Dopo due insalate abbastanza
omogenee, eccoci ad un quartetto un po’ più “disparato”, anche se non
disperato. Unito dalla comune passione per lo yogurt, che ho trovato girando
per quelle nazioni. Si parte dalla Finlandia di Paasilinna e la sua girandola
di suicidi, si scende (in tutti i sensi) nella Repubblica Ceca di Kundera (dove
ricorderò sempre un Capodanno con yogurt di quasi … beh diciamo di tanti anni
fa), si risale alla Norvegia del Premio Nobel Hamsun, per finire, dopo tanto
freddo, al caldo mediorientale dell’imperdibile libro di Amos Oz.
Arto Paasilinna “Piccoli suicidi tra amici” Iperborea euro 14 (in
realtà, scontato a 10,64 euro)
[A: 06/12/2013– I: 30/01/2014 – T: 03/02/2014] - &&&
e ½
[tit. or.: Hurmaava
joukkoitsemurha; ling. or.: finlandese; pagine: 259; anno 1990]
Me
ne aveva a lungo parlato il mio amico Emilio come di un delizioso ed ironico
romanzo. Mi capitò inoltre di parlarne con uno studente finnico in una
libreria, studente che considerava Paasilinna il miglior scrittore finlandese.
Approfittando di una visita alla mostra della Piccola Editoria, nonché di una
super-offerta, ecco che nelle nostre trame entra il primo libro finnico. Poiché
questa è una di quelle lingue che forse mai riuscirò ad imparare, devo in ogni
caso rendere omaggio ai traduttori che hanno fatto un esimio sforzo di rendere
la spumeggiante lingua di Arto, in un miscuglio di serietà ed ironia che ben
rende lo spirito del romanzo. Devo però rilevare che, ad onta del titolo
italiano, decisamente accattivante, il testo originale (come rilevo da una
ricerca sul web) porta all’altrettanto affascinante titolo di “Un incantevole
suicidio di massa”. E come rileva l’ottima postfazione di Diego Marani da quel
titolo, da quell’idea parte tutta la costruzione della trama di Arto. Che si
innesca, episodio dopo episodio, come una bomba ad orologeria che sta sempre
per esplodere, di cui ci aspettiamo l’esplosione, ma che quando esplode ne fa
comprendere tutti i meccanismi, uno dopo l’altro accumulati. E funzionali alla
deflagrazione finale. Sebbene non così noto come il suo maggior successo
(“L’anno della lepre”) questo romanzo è un vero campionario dei temi e della
scrittura dell’autore. Si notano l’amore per la natura, l’astio per le
situazioni di costrizione, una sana ironia verso i poteri costituiti, una
passione per la parola ed i rapporti umani, che spesso risolvono situazioni
difficili meglio di aiuti esterni. Il romanzo è poi un doppio campionario: di
persone e di luoghi. Nelle 250 pagine, Arto inserisce persone e nomi e fatti,
costruendo decine di vite immaginarie ma reali, come in un campionario di mini-biografie.
Rendendoci reali (ed amici, come dice il titolo italiano) questa trentina di
personaggi che ad un certo punto si ritrovano su di un pullman di lusso a
girare per l’Europa. Il tutto partendo da un numero: 30 suicidi ogni 100.000 abitanti
(siamo nel 1990; ora la percentuale è scesa a 16, e la Finlandia, dal podio è
scesa al 15° posto). Arto allora comincia a seguire un suicidando: ce ne narra
la storia, e seguiamo Olli mentre va a spararsi in un fienile. Dove trova il
colonnello Hermanni che cerca di impiccarsi. I due, sentendosi un po’ ridicoli,
soprassiedono. E da qui comincia la folle escalation. Olli non ha fatto altro
che bancarotte nella vita, ma le saune con Hermanni gli danno una folle idea.
Mettere un’inserzione per radunare un po’ di suicidi, in modo di inscenare un
suicidio di massa. Il colonnello, con la sua mentalità militare, inizia a fare
piani. All’inserzione rispondono centinaia di possibili suicidi. Con la tipica
mentalità finlandese, ecco che Olli organizza un meeting, riunisce i suicidi,
il colonnello ingaggia Helena, un’aspirante sucida e segretaria di bella
presenza. Fanno un convegno con una relazione di una psicologa che aveva
tentato il suicidio (le rutilanti invenzioni di Arto cominciano ad ingranare).
