domenica 6 luglio 2014

Misticanza con yogurt - 06 luglio 2014

Dopo due insalate abbastanza omogenee, eccoci ad un quartetto un po’ più “disparato”, anche se non disperato. Unito dalla comune passione per lo yogurt, che ho trovato girando per quelle nazioni. Si parte dalla Finlandia di Paasilinna e la sua girandola di suicidi, si scende (in tutti i sensi) nella Repubblica Ceca di Kundera (dove ricorderò sempre un Capodanno con yogurt di quasi … beh diciamo di tanti anni fa), si risale alla Norvegia del Premio Nobel Hamsun, per finire, dopo tanto freddo, al caldo mediorientale dell’imperdibile libro di Amos Oz.
Arto Paasilinna “Piccoli suicidi tra amici” Iperborea euro 14 (in realtà, scontato a 10,64 euro)
[A: 06/12/2013– I: 30/01/2014 – T: 03/02/2014] - &&& e ½
[tit. or.: Hurmaava joukkoitsemurha; ling. or.: finlandese; pagine: 259; anno 1990]
Me ne aveva a lungo parlato il mio amico Emilio come di un delizioso ed ironico romanzo. Mi capitò inoltre di parlarne con uno studente finnico in una libreria, studente che considerava Paasilinna il miglior scrittore finlandese. Approfittando di una visita alla mostra della Piccola Editoria, nonché di una super-offerta, ecco che nelle nostre trame entra il primo libro finnico. Poiché questa è una di quelle lingue che forse mai riuscirò ad imparare, devo in ogni caso rendere omaggio ai traduttori che hanno fatto un esimio sforzo di rendere la spumeggiante lingua di Arto, in un miscuglio di serietà ed ironia che ben rende lo spirito del romanzo. Devo però rilevare che, ad onta del titolo italiano, decisamente accattivante, il testo originale (come rilevo da una ricerca sul web) porta all’altrettanto affascinante titolo di “Un incantevole suicidio di massa”. E come rileva l’ottima postfazione di Diego Marani da quel titolo, da quell’idea parte tutta la costruzione della trama di Arto. Che si innesca, episodio dopo episodio, come una bomba ad orologeria che sta sempre per esplodere, di cui ci aspettiamo l’esplosione, ma che quando esplode ne fa comprendere tutti i meccanismi, uno dopo l’altro accumulati. E funzionali alla deflagrazione finale. Sebbene non così noto come il suo maggior successo (“L’anno della lepre”) questo romanzo è un vero campionario dei temi e della scrittura dell’autore. Si notano l’amore per la natura, l’astio per le situazioni di costrizione, una sana ironia verso i poteri costituiti, una passione per la parola ed i rapporti umani, che spesso risolvono situazioni difficili meglio di aiuti esterni. Il romanzo è poi un doppio campionario: di persone e di luoghi. Nelle 250 pagine, Arto inserisce persone e nomi e fatti, costruendo decine di vite immaginarie ma reali, come in un campionario di mini-biografie. Rendendoci reali (ed amici, come dice il titolo italiano) questa trentina di personaggi che ad un certo punto si ritrovano su di un pullman di lusso a girare per l’Europa. Il tutto partendo da un numero: 30 suicidi ogni 100.000 abitanti (siamo nel 1990; ora la percentuale è scesa a 16, e la Finlandia, dal podio è scesa al 15° posto). Arto allora comincia a seguire un suicidando: ce ne narra la storia, e seguiamo Olli mentre va a spararsi in un fienile. Dove trova il colonnello Hermanni che cerca di impiccarsi. I due, sentendosi un po’ ridicoli, soprassiedono. E da qui comincia la folle escalation. Olli non ha fatto altro che bancarotte nella vita, ma le saune con Hermanni gli danno una folle idea. Mettere