderemo sempre (come narrava il Benigni di “Berlinguer ti voglio
bene”). Dagli articoli di Rinascita dell’ottobre del ’73 dopo l’assassinio di
Allende, alle convergenze con Moro, al tentativo di compromesso storico, all’allontanamento
dalle illusioni di potere, verso quell’alternanza democratica (che forse
prefigura il bipartitismo imperfetto) che mai si potrà realizzare in un paese
come l’Italia. Con quelle pagine che ancora mi bruciano nella memoria dei
fischi al congresso di Verona. Con l’odiosa faccia di Craxi che incombe per
dieci anni sulla scena politica (e pensare che negli anni ’70 ne pensavo con
condiscendenza). Tutta questa parte, sebbene molto politica, e molto di parte
(d’altra parte, bisogna pure schierarsi, anche se si vuole essere come tutti) è
molto da leggere e da commentare. Possiamo non condividerla, ma non ignorarla.
Poi Piccolo ci ammalia con altre sirene, come il bellissimo racconto di Carver
o il film “La Terrazza” di Scola (se ne dovrebbe riparlare) o quel monumento
dell’etica e della casualità che fu “La promessa” di Dürrenmatt (e come mai è
l’unico libro che non compare nella bibliografia?). Alla fine, riporto tutte a
due delle frasi che riporto. Quella bellissima di un articolo di Rosellina
Balbi sull’eguaglianza, e la riflessione, di Piccolo ma che faccio mia, sull’etica
dei principî e della responsabilità. Pur con tutti i suoi prevedibili alti e
bassi, uno dei libri più intensi che abbia letto negli ultimi tempi. Parziale,
da discutere, ma sempre e per questo, bello e da condividere.
“Ma non è che sono comunista perché il
comunismo non c’è?” (40)
“Si può essere felici, mentre gli altri sono
infelici?” (90)
“Rosellina Balbi: Personalmente, sono ancora
e sempre del parere che la distinzione da fare sia quella tra l’eguaglianza e
il diritto all’eguaglianza. La prima non esiste (per fortuna): ciascuno di noi
deve fare la sua corsa e arrivare dove potrà, saprà e vorrà. Altra cosa è la
parità delle condizioni di partenza: è questo che la sinistra deve ottenere,
così come deve continuare a battersi perché la innegabile diversità tra gli
uomini non diventi pretesto per la discriminazione e il sopruso dei forti nei
confronti dei deboli.” (147)
“Ho capito che piegarsi era infinitamente
più virtuoso e utile che non piegarsi. Ho capito che la testardaggine di non
tradire se stessi (l’etica dei principî) era in contraddizione con la necessità
di non tradire milioni di persone (l’etica della responsabilità).” (185)
“La sostanza della sua reazione, per ogni
evento privato o pubblico, è sempre stata, fin dal primo momento, e continua a
essere: ci vogliamo rovinare la giornata per questo?” (188)
“Se come si è, e come si dovrebbe essere,
non riescono a coincidere, allora la sincerità è più fruttuosa del senso di
giustizia.” (226)
Lorenzo Licalzi “Un lungo fortissimo abbraccio” BUR euro 9,90
[A: 15/04/2013– I: 28/02/2014 – T: 04/03/2014] - &&&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 229;
anno 2011]
È
sempre con piacere che leggo qualcosa dello psicologo ligure in veste di
scrittore. Da quando mi affascinò con quel tatuaggio a punto interrogativo (nel
suo primo romanzo “Io no”). Certo, in genere i suoi romanzi e racconti hanno
punte di ironia, talvolta di comicità, che in questo abbraccio mi sono mancate.
Anche perché, la storia in sé, lineare e semplice, si racconta in poche righe.