Alla fine si ritrovano in una trentina di persone decise a suicidarsi ad ogni
costo. Ma bisogna organizzare bene le cose. Ai tre capi della nascente
organizzazione “Morituri Anonimi”, si associano un furfantello di mezza tacca,
Uula, che si aggrega per sfuggire alla cattura avendo rubato soldi ad una
troupe cinematografica americana, il cameriere Seppo, che non vuole suicidarsi,
ma che “rallegra” la compagnia con macabre storielle, e l’autotrasportatore
Korpalo, che mette a disposizione un pullman di lusso. Perché hanno deciso: si
va a morire saltando dalle scogliere di Capo Nord. Da qui cominciano una nuova
serie (praticamente infinita) di storie di riporto. Per strada si accolgono
altri adepti, raccontandocene la storia. Si devono affrontare problemi, ed ogni
volta un nuovo morituro viene alla ribalta, ed Arto ci illustra perché deve
morire. Ma mentre stanno filando a tutta velocità verso la scogliera, c’è il
primo ripensamento: qualcuno tira il freno d’emergenza. Riunione, discussione,
altra meta. Buttiamoci dalle Alpi svizzere. Ed allora scorribanda per l’Europa,
con una stupenda battaglia a suon di frustini di betulla con degli hooligan tedeschi.
Ma gli Svizzeri hanno leggi contro il suicidio di massa. Qualche morituro si
innamora delle Alpi, ed abbandona il pullman, ribattezzato “Saetta della
Morte”, per passare gli ultimi anni nei cantoni tedeschi. Al colonnello viene
allora l’idea di un nuovo punto fondante per la morte: il Cabo Sao Vicente in
Portogallo. Nuove scorribande, avventure e schermaglie varie tra l’Alsazia e
l’Algarve (e qui, Arto rende in modo magistrale lo scontro tra la mentalità
finnica ed il resto dell’Europa). Ma arrivati alla “Finis Terrae” (anche se
quella sarebbe al Nord del Portogallo, ma va bene uguale), dopo tanto tempo
passato insieme e solidali, i trenta morituri decidono che hanno tanta voglia
di vivere, ed abbandono l’incantevole progetto. C’è chi si sposa (come Hermanni
e la segretaria), chi apre nuove strade alle sue attività, chi fa finta di
suicidarsi per sfuggire alla giustizia (il buon Uula, che decide di rimanere in
Portogallo, tanto il sami ed il lusitano hanno affinità sorprendenti, come cito
sotto). E non manca in tutto ciò il contraltare dell’ironia verso i poliziotti,
che per tutto il romanzo inseguono sempre in ritardo la Saetta della Morte,
fino a perderne le tracce. Ed il questore ci rimane tanto male che muore
d’infarto. Bravo Arto, che colpo magistrale. L’altro campionario, sarebbe
quello geografico, che farebbe la gioia di noi viaggiatori vedere il percorso
che effettua tra la Scandinavia e la Lusitania, la nostra Saetta. Un ottimo
libro, allora. Che come una vodka finlandese prende sapore a poco a poco.
Certo, tutti quei nomi fanno perdere il lume della ragione (e della regione). E
qualche accenno di artrite lo denuncia i 25 anni dalla scrittura. Però credo
che insisterò con altri nordici, prima o poi.
“Il viaggio più folle della mia vita… Perché
siamo ancora vivi o perché non siamo ancora riusciti a morire?” (231)
“La pronuncia del portoghese e del sami
presenta affinità sorprendenti. Il portoghese deriva dal tardo latino, e il
sami dal bramito delle renne.” (249)
“Quello che è imperdonabile è credersi vivi
quando invece si è morti da un pezzo.” (259)
Milan Kundera “Il libro del riso e dell’oblio” Adelphi euro 10 (in
realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I: 12/03/2014 – T: 15/03/2014] - &&
[tit. or.: Kniha smíchu a
zapomnění; ling. or.: ceco;
pagine: 273; anno 1976]
Quanti
anni erano che non prendevo in mano un libro dell’esule famoso? Tra una cosa e
l’altra, dopo “L’insostenibile” (letto per arboriana memoria e mediamente
gradito), avevo negli anni Ottanta e Novanta provato a leggerne. Ricordo di
averne iniziati almeno due, e di uno (“Il valzer degli addii”) ricordo anche di
essermene stufato dopo poche decine di pagine. Ora, col senno della maturità e
con la volontà di recupero, spinto anche da altre letture omologhe e marginali,
ho preso, letto, e mal digerito questo quasi quarantenne libro. Non dico
romanzo, che Kundera scrive affastellando parole, qui come spesso altrove. Ci
sono pensieri, trame che tracciano solchi di racconti, unioni e disgiunzioni.