un’inserzione per radunare un po’ di suicidi, in modo di inscenare un suicidio di massa. Il colonnello, con la sua mentalità militare, inizia a fare piani. All’inserzione rispondono centinaia di possibili suicidi. Con la tipica mentalità finlandese, ecco che Olli organizza un meeting, riunisce i suicidi, il colonnello ingaggia Helena, un’aspirante sucida e segretaria di bella presenza. Fanno un convegno con una relazione di una psicologa che aveva tentato il suicidio (le rutilanti invenzioni di Arto cominciano ad ingranare). Alla fine si ritrovano in una trentina di persone decise a suicidarsi ad ogni costo. Ma bisogna organizzare bene le cose. Ai tre capi della nascente organizzazione “Morituri Anonimi”, si associano un furfantello di mezza tacca, Uula, che si aggrega per sfuggire alla cattura avendo rubato soldi ad una troupe cinematografica americana, il cameriere Seppo, che non vuole suicidarsi, ma che “rallegra” la compagnia con macabre storielle, e l’autotrasportatore Korpalo, che mette a disposizione un pullman di lusso. Perché hanno deciso: si va a morire saltando dalle scogliere di Capo Nord. Da qui cominciano una nuova serie (praticamente infinita) di storie di riporto. Per strada si accolgono altri adepti, raccontandocene la storia. Si devono affrontare problemi, ed ogni volta un nuovo morituro viene alla ribalta, ed Arto ci illustra perché deve morire. Ma mentre stanno filando a tutta velocità verso la scogliera, c’è il primo ripensamento: qualcuno tira il freno d’emergenza. Riunione, discussione, altra meta. Buttiamoci dalle Alpi svizzere. Ed allora scorribanda per l’Europa, con una stupenda battaglia a suon di frustini di betulla con degli hooligan tedeschi. Ma gli Svizzeri hanno leggi contro il suicidio di massa. Qualche morituro si innamora delle Alpi, ed abbandona il pullman, ribattezzato “Saetta della Morte”, per passare gli ultimi anni nei cantoni tedeschi. Al colonnello viene allora l’idea di un nuovo punto fondante per la morte: il Cabo Sao Vicente in Portogallo. Nuove scorribande, avventure e schermaglie varie tra l’Alsazia e l’Algarve (e qui, Arto rende in modo magistrale lo scontro tra la mentalità finnica ed il resto dell’Europa). Ma arrivati alla “Finis Terrae” (anche se quella sarebbe al Nord del Portogallo, ma va bene uguale), dopo tanto tempo passato insieme e solidali, i trenta morituri decidono che hanno tanta voglia di vivere, ed abbandono l’incantevole progetto. C’è chi si sposa (come Hermanni e la segretaria), chi apre nuove strade alle sue attività, chi fa finta di suicidarsi per sfuggire alla giustizia (il buon Uula, che decide di rimanere in Portogallo, tanto il sami ed il lusitano hanno affinità sorprendenti, come cito sotto). E non manca in tutto ciò il contraltare dell’ironia verso i poliziotti, che per tutto il romanzo inseguono sempre in ritardo la Saetta della Morte, fino a perderne le tracce. Ed il questore ci rimane tanto male che muore d’infarto. Bravo Arto, che colpo magistrale. L’altro campionario, sarebbe quello geografico, che farebbe la gioia di noi viaggiatori vedere il percorso che effettua tra la Scandinavia e la Lusitania, la nostra Saetta. Un ottimo libro, allora. Che come una vodka finlandese prende sapore a poco a poco. Certo, tutti quei nomi fanno perdere il lume della ragione (e della regione). E qualche accenno di artrite lo denuncia i 25 anni dalla scrittura. Però credo che insisterò con altri nordici, prima o poi.