Ma non è la storia, quello che mi ha legato a questo libro. È l’idea, forse la
domanda filosofica e psicologica che sottende. Per questo, anche, alla fine ha
un buon giudizio, pur non eccellendo sul piano del testo. E certo, anche il
finale su cui torneremo in finale (mi si perdoni la ridondanza) ha un suo
fascino, almeno per me. Ma veniamo alla storia. In un prossimo futuro, le
conoscenze scientifiche avanzanti permettono di tentare, anche se in via
sperimentale, un trapianto impensato: il trapianto del cervello da un corpo
umano in decadenza ad un donatore compatibile. In quello stesso futuro, la vita
si allunga comunque sempre più, così che persone a 70, 75 anni sono ancora nel
fiore dell’attività lavorativa (e cerebrale). Una malattia si diffonde
inopinatamente, che, in quei corpi sani, fa decadere il resto del corpo,
conducendo il malcapitato in breve alla morte. David, il nostro protagonista,
si trova in questa condizione, amato dalla sua settantenne compagna di una
vita, ma in pericolo di morte. Si sottopone quindi al trattamento sperimentale,
anche perché altri e ben noti personaggi stanno vivendo parallele angosce, e si
vuol tentare una via d’uscita (per loro, ovviamente). Il corpo su cui innestare
il suo cervello sarà quello di un giovane di 25 anni, ucciso il giorno delle
nozze con la sua bella Blanca, in una rissa, mentre tentava di salvarla. Qui
c’è il corpo della storia: dov’è l’individuo? Nel cervello? Nel corpo? L’unione
dei due? Il nostro eroe attraversa grosse crisi personali: c’è la moglie, che
lui ama con la testa, ma che ha difficoltà nel riconoscerlo nel nuovo corpo;
c’è il se stesso interiore, combattuto tra le nuove possibilità e i pensieri di
un anziano; c’è Blanca che ritrova il corpo che amava e verso cui il suo corpo
prova attrazione. Combattuto tra questi dilemmi che lo tirano da molte parti,
la crisi scoppia quando la moglie lo trova nel letto con Blanca. Anche lui è
interdetto dalla sensazione di piacere fisico e di disagio mentale. Fuggirà da
tutto e da tutti, per cercare di capire il nuovo se stesso. Salto a piè pari
tutte le parti intermedie (tra cui la moglie che comincia a comprendere il
nuovo, Blanca incinta del corpo del suo amato, ed altre minuzie) per arrivare
alla fine. Dopo una serie di giri per il mondo, il protagonista si rifugia in
Islanda, e davanti ad un baratro deve decidere se la sua nuova vita ha un senso
e tornare alla civiltà o se quest’avventura non può portare nulla di buono alla
civiltà e gettarsi nel vuoto. Ovviamente non vi dirò la scelta di David. E vi
invito a scoprire il sottile meccanismo psicologico che il nostro psicologo
mette in atto nel suo finale, quello di cui accennavo all’inizio e che fa
salire le quotazioni del testo. Rimane, anche dopo la lettura, la lunga domanda
sulla relazione corpo – mente. Non posso che ricordare qui quel bellissimo
seminario fine di un lungo lavoro psicologico e di attenzione, tenuto da
Luciano Marchino coadiuvato dalla mia carissima Maria Luisa “Il Corpo non
Mente”, dove si giocava proprio su questa dualità, dell’espressione corporea
del se, e di tutto il percorso che, partendo dalla nostra mente cosciente, ci
consente di utilizzare il corpo e la mente. Qui, rimescolando le carte, si
torna alla domanda primitiva. Qui, staccando corpo e mente, ci si interroga
sulle loro relazioni. E sul quesito finale: io sono questo corpo che voi vedete
E questa mente che non vedete. Ma quando riconoscete il mio corpo (per la
postura, per l’odore, per tutto ciò che di inespresso può esprimere),
riconoscete anche il mio io pensante ed agente? Ed il mio cervello che fa
muovere un meccanismo che non sono io, è esso stesso riconoscibile? Si può
andare avanti e discutere. Si può tornare al libro. Oppure, perché no, si può
leggere il libro, e poi discuterne. Molto stimolante.