Quasi a suggellare quello che in quarta di copertina ci si ostinano a chiamare
“variazioni”, per riprendere uno dei tanti fili del narrare. Quel bel pezzo del
rapporto con il padre ormai malato e quasi incapace di parlare, e la sua
ostinazione di studio sulle variazioni di un pezzo di Beethoven. E non dico
che, probabilmente, inserito nel suo contesto storico, il testo non abbia una
sua valenza. Come non calarsi nello spirito del ’76, e pensare ai cechi (o
meglio, ai Boemi), al loro modo di vivere in una terra occupata, alle
ribellioni ed agli ostracismi. Ricordo che fu l’anno di uno dei più tristi fine
d’anno da me passati, proprio in quel di Praga, a casa dell’allora amico lettore
di italiano, con i miei sodali dell’epoca e con la mia allora fidanzata.
Ricordi di un paese bello, ma di tristezza immensa, con un’unica girandola
luminosa a segnalare il nuovo anno. E con un dolce fatto di latte cagliato,
zucchero e qualche fragola in pezzi. Ecco se mi calo nel mio io d’allora,
capisco meglio e bene lo scritto di Milan, la sua rabbia verso il russo
oppressore, la rovina del paese, la storia della ragazza che, per aiutarlo,
verrà bandita anche lei. Ed anche il muoversi per il paese seguiti da macchine
della polizia segreta. Nascondere lettere compromettenti. Cercare lettere
d’amore perdute. Ma questa comprensione non riscatta il testo generale. Perché
un testo che suoni le mie corde, deve anche rimanere vivo al di là degli anni
che passano. E questo non sopravvive, in me, allo scorrere del tempo. Non mi dà
nessuna sensazione la lunga digressione sulle vicende di Tamina, del suo amore
perduto, dell’isola dei bambini, ed altre metafore che probabilmente non colgo.
Non mi coinvolge Mirek ed il suo strano ex-rapporto con Zedna la brutta. Poco
mi sembra cogliere nelle vicende del riso legato alla possibile
rappresentazione dei “Rinoceronti” di Ionesco (e ricordo ai deboli di memoria,
che Ionesco insieme a Borges è stato una delle punte del mio amore giovanile
verso la scrittura, che ancora persiste immutato verso di loro). E tutta quella
digressione sul rammarico (che questa dovrebbe essere la traduzione di
“litost”), con il rapporto tra lo studente e la bella (ma campagnola) Krystina,
con lo spaesamento tra la vita in campagna e quella in città, con gli
scrittori, le loro idee sulla poesia e sulla vita. Una parte di una pallosità
unica, con qualche sprazzo laddove si tenta dell’ironia. Ma subito annegato nel
rammarico generale di un qualcosa di incompiuto. Salviamo soltanto
quell’accenno all’oblio. Sì, il fatto che qualcuno ha scritto di un tempo
altro, che ha ricordato Gottwald e le epurazioni, l’agosto del ’68 ed i carri armati
russi, i tristi anni settanta, questo ha un suo senso. Quello di non lasciar
cadere quei tempi nell’oblio. Mentre leggo le parole di Kundera rivolte a quegli
anni, tornano come bolle le memorie di quei tempi. Non erano nel mio oblio
personale, che ora riesco a ripercorrerle in tutti e dieci quegli anni
giovanili. Ma forse nell’oblio collettivo sì. Ed allora, senza nessun ricordo
del riso, e con la consapevolezza che l’io di allora è sempre l’io mio attuale
(con qualche ruga in più e qualche slancio in meno), lasciamo che la memoria
ripercorra i tempi e ce li restituisca. Sperando in lettura coeve ma più
coinvolgenti.
“Stava con una donna brutta perché non aveva
abbastanza coraggio per andare con quelle belle.” (25)
“Il romanzo è frutto dell’umana illusione di
poter comprendere il prossimo.” (115)
“Quel che attirò Tamina furono le sue
domande. Non per il loro contenuto, ma per il semplice fatto che egli le ponesse.