“Il viaggio più folle della mia vita… Perché siamo ancora vivi o perché non siamo ancora riusciti a morire?” (231)
“La pronuncia del portoghese e del sami presenta affinità sorprendenti. Il portoghese deriva dal tardo latino, e il sami dal bramito delle renne.” (249)
“Quello che è imperdonabile è credersi vivi quando invece si è morti da un pezzo.” (259)
Milan Kundera “Il libro del riso e dell’oblio” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I: 12/03/2014 – T: 15/03/2014] - &&
[tit. or.: Kniha smíchu a zapomnění; ling. or.: ceco; pagine: 273; anno 1976]
Quanti anni erano che non prendevo in mano un libro dell’esule famoso? Tra una cosa e l’altra, dopo “L’insostenibile” (letto per arboriana memoria e mediamente gradito), avevo negli anni Ottanta e Novanta provato a leggerne. Ricordo di averne iniziati almeno due, e di uno (“Il valzer degli addii”) ricordo anche di essermene stufato dopo poche decine di pagine. Ora, col senno della maturità e con la volontà di recupero, spinto anche da altre letture omologhe e marginali, ho preso, letto, e mal digerito questo quasi quarantenne libro. Non dico romanzo, che Kundera scrive affastellando parole, qui come spesso altrove. Ci sono pensieri, trame che tracciano solchi di racconti, unioni e disgiunzioni. Quasi a suggellare quello che in quarta di copertina ci si ostinano a chiamare “variazioni”, per riprendere uno dei tanti fili del narrare. Quel bel pezzo del rapporto con il padre ormai malato e quasi incapace di parlare, e la sua ostinazione di studio sulle variazioni di un pezzo di Beethoven. E non dico che, probabilmente, inserito nel suo contesto storico, il testo non abbia una sua valenza. Come non calarsi nello spirito del ’76, e pensare ai cechi (o meglio, ai Boemi), al loro modo di vivere in una terra occupata, alle ribellioni ed agli ostracismi. Ricordo che fu l’anno di uno dei più tristi fine d’anno da me passati, proprio in quel di Praga, a casa dell’allora amico lettore di italiano, con i miei sodali dell’epoca e con la mia allora fidanzata. Ricordi di un paese bello, ma di tristezza immensa, con un’unica girandola luminosa a segnalare il nuovo anno. E con un dolce fatto di latte cagliato, zucchero e qualche fragola in pezzi. Ecco se mi calo nel mio io d’allora, capisco meglio e bene lo scritto di Milan, la sua rabbia verso il russo oppressore, la rovina del paese, la storia della ragazza che, per aiutarlo, verrà bandita anche lei. Ed anche il muoversi per il paese seguiti da macchine della polizia segreta. Nascondere lettere compromettenti. Cercare lettere d’amore perdute. Ma questa comprensione non riscatta il testo generale. Perché un testo che suoni le mie corde, deve anche rimanere vivo al di là degli anni che passano. E questo non sopravvive, in me, allo scorrere del tempo. Non mi dà nessuna sensazione la lunga digressione sulle vicende di Tamina, del suo amore perduto, dell’isola dei bambini, ed altre metafore che probabilmente non colgo. Non mi coinvolge Mirek ed il suo strano ex-rapporto con Zedna la brutta. Poco mi sembra cogliere nelle vicende del riso legato alla possibile rappresentazione dei “Rinoceronti” di Ionesco (e ricordo ai deboli di memoria, che Ionesco insieme a Borges è stato una delle punte del mio amore giovanile verso la scrittura, che ancora persiste immutato verso di loro). E tutta quella digressione sul rammarico (che questa dovrebbe essere la traduzione di “litost”), con il rapporto tra lo studente e la bella (ma campagnola) Krystina, con lo spaesamento tra la vita in campagna e quella in città, con gli scrittori, le loro idee sulla poesia e sulla vita. Una parte di una pallosità unica, con qualche sprazzo laddove si tenta dell’ironia. Ma subito annegato nel rammarico generale di un qualcosa di incompiuto. Salviamo soltanto quell’accenno all’oblio. Sì, il fatto che qualcuno ha scritto di un tempo altro, che ha ricordato Gottwald e le epurazioni, l’agosto del ’68 ed i carri armati russi, i tristi anni settanta, questo ha un suo senso. Quello di non lasciar cadere quei tempi nell’oblio. Mentre leggo le parole di Kundera rivolte a quegli anni, tornano come bolle le memorie di quei tempi. Non erano nel mio oblio personale, che ora riesco a ripercorrerle in tutti e dieci quegli anni giovanili. Ma forse nell’oblio collettivo sì. Ed allora, senza nessun ricordo del riso, e con la consapevolezza che l’io di allora è sempre l’io mio attuale (con qualche ruga in più e qualche slancio in meno), lasciamo che la memoria ripercorra i tempi e ce li restituisca. Sperando in lettura coeve ma più coinvolgenti.