“Il nostro era un abbraccio perfetto,
sincronico, completo. Tra due corpi abituati a stringersi. E a farlo con
intimità. … A far l’amore o baciarsi ci si riesce sempre, e ci si riesce bene,
talvolta anche se ci si odia, ma addormentarsi abbracciati così, come lo
eravamo noi, non si può, perché l’abbraccio è il metro più esatto dell’intesa,
perché l’abbraccio non perdona.” (192)
Alessandro D’Avenia “Bianca come il latte, rossa come il sangue”
Mondadori euro 13 (in realtà, scontato a 9,75 euro)
[A: 15/04/2013– I: 15/04/2014 – T: 18/04/2014] - &&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 254;
anno 2010]
Ero
curioso di questo nuovo scrittore italiano, e benché il suo libro abbia
stazionato più di un anno sui miei scaffali, non sono dispiaciuto della tarda lettura.
Un simpatico professore under quaranta, siciliano, che ha avuto come mentore
don Puglisi (omaggio alla memoria). Certo la scrittura, a volte, risente di un
“moccismo” prima maniera. Ma non è proprio alienamente falsa. D’Avenia parla
del mondo che ben conosce, parla di giovani (un po’ come ne parla la Mastrocola
da Torino). Sedicenni in crescita e tempeste ormonali, spesso di fronte a
problemi più grandi di loro. Sempre in un conflitto di incomprensione con “i
grandi” (genitori, parenti, professori). Spesso anche in conflitto di
comunicazione, anche tra di loro. Non è facile capire, a sedici anni, cosa dire
e come dire quello che si vorrebbe dire. In questo agile romanzo (sono 250 pagine
che scorrono bene in lettura, a me ritemprandomi a valle di lunghe passeggiate
scozzesi) seguiamo quindi la parabola esistenziale del giovane Leo. Ginnasiale,
ossessionato dai colori (sopratutto dal bianco che lo spaventa), diviso tra
play station e calcetto, sempre in compagnia con l’inseparabile Niko. Ha anche
un’amica del cuore, Silvia, che gli tiene mano in tutte le sue fantasticherie
(immaginiamo certo dalla seconda pagina che ne sia segretamente innamorata). Ha
un motorino senza freni. Ma soprattutto è innamorato perso di Beatrice, bella
dai capelli rossi, che vorrebbe agganciare ma che non riesce mai ad avvicinare.
Il teatro di Leo è completato da due professori – mentori: il prof di
religione, su cui D’Avenia ricalca molto il suo attaccamento a don Puglisi, ed
il supplente di filosofia (lo “sfigato” come lo chiama Leo), su cui invece
credo che l’autore abbia proiettato molto anche del se stesso docente (almeno
docente agli inizi, quello che crede nell’insegnamento, che è abbastanza
giovane da ricordarsi come era lui stesso quando andava a scuola). L’elemento
scatenante del romanzo è la scoperta che Beatrice ha la leucemia. E mentre lei
lotta in varie forme con la malattia (trasfusioni, chemio ed altro), Leo attua
una manovra di avvicinamento. In un primo tempo, nascostamente ostacolato da
Silvia che gli fornisce indicazioni false per contattare Beatrice. Poi, da
tutti aiutato (da tutti i giovani, si capisce). Leo dona il sangue
nascostamente a Bea. Leo scrive una lettera d’amore, ma mentre va a portarla a
Bea ha un incidente serio con la moto senza freni. Sarà casualmente ricoverato
nella stessa clinica dell’amata lontana (certo il nome di Beatrice ci porta ad
un passo da Dante). E finalmente avrà modo di conoscerla, di palesarsi, di
tremare vedendola sfiorire, di farsi forza, aiutato dallo sfigato (che gli
suggerisce di seguire i propri sogni invece che solo di sognarli). Ovviamente
Beatrice muore. Ovviamente Leo ha una crisi profonda. Ed altrettanto ovviamente
(dopo che anche Niko lo abbandona dopo che per colpa sua perdono un’importante
partita di calcetto) sarà Silvia a salvarlo. Certo dopo una crisi profonda
della loro amicizia, quando Leo scopre le piccole malefatte dell’amica. Ma non
può che comprenderle. E da quell’amicizia in cui ci si può dire di tutto,
stando bene anche in silenzio, potrà nascere un rapporto diverso. Una
maturazione per il nostro giovane, che in finale cesserà di essere Leo per cominciare
ad essere Leonardo. Insomma, tematica di giovani e sui giovani, con qualche
interessante riflessione sul modo in cui i giovani vedono la vita, e le cose
materiali che li circondano. Forse è un po’ semplicistico pensare che possano
maturare in fretta, e verso direzioni a noi adulti consone. Questa
“elementarità” dei sentimenti porta qualche mezzo libricino in meno, ad un
libro che, in ogni caso, si guadagna un posto di lettura gradevole tra i miei
scaffali, a volte troppo ponderosi.