Mio Dio, era talmente tanto tempo che nessuno le domandava niente! … Solo suo
marito le faceva incessantemente delle domande, perché l’amore è un continuo
interrogare.” (198)
Knut Hamsun “Fame” Adelphi euro 10 (in
realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I:
18/03/2014 – T: 21/03/2014] - &&&&
[tit. or.: Sult; ling. or.: norvegese; pagine: 186; anno 1890]
Il
recupero di un classico: come scrittore e come scritto. Un libro che per molto
tempo è stato nelle mie liste mentali di acquisto, ma che non trovava spazio
per più urgenti e presenti letture. Sotto la spenta del mai troppo lodato
Curarsi di Otto e Ale, ho deciso di prenderlo, e di leggerlo. È un libro
datato, ovvio, visto che, come leggete sopra, è stato scritto quasi 125 anni
fa. Ha pur tuttavia una forza espressiva, descrittiva e narrativa non
indifferente. Intanto pensiamo allo strano autore, che lo buttò giù di getto a
30 anni. Knut era uomo dai mille mestieri e dai diecimila vagabondaggi. A
vent’anni aveva già varcato l’oceano per una lunga permanenza in America. In
questo libro riversa molta del suo vissuto giovanile, esaltato dalla scrittura ma
intrinsecamente povero, sempre alla ricerca del modo di sbarcare il lunario.
Altro dato interessante è la stessa scrittura: prima di Joyce e molto prima di
Proust, una sorgente quasi di “flusso di coscienza” che riempie le pagine delle
idee, delle azioni soggettive, dei pensieri di questo giovane norvegese,
girovagante per le strade e per le case di Christiania (questo il nome di Oslo
fino al Novecento inoltrato) in cerca di qualcosa da mangiare e nell’intento di
scrivere qualsiasi cosa che possa essere vendibile e sollevarlo dall’indigenza.
Il romanzo è tutto lì, concentrato in un ristretto spazio temporale, e scandito
da quattro lunghi capitoli, all’interno dei quali il nostro percorre
un’altalena, spesso analoga come andamento, ma diversa (ed angosciosa) in ogni
passo. Ogni capitolo comincia con questa grande fame, tanto che il libro è
grondante di fame dalla prima alla penultima riga (poi vi dirò perché non
ultima). E lui gira, pensa, si industria nella scrittura, impegna abiti, cerca
conoscenti cui magari ha prestato denaro a sua volta (e non li trova mai), si
rivolta contro il Dio che come a Giobbe gli da tante prove da sopportare. Ed
ogni volta la discesa verso l’indigenza pura è sempre più forte e sempre con
meno speranza di risalita. Tanto che si industria a succhiare pezzi di legno
prima, ed anche sassolini poi per placare la fame. Ed intanto, come detto,
scrive. E nei primi due capitoli, inaspettatamente, alla fine riesce a vendere
un articolo, un brano, qualcosa ad un giornale, che gli viene pagato. E con le
cinque corone riesce ad andare avanti un altro po’. Il suo è comunque un
girovagare folle, allucinato, fa cose strampalate. Segue una signorina
inventandosi storie e storielle. Ed ovviamente quella, pagine dopo, si
ricorderà e sembra che si possa innamorare del folle giovane. C’è una timida
scena di quasi sesso, che si ferma molto al di qua (si adombra forse la visione
di un seno). Ma il giovane, cui la carenza di zuccheri da cibo fa sproloquiare,
non può che allontanarsi dalla giovane. Oltre al cibo, costante è anche la
ricerca di un riparo per la notte. Quando ha qualche spicciolo riesce ad
affittare, anche se per poco, stanze o ripari vari. Al verde, cerca di farsi
ospitare. Una notte la passa anche in prigione (con la scusa che ha perso le
chiavi di casa). Insomma, inventa di tutto. Ma sempre al di qua della legge.