“Stava con una donna brutta perché non aveva abbastanza coraggio per andare con quelle belle.” (25)
“Il romanzo è frutto dell’umana illusione di poter comprendere il prossimo.” (115)
“Quel che attirò Tamina furono le sue domande. Non per il loro contenuto, ma per il semplice fatto che egli le ponesse. Mio Dio, era talmente tanto tempo che nessuno le domandava niente! … Solo suo marito le faceva incessantemente delle domande, perché l’amore è un continuo interrogare.” (198)
Knut Hamsun “Fame” Adelphi euro 10 (in realtà, scontato a 7,50 euro)
[A: 04/01/2014– I: 18/03/2014 – T: 21/03/2014] - &&&& 
[tit. or.: Sult; ling. or.: norvegese; pagine: 186; anno 1890]
Il recupero di un classico: come scrittore e come scritto. Un libro che per molto tempo è stato nelle mie liste mentali di acquisto, ma che non trovava spazio per più urgenti e presenti letture. Sotto la spenta del mai troppo lodato Curarsi di Otto e Ale, ho deciso di prenderlo, e di leggerlo. È un libro datato, ovvio, visto che, come leggete sopra, è stato scritto quasi 125 anni fa. Ha pur tuttavia una forza espressiva, descrittiva e narrativa non indifferente. Intanto pensiamo allo strano autore, che lo buttò giù di getto a 30 anni. Knut era uomo dai mille mestieri e dai diecimila vagabondaggi. A vent’anni aveva già varcato l’oceano per una lunga permanenza in America. In questo libro riversa molta del suo vissuto giovanile, esaltato dalla scrittura ma intrinsecamente povero, sempre alla ricerca del modo di sbarcare il lunario. Altro dato interessante è la stessa scrittura: prima di Joyce e molto prima di Proust, una sorgente quasi di “flusso di coscienza” che riempie le pagine delle idee, delle azioni soggettive, dei pensieri di questo giovane norvegese, girovagante per le strade e per le case di Christiania (questo il nome di Oslo fino al Novecento inoltrato) in cerca di qualcosa da mangiare e nell’intento di scrivere qualsiasi cosa che possa essere vendibile e sollevarlo dall’indigenza. Il romanzo è tutto lì, concentrato in un ristretto spazio temporale, e scandito da quattro lunghi capitoli, all’interno dei quali il nostro percorre un’altalena, spesso analoga come andamento, ma diversa (ed angosciosa) in ogni passo. Ogni capitolo comincia con questa grande fame, tanto che il libro è grondante di fame dalla prima alla penultima riga (poi vi dirò perché non ultima). E lui gira, pensa, si industria nella scrittura, impegna abiti, cerca conoscenti cui magari ha prestato denaro a sua volta (e non li trova mai), si rivolta contro il Dio che come a Giobbe gli da tante prove da sopportare. Ed ogni volta la discesa verso l’indigenza pura è sempre più forte e sempre con meno speranza di risalita. Tanto che si industria a succhiare pezzi di legno prima, ed anche sassolini poi per placare la fame. Ed intanto, come detto, scrive. E nei primi due capitoli, inaspettatamente, alla fine riesce a vendere un articolo, un brano, qualcosa ad un giornale, che gli viene pagato. E con le cinque corone riesce ad andare avanti un altro po’. Il suo è comunque un girovagare folle, allucinato, fa cose strampalate. Segue una signorina inventandosi storie e storielle. Ed ovviamente quella, pagine dopo, si ricorderà e sembra che si possa innamorare del folle giovane. C’è una timida scena di quasi sesso, che si ferma molto al di qua (si adombra forse la visione di un seno). Ma il giovane, cui la carenza di zuccheri da cibo fa sproloquiare, non può che allontanarsi dalla giovane. Oltre al cibo, costante è anche la ricerca di un riparo per la notte. Quando ha qualche spicciolo riesce ad affittare, anche se per poco, stanze o ripari vari. Al verde, cerca di farsi ospitare. Una notte la passa anche in prigione (con la scusa che ha perso le chiavi di casa). Insomma, inventa di tutto. Ma sempre al di qua della legge. Non ruba