“La mia scuola porta il nome di un
personaggio di Topolino: Orazio.” (14)
“La maturità non si vede nel voler morire
per una nobile causa, ma nel voler vivere umilmente per essa.” (149)
Fabio Bartolomei “Giulia 1300 e altri miracoli” E/O euro 9,50
[A: 15/04/2013– I: 23/04/2014 – T: 26/04/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: originale; ling. or.: italiano; pagine: 281;
anno 2011]
Queste
letture, come osservano alcuni miei attenti lettori, avvengono ad un anno
dall’acquisto. Dati i miei strani meccanismi di scelte di letture, non è così
difficile che passi del tempo tra l’acquisto e la lettura. D’altra parte,
ritengo che un libro (a meno che non parliamo di instant book o altre
pubblicazioni legate al momento) non abbia un tempo di lettura. Altrimenti, che
senso avrebbe leggere ora “Guerra e Pace”? Ora, non pretendo di paragonare il
buon Fabio all’esimio Anton. Ma non è cambiato il sentimento di piacevolezza
che mi aveva spinto un anno fa all’acquisto ed ora alla lettura. Inoltre, il
libro è uscito nel 2011, quindi direi che ha ben tre anni alle spalle. E li
porta egregiamente. È l’opera d’esordio di Bartolomei (che ha pubblicato in
seguito altri due libri, sempre con E/O) e credo che qualche altra lettura dei
suoi scritti ne farò. Non che sia risolto tutto in positivo. Ci sono sbavature,
parti che ritengo leggermente carenti. Tuttavia il libro è gradevole, con una
trama sostenibile (pur con tutte le sue improbabilità), una bella scrittura che
alterna momenti descrittivi e “oggettivi”, a momenti ironici ed umoristici che
non mi sono dispiaciuti. Sono rimasto solo un po’ perplesso da una pseudo -
struttura del libro, che inizia e finisce con tre soggettive dei protagonisti.
Nel mezzo, il lungo racconto sempre di uno di loro, il simpatico, inventore di
storie, auto-ironico Diego. Non capisco perché, visto che poi la storia si
impernia su quattro protagonisti, il quarto venga relegato ad un ruolo
marginale. Diego, nella sua lunga descrizione, ci fa partecipe prima del suo
rapporto con il padre morente e poi morto. Quindi, dopo una crisi interiore
dove si chiede cosa stia facendo, non avendo legami seri (non a caso lascia
l’ultima donna Alice dicendo che ha bisogno di riflettere, ah ah ah), si
dimette da venditore di auto e si lega agli altri due “sfigati” Fausto e
Claudio. Tutti e tre si imbarcano quindi in un’impossibile impresa:
ristrutturare un casale nella Campania subito dopo Frosinone ed aprirvi un
agriturismo. Fausto è un televenditore fallito di orologi. Claudio gestiva un
supermarket e l’ha mandato in fallimento. Ben presto i tre vengono raggiunti da
Sergio (quello che non viene mai in soggettiva), regista fallimentare degli
spot di Fausto. Sergio in fondo è l’unico che, al contrario degli sfigati,
qualcosa sa fare. E porta un po’ di ordine nella loro confusione. Nel loro
crogiolarsi in un nulla che non può che portarli al fallimento. I quattro poi
entrano in contatto anche con i neri che lavorano nei campi, specialmente con
Abu, principe africano che si rivelerà un abile aiuto di manodopera. Le doti
fallimentari dei tre, in ogni caso, sarebbero capaci di portare alla rovina
anche questa impresa, se non avvenisse un elemento di disturbo che capovolgerà
la vicenda. Un anziano viene a chiedere il pizzo per la camorra locale,
guidando una vecchia Giulia 1300. Precipitando in una serie di equivoci, i
nostri decidono di sequestrare Vito. E poi anche i due “garzuncelli” che sono venuti
in suo soccorso. E con l’aiuto di Abu, seppelliscono la Giulia 1300 nel campo.