Non ruba mai, anzi quando si trova inaspettatamente dei soldi, li scialacqua
subito. Vuoi per concedersi una suntuosa bistecca (ma non avendo mangiato per
giorni, il cibo improvviso non potrà che farlo vomitare). Vuoi per dare
elemosine, come se fosse un signore. Vuoi per pagare più del dovuto la sua
affittacamere, che lo aveva trattato sgarbatamente. E lui, altero, le dà tutti
i soldi ricevuti in regalo dalla signorina di cui prima, per poi andarsene via,
senza un soldo, senza una casa, senza un cibo sotto i denti. Quando ha due
panini, ne regala uno ad un ragazzo che piange. Ma la girandola dei capitoli si
fa sempre più difficile, sempre più difficile trovare anche una corona. Che la
sua vena di scrittura, l’unica a sorreggerlo, sembra si inaridisca. Per poi
terminare (ecco l’ultima riga che non gronda di fame ma di speranze), come nella
sua vita di cui scrissi sopra, per imbarcarsi su di una nave, senza un soldo in
tasca e senza una meta in testa. Due sono infine i motivi per cui alla fine non
riesco a dargli che 4 libricini su 6. Il primo è legato al testo, che alla fine
forse diventa appunto ripetitivo con questa ciclicità di alti e bassi. E con
l’incapacità del giovane di spezzare il cerchio che lo avvolge. Il secondo è
invece di contesto, che poi (ma dovrò approfondirlo) nella sua lunga vita,
anche se nel ’20 riceve il Nobel per la letteratura, lo strambo Hamsun si lega
al partito nazista, tanto da subire un processo nel ’48 per queste sue
simpatie. La materia è controversa, e non c’è spazio (né conoscenza mia) per
andare oltre. Ma nella mia testa è un punto nero che non si cancella. Tuttavia
devo riconoscere che quando descrive la sua fame, mi fa venire una stretta allo
stomaco. D’angoscia.
“Così ero fatto, all’occorrenza pagavo fino
all’ultimo centesimo.” (181)
Amos Oz “Non dire notte” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6,80
euro)
[A: 04/10/2013 – I: 31/03/2014 – T: 02/04/2014] - &&&&&
[tit. or.: Al Taghidi Layla; ling. or.: ebraico; pagine: 200;
anno 1994]
Un
bellissimo libro, triste dalla prima all’ultima pagina. Ecco, se volete un
libro triste, credo che questo sia da mettere tra i cinque di testa. Eppur
tuttavia, non è un libro triste nel senso che spiace alla lettura, che,
appunto, intristendo, ci faccia allontanare. È triste come triste a volte può essere
la vita. Ma come la vita è pieno di tanti momenti, di tante sfaccettature.
Inoltre Oz, che continuo a sostenere meriti il Nobel, ce lo racconta
alternandosi nelle vesti dei due protagonisti della storia: il maturo Theo (non
vecchio, ma vissuto, ed estrapolerei dal contesto sia un sessantenne o poco
più) e la sua compagna Noa (di una quindicina d’anni più giovane). Il racconto,
attraversando alcuni mesi della loro storia, ne ripercorre la genesi, e ne
riporta le attuali condizioni, consentendo, nelle due prospettive, di
verificare ancora una volta quanto ben espresso nel libro di Barnes (“Il senso
di una fine”). La difficoltà di conoscere l’altro, e la diversità di peso che
ad una stessa vicenda danno i diversi attori della stessa. Anche qui, come in
molti altri libri di Oz, la storia è poca, forse esile, forse solo pretesto.
Theo e Noa vivono da qualche anno (sei? sette?) nell’insediamento di Tel Kedar,
non lontano da Tel Aviv. La loro è una relazione che si presenta stanca, con
tanti momenti di tensione. Theo è disilluso, quasi pauroso della vita, dopo
aver dato tanto e passato tanto fino a pochi anni prima. Con quel misto di
saggezza e di paura continua a vivere il suo rapporto con Noa. Non bella,
forse, ma piena di slanci, che a volte si appoggia troppo a Theo, a volte, per
ripicca, se ne allontana per una pretesa di indipendenza. Vediamo quotidianamente,
da una parte e dall’altra, tutti i possibili errori che si possono commettere
in un rapporto. Theo che ha paura di imporre la sua età come metro di giudizio,
la sua esperienza come fonte di saggezza. Noa che ha paura di chiedere aiuto
quando ne ha bisogno, e che lo rifiuta quando si avvicina non richiesto. Eppure
la loro storia, che ci viene raccontata attraverso i capitoli trasversali, è
una storia dell’incontro di due persone destinate ad innamorarsi. Theo,
urbanista (e i disegnatori di luoghi sono capitali per Israele ed i suoi
insediamenti che, metro dopo metro, conquistano tutti i territori, anche il
deserto), di successo, riconosciuto, ma non politicamente sorretto, a seguito
di cambi governativi, viene allontanato. E chiede di andare a lavorare in