mai, anzi quando si trova inaspettatamente dei soldi, li scialacqua subito. Vuoi per concedersi una suntuosa bistecca (ma non avendo mangiato per giorni, il cibo improvviso non potrà che farlo vomitare). Vuoi per dare elemosine, come se fosse un signore. Vuoi per pagare più del dovuto la sua affittacamere, che lo aveva trattato sgarbatamente. E lui, altero, le dà tutti i soldi ricevuti in regalo dalla signorina di cui prima, per poi andarsene via, senza un soldo, senza una casa, senza un cibo sotto i denti. Quando ha due panini, ne regala uno ad un ragazzo che piange. Ma la girandola dei capitoli si fa sempre più difficile, sempre più difficile trovare anche una corona. Che la sua vena di scrittura, l’unica a sorreggerlo, sembra si inaridisca. Per poi terminare (ecco l’ultima riga che non gronda di fame ma di speranze), come nella sua vita di cui scrissi sopra, per imbarcarsi su di una nave, senza un soldo in tasca e senza una meta in testa. Due sono infine i motivi per cui alla fine non riesco a dargli che 4 libricini su 6. Il primo è legato al testo, che alla fine forse diventa appunto ripetitivo con questa ciclicità di alti e bassi. E con l’incapacità del giovane di spezzare il cerchio che lo avvolge. Il secondo è invece di contesto, che poi (ma dovrò approfondirlo) nella sua lunga vita, anche se nel ’20 riceve il Nobel per la letteratura, lo strambo Hamsun si lega al partito nazista, tanto da subire un processo nel ’48 per queste sue simpatie. La materia è controversa, e non c’è spazio (né conoscenza mia) per andare oltre. Ma nella mia testa è un punto nero che non si cancella. Tuttavia devo riconoscere che quando descrive la sua fame, mi fa venire una stretta allo stomaco. D’angoscia.
“Così ero fatto, all’occorrenza pagavo fino all’ultimo centesimo.” (181)
Amos Oz “Non dire notte” Feltrinelli euro 8 (in realtà, scontato a 6,80 euro)
[A: 04/10/2013 – I: 31/03/2014 – T: 02/04/2014] - &&&&&
[tit. or.: Al Taghidi Layla; ling. or.: ebraico; pagine: 200; anno 1994]
Un bellissimo libro, triste dalla prima all’ultima pagina. Ecco, se volete un libro triste, credo che questo sia da mettere tra i cinque di testa. Eppur tuttavia, non è un libro triste nel senso che spiace alla lettura, che, appunto, intristendo, ci faccia allontanare. È triste come triste a volte può essere la vita. Ma come la vita è pieno di tanti momenti, di tante sfaccettature. Inoltre Oz, che continuo a sostenere meriti il Nobel, ce lo racconta alternandosi nelle vesti dei due protagonisti della storia: il maturo Theo (non vecchio, ma vissuto, ed estrapolerei dal contesto sia un sessantenne o poco più) e la sua compagna Noa (di una quindicina d’anni più giovane). Il racconto, attraversando alcuni mesi della loro storia, ne ripercorre la genesi, e ne riporta le attuali condizioni, consentendo, nelle due prospettive, di verificare ancora una volta quanto ben espresso nel libro di Barnes (“Il senso di una fine”). La difficoltà di conoscere l’altro, e la diversità di peso che ad una stessa vicenda danno i diversi attori della stessa. Anche qui, come in molti altri libri di Oz, la storia è poca, forse esile, forse solo pretesto. Theo e Noa vivono da qualche anno (sei? sette?) nell’insediamento di Tel Kedar, non lontano da Tel Aviv. La loro è una relazione che si presenta stanca, con tanti momenti di tensione. Theo è disilluso, quasi pauroso della vita, dopo aver dato tanto e passato tanto fino a pochi anni prima. Con quel misto di saggezza e di paura continua a vivere il suo rapporto con Noa. Non bella, forse, ma piena di slanci, che a volte si appoggia troppo a Theo, a volte, per ripicca, se ne allontana per una pretesa di indipendenza. Vediamo quotidianamente, da una parte e dall’altra, tutti i possibili errori che si possono commettere in un rapporto. Theo che ha paura di imporre