Peccato che la radio della Giulia ogni tanto si accenda, e faccia sentire
musica classica che si spande per i campi. Dovendo pensare all’agriturismo,
decidono anche di ingaggiare Elisa la cuoca. Sarà lei ad essere l’elemento positivo:
cambia l’arredamento, prepara pranzi da favola, decide di impiantare l’orto. I
turisti scarseggiano, sino a che Diego nella sua verve istrionica inventa una
storia improbabile per spiegare la musica dei campi. Nasce quindi il miracolo,
e l’agriturismo decolla in maniera decisa. Peccato che i camorristi siano
sempre segregati in cantina, anche se Vito, l’anziano, si affeziona ai nostri
improbabili e comincia ad aiutarli nella gestione agrituristica. La prima crisi
c’è quando Elisa, che nulla sapeva, scopre i camorristi. Ma Diego la convince.
Poi i clan camorristi cominciano a farsi la guerra per la scomparsa dei tre di
cui sopra, finendo per coinvolgere i neri amici di Abu ed ucciderne due. A
questo punto i nostri non possono che liberare tutti, scappare e sperare che
Vito riesca a sistemare tutto come loro longa manus. Su questa speranza li
lasciamo. Con Claudio che esce dalle sue ipocondrie. Con Fausto che, da
fascista convinto, instaura un rapporto di amicizia con Abu. Con Diego che esce
dal suo personaggio stereotipo “stronzo”, e, forse, riuscirà a conquistare
Elisa. Ma questo Fabio non ce lo dice. E forse non è interessante. Anche se la
sospensione con qui ci lascia, mi fa restare sempre un po’ perplesso (come
andrà avanti? cosa faranno Diego ed Elisa? e Sergio? insomma, è difficile
finire un libro in modo che non ci siano possibili domande analoghe; ricordo
che l’unico che mi diede questa impressione fu il Buendia del compianto Gabo).
Ripeto quanto detto sopra, gustando il mix da momenti seri (camorra,
disoccupazione, immigrazione) a momenti ironici (donne, letture, televisioni),
e pensando di aver trovato un buon momento di lettura. Bravo Fabio!
“Siamo la generazione del piano B. Lavorare
in questo paese fa così schifo che, anche se fai il miracolo di raggiungere la
posizione per cui hai studiato, dopo due anni ne hai le palle piene e inizi a
elaborare il tuo piano B. Quasi sempre si tratta di un agriturismo … una vita
migliore, più sana, con più tempo a disposizione. Più tempo per pensare e per
scoprire che sei infelice lo stesso, che il lavoro non c’entrava un cavolo …
Hai traslocato e la prima cosa che hai messo nella valigia sono stati i tuoi
problemi.” (37)
“Di solito non affronto discussioni su temi
politici. Per non essere coinvolto in battibecchi isterici a proposito di
manovre finanziarie o di leggi sull’immigrazione, ho imparato a dire che voto
per i Verdi. Funziona, nessuna sa di cosa discutere con un verde.” (223)
Pur non
essendo uso a ricitare le citazioni, devo dire che questa settimana sono
particolarmente contento delle frasi che mi sono rimaste in mano, anche potendo
suscitare un bel dibattito sulla prima di Piccolo o l’ultima di Bartolomei.
Senza dimenticare quella che mi ha fatto rotolare sulla scuola di D’Avenia. Per
ora non c’è altro, se non continuare a studiare per i sospirati break d’agosto.
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