America Latina, dove, scordandosi della patria natia, continua ad avere
riconoscimenti, anche se non tangibili, ma di stima, per tutte le situazioni
che continua a proporre e realizzare. Ed impara l’andamento lento del popolo
latino. E la capacità di ascoltare. Accumulando anche una fortuna, che Israele
continua a pagarlo. In un passaggio all’ambasciata israeliana in Venezuela,
conosce Noa. Che capita lì dopo tanti rovesci in patria: madre che fugge da
giovane e va a vivere in Nuova Zelanda, padre maniaco di cartoline, che si
ammala, costretto su di una sedia a rotelle, zia che si prende cura di lei
bambina e del padre, ma che è matta come un cavallo. E ad un certo punto, Noa
deve prendere in mano le redini della vita familiare, sacrificando se stessa
per la famiglia. Muore la zia, muore anche il padre, che tanto bene non stava
neanche lui, visto che lascia tutto all’unico parente maschio (un nipote) e
niente alla figlia. Noa, delusa e sola, decide di accettare un periodo
all’estero, lei insegnante ed amante della letteratura. Ed appunto conosce
Theo, di quindici anni più grande. Nasce il grande amore. Theo continua a
girare ed a progettare per il Sud America, incontrandosi di tanto in tanto con
Noa. Ma sempre più vicini e coinvolti. Ci sono immagini d’amore dolcissime (lui
che cura lei ammalata). Noa decide di tornare in patria, chiede a Theo di
seguirla. Lo fanno, e si trasferiscono appunto a Tel Kedar. Dove Theo
praticamente fa una vita da pensionato, distaccato, tra caffè, scacchi, radio,
musica classica, e ricordi. Noa insegna, e viene coinvolta emotivamente dalla
morte, forse per droga, di un suo alunno. Il padre vorrebbe istituire un centro
di cura per drogati e chiede a Noa, come insegnante cui il figlio voleva bene
(ma lei non se n’era mai accorta) di farsi promotrice. Questo avvenimento segna
il leit motiv della storia attuale, delle dispute tra detto e non detto di Theo
e Noa. Con la presentazione, al contorno, di tutta la fauna di Tel Kedar: la donna
sindaco (in gioventù amica di Theo, ed il cui marito è morto in guerra in
un’unità operativa comandata dal padre dell’alunno morto), il cinquantenne
farfallone (che cerca di scopare, o lo fa, tutte le belle donne del villaggio,
facendo una corte stonata anche a Noa, per poi mettersi con la timida Linda),
Ludimir (il pensionato contestatore pronto a tutte le cause delle minoranze), Natalia
(giovane immigrata russa, lavorante alle pulizie per Theo, e di cui lui si
prende cura, trovando nuova vitalità con i di lei parenti e facendo loro
trovare un lavoro). Tra un ricordo e l’altro, tra un tentativo di mettere in
piedi il centro, con tutti contro, l’acquisto di una casa per lo stesso con i
soldi di Theo, il tirarsi indietro del padre, e tanti altri micro avvenimenti,
si procede per i mesi della primavera e dell’estate nel villaggio. Ma la
potenza di Oz è rappresentarci i continui attriti tra Theo e Noa, ed i momenti,
dolcissimi, intensi, dove fanno l’amore, dove si accudiscono, dove siedono
vicini sul divino a sentire musica. E tanti altri che vi lascerò scoprire, come
vi lascerò il non detto se succede qualcosa o meno per il centro, per la città,
per loro due. La bellezza e la tristezza del libro, sono in questa descrizione
dell’invecchiamento dell’amore (non tanto delle persone). E questo suo
persistere, resistere, risbocciare quando lo avevamo dato per perso. Sarebbe
tutto bello se fosse sempre come quando incontriamo il giovane irlandese che
per amore di una Daphne gira tutti i kibbutz d’Israele, perché sa che lei
lavora in uno, ma non sa come si chiama, ma sa che la ama. Oz capisce (e ci fa
capire) che la vita non sono solo questi momenti. Ma sono il dolore al ginocchio,
l’indecisione se comperare o no un abito colorato, il bisogno di avere un
conforto, la rabbia di averlo ma in modo diverso da come lo si voleva (d’altra
parte, Theo usa i suoi modi, ed il suo bello è la capacità di immutarsi nel
tempo, a volte anche facendomi arrabbiare come un cane randagio). Oz poi usa il
nome Kedar, che è quello di uno dei più oltranzisti insediamenti israeliani in
Cisgiordania, come contrappasso, per esaltare (anche se mai in modo diretto) la
necessità di una tolleranza globale. Come si rispetta l’arabo, che dopo il
felafel sta introducendo anche lo shwarma nella ristorazione locale. Come si
rispetta il matto, che va tutti i giorni all’Ufficio postale a chiedere quando
arriva il profeta Elia. Ed al funerale del matto, imparo una nuova parola: eulogia.