la sua età come metro di giudizio, la sua esperienza come fonte di saggezza. Noa che ha paura di chiedere aiuto quando ne ha bisogno, e che lo rifiuta quando si avvicina non richiesto. Eppure la loro storia, che ci viene raccontata attraverso i capitoli trasversali, è una storia dell’incontro di due persone destinate ad innamorarsi. Theo, urbanista (e i disegnatori di luoghi sono capitali per Israele ed i suoi insediamenti che, metro dopo metro, conquistano tutti i territori, anche il deserto), di successo, riconosciuto, ma non politicamente sorretto, a seguito di cambi governativi, viene allontanato. E chiede di andare a lavorare in America Latina, dove, scordandosi della patria natia, continua ad avere riconoscimenti, anche se non tangibili, ma di stima, per tutte le situazioni che continua a proporre e realizzare. Ed impara l’andamento lento del popolo latino. E la capacità di ascoltare. Accumulando anche una fortuna, che Israele continua a pagarlo. In un passaggio all’ambasciata israeliana in Venezuela, conosce Noa. Che capita lì dopo tanti rovesci in patria: madre che fugge da giovane e va a vivere in Nuova Zelanda, padre maniaco di cartoline, che si ammala, costretto su di una sedia a rotelle, zia che si prende cura di lei bambina e del padre, ma che è matta come un cavallo. E ad un certo punto, Noa deve prendere in mano le redini della vita familiare, sacrificando se stessa per la famiglia. Muore la zia, muore anche il padre, che tanto bene non stava neanche lui, visto che lascia tutto all’unico parente maschio (un nipote) e niente alla figlia. Noa, delusa e sola, decide di accettare un periodo all’estero, lei insegnante ed amante della letteratura. Ed appunto conosce Theo, di quindici anni più grande. Nasce il grande amore. Theo continua a girare ed a progettare per il Sud America, incontrandosi di tanto in tanto con Noa. Ma sempre più vicini e coinvolti. Ci sono immagini d’amore dolcissime (lui che cura lei ammalata). Noa decide di tornare in patria, chiede a Theo di seguirla. Lo fanno, e si trasferiscono appunto a Tel Kedar. Dove Theo praticamente fa una vita da pensionato, distaccato, tra caffè, scacchi, radio, musica classica, e ricordi. Noa insegna, e viene coinvolta emotivamente dalla morte, forse per droga, di un suo alunno. Il padre vorrebbe istituire un centro di cura per drogati e chiede a Noa, come insegnante cui il figlio voleva bene (ma lei non se n’era mai accorta) di farsi promotrice. Questo avvenimento segna il leit motiv della storia attuale, delle dispute tra detto e non detto di Theo e Noa. Con la presentazione, al contorno, di tutta la fauna di Tel Kedar: la donna sindaco (in gioventù amica di Theo, ed il cui marito è morto in guerra in un’unità operativa comandata dal padre dell’alunno morto), il cinquantenne farfallone (che cerca di scopare, o lo fa, tutte le belle donne del villaggio, facendo una corte stonata anche a Noa, per poi mettersi con la timida Linda), Ludimir (il pensionato contestatore pronto a tutte le cause delle minoranze), Natalia (giovane immigrata russa, lavorante alle pulizie per Theo, e di cui lui si prende cura, trovando nuova vitalità con i di lei parenti e facendo loro trovare un lavoro). Tra un ricordo e l’altro, tra un tentativo di mettere in piedi il centro, con tutti contro, l’acquisto di una casa per lo stesso con i soldi di Theo, il tirarsi indietro del padre, e tanti altri micro avvenimenti, si procede per i mesi della primavera e dell’estate nel villaggio. Ma la potenza di Oz è rappresentarci i continui attriti tra Theo e Noa, ed i momenti, dolcissimi, intensi, dove fanno l’amore, dove si accudiscono, dove siedono vicini sul divino a sentire musica. E tanti altri che vi lascerò scoprire, come vi lascerò il non detto se succede qualcosa o meno per il centro, per la città, per loro due. La