Parlare bene di. Frase derivante dal greco che si usa nei funerali ebraici e
cristiani dove si fa l’eulogia del morto. Beh, io vorrei (come si fece per mio
padre) non che se ne parlasse bene, ma se ne parlasse con rispetto. Come Oz
parla dell’amore di Theo e Noa. E come questo amore tante note ha scatenato
nelle mie memorie, vicine e lontane. Tanto che sto scrivendo una trama forse
troppo lunga. Qui ci si ferma, invitando a leggere Oz, sia questo che altro.
Lessi delle critiche che ne parlavano come troppo lento, quasi stancante. Io
non lo trovo certo vivace. Ma trovo coinvolgente il suo modo di porre ed
affrontare i problemi. E meglio farlo piano, in questo mondo a volte troppo
spesso urlante.
E
veniamo allora, come ad ogni inizio mese, alle 19 letture d’aprile (mese di
molto riposo dopo le fatiche sudafricane). Iniziato con il bellissimo ed
imperdibile Oz di cui ho appena parlato, ma poi proseguito in mediocrità, con alcune
punte veramente basse: l’inutile giallo italiano di Veltri, il poco convincente
penultimo episodio di Patricia Cornwell e il per me poco leggibile Jodorowsky.
#
|
Autore
|
Titolo
|
Editore
|
Euro
|
J
|
1
|
Amos Oz
|
Non dire notte
|
Feltrinelli
|
8
|
4
|
2
|
Helen Simonson
|
Una passione tranquilla
|
Pickwick
|
10,90
|
3
|
3
|
Stefan Zweig
|
Novella degli scacchi
|
Einaudi
|
8,50
|
3
|
4
|
Antonio Skármeta
|
Il postino di Neruda
|
Einaudi
|
9,50
|
3
|
5
|
Michael Connelly
|
La lista
|
Piemme
|
13
|
3
|
6
|
Gianluca Veltri
|
La dimora del santo
|
Sole 24 ore – Noir
|
6,90
|
1
|
7
|
AA.VV.
|
Ferragosto in giallo
|
Sellerio
|
14
|
2
|
8
|
Ugo Mazzotta
|
Il segreto di Pulcinella
|
Sole 24 ore – Noir
|
6,90
|
3
|
9
|
Robert Schneider
|
Le voci del mondo
|
Einaudi
|
10
|
3
|
10
|
Toni Morrison
|
Amatissima
|
Pickwick
|
10,90
|
3
|
11
|
Giorgio Scerbanenco
|
Dove il sole non sorge mai
|
Corriere della Sera
|
6,90
|
3
|
12
|
James M. Cain
|
Mildred Pierce
|
Adelphi
|
12
|
3
|
13
|
Alessandro D’Avenia
|
Bianca come il latte, rossa
come il sangue
|
Mondadori
|
13
|
2
|
14
|
Alexander McCall Smith
|
The Lost Art of Gratitude
|
Abacus
|
10
|
2
|
15
|
Arturo Paoli
|
Cent’anni di fraternità
|
Chiarelettere
|
12
|
3
|
16
|
Patricia Cornwell
|
Letto di ossa
|
Mondadori
|
13
|
1
|
17
|
Fabio Bartolomei
|
Giulia 1300 e altri miracoli
|
E/O
|
9,50
|
3
|
18
|
Giorgio Scerbanenco
|
Europa molto amore
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Corriere della Sera
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6,90
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3
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19
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Alejandro Jodorowsky
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Quando Teresa si arrabbiò con
Dio
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Feltrinelli
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s.p.
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1
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Quest’anno Avventure ci ha fino
ad ora tradito, riuscendo a cancellarmi il terzo viaggio di seguito. Quindi anche
il Malawi passa tra le occasioni per ora perdute, ma chissà… Dovremmo aspettare
agosto per staccare di più.
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