bellezza e la tristezza del libro, sono in questa descrizione dell’invecchiamento dell’amore (non tanto delle persone). E questo suo persistere, resistere, risbocciare quando lo avevamo dato per perso. Sarebbe tutto bello se fosse sempre come quando incontriamo il giovane irlandese che per amore di una Daphne gira tutti i kibbutz d’Israele, perché sa che lei lavora in uno, ma non sa come si chiama, ma sa che la ama. Oz capisce (e ci fa capire) che la vita non sono solo questi momenti. Ma sono il dolore al ginocchio, l’indecisione se comperare o no un abito colorato, il bisogno di avere un conforto, la rabbia di averlo ma in modo diverso da come lo si voleva (d’altra parte, Theo usa i suoi modi, ed il suo bello è la capacità di immutarsi nel tempo, a volte anche facendomi arrabbiare come un cane randagio). Oz poi usa il nome Kedar, che è quello di uno dei più oltranzisti insediamenti israeliani in Cisgiordania, come contrappasso, per esaltare (anche se mai in modo diretto) la necessità di una tolleranza globale. Come si rispetta l’arabo, che dopo il felafel sta introducendo anche lo shwarma nella ristorazione locale. Come si rispetta il matto, che va tutti i giorni all’Ufficio postale a chiedere quando arriva il profeta Elia. Ed al funerale del matto, imparo una nuova parola: eulogia. Parlare bene di. Frase derivante dal greco che si usa nei funerali ebraici e cristiani dove si fa l’eulogia del morto. Beh, io vorrei (come si fece per mio padre) non che se ne parlasse bene, ma se ne parlasse con rispetto. Come Oz parla dell’amore di Theo e Noa. E come questo amore tante note ha scatenato nelle mie memorie, vicine e lontane. Tanto che sto scrivendo una trama forse troppo lunga. Qui ci si ferma, invitando a leggere Oz, sia questo che altro. Lessi delle critiche che ne parlavano come troppo lento, quasi stancante. Io non lo trovo certo vivace. Ma trovo coinvolgente il suo modo di porre ed affrontare i problemi. E meglio farlo piano, in questo mondo a volte troppo spesso urlante.
E veniamo allora, come ad ogni inizio mese, alle 19 letture d’aprile (mese di molto riposo dopo le fatiche sudafricane). Iniziato con il bellissimo ed imperdibile Oz di cui ho appena parlato, ma poi proseguito in mediocrità, con alcune punte veramente basse: l’inutile giallo italiano di Veltri, il poco convincente penultimo episodio di Patricia Cornwell e il per me poco leggibile Jodorowsky.

#
Autore
Titolo
Editore
Euro
J
1
Amos Oz
Non dire notte
Feltrinelli
8
4
2
Helen Simonson
Una passione tranquilla
Pickwick
10,90
3
3
Stefan Zweig
Novella degli scacchi
Einaudi
8,50
3
4
Antonio Skármeta
Il postino di Neruda
Einaudi
9,50
3
5
Michael Connelly
La lista
Piemme
13
3
6
Gianluca Veltri
La dimora del santo
Sole 24 ore – Noir
6,90
1
7
AA.VV.
Ferragosto in giallo
Sellerio
14
2
8
Ugo Mazzotta
Il segreto di Pulcinella
Sole 24 ore – Noir
6,90
3
9
Robert Schneider
Le voci del mondo
Einaudi
10
3
10
Toni Morrison
Amatissima
Pickwick
10,90
3
11
Giorgio Scerbanenco
Dove il sole non sorge mai
Corriere della Sera
6,90
3
12
James M. Cain
Mildred Pierce
Adelphi
12
3
13
Alessandro D’Avenia
Bianca come il latte, rossa come il sangue
Mondadori
13
2
14
Alexander McCall Smith
The Lost Art of Gratitude
Abacus
10
2
15
Arturo Paoli
Cent’anni di fraternità
Chiarelettere
12
3
16
Patricia Cornwell
Letto di ossa
Mondadori
13
1
17
Fabio Bartolomei
Giulia 1300 e altri miracoli
E/O
9,50
3
18
Giorgio Scerbanenco
Europa molto amore
Corriere della Sera
6,90
3
19
Alejandro Jodorowsky
Quando Teresa si arrabbiò con Dio
Feltrinelli
s.p.
1

Quest’anno Avventure ci ha fino ad ora tradito, riuscendo a cancellarmi il terzo viaggio di seguito. Quindi anche il Malawi passa tra le occasioni per ora perdute, ma chissà… Dovremmo aspettare agosto per staccare di più. 

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